Una grande lezione per imparare a mettersi sempre nei panni dell'altro Il Mattino di Padova, 8 giugno 2015 Lucia Annibali è una giovane donna, di professione avvocato, sfigurata dall'acido che le è stato tirato in faccia. Per quel terribile atto sono stati condannati due uomini, ritenuti gli esecutori del gesto, e un terzo, ritenuto il mandante, che con Lucia aveva avuto una tormentata relazione. Lucia il 22 maggio è stata nel carcere di Padova, ha raccontato tutta la sua sofferenza, ma ha anche ascoltato "il dolore degli altri", di tante persone detenute che il male l'hanno provocato, ma stanno cercando un percorso di responsabilità e consapevolezza. Per chi in carcere ha usato la violenza e si è nutrito di rancore, ma anche per chi fuori pensa che essere vittime significhi solo odiare, la sua è stata una grande lezione per imparare a mettersi sempre nei panni dell'altro. Ecco il suo intervento, e le riflessioni che ne ha tratto una persona detenuta. Ho scelto di essere una persona con un cuore aperto ad accogliere il dolore degli altri Vi racconterò brevemente la mia storia. Io ho incontrato questa persona, cui oggi darò un nome, poi lo eliminiamo, Luca, nel 2009, è stata una storia tormentata, uno di quegli amori-non amori che distruggono poco a poco la tua personalità, che non ti fanno più amare la vita e nemmeno te stesso, che ti lacerano dentro piano piano, che ti mettono paura addirittura di confrontarti con gli altri, che ti fanno provare una profonda disperazione e pensare che a volte non valga più la pena vivere in quel modo. È una storia che si è protratta per almeno tre anni, questo è il tempo che io ho impiegato a trovare un principio di dignità per me stessa, di amor proprio, e non è stato sufficiente purtroppo, perché la mia decisione ha scatenato questa rabbia, questo odio che è sfociato in una violenza, che se prima era psicologica, poi è diventata fisica, in un modo che più di così era impossibile. Sono passati ormai due anni, era aprile del 2013, rientravo a casa, aprendo la porta di casa, è sbucato quest'uomo nero, perché era vestito completamente di nero, che mi ha lanciato questo acido che ha colpito il mio volto e la mano destra, con la quale ho cercato di ripararmi evidentemente in modo istintivo. Questo acido ha trasformato la mia persona in un'ustionata, perché ha corroso tutti gli strati della mia pelle, era un'ustione di terzo grado profonda, significa che l'acido si è fermato prima di corrodere i muscoli e l'osso, quindi io non avevo più niente, non avevo un viso, una mano, ma nemmeno gli occhi per vedere. Sono stata un mese e mezzo nel Centro ustioni di Parma e ho imparato ad affrontare il dolore fisico, a controllarlo, ad accoglierlo nella mia vita. Essere ustionata è proprio un'esperienza estrema, è proprio un'esperienza di vita, mi ha insegnato ad essere paziente, perché c'è bisogno di tanta pazienza per riuscire ad alzarsi per affrontare il dolore che è intenso ed inaspettato. Io sono sempre stata una persona molto spaventata per il dolore fisico, non avevo una soglia di sopportazione, ora invece ce l'ho. Dico queste cose per dire alle persone detenute che sono qui, che sono persone che hanno fatto del male ad altri, quanto la loro azione possa davvero fare del male a chi la subisce ingiustamente, per lo meno nel mio caso, ed è un dolore che si infligge anche alla famiglia della persona, i miei genitori hanno sofferto tantissimo e soffrono tuttora, così anche le mie amiche, che si ritrovano ad avere un'amica che non sanno se è viva o morta, non sanno come sarà, hanno vissuto con me i miei progressi, che sono il frutto di tanti sacrifici, di tanta fatica, di tanto dolore, anche di doversi scontrare con gli sguardi degli altri. Fa parte di quello che mi è successo, dover affrontare le persone, cercare di non interiorizzare quello che vedi nello sguardo degli altri, o nelle loro parole quando commentano quello che vedono, anzi cercare di comunicare che anche se quanto visto non è perfetto, è una grande conquista, è una grande gioia per me perché sono partita dal niente e ora se non altro è funzionante e non è poco. Questo per provare a far riflettere chi commette questi gesti e invitarli a mettersi nei miei panni. Ma anche io voglio mettermi nei loro panni, e devo dire che ascoltando le loro storie, ho praticamente sempre pianto, perché sono sinceramente dispiaciuta per loro e per la loro sofferenza, forse sono un po' troppo empatica, ma devo dire che ho scelto di essere questo tipo di persona, con un cuore aperto ad accogliere il dolore degli altri e mettere il mio a disposizione di chiunque ne abbia bisogno, abbia bisogno di farne qualunque cosa. Per un ustionato ad esempio, io faccio volontariato dove sono stata ricoverata e non è che tutti gli ustionati con cui parlo lo sono per colpa degli altri, c'è anche l'ustionato che è andato a rubare e a sua volta si è ustionato, ma questo non è importante, il dolore è dolore per tutti, tutti soffriamo anche se per ragioni diverse. Io ho scelto di essere questo tipo di persona, una persona che desidera trasformare il male che ha subito, e che però non è rimasto in lei, in un'occasione di fare del bene e per comunicare a tutti, a chi lo desidera, quanto fa bene fare del bene e quanto faccia male causare del male agli altri, perché fare del male agli altri significa principalmente fare del male a se stessi. Volevo lanciare un pensiero a voi che vivete qui per ringraziarvi e augurarvi di riuscire a scegliere di essere persone di speranza, persone che possano fare del bene anche attraverso il dolore che hanno causato agli altri, cercando di essere persone migliori di quanto siano stati e questo vale per tutti. Mi ha colpito una frase di Papa Francesco che ho anche incontrato, che dice che per cambiare il mondo bisogna fare del bene a chi non è in grado di ricambiare, e questo è un interessante punto di vista. Credo che vissuto così il dolore abbia delle risorse incredibili e inesauribili, è faticoso, però mi rende una persona migliore per me, e per chi lo vuole accogliere. Lucia Annibali Nonostante il suo dramma ha rivolto il suo pensiero a noi, che patiamo il dolore del carcere Come accade quotidianamente, anche dopo il convegno del 22 maggio sulla rabbia e la pazienza, ci siamo ritrovati intorno al tavolo della redazione del nostro giornale per esprimere le nostre opinioni. Un argomento che è stato portato al tavolo è stato quello dell'intervento di Lucia Annibali. Tutti eravamo d'accordo sul fatto che è una donna incredibilmente coraggiosa che vive il suo dramma con grande dignità, e nonostante tutto ha rivolto il suo pensiero a noi che patiamo il dolore del carcere donandoci anche il suo pianto, provando empatia per la nostra condizione. Il mio intervento è stato molto breve, avevo ancora davanti a miei occhi il viso di Lucia, ho visto il "male" nel suo viso, il male subito, e quando prima e durante il convegno ho avuto la fortuna di parlare con Lei, ho provato una grande rabbia e mi sono chiesto come facesse questa donna a convivere ogni momento della sua vita con questo dolore. Alla fine dell'incontro ci siamo salutati, le ho stretto la mano colpita dall'acido, ho avuto un momento di paura temendo che potessi farle del male, lei con entrambe le mani ha stretto la mia e mi ha augurato una buona fortuna. Sentivo che il suo non era un augurio di circostanza, i suoi occhi brillavano. Ecco il valore del confronto: il mettersi nei panni dell'altro, trovarsi di fronte a una persona che ha subito una violenza simile e nello stesso tempo riesce a provare empatia per delle persone alle quali lei non dovrebbe assolutamente nulla… mi ha scosso profondamente. Sembrava che fosse finita qui, invece, oggi in redazione arriva un articolo della rivista "Io Donna", autrice Lucia Annibali, dedicato a Ornella e ai detenuti di Ristretti Orizzonti. Credo che questo suo gesto abbia superato ogni limite d'immaginazione: ha volto il suo pensiero verso di noi… ha colto il nostro dolore, persino indicando chi un fine pena non ce l'ha, come me, questo va oltre al senso di umanità che Lucia invoca, quando nel suo intervento ha parlato del "dolore di tutti". Dal suo scritto colgo queste parole come tappe di un cammino che può essere un viatico per chiunque affinché si arrivi ad una profonda riflessione. Male, Dolore, Confronto, Umanità: sono le tappe che Lucia ha vissuto sulla propria pelle, sul suo proprio viso e ne sta venendo fuori lentamente, dando esempio di come si può vivere una vita diversa da quella della rabbia, del rancore, dell'odio, spingendosi oltre: sentire cosa prova l'altro! Certamente per Lucia è stata una nuova scoperta anche essere a contatto con noi ergastolani, chissà se questa nostra condizione che lei ha recepito come "estrema" le abbia potuto dare un qualcosa in più per risalire la sua china. D'altro canto Lucia ha dato e continua a dare tanto a noi. Perché? Perché di fronte ad una persona come Lucia non ti puoi girare dall'altra parte e fare finta di non vedere, di non capire, devi avere il coraggio di guardarla in faccia e metterti di fronte a quella realtà brutale che avevi sempre evitato di vedere… io ho cercato di avere questo coraggio. Grazie Lucia per tutto quello che mi hai trasmesso. Giovanni Donatiello 7.500 studenti hanno conosciuto quest'anno il carcere grazie a Ristretti Orizzonti di Francesca Rapanà - Redazione di Ristretti Orizzonti Ristretti Orizzonti, 8 giugno 2015 Sono questi i numeri del progetto di confronto tra studenti e persone detenute che la redazione porta avanti da più di dieci anni, e che per questo anno scolastico si è concluso il 4 giugno. "Ciao Sandro!!!!". Sandro si gira di scatto verso di me, come a chiedermi "oddio, chi è?", è emozionato da questo saluto personalizzato ed entusiasta. Gli do una gomitata per farlo riprendere dallo stupore in modo che possa ricambiare il saluto della giovane studentessa che sta entrando al cinema MPX per assistere alla giornata finale del progetto "Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere" che chiude un altro intenso anno scolastico, in cui la redazione di Ristretti Orizzonti ha incontrato 7.500 studenti delle scuole medie e superiori di Padova, ma anche di altre province, Rovigo, Trento, Treviso, Venezia, Vicenza… Di questi, 4.500 hanno incontrato le persone detenute della redazione di Ristretti all'interno della Casa di Reclusione di Padova, grazie alla collaborazione del personale dell'Amministrazione Penitenziaria, che ha permesso che questo progetto diventi "strutturale" nella vita del carcere Due Palazzi, abituato ormai all'ingresso due volte alla settimana di decine di studenti che si mettono in coda per partecipare agli incontri con la redazione. Si accalcano centinaia di studenti davanti al cinema MPX accolti da una decina di redattori detenuti in permesso premio. Sandro ricambia il saluto della studentessa con un'espressione un po' imbarazzata, ma lo sguardo grato, di chi con quel saluto si è sentito riconosciuto come persona, individuo, che racconta la sua personale e particolare storia e non come un numero di matricola confuso in una categoria. Lo scopo di questo progetto è proprio questo, permettere un confronto tra gli studenti e le persone detenute che mettono a disposizione il racconto della propria esperienza, dopo aver fatto un percorso di riflessione, di narrazione, di confronto con i compagni e i volontari della redazione. Attraverso questo racconto, che non si limita solo al momento del reato, le persone detenute imparano a riconoscere l'altro, gli studenti, nei quali un po' vedono i loro figli, e mettono a disposizioni le parti più difficili delle loro vite. È un percorso faticoso per tutti, soprattutto per le persone detenute ed ex detenute che offrono il racconto di quella parte di sé che ha compiuto reati gravi, causando sofferenza alle vittime, ma anche alle loro famiglie; è impegnativo anche per i volontari, Ornella in testa, poi Antonio, dirigente scolastico in pensione che si è appassionato al progetto, per il personale della Casa di Reclusione; ma il confronto con gli studenti è talmente ricco e stimolante che nessuno ha mai pensato di tirarsi indietro, anzi, negli anni il numero dei partecipanti è in continua crescita. Durante la giornata finale, l'assessore Alessandra Brunetti del Comune di Padova (che insieme alla Fondazione Cariparo finanzia una parte del progetto) ha definito il progetto "una delle eccellenze della città", mai messo in discussione dalle amministrazioni che si sono succedute nel corso degli anni a guida di Padova. Ma quello che spinge a proseguire sono le reazioni degli studenti e delle persone detenute; i primi sono disposti a confrontarsi, a mettere tra parentesi le certezze di cui hanno bisogno e che si stanno faticosamente costruendo per esplorare un punto di vista diverso, più completo; i secondi, accettano le domande e le critiche più scomode, che a volte vanno a colpire i passaggi più complicati e oscuri delle loro vite, provando a rispondere a domande che nemmeno loro stessi hanno avuto il coraggio di farsi. Dopo la visione di un film, la mattinata prosegue con un'intervista a Pino Roveredo, scrittore che ha vissuto l'esperienza del carcere, dove era conosciuto come "Pino letterato", che scriveva lettere per magistrati, mogli, fidanzate. È lui che quest'anno ha selezionato i 4 testi vincitori del concorso letterario da sempre associato al progetto: il primo premio per le medie inferiori è stato vinto da Lucia Possamai, della Scuola media Falconetto, il secondo premio da Petra Zorzi, della Scuola media Falconetto; il primo premio per le scuole superiori è stato vinto da Giada Capuzzo, del Liceo Scientifivo Curiel, il secondo premio da Elena Salviulo, dell'Istituto di Istruzione Superiore Marchesi-Fusinato. Erjon e Sandro raggiungono sul palco Pino e Ornella per raccontare il significato che per loro ha partecipare agli incontri con gli studenti; sono queste attività che attribuiscono senso alla pena, che da "tempo vuoto" diventa spazio di riflessione e assunzione di responsabilità. L'incontro termina con l'intervento di un'insegnante che da anni partecipa al progetto e che sottolinea che uno degli aspetti più apprezzati dai suoi studenti è che sentono che questi incontri non hanno l'obiettivo di "convincerli" o fargli cambiare idea, ma dargli informazioni che difficilmente potrebbero ottenere altrove. L'appuntamento è per l'anno prossimo. I percorsi faticosamente iniziati e improvvisamente interrotti dei nostri studenti detenuti di Francesca Vianello (Università di Padova) Ristretti Orizzonti, 8 giugno 2015 Impegnata da anni come referente per le attività didattiche del polo universitario attivo presso la Casa di reclusione di Padova, ho presenziato con soddisfazione, due anni fa, al rinnovo del Protocollo di intesa per l'anno 2013-2014 e per i tre anni successivi, con il quale l'Università degli studi di Padova e il Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria hanno confermato l'intenzione di "collaborare, secondo le finalità istituzionali, promuovendo gli studi universitari in carcere e sostenendo i detenuti che li intraprendono" (art 2. Oggetto della collaborazione). L'esperienza, iniziata già nel 2003, ha prodotto negli anni importanti risultati in termini di coinvolgimento dei detenuti (fino a sessanta iscritti nel corso dell'anno accademico), valorizzazione del recupero della dispersione scolastica (molti degli iscritti provengono dalla scuola superiore attiva nello stesso carcere), percorsi formativi (il progressivo allargamento della convenzione a nuovi Corsi di laurea), meritata soddisfazione dei singoli (numerose lauree raggiunte). L'esperienza del Progetto del polo universitario di Padova è diventata nel tempo un esempio di buona collaborazione tra due realtà, quella penitenziaria e quella universitaria, che pur avendo un mandato diverso, hanno saputo riconoscersi spazi e prerogative, rimuovere congiuntamente ostacoli e problemi, agire nell'interesse dei loro utenti. La disponibilità degli operatori e dei docenti ha dato concretezza a quel legame tra carcere e territorio che prelude a qualsiasi prospettiva di risocializzazione e reinserimento sociale. Per questo motivo, per l'impegno profuso e per il valore che, come gruppo di lavoro, riconosciamo ad un progetto che è diventato un esempio di buona prassi a livello nazionale e perfino europeo, assistiamo in questi giorni con sgomento al trasferimento di alcuni dei nostri studenti detenuti nel reparto di Alta Sicurezza. All'articolo 4 del Protocollo di Intesa sopra citato (art 4. Impegni dell'Amministrazione), all'ultimo capoverso leggo "L'Amministrazione si impegna, per quanto possibile e di sua competenza, a far completare ai detenuti studenti il corso di studio nello stesso Istituto Penitenziario e, qualora ciò non sia possibile, provvederà ad informarne il docente incaricato del coordinamento dell'attività universitaria in carcere". Nel prendere atto, in questi giorni, che l'auspicato completamento degli studi presso la Casa di reclusione di Padova, per alcuni dei nostri studenti, sembra non essere possibile, passa in secondo piano l'amarezza per il fatto che l'Amministrazione non abbia ritenuto doveroso - secondo Protocollo - informarne la sottoscritta, in qualità di docente incaricato. Ciò che mi preoccupa di più è il futuro dei nostri studenti, i percorsi faticosamente iniziati e improvvisamente interrotti, il guscio vuoto in cui rischiano di trasformarsi le parole rieducazione e reinserimento sociale. Giustizia: il lavoro in carcere antidoto alla recidiva di Giuseppe Sabella Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2015 Se due filosofi come Kant e Hegel sentissero parlare di depenalizzazione e di abolizione del carcere, avrebbero di che discutere: la pena, per i due grandi pensatori tedeschi, ristabiliva l'equilibrio sociale violato, quindi ne era necessaria la sua piena esecuzione. Chi è stato capace di spostare l'attenzione sulla concezione della pena che è alla base degli ordinamenti giuridici più civili e avanzati è stato il nostro Cesare Beccaria. All'illuminato giurista milanese interessava più del reo e del suo recupero che dell'equilibrio sociale violato: è nata così la concezione rieducativa della pena, che ispira la nostra stessa Costituzione e, in particolare, il suo articolo 27. Tornando ai giorni nostri e riflettendo sul nostro sistema penitenziario, negli ultimi anni ne abbiamo scoperto - anche per via dei richiami della Ue - molti malfunzionamenti: dal problema del sovraffollamento, alla fatiscenza di molte strutture di esecuzione penale, alla poca capacità che il settore dell'amministrazione penitenziaria ha di sviluppare misure alternative alla pena, in particolare il lavoro; si consideri però che ciò forse necessita di competenze che non fanno propriamente capo alla Giustizia e che possono essere integrate con il Welfare e il Lavoro. L'ultima rilevazione al 31 marzo 2015 ci dice che nelle nostre carceri sono presenti 54.122 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 49.494. Siamo quasi allineati agli standard, le sanzioni minacciate dalla Ue hanno sortito il loro effetto circa i problemi del sovraffollamento, riportando i tassi di detenzione in linea con gli altri Paesi europei (Germania, Francia e Inghilterra). Per quanto riguarda la poca capacità di sviluppare misure alternative alla pena - il lavoro in particolare - è chiaro che a chi amministra la giustizia può essere molto utile un supporto integrato: il coinvolgimento di imprese e la gestione del matching tra domanda e offerta di lavoro sono specialità un po' più familiari a chi si occupa di politiche del lavoro e di welfare. Al di là del problema del sovraffollamento, è chiaro che se non si fa nulla per rendere il luogo di esecuzione della pena meno fatiscente e si resiste a coinvolgere chi è abituato a fare con successo interventi di politica attiva del lavoro difficilmente il carcere potrà diventare un luogo più efficace nella rieducazione. Il carcere non riabilita di per sé, non esclude di per sé, non riproduce delitti di per sé. È l'assenza di un percorso rieducativo che genera esclusione e riproduce delitto. Stupiscono quindi le proposte, più o meno velate, che ricadono sotto lo slogan di abolire il carcere: per la serie, buttiamo il bambino con l'acqua sporca. In realtà modelli ed esperienze non mancano, sia in Italia che all'estero. A dire il vero, Germania, Francia e Inghilterra fanno più ricorso di noi alla detenzione: sono così meno esposti a fenomeni di corruzione e di criminalità organizzata. Nel dicembre 2011 il Parlamento europeo ha approvato la Risoluzione sulle condizioni detentive nell'Unione europea. Nel testo approvato si sottolinea la necessità che, anche nell'ambito di limitazioni alla libertà personale imposte dal diritto nazionale, devono essere rispettate, secondo le modalità specificatamente previste a livello territoriale nel rispetto delle indicazioni del Consiglio, le attività di rieducazione, istruzione, riabilitazione e reinserimento sociale e professionale, anche con riferimento al lavoro in generale. La risoluzione, inoltre, prevede una particolare attenzione alle attività di tipo informativo, rivolte ai detenuti al fine di esplicitare i mezzi esistenti per preparare il loro reinserimento (orientamento e accompagnamento alla ricerca attiva di lavoro). Come si evince, il lavoro è ritenuto la via della rieducazione. Considerando che, nel 98% dei casi, chi esce dal carcere inserito nel lavoro in carcere non torna più (dato Italia Lavoro), è facile comprendere come un detenuto che non torni più a delinquere sia un successo anche per i conti dello stato. Diamoci da fare per rendere il carcere sempre più rieducativo. Beccaria ne gioirebbe, ma anche Kant e Hegel non ne sarebbero poi così dispiaciuti. Giustizia: imprese & legalità, un vademecum anti-corruzione di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2015 In molti si chiedono: com'è possibile che dopo tante mazzate giudiziarie sui casi di corruzione - anche eclatanti, come Mafia Capitale, Expo, Mose, grandi lavori - ci sia ancora gente che riesce a taroccare gli appalti uccidendo così la concorrenza nella culla? Quali sofisticate alchimie si attivano nelle segrete stanze delle stazioni appaltanti e delle commissioni aggiudicatrici, tali da stravolgere gare di ogni genere, settore, importo? Ed è vero che nulla si possa fare, se non attendere gli esiti di intercettazioni e pedinamenti? Non è proprio così. È vero che, a volte, entrano in azione menti esperte e sofisticate, che solo indagini altrettanto raffinate possono contrastare. Ma, molto più di frequente, questi fenomeni affondano le radici nella banalità più prevedibile e intercettabile, ben prima che debbano occuparsene le laboriose investigazioni di procure e forze dell'ordine. Una delle tante conferme della minuscola quotidianità di cui si pasce il malaffare, si ritrova anche in un documento redatto dall'Antitrust nel settembre 2013, il "Vademecum per le stazioni appaltanti", una guida all'individuazione di criticità concorrenziali nel settore degli appalti pubblici. Il vademecum è stato condiviso lo scorso dicembre dall'Autorità anticorruzione, nell'ambito di un'intesa sullo scambio di informazioni tra le due Authority. Nell'agile condensato (11 punti, 1.380 parole) ispirato alle linee guida dell'Ocse, l'Agcm elenca "le anomalie comportamentali che in taluni casi sono indizio della presenza di fenomeni anticoncorrenziali". Un elenco ovviamente non esaustivo e che va inteso soprattutto come una piccola guida all'osservazione dei fatti. Si fa innanzitutto notare (punto 6) che, specie "in particolari contesti di mercato, caratterizzati da pochi concorrenti; da concorrenti caratterizzati da analoga efficienza e dimensione; da prodotti omogenei; perdurante partecipazione alle gare delle stesse imprese", le stazioni appaltanti dovrebbero stare molto attente a cogliere quei fenomeni che possono risultare "associati a comportamenti anticoncorrenziali" finalizzati a boicottare la gara. Una strategia segnalata da indizi come: "nessuna offerta presentata; presentazione di un'unica offerta o di un numero di offerte insufficiente per l'assegnazione dell'appalto; offerte caratterizzate tutte dal medesimo importo". A occhio nudo, è anche possibile notare le offerte di comodo (o "di cortesia", "fasulle"), che servono solo a dare una verniciata di "regolarità concorrenziale alla gara e a celarne l'innalzamento dei prezzi di aggiudicazione" con "offerte presentate dalle imprese non aggiudicatarie, con importi palesemente troppo elevati o comunque superiori a quanto gli stessi soggetti hanno offerto in analoghe procedure di appalto". E via così, passando per "una sequenza di gare in cui risulta aggiudicataria sempre la stessa impresa", subappalti che "consentono il superamento di limiti dimensionali e di specializzazione delle imprese più piccole", la rotazione delle offerte che consentono la ripartizione del mercato, segnalando così la possibile presenza di un cartello. Ancora più nel dettaglio, il vademecum elenca alcuni semplicissimi indicatori di rischio offerti proprio dagli aderenti a un cartello che "presentino le domande di partecipazione all'asta con modalità tali da tradire la comune formulazione. È il caso di: comuni errori di battitura; stessa grafia; riferimento a domande di altri partecipanti alla medesima gara; analoghe stime o errori di calcolo; consegna contemporanea, da parte di un soggetto, di più offerte per conto di differenti partecipanti alla medesima procedura di gara". Il documento termina con l'invito alle "stazioni appaltanti, nei casi in cui si imbattano in qualcuno dei descritti fenomeni, a informare l'Autorità". Non sappiamo quante delle migliaia di stazioni abbiano messo in pratica i consigli dell'Antitrust. A giudicare dalle cronache, si può affermare che non sono ancora sufficientemente diffuse la consapevolezza dei danni che provoca la corruzione né la volontà di stroncare queste costose (perla collettività) manipolazioni della libertà d'impresa. Giustizia: il pm del processo G8 di Genova "la polizia non è guarita, possibili altre Diaz" di Matteo Indice Il Secolo XIX, 8 giugno 2015 Il pm Zucca per la prima volta in pubblico: "La nuova legge sulla tortura non la punirebbe. Cosa c'è dietro?". Dopo quattordici anni, tre processi e le bordate della Corte europea dei diritti dell'uomo, c'è un magistrato che sceglie di parlare alla città dove non s'era mai presentato in pubblico, ma soltanto centinaia di volte in aula. Sono le sei del pomeriggio nel salone del Minor Consiglio a Palazzo Ducale, e trecento persone ascoltano Enrico Zucca che parte dal massacro della scuola Diaz dopo il G8 di Genova del 2001 per dire cose tanto semplici quanto devastanti, Con un paio di rasoiate pure al presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, L'incontro va in scena nell'ambito del festival La Repubblica delle idee, e vi partecipano oltre al magistrato i giornalisti Marco Preve e Carlo Bonini. La rimozione "Le vicende di Genova - insiste Zucca - devono essere studiate e ripensate oggi perché ci insegnano che quando lo Stato si sente minacciato, i nostri diritti vengono messi in discussione e i cittadini rischiano di trasformarsi in nemici. Nel dibattito parlamentare sulla legge contro la tortura non si fa riferimento, mai, a quel che accadde qui. È il sintomo d'una rimozione, come d'altronde certifica la locuzione che sentiamo usare spesso: "Fatti del G8", quasi fossero lontani". Zucca, oggi sostituto procuratore generale nel capoluogo ligure, è stato il pubblico ministero che, insieme al collega Francesco Cardona Albini, ha indagato sul pestaggio compiuto dalla polizia alla scuola Diaz dopo il super vertice: notte del 22 luglio 2001, irruzione dei celerini nell'istituto di Ai-baro dove dormivano decine di no global, pestati a sangue e uno di loro finì in coma. "Ignorate le diagnosi" Le prove furono taroccate e con sentenza definitiva sono stati condannati alcuni fra i principali dirigenti della sicurezza italiana, che avevano nel frattempo inanellato carriere supersoniche nonostante la mattanza. E il pm non si risparmia: "La Diaz porta alla luce problemi endemici: allo stato attuale la polizia rifiuta di leggere se stessa, e a questo punto è difficile non si ripetano più quegli errori. È come se le diagnosi dei medici fossero state perennemente ignorate". Eppure. "La Corte europea dei diritti dell'uomo, che recentemente ha condannato l'Italia poiché priva d'una legge contro la tortura, dice che i picchiatori furono impunemente coperti e soprattutto che la polizia italiana ha altrettanto impunemente rifiutato di collaborare". Nomi e cognomi Di più: "Attenzione poiché non si tratta d'un corpo astratto, ma con dei dirigenti: Gianni De Gennaro prima, poi Antonio Manganelli, quindi i suoi successori. Sono loro che hanno, lo dico ancora, impunemente, violato il dovere di sospendere e rimuovere i funzionari condannati. Mentre hanno dimostrato che si può silurare un agente da un giorno all'altro, per una banale frase scritta su Facebook (è successo con Fabio Tortosa, che nelle scorse settimane aveva esaltato il blitz sui social network, ndr)". Ce n'è pure per i giornali, sebbene non per tutti: "In molti hanno continuato a scrivere agiografie sui poliziotti imputati. Nei giorni precedenti la sentenza di Cassazione sui dirigenti s'invocava la ragion di Stato: quello che dovrebbe essere un cane da guardia, la stampa, si è trasformato a tratti in un cagnolino da passeggio". La magistratura: "Non ha mai levato un grido vero che difendesse le indagini, una parte di essa è stata a tratti contigua e collaterale". La domanda, non solo provocatoria: "Noi vogliamo una polizia che fa il braccio armato del governo di turno, o che appartiene ai cittadini?". Il tema successivo è forse il più cruciale: "È emersa non solo la capacità di usare una forza sproporzionata, ma la falsificazione delle prove finalizzate ad arresti che si ritengono giusti e doverosi in nome d'una malsana, appunto, ragion di Stato". "Tutti glissano su Genova" Insiste, Zucca: "L'unico modo corretto per definire quell'aggiustamento sistematico è corruzione per nobile causa, nobile nella testa di chi la commette. Ma si tratta pur sempre di corruzione, di perversione istituzionale per trarne giovamento in termini di carriera". Sul numero uno dell'anticorruzione Cantone, che si era detto "indignato" all'indomani del pronunciamento europeo laddove stigmatizzava comportamenti patologici della polizia italiana, è tranchant: "Non siamo messi bene, se una figura del genere non capisce che dopo il G8 ci fu proprio una forma di corruzione". L'ultimo affondo è di nuovo sul tema più attuale, la legge contro la tortura: "Durante la discussione hanno tirato in ballo Beccaria e il 700, Abu Ghraib e i soprusi americani in Iraq, ma guai a parlare di Genova. Per com'è stata concepita, non punirebbe comportamenti come quelli della Diaz. E mi chiedo: cosa c'è dietro?". Giustizia: il placet ai politici e i legami criminali, così Carminati era "tessitore occulto" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 giugno 2015 In attesa di conoscere i motivi per cui la Cassazione ha confermato l'accusa di associazione mafiosa, questa si fonda essenzialmente sui metodi intimidatori, condizionanti e omertosi che traspaiono dai discorsi di Carminati e dei suoi presunti complici. "Ritornando a Ostia… stabilimenti balneari… cioè la concessione per la gestione di uno stabilimento - ne devo parlare con Massimo, pè stà assicurato contro la malavita". Così parlava Salvatore Buzzi il 6 ottobre 2014, due mesi prima dell'arresto. Gli inquirenti non hanno dubbi: Massimo è Massimo Carminati. E allora saranno chiacchiere in libertà, millanterie o espressioni boriose, ma proprio le parole di Buzzi alimentano il "prestigio criminale" del suo amico e socio venuto dagli anni di piombo, l'ex estremista neofascista diventato "l'uomo nero" dell'indagine. Quello che ha trasformato, col suo carisma delinquenziale, il "mondo di mezzo" e le sue storie di quasi ordinaria corruzione in Mafia Capitale. In attesa di conoscere i motivi per cui la Cassazione ha confermato l'accusa di associazione mafiosa, questa si fonda essenzialmente sui metodi intimidatori, condizionanti e omertosi che traspaiono dai discorsi di Carminati e dei suoi presunti complici. Arrestato la prima volta nel 1981, quasi ucciso dalla polizia che gli sparò mentre cercava di scappare disarmato, è stato lui stesso a raccontare alle microspie dei carabinieri del Ros la propria mutazione: "Io facevo politica, poi la politica è diventata criminalità politica". Finché è rimasta solo la criminalità. Ed è ancora Buzzi, il quale sostiene di conoscerlo da trent'anni ma di frequentarlo solo dal 2012, a svelare (in assenza dell'interessato) il retroscena che lo avrebbe reso intoccabile: "Lui fa ‘na rapina… le cassette di sicurezza della (il furto nel caveau del tribunale di Roma, nel 1999, ndr )… trovano de tutto e de più… e qualcuno è ricattabile… Come spieghi che non è mai stato condannato per il resto, lo condannano solo per quel reato… Tutto il resto sempre assolto". Scontata quell'unica pena, Carminati torna libero e la politica si riaffaccia fra i suoi interessi. Ma non nel senso della militanza. A leggere le trascrizioni delle conversazioni, sembra seguire le evoluzioni soprattutto di quella locale, in funzione degli affari propri e del gruppo a cui s'è legato per guadagnare e investire: le cooperative di Buzzi, che non perde occasione di tirare in mezzo "il mio amico Samurai" quando c'è da incutere qualche timore reverenziale. Secondo gli inquirenti Carminati dà il placet al sostegno per la nomina di Daniele Ozzimo, ora finito in carcere, ad assessore nella prima giunta Marino ("Non sarebbe male… è una persona in gamba… visti i nomi che sono girati fino adesso"), sebbene manifesti un certo disprezzo verso i politici di professione. Invece gli piace il giovane Tredicine (finito agli arresti domiciliari) perché "viene dalla strada… è poco chiacchierato, nonostante faccia un milione di impicci… lui chiacchiere poche… vuol dire che è serio". Carminati è quello che dice "noi gli accordi li rispettiamo", mentre Buzzi si sfoga sui politici locali che "devono stà ai nostri ordini… perché te pago"; e quando, a proposito di appalti che coinvolgevano anche un terzo ipotetico complice, Buzzi gli comunica che "abbiamo vinto sia la gara nostra che le gare sue, quindi pure lui sta tranquillo", lo esalta: "Non avevo dubbi, amico mio". È lui a preoccuparsi delle bonifiche da eventuali microspie dopo uno strano furto in un ufficio frequentato da Luca Gramazio (arrestato con l'accusa di associazione mafiosa), e se il consigliere regionale teme per le minacce di un collega di partito, si mostra pronto a intervenire: "In qualunque momento… io vengo". Ma di fronte a un'altra richiesta di spaventare qualcuno che evidentemente non sta al gioco, Carminati decide di soprassedere: "Ma no, ma no… non se impicciamo… tanto lì… c'è chi ci penserà". Come un "padrino", secondo l'accusa; come uno che parla secondo la propria storia e i propri canoni che non c'entrano niente con la mafia, secondo la difesa. A novembre 2013 Gramazio e altri uomini di fiducia del gruppo tengono una riunione riservata con l'ex candidato sindaco Alfio Marchini, e i pubblici ministeri considerano Carminati il "tessitore occulto della trama dei fili che conduce all'incontro". Coi politici si muove nell'ombra, con criminali e trafficanti un po' più allo scoperto. E così - a sentire le nuove dichiarazioni del "pentito" Massimo Grilli, che sostiene di non averne parlato in precedenza per paura - si propone come mediatore per un affare di droga con il clan mafioso dei Fasciani di Ostia. Ma solo come punto di contatto, senza volere nulla in cambio: "Io di queste cose non mi impiccio, non mi interessa quello che fai… Se ti vuoi comportà da ragazzo regolare… per due-tre mesi non ti fai vedere in zona, perché quando hai fatto io non ti voglio più vedè che passi qui". Giustizia: già dal 2001 operazioni sospette sul conto di Buzzi a San Marino di Fiorenza Sarzanini Il Corriere della Sera, 8 giugno 2015 Conti correnti e una cassetta di sicurezza aperti presso la Banca di San Marino. Milioni di lire e poi centinaia di migliaia di euro movimentati a partire dall'estate del 2001 da Salvatore Buzzi e da sua moglie Silvana Costantini. C'è anche questo nell'inchiesta sull'organizzazione mafiosa che secondo i pubblici ministeri romani sarebbe guidata dallo stesso Buzzi e da Massimo Carminati. Come mai, sette anni dopo essere stato graziato e uscito dal carcere dove scontava la condanna a vent'anni per l'omicidio di un collega, aveva una provvista da trasferire all'estero. Qual è la provenienza dei soldi? Possibile che la coppia avesse avuto incarico di riciclarli per conto di altri? La prima movimentazione risale al 14 agosto 2001 quando Buzzi risulta intestatario di una cassetta di sicurezza presso la Banca di San Marino. La tiene due anni, fino al 29 settembre 2003, giorno in cui apre due conti correnti che rimangono attivi fino al 15 novembre 2006. Numerosi passaggi di soldi sullo stesso istituto di credito estero risultano attribuibili alla sua consorte. Dal 13 agosto 2001 ha un libretto al portatore che utilizza fino al 29 settembre 2003 con bonifici, prelevamenti e investimenti Pronti contro Termine. Una girandola di operazioni che la banca ha così ricostruito: "Il 13 agosto 2001 vengono versati 400 milioni di lire; il 16 novembre 2001 risulta una visita presso la cassetta di sicurezza e un prelevamento per contante di 4 milioni di lire; il 16 giugno 2003 versa 50 mila euro e torna ad aprire la cassetta; trasferimento di 214.975 euro il 29 settembre 2003 a favore del conto corrente cointestato ai due coniugi; la provvista giunta sul conto corrente è stata utilizzata per investimenti di valori mobiliari e per l'addebito di 5 assegni tra il 18 gennaio e il 7 giugno 2006 da 65 mila euro, 40 mila, 50mila, 50 mila e 13 mila". I magistrati dovranno verificare a che cosa è servito il denaro, ma soprattutto a chi appartiene davvero la provvista. Gli eventuali illeciti legati alle norme sull'evasione fiscale sarebbero prescritti, ma il percorso dei soldi è interessante a livello investigativo soprattutto per comprendere come siano stati poi utilizzati e quali fossero i suoi legami in quel periodo. Condannato a 20 anni per l'omicidio di un suo collega e complice nel furto degli assegni nella banca dove lavoravano, è stato graziato nel 1986 e qualche anno dopo era già in affari. L'evoluzione dei suoi affari la racconta lui stesso nell'intercettazione in cui spiega che nell'anno del Giubileo "il fiume di denaro a disposizione delle cooperative non è stato adeguatamente sfruttato", ma non fa mai cenno ai soldi portati all'estero. In numerose conversazioni evidenzia però come con le ultime giunte il volume di affari sia notevolmente cresciuto, ma il sindaco Ignazio Marino non si scompone: "Io sto facendo la pulizia che andava fatta in passato". Procedimento davanti al giudice di pace: alle sezioni Unite la mancata presenza all'udienza di Giuseppe Amato Sole 24 Ore, 8 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione V penale - Ordinanza 15 maggio 2015 n. 20346. Nel procedimento penale davanti al giudice di pace, la particolare tenuità del fatto, quale causa di improcedibilità ex articolo 34 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274, richiede, in caso di avvenuto esercizio dell'azione penale, la mancata opposizione dell'imputato e della persona offesa (si veda il comma 3 del citato articolo 34). Con riferimento alla eventuale opposizione della persona offesa, sussistendo contrasto di giurisprudenza, va rimessa alle sezioni Unite la questione della valenza della mancata comparazione all'udienza davanti al giudice di pace. Questo il principio contenuto nell'ordinanza della Cassazione n. 20346 dello scorso 15 maggio. Due orientamenti contrapposti - La ragione della rimessione alle sezioni Unite si giustifica per l'esistenza di due orientamenti contrapposti. Infatti, secondo un primo orientamento, la mancata comparazione della persona offesa, anche laddove questa risulti irreperibile, non costituirebbe univoca manifestazione della volontà di non opposizione, risultando solo dimostrativa di disinteresse sopravvenuto, ovvero di determinazione di non coltivare più l'azione civile nel processo penale, ma non già della volontà di non opporsi alla mera eventualità che il giudice si avvalga della particolare statuizione di proscioglimento dell'imputato per la speciale tenuità del fatto ascrittogli. Ciò anche perché la non opposizione dovrebbe essere manifestata da comportamenti univoci e concludenti, non ravvisabili nella mera non comparazione (tra le altre, sezione V, 21 settembre 2012, Pg in proc. Sabouri. Secondo altro orientamento, invece, la mancata comparazione all'udienza sarebbe da considerare come inequivoca espressione della volontà di rinuncia all'esercizio di tutte le facoltà consentite dalla legge, come la possibilità di opporsi alla dichiarazione di non procedibilità dell'azione per la particolare tenuità del fatto. Ciò che viene spiegato sia con il rilievo che tale dichiarazione di non procedibilità non impedisce comunque la proposizione dell'azione di risarcimento in sede civile, sia con la valorizzazione del procedimento penale davanti al giudice di pace come ispirato alla creazione di un diritto penale mite, efficace, ma non ingiustificatamente afflittivo e tendenzialmente votato alla ricomposizione del conflitto causato dalla commissione del reato (tra le altre, sezione V, 5 dicembre 2008, Pg in proc. Arhni). Il precedente intervento delle sezioni Unite - Va osservato che, nel rimettere la questione controversa alle sezioni Unite, la sezione ha ritenuto di non poter utilmente richiamare, per la decisione, il precedente intervento con cui le sezioni Unite hanno affrontato la diversa tematica della remissione tacita della querela, affermando che, nel procedimento davanti al giudice di pace instaurato a seguito di citazione disposta dal pubblico ministero ex articolo 20 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274, la mancata comparizione del querelante - pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata ritenuta concludente nel senso della remissione tacita della querela - non costituisce fatto incompatibile con la volontà di persistere nella stessa, sì da integrare la remissione tacita, ai sensi dell'articolo 152, comma 2, del Cp (sezioni Unite, 30 ottobre 2008, Pm in proc. Viele). Lesione diritto alla salute: la domanda di indennizzo al Tar non ha effetti sulla prescrizione di Mario Piselli Sole 24 Ore, 8 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 10 aprile 2015 n. 7194. Atteso che l'effetto interruttivo della prescrizione, ricollegato dall'articolo 2943 del Cc alla notificazione dell'atto con il quale si inizia un giudizio, è limitato al diritto dedotto specificamente nel giudizio, estinguendosi ogni diritto in forza di una propria prescrizione, nessuna identità oggettiva è rinvenibile tra l'azione volta a ottenere l'indennizzo per infermità dipendente da causa di servizio e l'azione di risarcimento del danno, ex articolo 2043 del Cc, per lesione del diritto alla salute, data la ontologica diversità delle stesse, con la conseguenza che la domanda dinanzi al Tar, relativa all'equo indennizzo non può costituire idoneo atto interruttivo della prescrizione del diritto al risarcimento del danno per lesione del diritto alla salute, avanzata dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria. Lo ha stabilito la Suprema corte con la sentenza n. 7194 del 10 aprile scorso. L'ipotesi di danno alla salute - Per il giudice di legittimità, nell'ipotesi di danni alla salute che, per loro stessa natura non sono univocamente riconducibili da un punto di vista soggettivo a un preciso comportamento colposo (o doloso) di un terzo, ai fini dell'individuazione del dies a quo della decorrenza del diritto al risarcimento del danno, rileva l'esteriorizzazione del danno non solo rispetto alla lesione della propria integrità psicofisica, ma anche sotto il profilo della riferibilità causale al comportamento colposo (o doloso) di un terzo, e al giudice del merito spetta valutare la condotta del danneggiato alla luce dell'ordinaria diligenza esigibile sino al limite temporale, costituito dalla domanda di riparazione del danno subito, effettuata dal danneggiato al soggetto cui ritiene causalmente riconducibile il comportamento ingiusto, oltre il quale sarebbe illogico ritenere che la prescrizione possa iniziare a decorrere, essendosi la parte comunque attivata per chiedere la reintegrazione della lesione subita. Accertata l'inadempienza del medico il danno risulta una conseguenza probabile di Mario Piselli Sole 24 Ore, 8 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 13 aprile 2015 n. 7354. Una volta accertati gli inadempimenti del medico e accertato che l'evento verificatosi rientra fra i probabili effetti di quegli inadempimenti, il nesso causale fra la condotta omissiva e l'evento dannoso deve ritenersi esistente in tutti i casi in cui possa affermarsi, in base alle circostanze del caso concreto, che la condotta alternativa corretta avrebbe impedito il verificarsi dell'evento sulla base di un ragionevole criterio probabilistico; tale criterio deve applicarsi anche quando vi sia un problema di scelta di una delle ipotesi, tra loro incompatibili o contraddittorie, sul fatto, con la conseguenza di dover porre a base della sentenza la soluzione derivante dal criterio di probabilità prevalente, sulla base degli elementi di prova complessivamente disponibili. Questo il principio espresso dai giudici della Cassazione con la sentenza n. 7354 del 2015. Responsabilità contrattuale medico-sanitaria - La giurisprudenza del giudice di legittimità è ferma su alcuni concetti-chiave in tema di responsabilità contrattuale medico-sanitaria. Intanto, il nesso causale fra il comportamento del medico e l'evento dannoso va ritenuto esistente quando il medico sia incorso nell'inadempimento degli obblighi a suo carico e il danno verificatosi sia conseguenza probabile, anche se non certa, di quegli inadempimenti. L'attore, quindi, deve dimostrare: a) l'esistenza del contratto (o del contatto sociale); b) l'insorgenza o l'aggravamento della patologia a seguito dell'intervento del sanitario; c) l'inadempimento di quest'ultimo a obblighi di comportamento o agli elementari principi di diligenza, prudenza e perizia propri della disciplina, che siano astrattamente idonei a provocare il danno lamentato. A carico del convenuto c'è il dovere di dimostrare o che non c'è stato alcun inadempimento, oppure che esso, pur esistendo, non è stato eziologicamente rilevante. Costituzionale soglia punibilità di 50.000 euro nel delitto di omesso versamento di ritenute www.penalecontemporaneo.it, 8 giugno 2015 Corte cost., sent. 13 maggio 2015 (dep. 5 giugno 2015), n. 100, Pres. Criscuolo, Rel. Frigo. La Corte costituzionale ha ritenuto infondate le analoghe questioni di legittimità costituzionale sollevate da vari giudici a quibus, in relazione all'art. 3 (e, secondo il Tribunale di Forlì, all'art. 24) Cost., a proposito dell'art. 10-bis del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l'omesso versamento delle ritenute per importi non superiori, per ciascun periodo d'imposta, ad euro 50.000, anziché ad euro 103.291,38. I giudici remittenti sospettavano in particolare che la norma censurata violasse l'art. 3, per l'irragionevole disparità di trattamento della fattispecie considerata "sia rispetto ai più gravi delitti di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione (artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 74 del 2000), integrati da condotte maggiormente insidiose e lesive degli interessi del fisco; sia rispetto alla fattispecie criminosa analoga dell'omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto (Iva), prevista dall'art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, quale risultante a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale di cui alla sentenza n. 80 del 2014" della Corte costituzionale. Come anticipato, la Corte ritiene infondati entrambi i profili di censura (mentre considera manifestamente inammissibili i profili relativi all'art. 24 dedotti dal Tribunale di Forlì, per difetto totale di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza). La Corte rammenta anzitutto le considerazioni che l'avevano condotta, nel 2014, alla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 10-ter su cui fanno leva tutte le ordinanze di rimessione. La previsione di una soglia di punibilità di 50.000 euro prevista da tale disposizione (introdotta con il d.l. 223/2006) era in effetti manifestamente irragionevole in relazione in relazione alla ben più elevate soglie rispettivamente di 77.468,53 e di 103.291,38 euro previste per i delitti di infedele e omessa dichiarazione di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. 74/2000, in vigore sino alle modifiche apportate a tali ultime disposizioni dal d.l. 138/2011, conv. con modif. dalla l. 148/2011, giacché in tal modo veniva sottoposto a un trattamento deteriore chi avesse presentato regolarmente la dichiarazione IVA senza versare l'importo di cui si era riconosciuto debitore, rispetto a chi non avesse presentato affatto la dichiarazione, o avesse presentato una dichiarazione inveritiera, evadendo del pari l'imposta. Prendendo atto di tale incongruenza, il legislatore aveva provveduto nel 2011 a ridurre, rispettivamente, a 30.000 e 50.000 le soglie di punibilità per i delitti di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. 74/2000; ma, trattandosi di modifiche peggiorative per il reo, la loro efficacia non poteva ovviamente essere retroattiva, con la conseguenza che - rispetto ai fatti commessi prima del settembre 2011 - permaneva l'irragionevole discrasia delle soglie di punibilità tra l'omesso versamento dell'IVA e l'omessa o infedele dichiarazione. Tale discrasia aveva così reso necessario l'intervento della Corte costituzionale, attuato con la citata sentenza n. 80/2014, che aveva per l'appunto innalzato la soglia di punibilità per il delitto di cui all'art. 10-ter a quella più alta tra le soglie di raffronto, e dunque a quella prevista per il delitto di omessa dichiarazione (pari appunto a 103.291,38 euro), limitatamente ai fatti commessi sino al settembre 2011. Ciò posto, l'argomento sotteso a tutte le ordinanze di rimessione era che la previsione di una soglia di 50.000 per il delitto di omesso versamento di ritenute di cui all'art. 10-bis si esponesse alle medesime censure di irragionevolezza che avevano condotto la Corte alla dichiarazione di illegittimità di tale soglia in relazione all'art. 10-ter. La Corte respinge tuttavia tale assunto, sottolineando come - a differenza di quanto accade per la dichiarazione IVA - la dichiarazione di sostituto d'imposta non rientri tra quelle rilevanti ai fini dei delitti di infedele e omessa dichiarazione, invocati come tertia comparationis; con la conseguenza che "il sostituto d'imposta che omette di versare le ritenute certificate può essere chiamato a rispondere, sul piano penale, unicamente del reato di cui all'art. 10-bis, tanto se abbia regolarmente assolto i propri obblighi dichiarativi, quanto se abbia presentato una dichiarazione infedele, quanto se non abbia presentato affatto la dichiarazione (l'omessa o infedele dichiarazione di sostituto d'imposta integrano, per communis opinio, solo l'illecito amministrativo di cui all'art. 2 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, recante "Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell'articolo 3, comma 133, lettera q, della legge 23 dicembre 1996, n. 662": illecito che concorrerà, se del caso, con il delitto in esame)". Col che resta escluso che i delitti di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. 74/2000 possano essere assunti a validi tertia comparationis, ai fini della prospettata censura ex art. 3 Cost. Né risulta fondata, ad avviso della Corte, l'idea secondo cui le fattispecie di cui agli artt. 10-bis e 10-ter costituiscano in certo senso fattispecie ‘gemellè, dall'identico disvalore, sì che la previsione di diverse soglie di punibilità per tali reati sarebbe per ciò stesso irragionevole. Le due fattispecie presentano, in realtà, significativi elementi differenziali, puntualmente evidenziati dalla Corte; di talché "l'allineamento quoad poenam e quanto a soglie di punibilità delle due ipotesi di omesso versamento, operato dal legislatore nel 2006, rappresenta [...] una soluzione costituzionalmente compatibile, ma non certo costituzionalmente imposta": come dimostra del resto l'analisi delle parabole storiche dei due reati, che evidenziano percorsi di periodica criminalizzazione e de-criminalizzazione del tutto indipendenti l'uno dall'altro. Terzo settore: l'ente locale deve assicurare i volontari ma non può mai remunerarli di Michele Nico Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2015 Delibera della Corte dei conti Lombardia n. 192/2015. Quando l'ente locale decida di stipulare convenzioni con le organizzazioni di volontariato che dimostrino attitudine e capacità operativa in un determinato ambito di carattere sociale, civile e culturale, gli aderenti a tali organizzazioni devono prestare la loro opera in modo personale, spontaneo e gratuito, ovvero senza scopo di lucro, neppure indiretto, ed esclusivamente per fini di solidarietà. Con la delibera n. 192/2015/Par la Corte dei conti, sezione di controllo per la Lombardia, ribadisce con vigore queste norme di condotta, facendo richiamo ai principi contenuti nella legge 11 agosto 1991 n. 266, più nota come legge-quadro sul volontariato. Polizze assicurative La Sezione trova lo spunto per occuparsi della materia in sede di esame del quesito formulato da un Comune, circa la possibilità di stipulare apposite polizze per garantire ai volontari adeguata copertura assicurativa contro infortuni, malattie connesse allo svolgimento dell'attività e per la responsabilità civile, in considerazione del fatto che, come il quesito evidenzia, "molto spesso cittadini singoli chiedono di poter prestare servizio volontario a titolo individuale a favore del Comune in diversi ambiti", come la biblioteca, gli uffici, la manutenzione del verde o degli edifici. La Corte non esita a fornire riscontro positivo alla questione posta, stante il fatto che, a norma dell'articolo 7, comma 3, della legge 266/1991, la copertura assicurativa per coloro che prestano attività di volontariato a favore della Pa "è elemento essenziale della convenzione e gli oneri relativi sono a carico dell'Ente con il quale viene stipulata la convenzione medesima". Tale risposta contenuta nel parere è però accompagnata da alcune avvertenze, al fine di evitare che il ricorso da parte degli Enti alla cooperazione con le associazioni no profit sia schermo per "l'instaurazione surrettizia di forme di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione non disciplinate dalla legge, ancorché a titolo precario, interinale e occasionale". Il lavoro alle dipendenze della Pa A tal fine il collegio ricorda, in primis, che il lavoro alle dipendenze della Pa è presidiato dalla generale previsione di accesso tramite concorso, il quale, in linea con le guarentigie previste dalla carta costituzionale, da un lato costituisce uno strumento al servizio del buon andamento dell'agire pubblico, in quanto volto a individuare il miglior candidato per la posizione bandita, e, dall'altro lato, offre a tutti i cittadini la possibilità di accedere agli uffici pubblici secondo regole ispirate al principio di uguaglianza. Dopo di che i giudici osservano, per completezza, che il rapporto di lavoro subordinato presenta un carattere necessariamente oneroso, in aderenza al dettato dell'articolo 36 della Costituzione e, con specifico riferimento al pubblico impiego, da quanto si desume dal tenore dell'articolo 90, comma 2, del Tuel, secondo cui "al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali". In tale contesto, l'attività prestata gratuitamente dalle organizzazioni di volontariato costituisce un'eccezione al carattere necessariamente oneroso del rapporto di lavoro ed essa, in quanto tale, deve trovare un'applicazione circoscritta al regime disciplinato con la legge 266/1991, senza travalicarne indebitamente i confini per finalità improprie e non consentite. Spese compensate in fuorigioco, la pronuncia delle Sezioni unite di Rosanna Acierno Sole 24 Ore, 8 giugno 2015 Cassazione - Sezioni unite - sentenza 20598/2008. La frequenza con cui viene dichiarata la compensazione delle spese di giudizio da parte delle commissioni tributarie - anche in caso di annullamento pieno dell'atto impositivo - rappresenta una questione davvero rilevante, poiché si traduce in un onere di cui il contribuente, seppur vittorioso, deve farsi comunque carico. Nella prassi è piuttosto comune imbattersi nella decisione da parte dei giudici di merito della compensazione delle spese di giudizio "per giusti motivi" anche nel caso di pieno accoglimento delle eccezioni di illegittimità sollevate dal ricorrente. Il che determina per il contribuente vittorioso l'impossibilità di recuperare i costi anticipati per il compenso del professionista abilitato, gli altri oneri accessori, il contributo unificato e le spese di notifica. Non basta il rinvio generico A ben vedere, però, non sempre sono ravvisabili i presupposti giuridici che permetterebbero al magistrato di decretare la compensazione delle spese. Infatti, l'articolo 15 del Dlgs 546/1992 - rinviando all'articolo 92 del Codice di procedura civile - prevede che la compensazione delle spese possa essere disposta dal magistrato: • in caso di soccombenza reciproca, ad esempio nel caso in cui l'atto sia annullato solo in parte; • in alternativa, qualora concorrano giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione. Sotto questo secondo profilo, nel corso degli anni, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di statuire che i giusti motivi possono sussistere nelle seguenti ipotesi: • obiettiva incertezza sulla fattispecie oggetto di controversia; • complessità o novità della vertenza sottoposta ai giudici; • contrasto delle pronunce giurisprudenziali sul tema; • annullamento dell'atto per motivi meramente formali (come, ad esempio, nel caso di notifica eseguita da un messo notificatore decaduto dall'incarico). Il generico inciso "per giusti motivi" inserito nella motivazione della sentenza - se non supportato da adeguate argomentazioni - in alcuni casi può rappresentare un vero e proprio abuso dell'istituto di compensazione delle spese, a danno del contribuente che ha sostenuto i costi di lite. Diventa perciò fondamentale, per il difensore, valutare quando e come sia possibile eccepire l'illegittimità del provvedimento che compensa le spese del giudizio (in sede di ricorso in appello o per Cassazione). La Corte di cassazione, a Sezioni unite, ha precisato che il provvedimento di compensazione delle spese deve essere necessariamente supportato da adeguate motivazioni, giuridiche o di fatto, idonee a sorreggere la regolazione adottata e che, pertanto, la decisione deve considerarsi priva di motivazione se contiene la tautologica affermazione secondo cui "sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio" (Cassazione, sentenza a Sezioni unite 20598/2008 ). Ne consegue che sono censurabili i provvedimenti di compensazione che riportano frasi generiche, quali "spese compensate" o "sussistono giusti motivi per compensare le spese", o altre simili, spesso utilizzate dai giudici di merito. Appello ad hoc per le spese Nel caso di sentenza favorevole al contribuente contenente il provvedimento di compensazione delle spese con una statuizione generica non motivata, di fronte al successivo appello da parte dell'ufficio, è opportuno procedere in due step: • presentazione delle controdeduzioni; • e, in aggiunta, predisposizione e presentazione dell'appello incidentale per censurare l'omessa motivazione in violazione degli articoli 15 del Dlgs 546/1992 e 92 del Codice di procedura civile. Nel caso - peraltro remoto - in cui l'ufficio non dovesse proporre appello o dovesse chiedere la cessazione della materia del contendere dopo aver annullato l'atto in autotutela, in teoria il contribuente potrebbe chiedere ragione delle spese sostenute mediate appello incidentale (anche se di solito i costi del giudizio scoraggiano questo tipo di azioni). In ogni caso, per una corretta liquidazione, è sempre opportuno che il difensore alleghi al fascicolo di parte, sino a dieci giorni liberi prima della data di trattazione in caso di discussione in pubblica udienza (o cinque giorni in caso di trattazione in camera di consiglio), la nota delle spese, indicando in modo distinto e specifico gli onorari e gli altri oneri. Padova: aperta un'inchiesta sulla morte alla Casa circondariale di un detenuto 25enne di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 8 giugno 2015 Un tunisino di 25 anni si è tolto la vita in una cella della Casa Circondariale con un cocktail di farmaci. L'allarme è stato dato verso le 9 del mattino ma nonostante l'intervento delle guardie carcerarie e del Suem 118 non c'è stato nulla da fare. Il giovane è morto in infermeria. Sul caso indaga la Squadra mobile di Padova. Sono in corso accertamenti per scoprire dove il nordafricano si è procurato i farmaci. "Purtroppo riescono a reperire medicine che poi mescolano con altre droghe" denuncia Giovanni Vona, rappresentante sindacale del Sappe. "Gli agenti della penitenziaria non sono in numero sufficiente per tenere sotto controllo tutti i detenuti ed è questo il motivo per cui succedono queste cose". Il detenuto Hamza Mhameli, 25 anni, è stato soccorso verso le nove del mattino dopo che i compagni di cella si sono accorti del suo malore improvviso. Medici e infermieri del Suem 118 hanno praticato il massaggio cardiaco a lungo ma non c'è stato nulla da fare. Il giovane nordafricano è morto in infermeria. Dai primi accertamenti sembra che il malore sia stato causato da un cocktail di farmaci e chissà che. Un intruglio che si è procurato in qualche modo. Ed è su questo che ora gli investigatori della Mobile stanno indagando. Perché non è concepibile che in un carcere un detenuto riesca a procurarsi farmaci in abbondanza per uccidersi. Ieri mattina sul posto è giunto anche il pubblico ministero Daniela Randolo, che ha voluto personalmente sincerarsi della situazione vista la complessità del caso. La salma è stata messa disposizione dell'autorità giudiziaria e nei prossimi giorni sarà eseguita l'autopsia. Solo così si potranno determinare le sostanze presenti nel sangue. "Spesso gli stranieri, che devono prendere le medicine prescritte davanti agli agenti, fingono di ingoiare le pillole, oppure le vomitano subito dopo, in modo da poterle "rivendere" dietro le sbarre, creando un traffico di medicine che può provocare la morte", dice ancora Giovanni Vona. Fonti interne al carcere confermano che il nordafricano venticinquenne potrebbe aver avuto accesso ai farmaci utilizzati per i detenuti tossicodipendenti e averli usati per miscelare un cocktail letale. Il giovane, una serie di precedenti penali per spaccio alle spalle, era finito in manette lo scorso mese di novembre per atti di violenza nei confronti della compagna. Ossessionato dalla gelosia, dopo la repentina conclusione della loro relazione, Hamza Mhameli si accaniva con inaudita violenza contro l'ex, una ventottenne precipitata nel tunnel della tossicodipendenza. La trattava come fosse una sua proprietà e la riempiva di lividi. Pugni e schiaffi, graffi al volto e persino mozziconi di sigaretta spenti sulle braccia. Mhameli le sottraeva di mano il telefono per leggere i messaggi e le distruggeva gli effetti personali. Episodi ripetuti che hanno costretto i carabinieri a sollecitare un'ordinanza in carcere. Sassari: interrogazione Movimento 5 Stelle "con i 41bis in città arrivi la Corte d'Appello" La Nuova Sardegna, 8 giugno 2015 L'arrivo di 92 detenuti in regime di 41-bis nel carcere di Bancali non smette di scatenare polemiche e richieste di chiarimenti in tutte le sedi. L'ultima arriva dal gruppo consiliare del Movimento 5 Stelle di Sassari, che in un'interrogazione muove una serie di rilievi e domande al sindaco Sanna. La prima riguarda il fatto se ci siano notizie provenienti dal ministero dell'Interno su un futuro rinforzo della presenza delle forze dell'ordine nel territorio del Comune di Sassari alla luce dei citati arrivi e dei rischi per la sicurezza pubblica ad essi connaturati. Il M5S chiede poi quali siano gli obiettivi finora raggiunti dal comitato inter-istituzionale, costituito nel settembre 2014 e presieduto dallo stesso sindaco, a sostegno del riconoscimento dell'autonomia della Corte di Appello di Sassari e se siano arrivate comunque rassicurazioni da parte del Ministro sul fatto che la sezione distaccata di Corte d'Appello di Sassari sarà in ogni caso mantenuta anche nel nuovo assetto giudiziaria allo studio in Parlamento. Il Movimento chiede infine se il sindaco non ritenga invece che, proprio alla luce dell'apertura della sezione speciale a Bancali si debba immediatamente presentare al ministro di Giustizia una formale richiesta volta al riconoscimento della autonomia della Corte di Appello di Sassari ed alla conseguente istituzione degli uffici della Direzione Distrettuale antimafia. Il tutto "preso atto che ancora una volta la nostra regione, e nel caso specifico il territorio di Sassari, viene eletta a sede ideale di carceri speciali, poli chimici e servitù militari, con inevitabili ricadute che incidono sempre più dolorosamente su un tessuto sociale già stremato da una crisi economica senza precedenti. E rilevato che nella lotta per fronteggiare questa emergenza sociale le Istituzioni sembrano sempre più lontane dai bisogni e dalle attese dei cittadini e che gli stessi enti locali paiono talvolta soggetti passivi di una politica decisa lontana dai comuni e dalle reali esigenze della gente". Monza: Uil-Pa; mancano I fondi per rinnovare il guardaroba della Polizia penitenziaria di Marco Galvani Il Giorno, 8 giugno 2015 Quando la divisa non è "uniforme". Una camicia blu acceso, un'altra più pallida, le giacche slavate, le scarpe diverse da un agente all'altro e pure i gradi di servizio a volte mancano. Il guardaroba della polizia penitenziaria "non garantisce il decoro" ma per lo shopping ministeriale mancano fondi. "È un problema che riguarda non soltanto gli agenti in servizio alla casa circondariale di Monza ma anche i colleghi di tutta la Lombardia - la denuncia di Domenico Benemia, segretario regionale della Uil penitenziari. Manca un po' di tutto e non viene garantito un regolare e periodico approvvigionamento dei magazzini vestiario". Le divise sono consumate, sono diverse nel modello e nel colore, le scarpe e gli anfibi "dobbiamo comprarli con i nostri soldi che non sempre ci vengono rimborsati". Addirittura "non ci vengono fornite nemmeno le placche di servizio (il distintivo da tenere nel portafoglio, ndr) e mostrine: per mantenere un minimo di decoro per il nostro Corpo di polizia penitenziaria andiamo noi - pagando di tasca nostra - a comprare nei negozi specializzati il materiale che invece dovrebbe essere una dotazione di servizio". E invece, nonostante ci sia un Decreto ministeriale che prevede determinati equipaggiamenti, ancora non è stato nemmeno sostituito il cinturone da bianco a blu. Per non parlare delle "camicie estive a mezza manica che non vengono fornite da circa 5 anni". Peraltro "andrebbe anche rivista la dotazione visto che 3 camicie ogni 4 anni sembrano davvero insufficienti". Davanti a questa situazione "ci dobbiamo scontrare quotidianamente con una inerzia a livello centrale che inevitabilmente si riflette sull'organizzazione dei Provveditorati regionali e sull'attività dei singoli istituti". Sul fronte dell'abbigliamento di servizio così come per la questione del parco macchine. "Le condizioni dei furgoni blindati con cui vengono accompagnati i detenuti ai processo o nelle strutture sanitarie per visite ed esami non sono delle migliori - lamenta Benemia. Alcuni hanno sulle spalle anche 200mila chilometri, adesso che è estate non sempre l'aria condizionata funziona e poi numericamente non sono sufficienti e dobbiamo dividerli con altri istituti". Ferrara: flash mob di Amnesty International "in Italia manca cultura dei diritti umani" estense.com, 8 giugno 2015 Il presidente Marchesi: "Troppi casi di tortura e abusi su detenuti o persone arrestate sono risultati impuniti". Ispirandosi alla lunga tradizione del Palio di Ferrara, i ragazzi del Gruppo Giovani 95 hanno ricreato una sorta di corteo paliesco solo che, al posto delle contrade, hanno sfilato le lotte di Amnesty International per far toccare con mano ai cittadini tutte le tematiche di cui si occupa l'organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani. Il flash mob, organizzato dal neo gruppo giovani di Amnesty Ferrara, è partito dal Ridotto del teatro Comunale dove si è tenuta la presentazione del rapporto annuale 2014-2015 "Il Mondo ha bisogno di diritti" e si è concluso in piazza Municipale dove gli attivisti hanno composto per terra con candele gialle l'immagine della candela con il filo spinato, simbolo di Amnesty International. Gli eventi si sono tenuti per festeggiare il 35mo compleanno del Gruppo Italia 35 di Ferrara e il 40mo anniversario della sezione italiana Amnesty International. Un'occasione alla quale hanno partecipato diversi soci provenienti dall'Emilia-Romagna e da altre regioni italiane per fare il punto sul tema dei diritti umani, del contrasto alla pena di morte ed alla tortura. L'assemblea pubblica, moderata dal fondatore del Gruppo Italia 35 Amedeo Flachi, ha toccato diversi punti: dai primi 40 anni di storia di Amnesty in Italia alle battaglie che sono in programma in futuro, passando all'attuale situazione italiana. "In Italia manca la cultura dei diritti umani - annuncia Antonio Marchesi, presidente della sezione italiana di Amnesty International: nel 2015 è un Paese che coltiva l'assurda idea che la tortura possa essere rimossa non menzionandola nel reato penale, un Paese in cui gli atti di violenza domestica sono denunciati in pochi casi e si stima che siano 10 volte tanto, un Paese in cui c'è chi crede che l'omosessualità sia una malattia che vada curata. Ma è anche un Paese dove c'è Amnesty che due anni fa ha adottato un'agenda sui diritti umani in Italia, sostanzialmente un'agenda politica in continuo divenire in cui ci poniamo nuovi obiettivi da raggiungere". All'ordine del giorno: i diritti dei rifugiati e l'approvazione del reato di tortura. "Troppi casi di tortura e abusi su detenuti o persone arrestate sono risultati impuniti o con una pena non adeguata", spiega Marchesi, prendendo a esempio il caso della Diaz: "I giudici hanno lavorato bene ma sono i problemi strutturali che hanno portato la corte europea a condannare l'Italia, che non ha un sistema penale adeguato per punire questi eventi. Sono cinque legislature che si discute del reato di tortura senza nulla di fatto: è priorità averlo piuttosto che continuare a bloccarsi sulla definizione del reato". Tra le altre priorità spicca l'accoglienza dei migranti: "Bisogna intervenire sulle cause che portano queste persone a compiere questa scelta che spesso porta a conseguenze tragiche - prosegue il presidente Amnesty -. Mare Nostrum si è rivelata un'operazione adeguata, Triton non lo è". Tutti i discorsi degli intervenuti - tra cui Alberto Provenziani, attivista del Gruppo Italia 35 Ferrara, Pietro Antonioli, già presidente del comitato esecutivo internazionale, Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty e Alice Franchini, portavoce del Gruppo Giovani 95 Ferrara - hanno messo in luce, sotto molteplici aspetti, l'importanza dell'attivismo. A detta di tutti i relatori - a cui si aggiungono le voci dei 5mila soci iscritti in Emilia Romagna, di cui 300 a Ferrara e provincia - i cambiamenti reali a livello globale possono avvenire solo con l'impegno a livello locale. "Gente comune a favore di gente di gente comune" è appunto uno degli slogan che anima l'associazione fin dal 1975; la linea guida del 2016 sarà invece quella di chiedere ai cittadini di reagire alle ingiustizie del mondo. A reagire, come ammettono le stesse istituzioni, deve essere anche la politica. "In attesa che la politica riprenda un ruolo significativo nella lotta in difesa dei diritti inviolabili dell'uomo - commenta il sindaco Tiziano Tagliani, Amnesty raccoglie uno spirito volontario che difende questi principi più di quanto possa fare l'amministrazione". "Bisogna gettare uno sguardo sul mondo fuori dal nostro ombelico" fa eco l'assessore regionale Massimo Mezzetti secondo cui "tanti si commuovono ma pochi si muovono, Amnesty ha l'onore e l'onere di riuscire ad attivarsi ed operare contro la violazione dei diritti umani: continuate a essere pungolo permanente nel fianco della nostra società". Verona: lavoro in carcere, oltre 200 i detenuti impegnati in attività attraverso cooperative di Alessandra Galetto L'Arena, 8 giugno 2015 Non soltanto un'occasione per impegnare il tempo. Il lavoro per un detenuto è qualche cosa di molto più importante. Se è vero infatti che per ogni persona avere un'occupazione è contemporaneamente una necessità per mantenersi ma anche un modo per realizzarsi, per chi vive dietro le sbarre, dove il tempo si dilata in infiniti momenti di attesa, un lavoro significa insieme avere ogni giorno un'occupazione che ti aspetta, e l'opportunità di rimettersi in gioco, di vedere, oltre lo spazio angusto della cella, un motivo per imparare professionalità che saranno poi spendibili oltre la detenzione. E anche al di là delle nobili finalità (c'è chi ha detto che il grado di civiltà di un popolo si misura dai suoi atteggiamenti nei confronti delle persone in condizioni di disagio), poiché chi si trova in carcere ha compiuto un danno nei confronti della società (per la quale, in quanto detenuto, si trasforma in costo), lavorare è un risarcimento economico di quel danno arrecato. Ed è una forma di sicurezza sociale: chi sta in carcere soprattutto per un lungo periodo, quando esce, se non ha trovato durante la detenzione strumenti che lo aiutino a dire no, anche psicologicamente, alla delinquenza, sarà più soggetto a recidiva di chi ha acquisto competenze e formazione per crearsi un futuro diverso. Parte da questi principi quella riforma penitenziaria che risale ormai al 1975 in cui il lavoro viene a costituire un momento fondamentale dell'esecuzione della pena in quanto strumento di reinserimento sociale del detenuto. Si tratta della legge 354 del 26 luglio 75 "Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure preventive e limitative della libertà". E nel 2000, per sostenere l'apertura al territorio, viene promulgata la Legge Smuraglia (la 193) che prevede varie misure per favorire l'attività lavorativa dei detenuti, con la possibilità di applicare sgravi fiscali e contributivi per soggetti pubblici e privati che assumono detenuti. "Quella di Verona non è solo casa circondariale, ma anche di reclusione: significa che i detenuti possono avere un fine pena superiore ai cinque anni", spiega la direttrice di Montorio Maria Grazia Bregoli. "Ce ne sono dunque che hanno pene lunghe: in questi casi il lavoro è tanto più importante. Attualmente, tra amministrazione e imprese esterne, abbiamo circa 200 detenuti impegnati in attività lavorative. E poi ce ne sono anche molti che fanno attività di volontariato: per esempio al canile, alla biblioteca civica, a corte Molon e in parrocchia". Su questa linea si muove anche il Progetto Risciò, che prevede la possibilità per alcuni detenuti di venire scelti per la guida dei due risciò già acquistati per mobilità di sollievo per le fasce deboli del la popolazione, come gli anziani e le persone con disabilità: è un progetto di sostegno per ospiti di istituti, case di riposo, famiglie o socie di circoli e associazioni di Verona, che avranno l'opportunità di muoversi in città trascorrendo momenti piacevoli e all'aria aperta, realizzato grazie a Clv Impresa sociale e Cisl. "Una delle realtà fondamentali per il lavoro qui a Montorio", prosegue la direttrice, "è quella dell'impresa Lavoro & Futuro, nata nel 2005, che occupa tra i 60 e gli 80 detenuti, ma che in caso di particolare consegne può arrivare ad occuparne anche 100. Svolge attività di assemblaggio, officina meccanica e carpenteria leggera, falegnameria, coltivazione di piante ornamentali e da giardino. Poi c'è la Cooperativa sociale Vita, che ha realizzato in carcere un laboratorio di panificazione e pasticceria e che può distribuire prodotti e preparare buffet su ordinazione per aziende, studi professionali, associazioni, enti e privati. E poi abbiamo la cooperativa sociale Progetto Riscatto nata nel 2014 che gestisce un laboratorio di pelletteria nella sezione femminile". I lavori dei detenuti servono talvolta alla produzione di mobili o arredi che servono per il carcere stesso. Ad esempio il corso di falegnameria ha prodotto arredi per la biblioteca realizzati con materiale riciclato, mentre in collaborazione con la ditta Antonelli di San Martino Buon Albergo i detenuti stanno costruendo le nuove docce nelle celle. Tra gli ultimi progetti, l'impiego di alcuni detenuti per lavori di manutenzione stradale delle vie più dissestate della città, attraverso un primo accordo tra casa circondariale e Amministrazione comunale, a seguito della formazione realizzata attraverso il progetto Esodo. Verona: Progetto Carcere 663. Rita Borsellino agli studenti "la legalità è una scelta di vita" di Manuela Trevisani L'Arena, 8 giugno 2015 La sorella del giudice assassinato dalla mafia: "Tutti prendano coscienza del rispetto delle regole". A San Martino Buon Albergo Rita Borsellino ha incontrato gli studenti coinvolti nel Progetto Carcere 663. "Paolo Borsellino era un uomo. Non mi piace che i ragazzi lo considerino un eroe, perché tutti possono essere come lui. È una questione di scelte e Paolo, nella sua vita, ha scelto la legalità e la giustizia". Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso da Cosa Nostra il 19 luglio 1992 nella strage di via d'Amelio, ha portato la propria testimonianza al Teatro Peroni di San Martino Buon Albergo. Ad ascoltarla gli studenti delle scuole medie e superiori di diversi istituti, riuniti per la giornata conclusiva del progetto "Reti per la sussidiarietà", promosso dall' associazione Progetto Carcere 663. Protagonista del convegno, intitolato "Educazione alla legalità e stimolo alla solidarietà", Rita Borsellino, che ha raccontato il lato più umano e doloroso di una strage, che ha segnato per sempre l'Italia. "Quando eravamo piccoli, ci dicevano che la mafia non esisteva: era una parola fantasiosa, non si pronunciava", ha rivelato la Borsellino. "Attraverso l'impegno di Paolo e di altre persone che hanno lottato contro la mafia, si è presa coscienza del fenomeno e si è iniziato a condannarlo". Tutti possono fare la propria parte, come ha sostenuto la sorella del magistrato, riportando alcune frasi celebri. Giovanni Falcone diceva: "Basterebbe che ognuno facesse il suo dovere". Borsellino precisava: "Ognuno, nel suo piccolo, per quello che può, per quello che sa". Padre Pino Puglisi, a sua volta vittima di mafia, aggiungeva: "Se ognuno facesse qualcosa". Un invito chiaro, rivolto alla platea di ragazzi, che hanno poi ascoltato gli interventi del capo della squadra mobile Roberto Della Rocca e del tenente dei carabinieri Gabriele Schiaffini. "È importante che i ragazzi apprendano la cultura del rispetto delle regole e delle persone", ha affermato Della Rocca. "Per rispondere ai soprusi, abbiamo un'arma essenziale, la parola: non abbiate paura di venire a raccontarci i vostri problemi". Anche Schiaffini ha invitato gli studenti a guardare alla legge come a uno strumento fatto per l'uomo, per tutelare gli interessi dell'uomo: "Le forze dell'ordine e i cittadini stanno dalla stessa parte. Non ci dovete vedere come il nemico: le nostre porte sono sempre aperte". Un'iniziativa che è andata a chiudere un percorso per la legalità nelle scuole, che Progetto Carcere 663 porta avanti da tempo e che prevede vari incontri in cui vengono trattati, anche attraverso la proiezione di film, temi diversi: l'importanza del rispetto delle regole, cosa avviene prima del carcere, il ruolo di forze dell'ordine, di avvocati e magistrati, la detenzione e le pene alternative. "Quest'anno l'iniziativa non ha avuto la sua naturale conclusione con l'incontro tra i giovani e la popolazione reclusa per scelta della direttrice, che preferisce seguire altre strade", ha tenuto a precisare il presidente dell'associazione Maurizio Ruzzenenti. "Nonostante tutto noi continuiamo l'opera di formazione nelle e perle scuole, perché crediamo molto in questo progetto". I corsi di educazione alla legalità hanno coinvolto 414 ragazzi di otto istituti: le scuole Salgari e Barbarani di San Martino Buon Albergo, il centro di formazione professionale Canossiane, il liceo Roveggio di Cologna Veneta, il liceo Medi di Villafranca, l'istituto Remondini e l'Itis Fermi di Bassano del Grappa. Cagliari: litigano per il pingpong, rissa tra detenuti stranieri causa un ferito Ansa, 8 giugno 2015 Una rissa tra detenuti stranieri è scoppiata nella tarda mattina nella sala socialità del nuovo carcere di Uta. Intorno alle 13 un gruppo di stranieri, in particolare albanesi, avrebbe iniziato a discutere per le racchette da pingpong. Dalle parole i detenuti sono passati alle mani, innescando la rissa. Gli agenti della Polizia penitenziaria, arrivati immediatamente, hanno calmato e separato i detenuti. Uno degli albanesi, che ha avuto bisogno di cure mediche, è stato portato in ospedale all'esterno della struttura carceraria per essere visitato. Le sue condizioni non sono gravi. Tre giorni fa ad avere bisogno delle cure mediche era stato, invece, un agente della Penitenziaria, aggredito da un detenuto di 18 anni, appena arrestato durante i controlli di routine nelle fasi che precedono l'ingresso in cella. Immigrazione: ricatti italiani e mancanze europee di Giovanna Zincone La Stampa, 8 giugno 2015 Il governo Renzi sta finalmente incassando qualche risultato positivo sul piano economico: un avvio di ripresa che si accompagna all'aumento dell'occupazione. Ma questi successi non hanno reso elettoralmente. I crescenti timori degli italiani nei confronti dell'immigrazione e della sicurezza, sempre presenti sullo sfondo, stanno forse superando le preoccupazioni per la crisi. E mentre sul piano economico Renzi ha potuto contare sull'intervento della Bce, sull'emergenza immigrazione l'Ue non aiuta: rischia semmai di aggravare la situazione italiana e di mettere in difficoltà il governo. Inoltre, all'interno del nostro Paese, proprio i territori che lamentano la scarsa solidarietà europea vorrebbero scaricare il pesò dell'accoglienza sul- Sud e destabilizzare anche con queste sfide il governo. Gli arrivi fuori controllo sono davvero grandi, però attesi. Si temeva da tempo che il 2015, in assenza di una soluzione della crisi libica, potesse essere peggiore del funesto 2014, quando erano sbarcate in Italia circa 178.000 persone. Il nostro, governo aveva già chiesto aiuto all'Europa, non solo per i soccorsi in mare, ma anche per l'accoglienza. Ma la solidarietà dei membri Ue di fronte alle difficoltà che avanzano si ritrae, invece di progredire. L'aiuto prospettato netta proposta della Commissione parte striminzito: prevede che gli Stati membri si facciano carico soltanto di 24.000 potenziali rifugiati provenienti dall'Italia, e che la cifra vada spalmata su 2 anni. Le nazionalità ammesse sono solo quelle con tassi di accettazione della domanda di protezione internazionale superiori al 70 per cento (i siriani e gli eritrei). Il tutto con ampie zone d'ombra. Chi pagherà i costì del trasporto verso i Paesi dove i 12.000 saranno eventualmente trasferiti? Cosa accadrà a chi non ha diritto all'asilo, dove lo si respinge? Certo non in Libia. E a spese di chi? Si potrebbero trovare spazi per i rifugiati negli Stati sicuri del Nord Africa, che potrebbero essere invogliati da quei 6.000 euro promessi ai Paesi membri per ogni rifugiato accolto in base alle quote decise nella redistribuzione. Per ora, per quel che ci riguarda, è stato ribadito che la redistribuzione si tratta di una tantum, il che è un grosso limite. Ma l'Italia fa molto per peggiorare la già scarsa propensione alla solidarietà dei partner europei. Il ministero dell'Interno ha comunicato che l'accoglienza nel 2014 è costata atte nostre casse 2 milioni al giorno. L'Ue non è stata mai davvero prodiga, ma si è mostrata in genere relativamente meno ostile a fornire aiuti economici, piuttosto che a suddividere il peso dei rifugiati, che ha un maggiore impatto sui territori di accoglienza e quindi sugli elettori. Chiedere almeno un deciso aumento degli aiuti economici è un'ipotesi che potremmo portare al tavolo delle trattative nella riunione dei ministri dell'Interno del 15 giugno. Certo, i troppi mascalzoni che hanno lucrato sul business dell'accoglienza peseranno nel frenare la solidarietà economica da parte dell'Unione. Ma peserà in quell'occasione anche la dimostrazione di scarsa solidarietà che stanno dando alcuni presidenti di Regioni in Italia. In Europa alcuni Stati membri, Francia inclusa, hanno rifiutato il carattere obbligatorio delle quote, ricordando che non è previsto dai trattati, dando tuttavia una disponibilità volontaria: ma in Italia i citati presidenti vorrebbero aggredire persino il sistema di accoglienza nazionale che è su base volontaria. Lo Sprar (Sistema di Protezione per richiedenti Asilo e Rifugiati) prevede infatti che i Comuni possano rispondere volontariamente ai bandi del ministero dell'Interno per l'assegnazione di fondi destinati all'accoglienza dei rifugiati. I Comuni assegnano a loro volta i fondi ai vari enti che si occupano di accogliere materialmente i rifugiati. Che questo possa rivelarsi un business poco pulito lo si sa da tempo: gli scandali romani sono macroscopici, ma non sono purtroppo i primi, né saranno gli ultimi. Ci sono però soprattutto Comuni ed enti seri, che rispondono a un bisogno impellente e reale. Maroni, Zaia, Toti minacciano addirittura di colpire con tagli finanziari i Comuni delle loro regioni disposti ad accogliere rifugiati. Sarebbe l'esercizio di un potere di ricatto che le regioni non possono esercitare. D'altra parte, in caso di emergenza, e qui di emergenza si tratta, il Viminale può scavalcare i Comuni, e rivolgersi atte prefetture che richiedono direttamente la collaborazione degli enti presenti sul territorio, attivando Centri di Accoglienza Straordinaria. I Comuni non vogliono essere scavalcati dai prefetti, ma di fatto questo li solleva dalla responsabilità politica e quindi da possibili contraccolpi elettorali. Il fatto è che la chiusura nei confronti degli immigrati paga elettoralmente: lo si sta facendo anche in zone prospere, e non solo in Italia. In Austria, in Stiria e in Burgenland, il partito di Haider è arrivato in testa, e i sondaggi lo danno al 28 per cento nelle prossime elezioni. I modelli di comunicazione politica attuali, piaccia o meno, premiano chi adotta stili populisti. Per ora, in Italia, il tanto criticato populismo di Renzi si è dimostrato costruttivo ed è riuscito a tenere almeno in parte a bada il populismo distruttivo dei suoi competitori. Lo ha fatto nonostante le forti difficoltà che gli vengono dall'interno del suo partito. Forse i tifosi di Civati e di Landini non vogliono cogliere il latto che l'alternativa reale a Renzi non è certo alla sua sinistra, e può avere conseguenze inquietanti, anche sul piano della xenofobia. Immigrazione: Renzi alla Ue "sui migranti così non va" di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 8 giugno 2015 Il premier: demagogia da chi polemizza sull'accoglienza per qualche voto in più facendo male all'Italia Bocciata la proposta europea "largamente insufficiente". Sulla Grecia: indispensabile che faccia le riforme. Matteo Renzi è in Germania accanto alla Merkel e ad Hollande, dice che l'Europa non sta facendo la sua parte, che i "prossimi 20 giorni saranno decisivi" per verificare se davvero Bruxelles è in grado di definire una politica comune dell'immigrazione, ma nel frattempo in Italia a fare notizia è Roberto Maroni, che a sorpresa "diffida" i Comuni lombardi dall'accogliere altri migranti e addirittura minaccia di tagliare i trasferimenti regionali a quegli enti che non dovessero adeguarsi alle sue decisioni. L'iniziativa del governatore della Lombardia ovviamente ha un'eco anche al G7, Matteo Renzi vi dedica gran parte del suo incontro con i giornalisti. In sintesi, è la risposta del premier, quella di Maroni "demagogia che fa male all'Italia, demagogia che cerca di lucrare mezzo voto in più", e invece "mi piacerebbe che tutti riconoscessero che il problema dell'immigrazione è una sfida di tutto il Paese e tutti cercassero di aiutare a risolvere il problema". Renzi non è tenero con Maroni, ma nemmeno con l'Unione Europea. A pranzo ne ha discusso con i vertici della Ue, presenti al vertice, nel pomeriggio di fronte alle telecamere per la prima volta giudica del tutto insufficienti gli sforzi attuali della Commissione europea: "Le proposte che ha fatto sulla suddivisione dei migranti al momento sono largamente insufficienti. È un primo passo ma ancora non ci siamo. Sui migranti servono regole per non lasciare l'Italia da sola" e su questo "stiamo cercando di coinvolgere i nostri partner europei". Insomma l'Italia si prepara a giocare le sue carte in vista del Consiglio europeo di fine mese, Renzi cerca di rilanciare gli auspici di un accordo, sottolineando però che le bozze e le trattive attuali sono largamente "insufficienti, così come l'accoglienza di appena 24 mila persone fra siriani ed eritrei", ipotesi non convergente con gli interessi nazionali. Insomma se il piano europeo traballa, se a fine mese l'Europa potrebbe spaccarsi, intanto Roma rilancia, dicendosi largamente insoddisfatta delle proposte sul tavolo. Ovviamene la polemica interna non aiuta e Renzi lo dice chiaramente: basta con la "filosofia dello scaricabarile e giocare con la demagogia. Non basta fare comunicati stampa e slogan per risolvere il problema dell'immigrazione", anche perché "alcuni di quei governatori che si lamentano erano al governo quando è stata decisa la politica che ha condotto alle attuali regole, è difficile parlare di immigrazione e chiedere un coinvolgimento dell'Ue quando alcune Regioni del tuo Paese dicono che il problema non li riguarda". "L'Italia ha scelto - continua Renzi - e qualche governatore dovrebbe saperlo perché faceva il ministro, una strategia di politica sull'immigrazione che ha portato agli accordi di Dublino. Secondo me queste regole non ci aiutano ad affrontare il problema perché lasciano l'Italia da sola. Ma sono regole che qualcuno in passato ha voluto. Così come alcuni di quei governatori che oggi si lamentano sono stati membri di un governo che ha fatto tutte le scelte di politica estera come la scelta in Libia. La verità ha la memoria lunga e i fatti parlano da soli", ha detto il presidente del Consiglio. Poco prima Renzi aveva espresso anche il suo giudizio sulla situazione greca, augurandosi che si faccia di tutto per evitare l'uscita di Atene. "Però serve buon senso anche da parte del governo greco. È impensabile che gli italiani accettino il taglio delle baby pensioni e che gli europei le paghino ai greci". Immigrazione: il piano del Viminale "in 5mila trasferiti al Nord" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 8 giugno 2015 Lo scontro è durissimo, la scelta già fatta. Le quote di distribuzione dei migranti dovranno essere rispettate senza alcuna eccezione. E dunque la riunione convocata per questa mattina al Viminale servirà a mettere a punto il piano operativo delineato in queste ultime ore. Ci si muove su due fronti: il trasferimento dei profughi in quelle Regioni che non hanno raggiunto la massima capienza e - se dovessero mancare altri posti - la requisizione degli edifici pubblici, caserme comprese, dove ospitare gli stranieri. Ormai siamo su cifre record, con 52.671 approdati e oltre 80 mila da assistere. Per questo il ministro Angelino Alfano risponde chiaro all'attacco del governatore della Lombardia Roberto Maroni: "Vorrei tranquillizzarlo, farò ciò che fece lui al mio posto e chiederò ai sindaci ciò che ha chiesto lui il 30 marzo del 2011 in piena emergenza immigrazione. Lui ha oggi gli stessi poteri e gli stessi doveri che avevano i presidenti delle Regioni quando parlavano con l'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni". Regole e clandestini Il riferimento è all'accordo siglato da Maroni con gli enti locali "per affrontare l'emergenza profughi attraverso uno sforzo comune affinché fino a 50 mila profughi siano equamente distribuiti nel territorio nazionale, in ciascuna Regione escluso l'Abruzzo (che aveva subito il terremoto, ndr)". Non solo. L'intesa prevedeva che l'impegno del governo per "assicurare un criterio di equa e sostenibile attribuzione degli immigrati che risultassero clandestini, sentiti gli enti territoriali interessati". I testi dei due patti siglati da Maroni, resi noti ieri dal Viminale, dimostrano dunque come l'unico modo per affrontare i momenti di massima criticità sia quello di una collaborazione piena in modo da evitare che alcune Regioni vadano in sofferenza, proprio come sta accadendo negli ultimi mesi in Sicilia, in Puglia, in Calabria e in parte in Campania e nel Lazio. E invece, secondo gli ultimi conti, in Lombardia sono stati negati almeno 2 mila posti, altri 1.500 in Veneto. I trasferimenti Proprio per cercare di riequilibrare la situazione già domani potrebbe cominciare il trasferimento in pullman delle persone appena arrivate e sistemate nei centri del Sud Italia. Si tratta complessivamente di oltre 5 mila migranti salvati nelle ultime 48 ore da numerose navi italiane e straniere e portati tutti nel nostro Paese. Una sorta di accompagnamento coatto e poi toccherà ai prefetti fare la distribuzione sul territorio di propria competenza. Del resto la circolare partita dal Viminale la scorsa settimana chiedeva la messa a disposizione di 7.500 posti ed evidenziava in maniera esplicita l'obbligo per le Regioni del Nord di rispettare le quote previste. Dunque si procederà già nelle prossime ore. Al termine della riunione con il ministro, che oggi incontrerà anche il commissario per l'immigrazione dell'Unione Europea Dimitris Avramopoulos, toccherà al prefetto Mario Morcone mettere a punto i dettagli operativi. Dopo lo "sfollamento" delle strutture del Sud si esaminerà l'elenco degli edifici pubblici per decidere l'eventuale requisizione. I campi profughi L'attenzione rimane puntata sugli edifici e sulle caserme del Nord, anche tenendo conto che l'intesa con Comuni e Regioni prevedeva l'individuazione delle aree entro la fine del mese dove poter allestire i campi in vista di un'estate che certamente sarà segnata da migliaia di sbarchi. Veri e propri centri di raccolta dove ospitare fino a 400 persone che dovranno essere - come le altre strutture - equamente distribuiti in tutta Italia. Nella lista ci sono pure alcune caserme, anche se finora si è preferito evitare questo tipo di sistemazione. "Mi confronterò con i rappresentanti degli enti locali, Piero Fassino e Sergio Chiamparino, e certamente troveremo una soluzione", dichiara sicuro Alfano. Arabia Saudita: carcere e mille frustate, nessun perdono per il blogger Raif Badawi di Francesca Paci La Stampa, 8 giugno 2015 Pena confermata per il 31enne saudita Raif Badawi in carcere dal 2012 La sua colpa? Essere ateo e aver scritto a favore del liberalismo. Fino al 9 gennaio scorso pochi conoscevano il nome di Raif Badawi che pure tra il 2008 e il 2012 aveva affidato quotidianamente al sito Sau-di Free Liberals Forum le sue riflessioni di volteriano arabo. Poi, poche ore dopo aver denunciato l'attentato alla redazione di Charlie Hebdo definendolo "codardo", Riad decise di procedere contro il blogger arrestato 3 anni prima per apostasia e partirono le prime 50 delle 1000 frustate disposte dal tribunale religioso (oltre a 10 anni di prigione e una multa da un milione di riyal). Adesso, indifferente alla mobilitazione internazionale lanciata nel frattempo da Amnesty International, la Corte Suprema conferma la sentenza: Raif Badawi dovrà inginocchiarsi di nuovo in mezzo alla folla di fedeli urlanti "Allah uakbar" per ricevere la seconda razione della pena riservata ai bestemmiatori di Dio e così via, ogni santo venerdì dell'islam, per 19 settimane. "I versetti satanici" Ma cosa ha scritto questo 31enne che nel regno campione mondiale di condanne a morte paga più degli assassini? Ricostruirlo ora che il blog è stato chiuso significa navigare sul Web tra i messaggi degli arabi tentati dall'ateismo al punto da rimpallarsi le considerazioni dei più temerari tra loro. In uno degli ultimi articoli postati poche settimane prima di essere arrestato il 17 giugno 2012 Raif Badawi ragiona dell'ostilità avvertita tra i connazionali: "Il liberalismo per me significa semplicemente vivere e lascia vivere. Ma l'Arabia Saudita che rivendica l'esclusivo monopolio della verità è riuscita a discreditarlo agli occhi del popolo". Poi, ancora: "Nessuna religione ha mai avuto alcuna connessione con il progresso civile dell'umanità. Non è colpa della religione ma del fatto che tutte le religioni rappresentano una precisa particolare relazione spirituale tra l'individuo e il Creatore". In queste ore in cui la gente si prepara allo spettacolo dell'empio frustato in piazza come ai tempi del rogo di Giordano Bruno, suo padre si è presentato in tv non per difenderlo ma per annunciare di volerlo diseredare. I dissacratori A scorrere i pensieri e le parole di Raif Badawi, che cita l'Albert Camus di "il solo modo di relazionarsi a un mondo non libero è essere così assolutamente libe- ro di vivere la vita come ribellione", si scorge un mondo sconosciuto, quello degli scettici, dei contestatori, dei dissacratori musulmani, sparuti ma in crescita, descritti nel libro di Brian Whitaker "Arabs without God". Ecco un pezzo del 2010: "Appena un pensatore inizia a rivelare le sue idee arrivano centinaia di fatwa che lo accusano di essere un infedele solo perché ha avuto il coraggio di discutere i temi sacri. Temo che i pensatori arabi emigreranno in cerca di aria fresca per sfuggire alla spada delle autorità religiose". E un altro, in favore della separazione tra religione e politica ma senza accusare il governo e le autorità di Mecca (cosa che Badawi non ha mai fatto): "Il secolarismo rispetta tutti e non offende nessuno. Il secolarismo (...) è la soluzione pratica per far uscire i paesi, compreso il nostro, dal terzo al primo mondo". Impossibile non ricordare queste ultime parole leggendo i suoi messaggi dal carcere pubblicati in Germania nel volume "1000. Lashes: Because I Say What I Think". La famiglia in esilio La moglie Ensaf Haider e i tre figli sono da tempo in esilio in Canada e Badawi dalla cella che condivide con gli assassini e i criminali di cui, dice, nella vita normale si era protetto chiudendo ogni sera a chiave la porta di casa, scrive: "Un giorno nel bagno imbrattato all'inverosimile ho scorto questa frase, tra le mille scritte oscene in tutti i dialetti arabi, "il secolarismo è la soluzione". Ho gioito perché c'era almeno qualcuno in prigione capace di capirmi, qualcuno che potesse comprendere le ragioni per cui sono rinchiuso qui per la colpa di aver espresso la mia opinione". Vita pericolosa quella del blogger attivista del libero pensiero, combattente solitario e senza rete destinato a cadere soprattutto nei paesi in cui l'identità collettiva non è politica ma religiosa. Nel blog di Raif Badawi si trova tutto il tormento dei giovani liberali arabi contemporanei. Il Dio indiscutibile per cui sconta una pena disumana ma anche la questione palestinese ("Non sono in favore dell'occupazione israeliana di nessuna paese arabo ma allo stesso tempo non voglio che Israele sia sostituito da uno stato religioso. Gli stati che sono basati sulla religione relegano i propri sudditi nel recinto di fede paura"), gli attentati dell'11 settembre 2001 alla luce della proposta di costruire una moschea nei pressi delle ex Torri Gemelle "Quello che mi ferisce di più come abitante dell'area che esporta questi terroristi... è l'audacia dei musulmani di New York che raggiungono i limiti dell'insolenza e non considerano il dolore delle famiglie delle vittime". Il suo nome era sconosciuto al mondo fino a 5 mesi fa, adesso tutti sanno e lui torna a piegare la schiena sotto i colpi della frusta.