Lo Stato della pena di Michele Passione (Avvocato) Ristretti Orizzonti, 7 giugno 2015 Considerazioni a margine del convegno "Lo stato della pena", organizzato dalla Conferenza nazionale Volontariato Giustizia. Da vecchio lettore de Il Manifesto, ho aderito volentieri all'invito rivoltomi dagli organizzatori di questo convegno; com'è tipico del quotidiano romano, infatti, mi pare che la forza evocativa del titolo del nostro incontro consenta di riflettere senza infingimenti sulla Stato di cose esistenti, e sull'idea di sanzione che nel corso del tempo si è fatta strada nel nostro Paese. Prima di consegnare ai presenti queste poche riflessioni, debbo però doverosamente segnalare che le stesse non hanno alcuna pretesa di rappresentare un pensiero comune, avendo da qualche tempo dismesso il mio ruolo all'interno dell'Osservatorio Carcere Ucpi; mi piace tuttavia pensare che l'avvocatura militante, consapevole del ruolo sociale e politico che è chiamata a svolgere quotidianamente, possa in qualche modo ritrovarsi attorno a questa riflessione, che per forza di cose sarà comunque sintetica. Come ricordava Marcello Bortolato in occasione del Suo intervento al convegno romano dello scorso 7 maggio al Cnr (Carcere - Materiali per la riforma), è giusto domandarsi se sia "pensabile la riforma del nostro Ordinamento penitenziario al di fuori di una più vasta prospettiva riformatrice che, in primo luogo, riguardi il catalogo dei reati e quello delle pene"; l'interrogativo, all'evidenza un artificio retorico (che contiene già la risposta negativa sul punto), assume il suo significato profondo nel mentre celebriamo il quarantennale dell'Ordinamento penitenziario, con il concomitante avvio degli Stati Generali sul carcere, e mentre proprio in questi giorni vengono introdotti nuovi delitti, e si inaspriscono le pene per altre fattispecie di reato, ancora una volta sull'onda di una campagna mediatica sapientemente alimentata da una Politica imbelle. Avendo avuto l'onore di contribuire, con le mie poche risorse, al progetto coordinato dal Prof. Glauco Giostra, che ancora ringrazio per la fiducia, per la migliore formulazione della Legge di delega attualmente all'esame del Parlamento, mi esimerò in questa sede dal tracciare il quadro delle modifiche normative suggerite; del pari, mi parrebbe inutile ricordare i vari interventi che il Legislatore ha posto in essere in seguito alla sentenza Torreggiani della Corte Edu, che hanno certamente contribuito, e non poco, a ridurre la condizione di over-crowding penitenziario che ha portato alla condanna del nostro Paese per violazione di uno dei quattro core rights contenuti nella Convenzione. Sul punto, credo sia invece giusto ricordare quanto affermato dal Ministro Orlando, proprio in occasione del convegno romano sopra citato, e ribadito il 19 maggio scorso a Bollate, nella giornata di presentazione degli Stati Generali. Con la franchezza e l'onestà intellettuale che lo contraddistingue, e che ha connotato il suo quotidiano impegno dal momento dell'assunzione del Suo incarico, il Ministro ha ricordato come senza l'infamante condanna del Giudice alsaziano probabilmente sarebbe mancata l'occasione per riflettere sullo Stato della pena, e sulle soluzioni da adottare; per questo, oggi, e per i mesi che verranno, iniziative come queste possono servire a cercare, e trovare, un pensiero condiviso, che vada oltre l'intervento settoriale, recuperando lo spirito innovatore e sistemico che fu alla base della riforma del 1975. È infatti evidente che non basta una Legge per modificare il carcere, né l'idea di pena che sta dietro il concetto che lo sostiene, se non si riflette e lavora, tutti insieme, prima ancora, per mutare le condizioni che in quel luogo conducono, e favoriscono il passaggio dal welfare sociale al welfare penale; ed ancora, se non si compie, faticosamente, la destrutturazione dei luoghi comuni, favorendo una riflessione della Società (a partire dai ragazzi, ancora indenni da preconcetti, seppure insidiati da suggestioni) sul senso della pena, che poi è il tema del nostro incontro. Anche per questo, non mi pare inutile richiamare la circolare Dap del 26 maggio scorso, avente ad oggetto gli eventi critici; con essa, infatti, nel dare atto di "dati incoraggianti sul processo di cambiamento che sta interessando l'Amministrazione", si segnala "l'aumento di aggressioni al personale... fenomeno maggiormente presente laddove è in vigore un regime cosiddetto chiuso (ancora applicato nei confronti dei detenuti alta sicurezza)". Ciò che colpisce, e che davvero contrasta con quel "cambiamento" di cui si parla nel testo, è che la soluzione proposta (evocandosi all'uopo, ed impropriamente, l'istituto di cui all'art. 32 del regolamento di esecuzione) è "la cella dei cattivi"; così facendo, lungi dal comprendere che è proprio l'apertura e la responsabilizzazione dei detenuti (delle persone; non del reato che hanno commesso) che favorisce la composizione dei conflitti, al contempo abbassando il rischio di recidiva, si finisce col proporre surrettiziamente una risposta disciplinare, e quel che è peggio riproporre uno schema (azione/reazione) antitetico a quello che si dovrebbe proporre. Sul punto, davvero illuminanti si rivelano le considerazioni di Nils Christie, scomparso qualche giorno fa, che Patrizio Gonnella ricordava sul Manifesto dello scorso 30 maggio: "la maggior parte dei comportamenti che consideriamo criminali hanno a che vedere con dei conflitti, ma i conflitti possono essere mediati"; molto opportunamente, il giurista norvegese continuava affermando che "nella vita accade che sorga un conflitto, segno di un disagio, e che si entri in contrasto con le Istituzioni. A quel punto non dobbiamo essere interessati alla soluzione più facile, ossia alla vittoria dello Stato, che sconfigge il criminale. Rispondere a un disagio con la punizione significa legittimare un sistema di paure, a partire dalla paura di chi punisce". Ancora; come si ricava dalla lettura del recente romanzo di Maurizio Torchio, Cattivi, la repressione alimenta la violenza, ed i due comportamenti, da sempre, sono funzionali gli uni agli altri, siccome facce della stessa medaglia; una certa cultura penitenziaria, in cui si danno per scontate determinate dinamiche, si omette di fare ciò che si deve (e talvolta si fa esplodere conflitti tra Poteri dello Stato) o si fa ciò che si deve, passivamente, ma senza crederci, di fatto crea pratiche di esclusione, istituzionale e sociale, e favorisce il rischio di recidiva; così facendo, ognuno recita la sua parte in commedia, e nulla cambia davvero. Del resto, "la doverosa ed immediata risposta dell'Amministrazione" non solo "sul versante disciplinare e penale" (cfr. circolare Dap citata), ma, appunto, con la "creazione di sezioni ex art.32", non è la stessa che si realizza quando l'Amministrazione (non solo penitenziaria) mostra lacune, o zone d'ombra; esiste un carcere, a Bellizzi Irpino (visitato dall'Osservatorio Carcere l'11 luglio 2014), dove i detenuti al reparto ex transito, c.d. "protetti" (sex offenders, ex appartenenti alle forze dell'ordine, collaboratori) non possono incontrarsi neanche tra loro, e privi di socialità vanno all'aria passando da una cella all'altra, di cemento armato e ferro arrugginito. Come non pensare, ancora, all'infamante e recente pronuncia della Cedu nell'affaire Cestaro c. Italia? Come chiudere gli occhi sulla stigmatizzata assenza di inchiesta effettiva e celere, sull'assenza di sanzioni disciplinari adottate (§ 204, 205), sull'assoluta assenza di cooperazione della polizia (§ 216), sugli obblighi identificativi degli agenti (§217), sul silenzio del Governo sulle sanzioni disciplinari e la progressione in carriera dei coinvolti? La Corte afferma di dover "conservare la sua funzione di controllo ed intervenire nei casi dove esista una sproporzione manifesta tra la gravità dell'atto e la sanzione inflitta"(§207), ma oltre alla doverosa introduzione del reato di tortura (l'unico "costituzionalmente necessario", ex art. 13 comma IV Cost.), di cui censura l'assenza nel nostro Ordinamento, la Corte deplora le "contraddizioni logiche tra le tre categorie di argomenti" utilizzate dal Governo per respingere la richiesta avanzata dal ricorrente. Com'è noto, a contrasto di quanto indicato dal Sig. Cestaro, il Governo ha sostenuto (§ 201) che è in discussione avanzata il Ddl sul reato di tortura, che l'Ordinamento presenta comunque una batteria di norme già efficaci, e che in realtà il delitto di tortura esiste già (sic!), in virtù dell'efficacia diretta della Cat nel nostro Ordinamento (sebbene al § 197 si sia all'opposto sostenuto che non sia necessaria l'introduzione del delitto di nuovo conio). È lecito attendersi che lo Stato adempia, finalmente, ad un dovere morale e giuridico, introducendo il reato che attendiamo da trent'anni; è giusto ricordare che, salvo che nella XIII Legislatura, nessun Ddl governativo è mai stato presentato in argomento, né si è mai avuto lo Stato presente, quale parte civile, nelle poche vicende processuali venute alla luce. Viceversa, l'Avvocatura dello Stato non ha fatto mancare la sua voce, opponendosi alla richiesta riparazione per ingiusta detenzione, avanzata dal Sig. Gullotta, torturato e reo confesso. In tutti questi casi, nessuno è Stato. Poichè è stato efficacemente sostenuto che "si va in carcere perchè si è puniti, non per essere puniti", dobbiamo pensare ad una sanzione che tolga a chi la affronta, per un periodo limitato di tempo, in un ristretto numero di casi, il bene della libertà personale, e nulla di più; non la salute, intesa come benessere, e non solo come criterio nosograficamente apprezzabile, non la mutilazione sessuale, non la dignità. Non la vita, come accade con l'immonda pena perpetua (costituzionale in quanto "tende a non esistere"), che la Consulta mantiene in vita dal 1974, nel mentre gli ergastolani (quasi 1.600, per lo più ostativi) sono quadruplicati negli ultimi vent'anni; se "il fine della pena è la fine della pena", non solo la durata della stessa assume un diverso significato in ragione dell'età del condannato, ma il fine pena mai, com'è evidente, non ha ragione di esistere. Ascoltate i carcerati, non solo le statistiche di Errico Novi Il Garantista, 7 giugno 2015 La Conferenza nazionale Volontariato e giustizia scuote il Governo in vista degli stati generali: "ora pensate a come vive chi sta dentro". Messi a posto (o quasi) i numeri, bisogna occuparsi delle persone. È questo il messaggio che il volontariato rivolge al governo sulle carceri. Ed è anche il senso ultimo della due-giorni "Lo stato della pena", organizzata dalla Conferenza nazionale Volontariato e giustizia (Cnvg). L'appuntamento che si è svolto al Museo criminologico del Dap a Roma nelle giornate di ieri e di venerdì consegna ai vertici di via Arenula una benevola raccomandazione in vista degli Stati generali della pena. "L'urgenza posta sul discorso delle metrature nelle celle in seguito alla sentenza Torreggiani andrebbe riferita anche al tema più complessivo della qualità della carcerazione", è stato il passaggio cruciale dell'intervento di Elisabetta Laganà, presidente del Cnvg. "La stessa occasione degli Stati generali dell'esecuzione penale non deve essere perduta per ragionare solo sull'ordinamento penitenziario". Ad ascoltare l'appello c'erano due rappresentanti dì prim'ordine del ministero della Giustizia: il capo del Dap Santi Consolo, che è l'interlocutore principale del volontariato, e Mauro Palma, consigliere del guardasigilli Andrea Orlando. Sia Laganà che altri esponenti della Cnvg hanno riconosciuto appunto i passi avanti compiuti sul fronte del sovraffollamento. Ora però, dicono, è venuto il momento di occuparsi dì tutti gli altri aspetti della condizione in cui materialmente vivono i detenuti. E magari, come ha spiegato Laganà, non è detto che le questioni da risolvere siano sempre riconducibili ai nove punti della legge delega sulla riforma dell'ordinamento penitenziario. Ci sono altri fronti: "Sì è detto che doveva essere nominato il garante nazionale ma ancora non c'è. È stato detto che era importante approvare il reato di tortura, ma il reato è ancora lì. Si è detto che i bambini non devono più stare in carcere, ma di fatto i bambini sono ancora in carcere". Bimbi in carcere: il "piano" Manconi Vero è che, su quest'ultimo specifico punto, Orlando ha preso un impegno con il presidente della commissione Diritti umani del Parlamento, Luigi Manconi: a breve si terrà un evento per annunciare la messa in atto di una proposta avanzata dallo stesso senatore Pd, con l'apertura di Case famiglia in cui ospitare le madri detenute con figli fino a 3 anni di età. In tutta Italia ci sono una quarantina di casi del genere, risolverli tutti non dovrebbe risultare impossibile. Su altre questioni si dovrà dare corso all'impegno assunto proprio nella due giorni della Conferenza romana dal dottor Palma: la piena partecipazione dei detenuti ai 18 "tavoli" degli Stati generali. Dovrebbe essere proprio questo l'aspetto caratterizzante dell'iniziativa assunta da Orlando. Lo stesso ministro ha confermato già il mese scorso la presenza dei carcerati. Il confronto con la realtà "in carne e ossa" dei penitenziari, va ricordato, venne reclamata a gran voce dai curatori rivista Ristretti Orizzonti, e poi rilanciato dall'Osservatorio carcere dell'Unione Camere penali. A Orlando e Santi Consolo va riconosciuto di non essersi sottratti a quell'appello. Ora bisogna passare dalle parole ai fatti: "Chiediamo che gli Stati generali possano entrare di più nella realtà", dice Ornella Favero, che di Ristretti orizzonti è direttrice. Consolo: alleviare la sofferenza Accrescere la possibilità del lavoro in carcere, alleviare la sofferenza, migliorare l'offerta di assistenza psico-pedagogica ed educativa: sono obiettivi che lo stesso Santi Consolo ha fissato nel proprio intervento alla Conferenza: "In questo l'impegno del volontariato sarà come sempre fondamentale", ha detto il direttore del Dap, "ne abbiamo bisogno, come Amministrazione penitenziaria, per affrontare il difficile percorso verso un carcere più aperto". Poi Consolo ha citato i risultati, ottimi, raggiunti in alcuni istituti, quelli milanesi in particolare, dove un detenuto può restare fuori della cella fino a 11 ore: "Vogliamo che il carcere diventi non un luogo più ampio di parcheggio per ì detenuti", ha detto il capo del Dap, "ma che ci sia la possibilità effettiva dì variare le attività nell'arco della giornata, di renderle più interessanti e di attenuare la sofferenza, con beneficio del benessere per tutti. Dobbiamo tendere a questo, anche se abbiamo delle controspinte: c'è chi crea paure, insicurezze, chi sposa la filosofia del timore". Consolo conosce bene il volto del nemico, ossa il populismo forcaiolo, che pure Orlando ha da tempo messo a fuoco. Le associazioni riunite nella Conferenza Volontariato non hanno difficoltà a riconoscere l'attenzione dei vertici dì Via Arenula: "La riduzione della popolazione carceraria è un segnale positivo", ha detto per esempio il presidente onorario di Antigone Stefano Anastasia, "un risultato raggiunto soprattutto grazie all'attenzione con cui l'intero sistema ha preso in carico il problema del sovraffollamento. L'anno passato abbiamo avuto 50mila ingressi in carcere in un anno, mentre venivamo da esperienze di 95mila ingressi. Cosa ha prodotto questo mutamento? La diversa sensibilità degli operatori dei penitenziari e delle agenzie di controllo sociale sul territorio. Il messaggio della Torreggia ni ha investito tutti gli apparati dello Stato". Ora tocca stabilizzare questa straordinaria circostanza, aggiunge Anastasia, Il successo di questa decisiva occasione degli Stati generali dipenderà insomma dalla effettiva capacità di ascoltare i detenuti. Saranno presenti in ciascuno dei 18 "tavoli", assicura Mario Palma, il consigliere del ministro: "Abbiamo fatto una sorta di filiera fissa: ci deve essere una presenza di tipo accademico, una del Dap, quindi l'avvocatura, i magistrati e il volontariato che sarà presente in ogni tavolo in maniera strutturale". A costoro si aggiungeranno sempre i carcerati. "Gli Stati generali non avrebbero senso se non ascoltassimo anche loro", assicura Palma. Ecco: tutto starà ad ascoltare sul serio. Giustizia: quando il lavoro rende liberi generativita.it, 7 giugno 2015 Come afferma la nostra Carta costituzionale, la pena carceraria deve tendere alla riabilitazione della persona detenuta. I dati, purtroppo, ci raccontano una realtà ben diversa: oggi i tassi medi di recidiva nel nostro Paese si attestano attorno al 70%. È evidente che il periodo detentivo non riesce ad incidere sulle traiettorie di vita delle persone incarcerate finendo per imprigionarle doppiamente e producendo enormi costi umani, sociali e economici per l'intera collettività. Programmi in grado di invertire queste tragiche rotte - in questi casi le ricerche confermano un crollo della recidiva al 2-3% - però non mancano. Ne è un bell'esempio l'esperienza del Consorzio Giotto di Padova presente dal 1991 nella Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Qui circa 150 degli 800 detenuti sono impegnati in attività lavorative qualificate. Un programma da esportare e diffondere nell'intero sistema carcerario. Così sostiene convinto Thomas J. Dart, sceriffo della Contea di Cook, negli Stati Uniti. La cooperativa Giotto nasce su iniziativa di un gruppo di amici laureati in scienze agrarie e forestali che nel 1990 decidono di partecipare a una gara per il recupero delle aree verdi in carcere. Accanto alla proposta economica, il gruppo invita la direzione del carcere a evitare il classico appalto del servizio e a mettere al lavoro gli stessi detenuti, trasmettendo loro un mestiere. La sfida viene accettata e prende avvio un primo corso di giardinaggio che vede coinvolti 20 detenuti con i quali viene realizzato il "Parco didattico", una sorta di aula all'aperto dove il lavoro si impara facendo. La cosiddetta "Legge Smuraglia" del 2000, prevedendo agevolazioni fiscali per le imprese che assumono persone in stato di detenzione sia all'interno, sia all'esterno del carcere, apre la strada a nuove sperimentazioni. In alcuni spazi non utilizzati del carcere, Giotto dà avvio ad una prima produzione di manichini di carta pesta per l'alta moda. Da allora la presenza in carcere della cooperativa non fa che crescere. Oggi le attività proposte sono numerose e coinvolgono settori eterogenei. Anzitutto la pasticceria - il marchio "Officina Giotto" è famoso in Italia e all'estero soprattutto per la produzione di lievitati (i "Dolci di Giotto" hanno ricevuto alcuni tra i premi più prestigiosi del mondo dell'enogastronomia) - a cui hanno fatto seguito più recentemente la gelateria e la cioccolateria. Poi il call center. Nell'attraversarlo è difficile ricordarsi di essere in carcere: c'è chi prenota esami clinici presso l'ospedale di Padova; chi verifica i dati contrattuali delle forniture di Illumia. In un'altra area si montano biciclette. Ogni giorno da aziende dai marchi leggendari arrivano nuovi modelli che con grande perizia i detenuti-lavoratori assemblano. Poco più in là si completano le valigie di Roncato. Nella stanza accanto si producono business keys e si eseguono processi di digitalizzazione per numerosi committenti. Chi lavora è concentrato su quanto sta facendo: la guarnizione di una Sacher, la spiegazione paziente all'utente degli orari e delle condizioni per effettuare una visita cardiologica… La qualità, del resto, è tutto e l'alta formazione dei detenuti è parte fondamentale del programma. Qui si opera sul mercato, altro che terapia occupazionale. Niente perline da infilare ma lavoro "vero", professionalizzato, che riesce a stare sul mercato perché sono i risultati e la passione a convincere, come conferma Francesco Bernardi, uno degli imprenditori che ha scommesso sul lavoro di Giotto. Se è possibile che i primi imprenditori coinvolti nel progetto lo abbiano fatto per amicizia o generosità, oggi le commesse si fondano sull'affidabilità che la cooperativa ha saputo conquistarsi nel tempo, nella sua capacità di raggiungere gli obiettivi prefissati, nel garantire un'elevata qualità dei prodotti. Non si fanno sconti. Giustamente. Camminando nei capannoni e osservando i detenuti al lavoro si ha un senso di naturalezza: i gesti sono fluidi, precisi, le attività perfettamente rodate, le mani veloci ed esperte. Dietro, però, c'è un imponente lavoro di accompagnamento messo a punto dalla cooperativa in questi anni. Molte sono le persone incarcerate che chiedono di accedere al programma. Solo pochi vi riescono. Non tutti, infatti, sono pronti a sostenere un percorso lungo ed esigente, ma che può cambiare una vita. Come ci racconta Andrea Basso, presidente della cooperativa, spesso con i detenuti si parte da zero. Perché il lavoro "vero" molti non l'hanno mai conosciuto. Così ci sorprende Roberto, uno dei detenuti che hanno aderito a comparire nel video, quando ci racconta: "Il lavoro libera!". Il lavoro libera quello che di bello e buono ognuno si porta dentro e che magari non sa nemmeno di possedere, ma a certe condizioni: quando esso diventa spazio di ricerca, crescita ed espressione del proprio più vero sé. Quando, attraverso il lavoro, è possibile ri-conoscersi, cioè ritrovarsi. Quando attraverso il lavoro si ritrova un senso, una direzione. Lo spiega bene Nicola Boscoletto: "Qualcuno dice: "Con il lavoro sono rinato, sono una persona nuova!" È giusto perché tu non sei più quello di prima. In realtà, però, il lavoro ti fa essere quello che dovresti essere". Il lavoro libera il vero te stesso. Ciò avviene però laddove c'è un'antropologia che rimette al centro la persona e - come ricorda Sandra Boscarato - fa di tutto per "rendere visibile l'invisibile" e per rendere persona chi persona non si sente più da un pezzo. L'ascolto, il confronto, l'accompagnamento, la cura degli operatori di Giotto sono le condizioni-grembo per questa "rigenerazione". La cooperativa - nell'accompagnare i detenuti a non avere paura del futuro - come racconta il pasticcere-detenuto Pierin nel video - attraverso l'apprendimento di un lavoro di valore - consente alle persone di scoprirsi esse stesse "valore". Il lavoro produce dignità e la dignità è la condizione prima per ripartire, con rinnovata fiducia, come sottolinea Luciano Violante nel suo contributo che è anzitutto una testimonianza personale del valore generato da Giotto. Come ha ricordato Sandro Gozi, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri" nei saluti inviati al recente Convegno "Carcere e lavoro: un dialogo internazionale su un approccio innovativo di riabilitazione" , la validità dell'esperienza di Giotto - la sua generatività, potremmo dire - "non sta solo nel merito, vale a dire nella qualità dimostrata nell'attivare percorsi lavorativi per i detenuti, capaci di incidere in maniera profondamente positiva sul fronte del reinserimento sociale e del contrasto alla recidiva del reato" ma anche nell'essere tessitore di nuove relazioni tra persone, organizzazioni, imprese, comunità. Quella di Giotto è una bella testimonianza "di come il terzo settore possa risultare fondamentale in una società in cui Stato e attori privati non sempre riescono a conciliare esigenze differenti". Giustizia: "Ora siamo uguali". Di carcere, lavoro e dignità di Luciano Violante* generativita.it, 7 giugno 2015 Sono entrato per la prima volta nel carcere Due Palazzi di Padova nell'ottobre 2011. Mi hanno accolto con particolare cortesia il Direttore, Nicola Boscoletto, anima e cervello della Cooperativa Giotto, ed altri amici. Mi hanno spiegato la loro concezione del lavoro in carcere. Non lavoretti qualsiasi, niente scopini, niente servizi interni, d'infima qualità, subalterni alle peggiori abitudini carcerarie. Un lavoro invece che richiede professionalità, che dia dignità e che formi ad un'attività produttiva quando si uscirà dal carcere. La recidiva - mi assicurano - è minima per quelli che in carcere hanno fatto lavori seri e professionalizzanti; mentre purtroppo è preoccupante per tutti gli altri. Ho controllato dopo e le informazioni erano esatte. Entriamo nei laboratori. I detenuti hanno una tuta o un camice blu. Alcuni costruiscono biciclette da corsa di grande pregio. Altri, piccoli gioielli e cinturini da orologio. Silenzio, professionalità, cortesia, rigore mi sembrano i segni dominanti. Poi passiamo nel reparto dei dolci e dei panettoni. Tutti hanno un cappello bianco e una tuta bianca. Il clima qui mi sembra essere più disteso, meno preoccupato. Il profumo dei dolci appena sfornati è intenso. Mi spiegano come si fanno i panettoni. Mi dicono con orgoglio che hanno ordini da molte parti d'Italia e dall'estero. In effetti il panettone e i dolci sono buonissimi, come ho avuto modo di appurare personalmente qualche giorno dopo. Andiamo a colazione. Siamo a tavola insieme, visitatori, direttore, esponenti della Cooperativa Giotto, un gruppo di detenuti lavoratori. Hanno cucinato i detenuti. Si mangia insieme; si scherza sul tifo per le squadre di calcio. Dopo pranzo ci spostiamo tutti in una grande sala. Ci aspettano un centinaio di altri detenuti. Io dico le mie opinioni sul carcere (da giovane ho fatto volontariato nel carcere di Bari; poi ho fatto il magistrato); molti intervengono brevemente chiedendo in sostanza che queste esperienze lavorative possano espandersi quanto più è possibile per coinvolgere un numero sempre maggiore di detenuti. Si sentono in qualche modo privilegiati; vorrebbero che il lavoro fosse la norma non il privilegio. Mettono a confronto la giornata in cella, senza far nulla, per anni e questo lavoro di qualità. Gli interventi sono ordinati. Penso ai corridoi puliti, all'atteggiamento complessivo di tutti. Mi viene da pensare a un vecchio insegnamento dei tempi del mio volontariato: "Se non rispettiamo i diritti fondamentali dei detenuti, per quale motivo loro dovrebbero rispettare i nostri, quando escono?" Qui, grazie alla Giotto e a tutto il personale del carcere, i diritti sono rispettati. Naturalmente si tratta di piccole cifre rispetto all'universo penitenziario. Ma l'obiettivo non può essere liquidare queste esperienze perché investono solo una piccola percentuale di detenuti. L'obiettivo, al contrario, dev'essere quello di estendere queste possibilità al più alto numero di detenuti. Carcere e civiltà sembrano termini inconciliabili. Ma non è così. La modernità deve consistere nel renderli conciliabili. Un carcere civile accresce l'autorevolezza dello Stato e la sicurezza dei cittadini. E fa risparmiare, perché meno recidive vogliono dire meno arresti, meno processi, meno carcere. Rifletto mentre gli interventi si succedono. Sono vite che hanno incrociato altre vite: da quell'incrocio a volte è nato il male, che li ha portati qui dentro; a volte è nato il bene, incontrando la Giotto. Alla fine ci salutiamo, con affetto, come se fossimo amici da tempo. Forse lo siamo diventati. Mi si avvicina un uomo sui quarant'anni, in carcere le età sono indefinibili; ha il viso segnato da lunghe e profonde cicatrici. Sorride e mi parla con accento sardo, fortissimo. Si infila la mano nella tasca posteriore dei jeans e tira fuori un foglio piegato in quattro. Lo stende sul tavolo, me lo fa guardare e poi dice: "Vede io di qui forse non uscirò più. Ma questo è il mio 730. Io lavoro e pago le tasse. Questa è la mia dignità. Fuori non avevo dignità. La società non me la riconosceva. Qui lo Stato me l'ha data. E io sono grato allo Stato perché adesso sono un uomo come Lei e come gli altri che siete venuti. Ora, mi scusi, siamo uguali perché abbiamo tutti una dignità" *Docente e politico italiano. È stato presidente della Commissione parlamentare antimafia e della Camera dei deputati. È presidente dell'associazione "Italia decide". Giustizia: "Recipe for change". La ricetta del cambiamento di Thomas J. Dart* generativita.it, 7 giugno 2015 La questione del sistema carcerario è un argomento che trova oggi ampio consenso nell'intero arco politico. Dai più conservatori ai più liberali, tutti concordano sul fatto che quello statunitense è un sistema di sovra-carcerazione, che in carcere ci vanno le persone sbagliate e per periodi troppo lunghi, e che bisogna agire adesso. Abbiamo 2,3 milioni di persone recluse nelle nostre prigioni e nelle nostre carceri e altri 5 milioni in libertà condizionale o vigilata. Numeri di cui non solo dovremmo vergognarci ma che sono insostenibili dal lato umano oltre che fiscale. Nel mio istituto la detenzione di una persona costa 143 dollari al giorno. In altre strutture si arriva a un costo perfino maggiore. Tutto ciò non è sostenibile. Per questo si stanno ideando nuovi programmi, alcuni davvero innovativi. Nella mia contea abbiamo sperimentato percorsi diversi. In parte ci siamo concentrati sui malati mentali che si riversano nelle carceri e nelle prigioni di tutto il Paese. C'è stato un grande sforzo da parte di persone decisamente miopi nel far chiudere i centri di salute mentale, sia ospedali che cliniche, così oggi queste persone arrivano nelle carceri. La presenza in carcere di malati psichici e di tanti altri detenuti che in base al crimine commesso non dovrebbero essere lì sta suscitando però una crescente attenzione. I tempi stanno cambiando. A livello nazionale ormai predomina la convinzione che non si sta lavorando in modo corretto. Certo è che ci vorranno iniziative davvero innovative per convincere i cittadini comuni che è possibile avviare programmi sostenibili e che occorre lavorare con le persone per evitare che queste entrino nuovamente nel sistema o che ci ritornino. Noi abbiamo deciso di dare una formazione ai detenuti. Sicuramente uno dei programmi più innovativi che abbiamo introdotto nel carcere della Contea di Cook è Recipe for Change (la ricetta del cambiamento). È un programma davvero fantastico che prevede l'insegnamento di diverse competenze: diventare uno chef, imparare a cucinare, mangiare meglio… Esiste da circa un anno. Il suo fondatore e vera forza motrice è Bruno Abate. Recipe for Change non solo è innovativo, dà risultati. È un'esperienza comprovata e i suoi precedenti sono a Padova, presso Officina Giotto. Bruno Abate è stato a Padova credo tre volte e anche Nicola Boscoletto è venuto nella Contea di Cook. Bruno è rimasto così colpito dal programma di Padova! Io non l'ho mai visto personalmente, ma ho letto molto e ho visto un video del programma e posso capire perché è fonte di trasformazione. È un percorso fantastico. Abbiamo importato da noi il programma e quello che ho potuto osservare è sorprendente. Ho parlato con i detenuti coinvolti. Dire che trasforma le persone è dire poco! Parliamo di persone che non hanno nemmeno frequentato le scuole superiori e adesso parlano di nutrizione, della preparazione di cibi in un modo che io stesso non saprei mai fare! Ma - cosa ancora più importante - parlano di un futuro che prima non avevano! Ciò che prima non erano in grado di visualizzare, adesso è qualcosa che sentono e che tra breve, quando lasceranno il carcere, sarà la loro realtà. Il programma è fonte di grande ispirazione. Per noi è una straordinaria fonte di stimoli in un ambiente che di solito è molto cupo. Abbiamo constatato che man mano che procede il programma, il coinvolgimento dei detenuti che lavorano da un po' di tempo con Bruno, aumenta. Ora, in carcere, svolgono funzioni che non avevano mai assunto prima, ad esempio, preparare le portate. Oggi il nostro obiettivo è creare un menu sostenibile da utilizzare forse anche per le refezioni dei detenuti, ma soprattutto per sviluppare nuove opportunità portando all'esterno il cibo preparato in carcere. La nostra idea è sempre stata cercare di cambiare e umanizzare le persone detenute in carcere, e quale modo migliore, se non consentire loro di interagire con le persone che sono fuori? Inoltre questo programma prepara i detenuti a uscire dal carcere dato che una parte del percorso prevede di trovare loro uno stage o un impiego dopo la scarcerazione. Lo stesso Bruno ha assunto alcune persone, ed è stato fenomenale da parte sua, ma non è sostenibile in futuro e non possiamo chiedergli di continuare a farlo. Noi speriamo - ed è questo il nostro obiettivo - di poter offrire persone già formate al mercato della ristorazione. Ho già incontrato imprenditori del settore e sembrano molto, molto interessati, perché la formazione in carcere è più elevata di quella delle persone che solitamente si rivolgono a loro per cercare lavoro. Non posso ringraziare abbastanza le persone di Officina Giotto, Nicola, Bruno! È stato fenomenale! Ora l'unica preoccupazione che abbiamo è replicare il programma su una scala più ampia. Vogliamo che coinvolga sempre più persone. Noi speriamo che diventi un modello per l'intero sistema giudiziario del Paese. (Il testo è un estratto dell'intervento fatto da Thomas J. Dart al convegno «Carcere e lavoro: un dialogo internazionale su un approccio innovativo di riabilitazione» tenutosi a Roma, presso il carcere Regina Coeli, mercoledì 20 maggio 2015) *Sceriffo della Contea di Cook, sovrintende una popolazione di oltre 12.000 persone incarcerate o impiegate in programmi alternativi di riabilitazione. In questi anni si è distinto per il suo impegno nell'introduzione di programmi innovativi a favore dei numerosi reclusi con problemi di salute mentale (sono circa 2.500/3.000 le persone coinvolte) e nello sviluppo di attività formative all'interno del carcere. Giustizia: un lavoro ben fatto di Francesco Bernardi* generativita.it, 7 giugno 2015 Mi capitò tre anni fa di ascoltare a una conferenza l'intervento di un detenuto del carcere di Padova che parlava del suo lavoro al call center che la cooperativa Giotto aveva aperto in quel luogo. Rimasi allora colpito dalla posizione umana di quell'uomo: ciò che per altri operatori era motivo di frustrazione diventava per lui una ragione di riscatto sociale, di utilità e di dignità. Allora non avevo in mente alcuna collaborazione, ma la curiosità che questa esperienza mi aveva suscitato fu una ragione sufficiente per chiedere informazioni sulla Giotto e sul lavoro che stava facendo con i detenuti. Il mio interesse era duplice, volevo sapere cosa aveva reso possibile quello sguardo sul lavoro e poi verificare se con Giotto e i suoi collaboratori era possibile risolvere un problema della mia società. Illumia - questo è il suo nome - vendendo energia elettrica e gas, opera come tante altre aziende nel settore del mass market, ricorrendo molto spesso a dei call center per le attività di controllo delle vendite, per fidelizzare i clienti e, talvolta, per attività di teleselling. Normalmente l'utilizzo di call center italiani o esteri è un'attività molto impegnativa, poiché la qualità dei servizi resi è molto discutibile, il prezzo del servizio è alto e il rapporto fra i costi e i benefici è molto spesso negativo. Le ragioni di questo fatto sono essenzialmente due: a) il lavoro è assai ripetitivo e gli interlocutori sono quasi sempre maldisposti; b) esso è normalmente svolto da personale laureato, che considera un ripiego declassificante l'attività al call center. Andai quindi a Padova ad incontrare i responsabili della Giotto e poi anche i detenuti che erano coinvolti nei diversi appalti che la cooperativa aveva ottenuto. Nacquero così le prime commesse affidate alla Giotto. Queste avevano per oggetto lo svolgimento di una serie di telefonate ai nuovi clienti con lo scopo di verificare se gli agenti commerciali avevano seguito il protocollo di vendita concordato o avevano effettuato vendite "più aggressive", come talvolta accade. Quando proposi ai miei dipendenti di recarsi in carcere per formare gli operatori di questo nuovo call center e di affidare loro compiti di controllo per evitare truffe, trovai una grande resistenza. L'obiezione più grande era relativa alla stravaganza di usare delle persone che avevano violato la legge, anche in modo grave, proprio per "moralizzare" la nostra attività commerciale. Ricordo bene che nel viaggio da Bologna, dove abbiamo la sede principale della società, a Padova solo il mio grado gerarchico imponeva un certo rispetto per l'idea. Tutto cambiò dopo l'incontro con i detenuti-lavoratori. La prima cosa che colpì i miei e confermò me nella impressione iniziale fu la stima che queste persone avevano per il lavoro ben fatto. Erano così attaccati a quel valore che la loro determinazione e la loro aspettativa contaminò noi tutti, ponendoci da subito l'interrogativo sul come e sul perché non avevamo anche noi così evidente questa posizione umana. La ferita, forse insanabile, che molti di loro si portano era diventata esigenza di rinascita e questa si traduceva nella determinazione a svolgere, ad esempio, le telefonate del call center in un modo che trasformava il tempo della conversazione in opportunità, rendendo così un servizio utile alla vita di tutte e due le persone che dialogavano al telefono. È nata successivamente una collaborazione che coinvolge oggi una trentina di detenuti che sono diventati a tutti gli effetti parte integrante del nostro personale. Esiste uno scambio quotidiano di messaggi, telefonate e email fra la sede di Bologna e "quella" di Padova che regolano lo svolgimento di una gamma di servizi che ora riguardano anche le attività di customer care e che nel prossimo futuro potrebbe estendersi alla parte commerciale attiva. Sono stato a trovarli qualche giorno fa e il responsabile del call center, che con me è sempre molto generoso di complimenti, mi ricordava quanto avevo scritto a pag. 111 di un mio vecchio libro. Avevo bene a mente quelle parole, ma non le ascoltavo da molto tempo. Una cosa semplice la sua citazione, ma precisa, frutto del desiderio, del bisogno profondo, di prendere tutto sul serio. D'un tratto ho avuto negli occhi l'infanzia dei miei nipoti e la capacità che hanno i bambini di sapersi concentrare su un particolare traendone tutta la bellezza del mondo. È questa leggerezza che pervade l'animo mio e dei miei quando il clangore delle porte di ferro che si chiudono alle nostre spalle ci dice dove siamo arrivati. Ed è di nuovo il portone blindato all'uscita il segnale che questa storia, fatta di rapporti essenziali per la vita che nel lavoro hanno trovato un punto esplicito di consistenza, deve continuare intensificando e estendendo la collaborazione a ulteriori settori professionali e non solo. *Presidente di Illumia S.p.A. nata a Bologna nel 2006 come Dse srl, con 200.000 clienti serviti su tutto il territorio nazionale, tra famiglie, enti pubblici, professionisti, condomini, Illumia raggiunge nel 2013 un fatturato di 500 milioni di euro che arriva a 570 milioni nel 2014. Giustizia: Stato e criminalità questioni nazionali (non locali) di Sabino Cassese Corriere della Sera, 7 giugno 2015 La questione romana, riesplosa nei giorni scorsi, è solo la spia di una malattia più grave: il vuoto politico amministrativo della gestione capitolina (quella in carica ormai da un biennio e quella precedente) e la debolezza delle classi dirigenti locali. I sintomi sono la città in stato di abbandono, l'incuria per ogni servizio essenziale (a partire dalla manutenzione delle strade, delle piazze, del verde pubblico), l'incapacità gestionale, l'assenza di rispetto per l'interesse collettivo, l'abuso delle risorse pubbliche, la carenza di guida e di controlli, cui conseguono disamore dei cittadini per Roma e scoraggiamento delle persone serie ed oneste che lavorano nelle amministrazioni locali. Ma non basta sciogliere questa amministrazione e tornare alle urne, perché la questione riguarda l'intera nazione. I segnali di corruzione che stanno emergendo mostrano la straordinaria galassia che sta alla base del malaffare (enti pubblici di vario genere, società, consorzi, fondazioni, municipi, cooperative, appaltatori di pubblici servizi), le reti sulle quali lo sfruttamento privato di risorse pubbliche corre (dominate dalla indistinzione tra amministrazione e politica locale, clan privati e funzionari pubblici), il coinvolgimento delle burocrazie nella corruzione. Questo accade per scarsa capacità di leadership politico-gestionale e assenza di una solida amministrazione capitolina: secondo molti osservatori, è una finzione giuridica che a Roma vi siano un Comune e un sindaco, tanto grande è l'incuria per gli interessi della collettività romana. Ora le indagini della Procura faranno il loro corso. Ma non ci si può illudere che esse possano risolvere il problema che sta alla base della questione, le cui cause risalgono alla pochezza delle amministrazioni, allo strapotere del consiglio comunale e alle sue troppe interferenze con la gestione amministrativa e con l'uso delle risorse finanziarie, ai grandi e piccoli abusi (questi ultimi peggiori dei primi, perché penetrano nella società, abituano anche i cittadini a corrompere il vigile urbano perché non multi le auto in sosta abusiva dinanzi a un negozio), a politici-affaristi, a burocrati scelti per l'appartenenza o la fedeltà politica e non per il loro merito, a mediatori e mestieranti, al sottobosco della cosiddetta politica locale, alla criminalità. Questo sistema corrotto richiede un'opera risanatrice più grande, richiede che lo Stato si accolli temporaneamente questo compito e ridia alla nazione una capitale non infetta. La questione romana è questione nazionale, come ha ben capito il partito di maggioranza quando ha nominato il suo presidente commissario straordinario della federazione di Roma. Ora si completi l'opera. La nazione dia un segno della sua presenza. Lo Stato assuma il compito temporaneo di ridare a Roma una amministrazione. Gli strumenti non mancano. Si può commissariare il Comune. Oppure approvare una legge speciale, temporanea, che dia un nuovo assetto a Roma, per la durata della cura. Nell'amministrazione dello Stato, nel ministero dell'Interno e in quello dell'Economia e della finanza, e persino nelle strutture capitoline, non mancano le persone adatte a liquidare superfetazioni amministrative, a ridare una struttura, a ridisegnare procedure, in modo che Roma diventi una capitale di cui l'Italia non si debba vergognare. Annamaria Cancellieri ha scritto nel suo libro di memorie che, nominata commissario del Comune di Bologna, si dedicò subito a due compiti: ascoltare gli amministrati, e curare l'amministrazione, girando persino nelle strade e segnalando le buche. I romani e i tanti italiani e stranieri che visitano Roma sanno che di questo c'è bisogno nella Capitale. Giustizia: il procuratore capo Pignatone ce l'ha fatta, terremoto politico a Roma di Errico Novi Il Garantista, 7 giugno 2015 Un merito andrà di sicuro riconosciuto al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e ai suoi sostituti: quello di aver scoperchiato il vaso di pandora dei partiti, non solo riguardo agli affari miseri delle loro pattuglie locali, ma soprattutto rispetto all'incapacità di vertici nazionali di esercitare un controllo sulle questioni cittadine. Ecco, l'inchiesta Mafia Capitale avrà senza dubbio il limite di un'ipotesi ancora fragile sulla natura mafiosa dei reati, ma certo illumina un teatrino squallido e triste che dovrebbe costringere la politica propriamente intesa a una reazione di dignità. Intanto a dire il vero la risposta è più che altro isterica, e si traduce in un flipper di querele. Soprattutto da parte di Fratelli d'Italia. La leader Giorgia Meloni cita sindaco di Roma Ignazio Marino, stessa cosa fa il primo cittadino Gianni Alemanno. Il quale però si allarga parecchio e chiama in Tribunale anche "Francesco Merlo per un articolo pubblicato su Repubblica e Pietrangelo Buttafuoco", autore quest'ultimo di un pezzo uscito sul Fatto quotidiano, sempre nella giornata di ieri. D'altronde la smania della guerriglia giudiziaria non eccita solo la destra: anche il Movimento 5 stelle cede alla tentazione e, per il tramite del solito Luigi Di Maio, sporge querela nei confronti di Matteo Orfini. Seguono reazioni risentite e orgogliose di molte prime linee renziane. Ecco, il panorama offre soprattutto questo groviglio di inquietudine e isteria, che certo non basta a mettere in ombra gli ulteriori sviluppi di ieri: altri 21 indagati, disseminati in modo piuttosto bipartisan tra politici e coop di centrodestra e centrosinistra. A questi si aggiungono da una parte l'avviso di garanzia per un sotto segretario dell'Ncd, Giuseppe Castiglione, indagato però non a Roma ma dalla Procura di Catania "per la gestione del Cara di Mineo" (faccenda rotolata anche tra le carte di Mafia Capitale); dall'altra la sfilata degli arrestati di ieri. I quali, dall'ex assessore alla Casa Daniele Ozzimo all'ex presidente del Consiglio comunale Mirko Coratti, assicurano tutti la assoluta correttezza delle proprie condotte. Oggi sarà la volta di una altra serie di interrogatori: se quelli di ieri hanno riguardato gli indagati reclusi a Regina Coeli, stavolta il gip Flavia Costantini si sposterà a Rebibbia. Lo spettacolo offerto dalla politica romana, a poco meno di tre anni dall'inchiesta su Franco Batmam Fiorito e soci, è in effetti desolante. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non esita a chiedere che "il contrasto all'illegalità e alla corruzione" sia "severo". Ricorda l'urgenza di recuperare "il bene comune, che si fonda su legalità e trasparenza". Don Ciotti denuncia, l'aspetto in effetti più indecoroso del malaffare emerso a Roma e dintorni, ovvero il fatto che "non si può giocare sulla pelle delle persone più deboli e fragili", cioè degli immigrati, sulla cui accoglienza ruotano molte delle speculazioni emerse nell'inchiesta. Ed è indiscutibile che la meccanica emersa dal lavoro del procuratore aggiunto Michele Prestipi-no e dei pm Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli scoperchi una cupola affaristica del privato sociale. Con la 29 Giugno di Salvatore Buzzi impegnatissima a concordare turbative d'asta insieme con le coop concorrenti, bianche o rosse che fossero. Caso emblematico è quello degli accordi con il costruttore Daniele Pulcini (raggiunto da suo padre Antonio tra i nomi coinvolti nell'indagine), che prima veniva indotto ad "accordi di desistenza", come li chiamano gli inquirenti, e poi avrebbe chiuso intese con lo stesso Buzzi per il "sub-affidamento di servizi in cambio della sua non partecipazione". E tra i 21 nuovi indagati di ieri vi sono responsabili di altre cooperative, come Maurizio Marotta, presidente della "Capodarco". O Gabriella Errico, al vertice della coop sociale "Un sorriso", coinvolta alcuni mesi fa nelle tensioni a Tor Sapienza, con i residenti in armi contro gli immigrati del centro accoglienza. Emerge insomma come non si muovesse foglia che Buzzi e Carminati non volessero, in quel redditizio settore delle politiche per migranti e diseredati. Con la politica propriamente detta ben contenta di incassare stecche e mazzette varie per offrire in cambio un mero nulla osta a quei traffici. Tutto molto bipartisan nel coinvolgimento di politici e funzionari, stessa logica vige anche rispetto alle "simpatie politiche" delle società messe nel mirino dai pm. C'è la Cooperativa edilizia Deposito locomotive Roma- San Lorenzo, di quelle abitualmente definite rosse, ma c'è anche La Cascina, che è nell'orbita di Comunione e liberazione. Proprio un comunicato di quest'ultima società, però, ripropone il dubbio di fondo che lo spettacolo pirotecnico di Mafia Capitale 2 ancora non riesce a superare: "La cooperativa La Cascina ritiene di dover evidenziare che i provvedimenti che hanno interessato alcuni propri dirigenti non riguardano in alcun modo reati di mafia", si legge nella nota diffusa dal presidente del Consiglio di amministrazione, Giorgio Federici. Da una parte resta dunque dubbio il carattere intimidatorio, cioè propriamente mafioso, del sistema criminale messo in piedi da Buzzi e Carminati. Dall'altra però è indiscutibile che il pachiderma dell'amministrazione capitolina ne esce a pezzi. A prescindere dal fatto che, come sostiene per esempio l'assessore ai Lavori pubblici della giunta Marino Maurizio Pucci, sarebbe stato "chi ci ha preceduto", cioè Alemanno, a creare "questo danno". Gli schieramenti politici si rinfacciano le responsabilità, ma è difficile trovare qualcuno che si salvi. Sì, i Cinque Stelle non sono neppure sfiorati dalle carte degli inquirenti. E questo in effetti determina la vera ricaduta politica di Mafia Capitale: il rischio cioè che uno scioglimento della giunta Marino porti a un trionfo dei grillini. Il tutti a casa peraltro non è un'ipotesi da fantascienza, tutt'altro. Il prefetto di Roma Franco Gabrielli lo fa capire con molta chiarezza: "Aspetterò che la commissione d'accesso si prenda tutto il tempo previsto, e continui il proprio lavoro fino al 15 giugno". Dopodiché toccherà a lui decidere. E al Consiglio dei ministri, eventualmente, dire l'ultima parola. Più che la natura mafiosa dell'organizzazione, è l'esito di questa complessa partita a poter innescare l'ultima, violentissima scossa di terremoto sulla Capitale assediata dagli imbroglioni. Giustizia: Bruti Liberati "graziato" dai colleghi di Brescia di Rita Bernardini (Segretario di Radicali Italiani) Il Garantista, 7 giugno 2015 "Bruti Liberati agì per motivi politici, ma non va processato". Archiviate le accuse per il capo dei pm milanesi: disinnescò l'esposto radicale sulle firme pro Formigoni. La vicenda è complessa e occorrerebbe che la maggior parte degli italiani la conoscesse per bene, per trarne le dovute conclusioni. Ma questo è impossibile in un Paese in cui il "diritto alla conoscenza" dei cittadini viene sistematicamente immolato sull'alare della "ragion di Stato" o "di Partito". Francamente interessa poco, a questo punto, che il Procuratore Capo di Brescia, dott. Tommaso Buonanno, abbia chiesto l'archiviazione nei confronti del Procuratore Capo di Milano, dott. Edmondo Bruti Liberati, e che il Gip di Brescia Elena Stefana, nonostante l'opposizione presentata dall'avvocato Giuseppe Rossodivita per conto di Marco Pan-nella e di Marco Cappato, abbia archiviato il caso in meno di 10 giorni senza fissare neppure un'udienza. L'essere culo e camicia dei pm con i giudici la chiamano "cultura della giurisdizione", ed è proprio in nome di questa comunanza - non dimentichiamolo - il motivo formale per cui la magistratura si oppone alla separazione delle carriere. Interessa poco l'esito processuale di questa vicenda: interessa molto di più, invece, il fatto storico, il ruolo svolto dai protagonisti, la qualità della politica italiana e della magistratura italiana - quella, appunto, fatta indistintamente da 9.000 magistrati accomunati dalla cultura della giurisdizione - ed in ultimo la qualità della democrazia italiana che si staglia sempre di più, per chi ha occhi per vedere e sufficiente intraprendenza per andare a cercare le fonti di informazione non asservite ai poteri, come una "non democrazia". La vicenda è quella di Firmigoni. Dalla ricostruzione dei colloqui e della corrispondenza intercorsa tra il Procuratore ed il Procuratore Aggiunto emerge una forte preoccupazione del primo in ordine alle ricadute che una eventuale iscrizione nel registro degli indagati di Guido Podestà, Presidente della Provincia (di Milano, ndr) nonché responsabile del Pdl lombardo, avrebbe avuto su tale partito politico. L'assunto trova peraltro conferma nel comportamento tenuto successivamente dal dott. Bruti Liberti, che contestava all'Aggiunto (Robledo, ndr) di non averlo informato per tempo dell'avvenuta iscrizione nonché delle successive attività di indagine. Orbene, pur apparendo talune remore del Procuratore caratterizzate da valutazioni di natura squisitamente politica, non si rinvengono, nelle pieghe della presente indagine, elementi per affermare la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di abuso di ufficio in capo all'indagato". Con queste motivazioni, l'8 maggio scorso il Procuratore di Brescia Tommaso Buonanno ed il Sostituto Lara Ghirardi hanno chiesto l'archiviazione, accolta questa settimana dal Gip Elena Stefana, del procedimento aperto, fra l'altro, a seguito di alcune denunce presentate dai radicali nella primavera del 2010. La vicenda riguardava la falsità di circa un migliaio di firme presentate a sostegno delle liste del Pdl in Lombardia in occasione delle Regionali. Per quel fatto è stato condannato il 28 novembre 2014 a due anni e nove mesi l'allora presidente della Provincia di Milano Podestà. Il giudice, nelle motivazioni, scrisse che le irregolarità commesse furono talmente gravi che "le intere elezioni avrebbero potuto essere annullate". Dopo cinque anni, con una archiviazione direttamente nella fase delle indagini preliminari, cala dunque il sipario su una pagina non proprio edificante per l'immagine della magistratura italiana, cioè lo scontro trascinatosi per mesi fra il Procuratore Bruti Liberati ed il suo Aggiunto Robledo. Fra gli innumerevoli motivi di conflitto c'era, appunto, anche la gestione dell'indagine sulle "firme false". Gli esiti della querelle sono noti: disfatta di Robledo, trasferito in via cautelare al Tribunale di Torino con perdita delle funzioni semi-direttive e trionfo di Bruti Liberati che, grazie ad un decreto legge ad hoc con cui Renzi si appresta a rottama-re la legge del suo ministro Madia, potrà restare a capo della Procura milanese per altri due anni, in deroga al limite dei 70 anni. Il Procuratore di Brescia Buonanno che, solo per la cronaca, il 9 aprile scorso aveva tenuto una conferenza stampa congiunta a Milano subito dopo la strage al Palazzo di Giustizia con il suo indagato e collega Bruti Liberati, nella richiesta di archiviazione ha definito il comportamento tenuto da quest'ultimo nell'indagine sulle firme false "caratterizzato da valutazioni di natura politica". Confermando, nei fatti, un sospetto che hanno in molti, cioè che l'azione penale in Italia è obbligatoria sulla carta ma discrezionale nei fatti. Legata a sensibilità personali, opportunità politica, congiunture astrali. Infatti, come riporta Buonanno nella richiesta di archiviazione, allorquando Bruti Liberati chiese a Robledo, che voleva iscrivere Podestà avendo riscontrato elementi di colpevolezza a suo carico, "poi non l'hai più fatta quell'iscrizione, vero?", avendo ricevuto risposta contraria, replicò con disappunto: "Allora non ci siamo capiti". Tanto che Robledo rispose di non sentirsi vincolato nelle proprie determinazioni dalle pressioni del Procuratore bensì solo dal proprio convincimento personale e dalla legge. Riteniamo volendosi riferire all'articolo 335 del codice di procedura penale: "Il pubblico ministero iscrive immediatamente ogni notizia di reato che gli perviene... e contestualmente o dal momento in cui risulta, il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito". Comunque, ormai giustizia è fatta. Come scrive il Gip di Brescia nel decreto di archiviazione per Bruti Liberati, riprendendo la richiesta della Procura, manca il dolo intenzionale richiesto affinché si configuri il reato di abuso d'ufficio. In quanto "è incongruo sostenere che il con il suo comportamento Bruti Liberati abbia voluto sostenere i candidati del Pdl, non risultando rapporti personali fra lui e i supposti beneficiari delle sue decisioni". Per Bruti rimane in piedi, a questo punto, solo il disciplinare aperto al Csm. Ma a Palazzo dei Marescialli sembra che di questa pratica si siano perse le tracce. Giustizia: ecco le 7 prove del mobbing decise dalla Cassazione di Giovanna Cavalli Corriere della Sera, 7 giugno 2015 Per ottenere il risarcimento stabiliti i parametri: tutti i requisiti devono essere provati. Si tratta di «azioni ostili», premeditate e persecutorie. Assodato che un capo insopportabile o malmostoso a giorni alterni e dei colleghi tenacemente molesti sei su sette (senza una corrispettiva voce a parte in busta paga) sono afflizioni comuni alla gran parte dei lavoratori, non tutte le angherie patite in ufficio da parte di superiori o di pari grado possono qualificarsi come mobbing. E garantire il diritto al risarcimento. Per disincentivare azioni legali avventate di mobbizzati immaginari e offrire ai giudici di merito un prontuario garantito, in mancanza di una normativa specifica, la Corte di cassazione, con sentenza n. 10037/2015 ha individuato delle linee guida per riconoscere il vero mobbing. Sette parametri con cui la vittima deve provare di essere stata danneggiata sul lavoro: ambiente, durata, frequenza, tipo di azioni ostili, dislivello tra antagonisti, andamento per fasi successive, intento persecutorio. Perché si configuri il mobbing devono ricorrere tutti e sette, non uno di meno. Le vessazioni devono dunque avvenire sul luogo di lavoro (1). I contrasti, le mortificazioni o quant'altro devono durare per un congruo periodo di tempo (2) ed essere non episodiche ma reiterate e molteplici (3). Deve trattarsi di più azioni ostili, almeno due di queste (4): attacchi alla possibilità di comunicare, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni lavorative, attacchi alla reputazione, violenze o minacce. Occorre il dislivello tra gli antagonisti, con l'inferiorità manifesta del ricorrente (5). La vicenda deve procedere per fasi successive come: conflitto mirato, inizio del mobbing , sintomi psicosomatici, errori e abusi, aggravamento della salute, esclusione dal mondo del lavoro (6). Oltre a tutto quanto elencato, bisogna che vi sia l'intento persecutorio (7), ovvero un disegno premeditato per tormentare il dipendente. Nel caso per cui si è arrivati in Cassazione, che riguardava un impiegato pubblico, i sette elementi chiave c'erano tutti. Il ricorrente era stato demansionato, emarginato, spostato da un ufficio all'altro senza motivo, umiliato nel ritrovarsi come capo quello che prima era il suo sottoposto, assegnato a un ufficio aperto al pubblico ma privato della possibilità di lavorare. Già nel merito, dopo perizie e testimonianze, era stata riconosciuta l'esistenza del mobbing (verticale, ossia messo in pratica dal superiore, quello orizzontale è tra colleghi), confermato poi anche nel giudizio di legittimità. Sette requisiti non sono pochi, considerato che l'onere della prova sta in capo al lavoratore. Anche il ragionier Ugo Fantozzi, prototipo di tutti i mobbizzati d'Italia, avrebbe faticato a farsi risarcire dal professor Guidobaldo Maria Riccardelli che lo costringe a vedere le 18 bobine della Corazzata Potëmkin in ginocchio sui ceci mentre in tv c'è la partita della Nazionale. Nella vita reale va appena meglio. Pochi mesi fa una dirigente del Comune de l'Aquila ha vinto la causa contro l'amministrazione. Fu sospesa per aver arrecato "disdoro" all'ente: non aveva portato le bottigliette d'acqua ai consiglieri durante una seduta estiva. Lettere: compio novant'anni e sono una delinquente di Laura Arconti (Direzione di Radicali italiani) Il Garantista, 7 giugno 2015 Domenica sette giugno compio 90 anni; era domenica anche quel sette giugno del 1925, quando sono nata. Non mi sembra possibile, non riesco a convincermene... Ma, se guardo indietro, vedo tanti avvenimenti e tante persone: dunque dev'essere vero che ho vissuto per 90 volte trecentosessantacinque giorni, più i 22 degli anni bisestili. Trenta duemila ottocento settanta due giorni. Sono sempre stata una cittadina tranquilla, ligia alle leggi, rispettosa dei regolamenti, sincera e puntuale contribuente fiscale, con tutto il dignitoso corollario dei soprusi inflittimi dalla patria burocrazia e con tutta la dovuta indignazione per i comportamenti scorretti di molti concittadini. Di conseguenza sono stata additata ad esempio da alcuni, ed irrisa da altri, il che è ovvio, comprensibile ed abituale. A questa tarda età sono diventata "delinquente", violando l'articolo 73 della Legge Iervolino Vassalli, modificata dal referendum radicale del 1993, ed infine ulteriormente modificata dalla legge Fini Giovanardi, che una sentenza della Suprema Corte ha poi definito incostituzionale. L'art. 73 punisce come reato penale la produzione e il traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope. Tanto per capirci: se una persona compra dallo spacciatore sul libero mercato di strada una o più dosi di cannabis per uso personale, non è perseguito penalmente ma subisce solo sanzioni di tipo amministrativo. Se invece coltiva sul balcone di casa la cannabis che gli occorre per uso personale, è responsabile di un reato che è punito a norma di codice penale. Una persona di buon senso probabilmente si meraviglia di questa strana dicotomia legislativa, ma c'è di peggio: è penalmente perseguita la coltivazione di cannabis, mentre i semi utilizzabili per la coltivazione si vendono liberamente anche online. Ho commesso un reato sul balcone di casa mia, mettendo a dimora un seme di canapa indiana selezionato per produrre principi attivi destinati alla terapia antidolore in alcune gravi malattie. Sono recidiva, perché ho commesso lo stesso reato il 25 aprile dell'anno scorso, quando sul terrazzo dell'abitazione di Rita Bernardini, segretaria nazionale di Radicali Italiani, ho messo a dimora sei semi dello stesso genere. Quel giorno eravamo in tre a commettere il reato: Rita, Marco Pannella ed io. A norma di legge, costituivamo una associazione per delinquere, il che è una seria aggravante. Il prodotto di quella coltivazione era destinato ai malati del Club "La pianTiamo" di Racale in provincia di Lecce: al XIII Congresso del Movimento Radicali Italiani, il primo novembre 2014, volevamo consegnare il prodotto ad Andrea Trisciuoglio, il leader del Social Cannabis Club di Racale. Ovviamente noi tre "coltivatori" eravamo presenti al Congresso: io che lo presiedevo, Rita Bernardini Segretaria, Marco Pannella Presidente del Senato del Partito Radicale; e c'era anche Andrea. Un ufficiale di polizia, (la Polizia era stata debitamente avvertita a nostra cura) arrivò nella sede del Congresso, requisì il prodotto nonostante le proteste di Trisciuoglio, e stese un verbale: soltanto in tempi successivi ho saputo che per quella azione delittuosa, da noi tre compiuta congiuntamente in associazione, solo Rita Bernardini era stata incriminata. Rivendico il mio buon diritto a rispondere penalmente del reato commesso: nel tentativo di ottenere il rispetto di questo diritto, sto reiterando il reato e sto rendendo pubblico il mio comportamento delittuoso come so e posso, con i mezzi a mia disposizione. Perché mai un cittadino di specchiata moralità, che ha vissuto una lunga vita irreprensibile, decide improvvisamente di violare la legge? Non fatemi sentire la solita assurda ipotesi, che io lo faccia "per protesta". La sola sterile protesta non serve che ad aumentare il senso di frustrazione e a suggerire azioni violente: non è cosa da Radicali. Noi Radicali - e non da oggi - sosteniamo una proposta, che è alternativa alle leggi criminogene e liberticide. Come sempre, chiediamo legalità: vogliamo che la cannabis, ma anche le droghe cosiddette "pesanti" vengano legalizzate e regolamentate, né più né meno di come sono legali e regolamentati l'uso del tabacco e dell'alcool. Mi autodenuncio per aver commesso il reato, e cerco un magistrato disposto ad incriminarmi, così come vengono incriminati tanti cittadini, e tanti vengono anche messi in carcere per lo stesso reato. Desidero rendere pubblico un appello, che ho già rivolto per il tramite di Radio Radicale nella registrazione video della mia disobbedienza civile, alle persone che come me hanno sempre vissuto da cittadini onesti e non hanno mai violato la legge: ripetete la mia azione di disobbedienza civile coltivando sul balcone o sul davanzale di una finestra di casa vostra una piantina di marijuana, e quando avrete cominciato la coltivazione scrivetelo a Rita Bernardini o a Laura Arconti, presso il Partito Radicale, via di Torre Argentina 76 - 00186 Roma. Scriveteci, firmando col vostro nome e cognome e dicendo il luogo in cui state coltivando la pianta. Se saremo in molti a farlo, anche le ottuse menti dei legislatori si apriranno. L'obiettivo della disobbedienza civile è di ottenere dal Parlamento una legge che legalizzi con norme precise tutte le droghe: solo così si possono battere sia la narcomafia che tutto il mondo speculativo legato allo spaccio, e la corruzione politica che spesso ne deriva. Non dobbiamo mai dimenticare che il proibizionismo è causa di morte e fonte di crimine. Veneto: nuove carceri nella Laguna? Difficile… ma ci sono due isole in vendita Giornale di Vicenza, 7 giugno 2015 "Le carceri sono già strapiene? Ci vuole il coraggio di utilizzare quelle incompiute. Poi ci sono un sacco di immobili nelle campagne, e anche in qualche isola qui m Veneto, dove poter realizzare dei centri per i carcerati". E una partita difficilissima, quella indicata dal governatore véneto riconfermato Luca Zaia per dare risposta al bisogno di sicurezza e di certezza della pena che dilaga in Veneto. Ma non è una partita impossibile. Nella laguna di Venezia si contano più di 30 isole minori, in vari casi ancora abbandonate. Ma ultimamente la prospettiva è quella della loro vendita: il mercato immobiliare ha da tempo messo gli occhi su questi "gioielli" che possono rendere alla grande sul fronte turistico. Hotel, resort, strutture ricettive anche di taglio cultural - convegnistico sono via via risorte laddove per decenni c'era stato l'abbandono. La Regione, di queste isole, in realtà ne aveva due, come noto però ha un rosso storico di bilancio e negli anni scorsi ha venduto sia San Clemente che Madonna della Grazia. L'attenzione però si potrebbe concentrare ora su due altre isole: quelle di Poveglia e di San Giacomo in Paludo. Come noto, l'Agenzia del Demanio - che li possiede - ha deciso di metterli sul mercato all'interno del progetto "Valore Paese". Poveglia, che è stata nel Settecento anche un lazzaretto e poi nel Novecento stazione marittima per la quarantena di equipaggi e passeggeri, fu trasformata poi in ospedale convertito a casa di riposo e quindi abbandonata. Ha una superficie di circa 75 mila metri quadrati di cui oltre 5 mila coperti. Un anno fa l'asta andò all'imprenditore Luigi Brugnaro per poco più di 500mila euro, ma l'offerta fu ritenuta incongrua e ora Brugnaro, che è candidato sindaco, ha rinunciato al ricorso al Tar. La più piccola isola di San Giacomo in Paludo - poco più di 12 mila metri quadri nella Laguna Nord - fu a sua volto lazzaretto e poi fortino militare. Anche qui, in realtà, la destinazione è alberghiera, ed è scattato lo sfratto (dopo sentenza di Consiglio di Stato) per l'associazione che ci voleva realizzare un Centro di studi ambientali. Insomma, non c'è ancora nulla di definitivamente deciso ne per l'una ne per l'altra: lo spazio per un'azione politica di tipo nazionale che ne dirotti una verso una destinazione a utilizzo pubblico, volendo, c'è ancora. Padova: detenuto di 24 anni muore in cella, potrebbe avere assunto dei farmaci Corriere del Veneto, 7 giugno 2015 Un tunisino di 24 anni è deceduto per un collasso cardiocircolatorio nella casa circondariale di Padova, si indaga per capire se a provocarne la morte sia stato un cocktail di farmaci. Il fatto è accaduto sabato poco dopo l'ora di colazione: il giovane, che stava attendendo il giudizio per fatti legati a traffico di droga, si è sentito male in cella ed è stato portato in infermeria, dove i medici hanno chiamato il 118. Quando il pronto intervento è arrivato per il giovane straniero non vi era nulla da fare. Il sospetto è che dietro al decesso ci sia stata l'assunzione di una massiccia dose di farmaci non prescritti dai medici della struttura carceraria. "Spesso gli stranieri, che devono prendere le medicine prescritte davanti agli agenti, fingono di ingoiare le pillole, oppure le vomitano subito dopo, in modo da poterle rivendere dietro le sbarre, creando un traffico di medicine che può provocare la morte", dice il Giovanni Vona, rappresentante sindacale del Sappe, sindacato di polizia penitenziaria. Il numero di detenuti è sempre in aumento, mentre quello dei poliziotti è uguale da anni, è impossibile tenere sotto controllo la situazione". Bari: "IReNeri" e "Made in Carcere", i brand sociali confezionati dalle donne detenute Ansa, 7 giugno 2015 Una rivoluzione, culturale ed economica, creando un "brand sociale" capace di dimostrare come la legalità sia l'unico terreno fertile in cui far sviluppare l'economia e il commercio. È la scelta di Made in Carcere e IReNeri che insieme hanno deciso di sperimentare nuove formule di distribuzione. I ReNeri vendono una linea di accessori originali per combattere la contraffazione e la concorrenza sleale ai negozianti e trasformare i migranti che vendono illegalmente in lavoratori 100% legali. Per Made in Carcere, che ha da sempre prodotto gadget etici personalizzabili, affidandone la realizzazione a donne detenute, si tratta di condividere il progetto con una rete di vendita senz'altro singolare e innovativa, attraverso cui arrivare capillarmente al cliente finale. IReNeri nasce grazie ad un pool di legali, esperti nelle normative relative alla contraffazione e al commercio e mira a creare, appunto, una rete di vendita e di venditori ambulanti, cittadini extracomunitari in possesso di regolare permesso di soggiorno e licenza di vendita, a cui affidare prodotti con alti standard di qualità e sicurezza, tutti hand made. Lo scopo e la finalità sociale sono di sottrarre manodopera al mercato del falso, creare lavoro attraverso la vendita di prodotti dal costo contenuto ma di ottima fattura e design innovativo, produrre fatturato legale e combattere il circolo vizioso della clandestinità. I prodotti marchiati "IReNeri" sono manufatti realizzati con avanzi di concerie: nascono così prodotti belli e di qualità, come bracciali, porta occhiali, pochette, cinture, borse, borselli e tanti altri prodotti colorati e dal design accattivante ed esclusivo, effettuandone la vendita nel rispetto delle regole. Il progetto è realizzato in collaborazione con Made in Carcere, nato nel 2007 grazie a Luciana Delle Donne, fondatrice di Officina Creativa, cooperativa sociale, non a scopo di lucro. I manufatti, contraddistinti dai due marchi, "IReNeri" e "Made in Carcere", sono confezionati da donne detenute, alle quali viene offerto un percorso formativo, al termine del quale vengono assunte con regolare contratto di lavoro a tempo indeterminato, puntando dunque ad un definitivo reinserimento nella società civile e lavorativa. Santa Maria Capua Vetere (Ce): carenza di acqua potabile nella struttura penitenziaria campanianotizie.com, 7 giugno 2015 "La questione della fornitura dell'acqua è stata affrontata anche nella recente visita al carcere con il capo del Dap, il dottor Santi Consolo e con il provveditore dell'amministrazione penitenziaria campana, il dottor Tommaso Constestabile. Ora con l'amministrazione comunale di Santa Maria Capua Vetere, in particolare con il sindaco Biagio Di Muro è già partito il lavoro per trovare la strada più veloce ed efficace per affrontare e risolvere il problema". Così Camilla Sgambato a fronte delle lagnanze dei detenuti dell'istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere che in queste ore stanno lamentando la carenza di acqua potabile nella struttura. "Stiamo capendo come dare attuazione ad un protocollo tra Ministero e Regione Campania che nell'ambito di un finanziamento di dieci milioni di euro per istituti penitenziari in Campania, ne destinava 900mila euro a Santa Maria Capua Vetere per consentirci di collegare il collettore di Sant'Andrea con il carcere. Confidiamo che, anche grazie al nuovo governo regionale, riusciremo a sbloccare la faccenda", ha spiegato il sindaco di Santa Maria Capua Vetere che lunedì si recherà al carcere assieme alla deputata del Partito Democratico e al provveditore regionale Contestabile. "Non è di ora la mia attenzione al carcere, alle condizioni dei detenuti e anche dei tanti agenti che vi lavorano. La recente visita del dottor Consolo e l'interessamento costante del provveditore Contestabile mostrano che c'è massima attenzione per questa struttura: certamente troveremo il modo di risolvere presto e bene anche questo problema", ha rassicurato Camilla Sgambato in queste ore in contatto con i vertici della struttura, in particolare con la direttrice Carlotta Giaquinto, per monitorare la situazione. Genova: Sappe; il Ministero non paga traghetto per la Sardegna, detenuti e agenti a terra primocanale.it, 7 giugno 2015 "Quel che è accaduto venerdì sera a Genova ha dell'incredibile. Una scorta della Polizia Penitenziaria del carcere genovese di Marassi, che stava trasportando dei detenuti in Sardegna, non è stata fatta salire a bordo della nave Tirrenia perché il Ministero della Giustizia non paga i biglietti alla Compagnia di navigazione ed è dovuta rientrare nel carcere della Valbisagno. Una cosa assurda, che poteva creare seri problemi alla sicurezza dei poliziotti, dei detenuti, dei cittadini e dei viaggiatori per colpa di burocrati che trascurano evidentemente le priorità della sicurezza con cui quotidianamente hanno a che fare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Il Ministro della Giustizia Orlando faccia chiarezza su questa vicenda incredibile". Lo denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri. "Non è possibile che l'articolazione del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria che si occupa del rinnovo delle convenzioni con le Compagnie come la Tirrenia, ossia la Direzione generale dei beni e servizi, non abbia provveduto per tempo ad assicurare i pagamenti alla Compagnia di navigazione per i viaggi fatti e quelli da fare. Il Ministro della Giustizia disponga una ispezione e accerti le responsabilità di chi ha fatto fare questa "figuraccia" ai nostri poliziotti penitenziari". Capece denuncia "una volta di più le quotidiane difficoltà operative con cui si confrontano quotidianamente le unità di Polizia Penitenziaria in servizio nei Nuclei Traduzioni e Piantonamenti dei penitenziari: agenti che sono sotto organico, non retribuiti degnamente, impiegati in servizi quotidiani ben oltre le 9 ore di servizio, con mezzi di trasporto dei detenuti spessissimo inidonei a circolare per le strade del Paese, fermi nelle officine perché non ci sono soldi per ripararli o con centinaia di migliaia di chilometri già percorsi". E conclude: "La sicurezza dei cittadini non può essere oggetto di tagli indiscriminati e ingiustificati. E la realtà è che con sei miliardi di tagli che i vari Governi Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi hanno operato dal 2008 ad oggi, i cittadini sono meno sicuri perché ci sono meno poliziotti a controllare le loro case e i quartieri, meno poliziotti penitenziari nelle carceri a fronte di un numero di detenuti che sta tornado ad aumentare esauriti gli effetti "taumaturgici" della sentenza Cedu - Torreggiani, meno forestali contro le agromafie e le ecomafie per la tutela dell'ambiente, meno vigili del fuoco a difenderci da disastri e calamità, a garantire sicurezza e soccorso pubblico". Cagliari: agente aggredito detenuto gli sferra un pugno e gli rompe un dente L?Unione Sarda, 7 giugno 2015 L'aggressione è arrivata durante una perquisizione. Un detenuto del carcere di Uta ha sferrato un pugno contro l'agente di polizia penitenziaria che lo stava controllando all'interno di una cella. Immediatamente è scattato l'allarme e dopo alcuni minuti il giovane è stato bloccato. Al poliziotto, che ha riportato diversi ematomi e la rottura di un dente, sono stati assegnati 12 giorni di cure. Nella colluttazione anche un altro poliziotto è rimasto lievemente ferito. L'allarme sulle condizioni di sicurezza degli agenti in servizio nelle carceri della Sardegna è del coordinatore regionale della Uil penitenziari, Michele Cireddu: "Purtroppo episodi come quello appena segnalato si ripetono con troppa frequenza". Monza: un multischermo per raccontare la vita dei detenuti del carcere di Sanquirico Redattore Sociale, 7 giugno 2015 Un allestimento multi-schermo a più livelli, con video-proiezioni mappate su elementi scenografici, sorprende gli spettatori, accompagnandoli in un breve ma intenso viaggio nelle emozioni e nella quotidianità delle persone detenute. L'opera, in mostra giovedì 11 giugno 2015 dalle ore 21:00 alle ore 24:00 sotto i portici dell'Arengario di Monza, è il risultato del corso "Diventare Videomaker" che Diego Capelli, Carlo Concina e Cristina Maurelli hanno tenuto da ottobre all'interno della Casa Circondariale di Monza. Il corso, che rappresenta una assoluta novità, rientra fra le attività organizzate regolarmente all'interno dell'Istituto. Dopo aver appreso le tecniche di base di ripresa e montaggio, i corsisti detenuti, con grande entusiasmo e impegno, hanno realizzato i video per una suggestiva video-installazione sul tema "Violenza & Libertà". La realizzazione del progetto è stata possibile grazie anche alla preziosa collaborazione di tutto il personale della Casa Circondariale di Monza Sanquirico. Il lavoro vuole abbattere il pregiudizio che separa il "dentro" dal "fuori" avvicinando studenti e cittadini alla realtà del carcere e sottolineare l'importanza degli interventi formativi e educativi all'interno delle mura della Casa Circondariale di Monza. L'originale interpretazione del tema permette riflessioni e confronto sull'argomento della legalità, della violenza e della libertà. Questa forma d'arte permette infatti un contatto tra realtà lontane e diverse e favorisce il misurarsi con qualcosa di insolito, aprendo nuovi orizzonti. Diventare Videomaker e L' arte porta fuori fanno parte del progetto V&L Violenza e Libertà, realizzato con il sostegno del Csv di Monza e Brianza. Per maggiori informazioni visita il sito del Csv di Monza e Brianza. Norvegia: contro il sovraffollamento arriva "l'export" di detenuti verso l'Olanda di Roberto Giardina Italia Oggi, 7 giugno 2015 L'Olanda aveva troppe celle vuote. Oslo doveva costruire altre carceri. Si sono accordati. La spazzatura la esportiamo in Germania. I tedeschi hanno trasformato l'industria dello smaltimento in un grande affare. Importano spazzatura da tutto il mondo, perfino dal Brasile. Senza paragoni offensivi con gli esseri umani, perché non esportiamo anche i nostri detenuti, che facciamo soffrire ammucchiandoli in celle fatiscenti? Oppure non mandiamo neppure in galera, perché possano continuare nella loro specialità illegale? Quanti ritengono che sia da mandare in carcere chi ha commesso un reato, vengono accusati di essere giustizialisti. Un modo sleale per non risolvere il problema. Perfino la Chiesa ti assolve dopo averti assegnato una penitenza. L'esempio viene dalla Norvegia. Il paese è grande, poco abitato, ha poche carceri. E Oslo ha cominciato a esportare i suoi detenuti in Olanda. Uno scambio proficuo per i due paesi: i norvegesi risparmiano quattrini per costruire nuovi penitenziari. L'Olanda si preoccupa per la disoccupazione crescente, e la nuova attività crea posti di lavoro. I 240 addetti al carcere di Drenthe, nella parte nordorientale del paese, erano preoccupati: le celle sono quasi tutte vuote, e il governo dell'Aja, per far quadrare il bilancio, minacciava la chiusura. Ora è stata trovata la soluzione. Il governo del premier Mark Rutte, altrimenti, dovrebbe chiudere una ventina di carceri, licenziando oltre 2 mila dipendenti. I secondini olandesi parleranno con gli ospiti in inglese. Intanto seguiranno dei corsi intensivi per studiare la storia e la società norvegese, per meglio capire le necessità dei carcerati. Il primo contingente di 242 condannati arriverà a settembre. Sono previsti dieci voli charter, e una sessantina di "accompagnatori" alla volta sorveglierà il viaggio di una ventina di prigionieri. Il programma andrà avanti per almeno tre anni, e verrà prolungato in caso di successo. Com'è ovvio, il costo, calcolato intorno ai 25 milioni di euro, sarà sostenuto dalla Norvegia. Costruire nuovi penitenziari sarebbe costato molto di più. In Olanda sarà inviato anche un direttore di carcere norvegese per garantire che tutto proceda per il meglio. Le celle individuali sono di 8 metri quadrati e dotate di ogni comfort. Unico handicap: i norvegesi non potranno godere di permessi in libertà vigilata. "Siamo molto soddisfatti dell'accordo", dichiara il deputato liberale Foort Van Oosten, del partito Vvd, che fa parte della coalizione di governo. Di diverso avviso il populista Geert Wilders: "I posti di lavoro sono una scusa. Ci sono criminali olandesi a sufficienza che girano indisturbati in libertà. Basterebbe avere la volontà di tutelare l'ordine nel nostro paese". I giudici olandesi di rado condannano gli imputati a pene detentive, preferendo alternative sociali, obbligando i colpevoli a svolgere lavori socialmente utili. L'Olanda ha allo studio altri simili accordi con il Belgio e con la Svizzera. Perché non l'Italia? In Olanda, come in Germania, ci si preoccupa di non "mischiare" i detenuti: chi ha commesso colpe lievi non finirà in compagnia di serial killer o maniaci sessuali. Anche per i politici che hanno deviato dalla retta via ci sono reparti riservati. Certamente, l'Olanda offre un clima e un vitto migliore rispetto a quelli della Norvegia. Per gli italiani lo scambio non sarebbe altrettanto vantaggioso. Ma il governo di Roma potrebbe risparmiare miliardi. Stati Uniti: dall'inizio dell'anno la polizia americana ha ucciso 385 persone di Domenico Bruni Secolo d'Italia, 7 giugno 2015 Nuovo episodio di presunta violenza poliziesca negli Stati Uniti: un uomo di 35 anni è salito su un furgone della polizia con le sue gambe e al termine di un breve trasferimento, otto minuti dopo, era privo di conoscenza. È entrato in coma ed è poi morto, quattro giorni dopo, ossia martedì scorso. E ora la comunità di Vero Beach, la sua piccola cittadina della Florida, vuole sapere perché. Mitchell Brad Martinez era stato trasportato in una prigione dal tribunale dove era comparso davanti al giudice per aver violato i termini delle libertà condizionata a cui era stato condannato per un'aggressione aggravata commessa nel 2013. Sul furgone, poiché indossava abiti civili, era stato fatto sedere in una sezione isolata dagli altri sette detenuti che erano saliti a bordo con lui. La vicenda riporta chiaramente quanto accaduto a Freddie Gary, un afroamericano morto alcuni giorni dopo essere arrestato e caricato su un furgone della polizia a Baltimora. Con la differenza che Martinez era bianco e apparentemente è salito sul furgone in buona salute, mentre Gray, per la cui morte sono stati incriminati sei poliziotti, vi era stato quasi caricato. Tuttavia, in molti ora vogliono sapere cosa è accaduto. Su Facebook è stato aperto un profilo dal titolo "Giustizia per Brad Martinez", in cui sono state postate diverse sue foto in cui appare sorridente tra le palme della Florida. Ma ce n'è anche una in cui lo si può vedere in un letto di ospedale con dei tubi inseriti nel naso e nella bocca e un vistoso segno rosso sulla gola. Il 1° giugno scorso, un altro nero era morto a Rochester, nello Stato di New York, dopo essere stato colpito con un taser da un agente durante l'arresto. Le autorità non hanno voluto rivelare il nome dell'individuo, ma la famiglia lo ha identificato come Richard Gregory Davis, un cinquantenne padre di sei figli ed ex marine. Sempre più tensioni tra polizia e popolazione per le violenze in divisa L'episodio arriva in un momento di crescenti tensioni in tutto il Paese tra le minoranze e gli agenti, per lo più bianchi. E pochi giorni prima, a fine maggio, un uomo che si comportava in maniera bizzarra nel parcheggio di una grande magazzino di Kansas City è stato immobilizzato dalla polizia con un taser, una pistola elettrica, ed è poi morto in ospedale. Quando gli infermieri sono arrivati, l'uomo ha iniziato a comportarsi in maniera aggressiva e un'agente lo ha fermato usando un taser, lo ha arrestato ed è stato quindi portato in ospedale, dove però lo hanno dichiarato morto. Si è appreso che dall'inizio del 2015 sono almeno 385 le persone rimaste uccise da colpi esplosi dalla polizia negli Stati Uniti, stando a un'analisi condotta dal Washington Post. Sono oltre due al giorno e il doppio rispetto alle cifre tracciate dal governo federale nell'ultimo decennio, con lo studio che emerge in un momento di particolari tensioni nel Paese rispetto all'uso eccessivo di forza da parte di agenti di polizia. Il rapporto del Washington Post fornisce così una fotografia abbastanza completa della realtà notando che, per esempio, nell'80% dei casi le persone colpite erano armate, principalmente con armi da fuoco ma anche coltelli e simili. L'età poi va dai 16 agli 83 anni, con otto casi di minori sotto i 18 anni. Nella metà dei casi, inoltre, la polizia è intervenuta rispondendo a richieste di aiuto e segnalazioni, soprattutto in contesti domestici. Stati Uniti: due ergastolani evadono attraverso un buco nel muro della cella La Repubblica, 7 giugno 2015 Hanno fatto un buco nel muro della cella di una prigione di massima sicurezza nello Stato di New York. Seguendo una serie di tunnel, sono arrivati a un tombino all'esterno della struttura. Hanno usato anche trapani elettrici. Ed è caccia all'uomo: "Sono pericolosi". Un'evasione da manuale. O da film. Due detenuti, condannati per omicidio, sono evasi dal carcere di massima sicurezza nello stato di New York facendo un buco nel muro della loro cella e seguendo poi una serie di tunnel fino ad emergere da un tombino all'esterno della struttura. "Un'operazione davvero precisa", ha ammesso il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, che è andato di persona nella prigione. La fuga dal Clinton Correctional Facility di Dannemora è stata scoperta alle 5:30 del mattino, quando le guardie sono entrate nelle celle per il consueto controllo. A quel punto si sono rese conto che nei letti dei due evasi c'erano solo dei manichini realizzati con lenzuola e magliette. Il classico stratagemma per superare i controlli a distanza. I due detenuti, Richard Matt, 48 anni, e David Sweat, di 34, hanno utilizzato trapani elettrici e attrezzi pesanti per fare il buco nel muro da cui raggiungere i tunnel sotto la prigione. Dove li abbiano presi non è ancora chiaro. "Abbiamo più domande che risposte", ha detto Cuomo. Il piano di fuga, ha aggiunto, "era elaborato, sofisticato" e "prevedeva l'uso del trapano attraverso pareti e tubi di acciaio". Per ricatturare gli evasi vengono ora impiegati oltre 200 agenti di polizia, sia dello stato sia federali, che utilizzano anche tre elicotteri e cani, ma finora dei due non c'è traccia. E la polizia ammonisce: "sono pericolosi". Matt è stato condannato ad un minimo di 25 anni di prigione, con la possibilità di estendere la pena fino all'ergastolo, per aver rapito un uomo e averlo poi picchiato a morte. Sweat è stato condannato al carcere a vita senza possibilità di libertà vigilata per aver ucciso un poliziotto. È la prima volta che dei detenuti riescono a evadere dalla prigione di Dannemora sin da quando è stata aperta, nel lontano 1865.