Sulle "declassificazioni" e la chiusura della Sezione di Alta Sicurezza a Padova di Adolfo Ceretti (Ordinario di Criminologia dell'Università di Milano-Bicocca) Ristretti Orizzonti, 5 giugno 2015 Gentili Dirigenti del Dap, due anni addietro ho scritto insieme a Roberto Cornelli un libro intitolato "Oltre la paura. Cinque riflessioni su criminalità, società, politica" (Feltrinelli, 2013). In quel volume Cornelli e io scrivevamo che "il corpo, le emozioni, i ricordi, gli affetti e i desideri di futuro continuano a impadronirsi di ogni istante delle vite imprigionate e chiedono di essere ascoltati e riconosciuti". Come è noto, "questa massa emotiva che preme dentro celle sovraffollate esplode a volte in proteste individuali o collettive, altre volte prende le forme di gesti autolesivi e, in casi estremi, suicidari". Negli ultimi anni le sensibilità politiche e istituzionali sono finalmente calate dentro a progetti concreti, i quali hanno avviato riforme tangibili e credibili, volte a incidere direttamente o indirettamente su questi endemici problemi. Le legislazioni in materia di "messa alla prova" e di "tenuità del fatto" sono un esempio paradigmatico di quanto vado dicendo; ma, prima ancora, sono state altre normative, che Voi conoscete molto meglio di me, ad aver inaugurato un itinerario che fa ben sperare. Infine, gli Stati Generali, convocati di recente dal Ministro Orlando, rinforzano ulteriormente questa prospettiva. Resta il fatto che è ancora principalmente a livello locale che rinveniamo quei progetti che incarnano lo spirito di quanto recita l'art. 27 della nostra Costituzione. Cornelli e io abbiamo definito queste esperienze "riserve trattamentali in una terra di neutralizzazione", espressione che vuole evocare la formazione, l'accerchiamento e il progressivo annientamento che hanno subito nel corso del tempo le riserve indiane nordamericane. Detto altrimenti, le esperienze trattamentali capaci di operare in modo non retorico o solo caritatevole per la presa in carico del mondo esistenziale dei detenuti sono sempre più rare e, per tale ragione, più preziose. Di Ristretti Orizzonti Cornelli e io scriviamo: "Uno sguardo autoriflessivo su queste "riserve trattamentali" è costantemente tenuto dall'osservatorio di Ristretti Orizzonti, attivo nella Casa di Reclusione di Padova, presso il quale cooperano 60 persone tra detenuti e volontari esterni. Oltre a costituire una formidabile banca di dati, informazioni e studi sulla questione carceraria, questo progetto è di per sé parte fondamentale di quel mondo che non si arrende all'idea che il carcere debba essere pura e semplice incapacitazione". Da 8 anni frequento regolarmente, nel carcere Due Palazzi di Padova, la Redazione di Ristretti Orizzonti, e coadiuvo Ornella Favero anche nella conduzione del Convegno annuale che Lei organizza in tema di giustizia. Quest'anno il Convegno, intitolato "La Rabbia e la Pazienza", ha visto come gli anni precedenti la presenza di 600 persone e di 150 detenuti. Conosco personalmente tutti i detenuti che giorno per giorno svolgono, con Ornella, il prezioso cammino di auto-riflessione sul proprio passato, sul proprio presente e sul proprio futuro, spesso a diretto contatto con alcune vittime di reati gravi. Le parole di Lucia Annibali, apparse il 28 maggio 2015 su un noto settimanale, sintetizzano perfettamente lo spirito del lavoro svolto dentro all'istituto penitenziario. Con molti redattori di Ristretti ho un rapporto epistolare. Attraverso questa corrispondenza ho compreso - se ancora ce ne fosse bisogno - che se sussiste una possibilità che la loro esistenza non evapori di nuovo verso condotte devianti, una volta terminata l'esperienza carceraria, ciò è dovuto al fatto che la loro pena non trascorra invano. In estrema sintesi, ciò vuol dire essere quotidianamente a contatto con un pensiero attivo, profondo e creativo. Un pensiero che va continuamente alimentato. Naturalmente tutto ciò assume una dimensione ancora più determinante se a prendere parte e questi percorsi sono uomini come Giovanni Donatiello, che non più tardi di una settimana fa ha raccontato al Convegno la sua esperienza di pena trascorsa al 41 bis e poi i suoi quindici anni in Alta Sicurezza, prima di soffermarsi sulla trasformazione globale avvenuta in lui da quando, a Padova, frequenta la Redazione di Ristretti Orizzonti. Una trasformazione importante che ha coinvolto molti detenuti del circuito di Alta Sicurezza, e in modo particolare Giovanni Donatiello e Tommaso Romeo. Abbandonare questa esperienza significherebbe per Giovanni, per Tommaso e per molti altri come loro, perdere l'ultima chance per sperare che la loro vita possa ancora essere chiamata come tale. Con tutta l'umiltà e il profondo rispetto che ho per le Istituzioni e per il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria sono a chiederVi, insieme alla Dottoressa Ornella Favero, di ripensare alla decisione di trasferire il Signor Giovanni Donatiello, poiché il rischio che la speranza incontrata in questi ultimi tempi sia di nuovo seppellita è molto più che un rischio. Il suicidio di Paula Cooper: il carcere non è la medicina, ma è la malattia di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 5 giugno 2015 "Amore Bello, ho preso una decisione, non ho più bisogno di vivere per continuare ad amarti, posso benissimo continuare a volerti bene anche da morto. Non voglio invecchiare in carcere, ho deciso di lasciarmi morire di fame. Non venire al colloquio, perché rifiuterò di vederti. Non scrivere, perché non leggerò le tue lettere. Ci incontreremo nell'aldilà o fra le stelle. Io me ne vado, ma ti lascio il mio amore, i miei sogni e i miei pensieri. Ti amerò fine alla fine dell'universo. Addio". Tratto da "Fuga dall'Assassino dei Sogni". Autore: Musumeci e Cosco. Edizioni erranti Editoria indipendente - Libero sapere edizionierranti.org. Prefazione di Erri De Luca. Il libro si può richiedere anche scrivendo a zannablumusumeci@libero.it. I più giovani non se la ricordano. In questi giorni ho letto che s'è suicidata Paula Cooper con un colpo di pistola alla testa, la ragazza che nel 1986 circa, appena quindicenne, uccise negli Stati Uniti la sua maestra. E si salvò dalla pena di morte dopo una mobilitazione di molte persone in alcuni paesi. Era uscita dopo ventisette anni di carcere, ma a volte la libertà fa paura più della prigione. Questa paura l'ho provata anch'io quando, dopo ventiquattro anni di carcere, il mese scorso sono uscito qualche giorno in permesso. E vi confido che in alcuni momenti, nonostante l'amore dei miei familiari che mi circondava, non vedevo l'ora di rientrare nella mia tomba di cemento e ferro perché le persone libere mi facevano un po' paura. Credo di immaginare come si sentiva Paula perché quando uno è stato in carcere, anche una sola volta, ci rimane un po' tutta la vita. Probabilmente è giusto che la società ci punisca e ci chiuda in una cella, ma se non vuole diventare una società crudele e cattiva è meglio che un giorno non troppo lontano si ricordi di aprire la cella. Soprattutto, le pene troppo lunghe sono devastanti perché quando s'invecchia in carcere, poi non cerchi più nulla. E non perché non lo desideri, ma perché non hai più nulla da cercare perché hai perso ogni cosa. Dopo decenni e decenni di carcere i prigionieri si sentono come cadaveri che camminano in attesa di cadere. E ci sono dei giorni che il carcere dà un tal senso d'inutilità che non riesci neppure a sentirti infelice come fuori. Purtroppo il mondo del carcere è un universo buio confuso e senza vita, dove s'invecchia senza vivere. Spesso ti senti in guerra. Una guerra sporca senza regole. Non puoi vincere e lotti solo per continuare ad esistere. Infatti, degli anni trascorsi in prigione, ricordi poco, probabilmente perché sono anni vuoti. Non riesci più a distinguere i sogni dai ricordi. La tua unica preoccupazione diventa trovare il modo per arrivare a fare sera. Poi arrivare al mattino. Inoltre il carcere non ti fa uscire il senso di colpa perché ti accorgi che i tuoi governanti sono a volte non meno cattivi di te. Non è neppure facile vivere sapendo che la tua cella diventerà una tomba con una condanna terribile e disumana come la pena dell'ergastolo. Non è per nulla semplice vivere senza futuro. Io ci sto provando da ventiquattro anni. E spero di non farlo solo per togliermi la vita da uomo libero come ha fatto Paula Cooper, perché se fosse così, preferirei farlo adesso. Buona morte Paula, spero dove sei adesso non ci siano prigioni. Un sorriso fra le sbarre. Giustizia: il ministro Orlando "cari pm, dite addio al populismo penale" di Errico Novi Il Garantista, 5 giugno 2015 La politica da sola non ce la fa. Se vogliamo affermare i principi del garantismo nel nostro Paese c'è bisogno che altri diano una mano, e che lo facciano i magistrati innanzitutto". Andrea Orlando parla nel lungo day after di queste Regionali. Nell'aria si respirano ancora le polveri della bomba politico-giudiziaria deflagrata a due giorni dal voto, con la lista degli impresentabili. E al convegno organizzato dal Psi dal titolo "Essere (sempre) garantisti" il ministro della Giustizia si presenta con un certo, dissimulato giusto per la rivincita. Da mesi, anzi da due anni ormai Orlando predica nel governo un po' di cautela sui temi della giustizia, che poi solo a lui dovrebbero competere. E invece fa quotidianamente i conti con un premier come Renzi, molto affezionato al concetto di populismo penale e pronto a festeggiare il sì al ddl anticorruzione con un tweet sulla "prescrizione che non arriverà mai". Ecco, adesso il guardasigilli forse si godrà lo spettacolo dei tanti dem che sognano di vedere incenerita Rosy Bindi, per il guaio che ha combinato con gli impresentabili. Si è toccato il fondo, nella continua rincorsa ai desideri della piazza forcaiola. Chissà se servirà da lezione. Certo non è un caso che il convegno sia organizzato dal Partito socialista. Da quella piccola ma agguerrita forza della maggioranza che quasi da sola si è impegnata in battaglie di frontiera sulla giustizia. E che annovera tra le proprie fila un deputato campano, Marco Di Lello, promotore dell'iniziativa di ieri e primo firmatario di un ddl di revisione della Severino. Ecco, anche per Di Lello è una rivincita. Fosse passata la sua proposta di legge, non ci sarebbe ora un caso De Luca. Non incomberebbe il rischio di una sospensione del governatore appena eletto. Va cambiato tutto. Questo dice ora il ministro della Giustizia nella elegantissima Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto. "Riscuotere consenso con le battaglie garantiste è difficile, ecco perché la politica non può condurle da sola. Ed ecco perché sarebbe importante se i soggetti coinvolti nell'esercizio della giurisdizione aiutassero la politica a far passare un messaggio diverso. I magistrati, innanzitutto, che vantano un'importante influenza sull'opinione pubblica". Cambiare tutto, dice il guardasigilli, è possibile se i protagonisti del sistema giustizia si mettono a remare nella stessa direzione. Se cioè la smettono di assecondare il populismo penale. È questo l'appello che prende forma nel dibattito organizzato dal Psi. Ed è questa anche la risposta al quesito più urgente, posto dal relatore che interviene un attimo prima del ministro, ovvero il professore di Diritto penale della Federico II di Napoli Vincenzo Maiello: "Come possiamo fare in modo che l'opinione pubblica prevalga sulla piazza?". Domanda pertinente. Perché i due concetti sono davvero assai distinti tra loro. La piazza è quella che il vicepresidente dell'Unione Camere penali Domenico Ciruzzi definisce nel suo intervento "la pancia del Paese che ormai si è impossessata della produzione normativa". Un'ascesa favorita anche dalla stampa, secondo l'avvocato Ciruzzi: "I cronisti giudiziari dovrebbero essere cani da guardia del giusto processo, non cagnolini da salotto delle Procure". E che dire della politica che ha dato troppo spago a quella "pancia", visto che "assecondarla porta consenso immediato", come ricorda Orlando? L'unica via è appunto quella di una nuova pedagogia sulla giustizia. Che non dovrebbe essere poi così difficile far passare. Anche perché, ricorda Orlando, "il garantismo è un principio che si afferma come risposta ai sistemi autoritari: è nel fascismo che le manette scattano sulla base di meri provvedimenti amministrativi". E invece il principio delle garanzie è quello a cui sui collegano "la presunzione di non colpevolezza, il giusto processo, la funzione rieducativa della pena e la stessa autonomia della magistratura", ricorda ancora il guardasigilli. Oggi i "propulsori di queste idee si sono un po' scaricati, eccezion fatta per il Papa", aggiunge dopo aver richiamato i diversi ascendenti ideologici del pensiero garantista, tra i quali iscrive anche "il movimento operaio". Oggi invece pare non esserci nulla di più lontano dal popolo che le tutele per gli imputati. "Con il nuovo processo, Enzo Tortora sarebbe stato comunque condannato", è l'amara considerazione di Ciruzzi. Giudizio a cui Orlando assimila un altro concetto: "Se introduciamo un provvedimento come l'archiviazione per particolare tenuità del fatto i giornali danno voce solo a chi sostiene che abbiamo messo fuori i delinquenti: in quella occasione i soli a dire che si tratta di una norma razionale sono stati il Procuratore capo di Torino e l'Anm che, per carità, ha messo la nota di plauso in un comunicato, come quattordicesima questione dopo averne elencate tredici che non andavano bene". Altro sassolino tirato via. E ce ne sarebbe un altro ancora pure per Renzi: Orlando lo difende quando dice che il risultato delle Regionali "non deve dar luogo a letture stravaganti, ma indurci a stare stretti attorno al premier affinché conduca una battaglia per cambiare la politica economica dell'Europa". Poi però dice che se il populismo penale imperversa è anche perché "sono venuti meno i corpi intermedi, che prima esercitavano una grande funzione mediatrice tra il potere e il popolo". Ecco, tanto per ricordare che soggetti come i partiti organizzati e i sindacati non andrebbero smaltiti come attrezzi inservibili, visto che "oggi i social network danno all'informazione sulla giustizia un impatto emotivo difficile da controllare". Sì, i partiti, la politica mediatrice. Ci pensa però Flavia Fratello, la giornalista di La7 che modera il dibattito, a fare "l'avvocato del diavolo". E a rimbeccare il ministro proprio sulla tenuità del fatto: "Sì, d'accordo, eviteremo di consumare un procedimento penale a carico di chi per fame ruba nei supermercati. Ma come si fa a non sospettare che la legge serva anche a salvare la casta, quando vedi consiglieri regionali che mettono in nota sperse il biglietto per andare in bagno all'autogrill?". Orlando tace un attimo. Poi dice: "Quel reato ha un nome: si chiama peculato. E ha una pena massima ben superiore ai 5 anni, dunque non rientra nella legge sulla tenuità del fatto. Basterebbe che i giornali, quando ne parlano, dicessero la verità". La verità: magari. Giustizia: con i decreti "svuota-carceri" in 5 anni fuori dai penitenziari 17mila detenuti Il Velino, 5 giugno 2015 Quasi 33mila persone risultano beneficiare di misure alternative. La popolazione carceraria attuale si attesta sopra i 53 mila detenuti. Al 31 maggio 32.885 persone risultano destinatarie di misure alternative al carcere, impiegati in lavori di pubblica utilità, o comunque interessate da misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messa in prova. Sono questi i dati elaborati dall'Osservatorio della direzione generale dell'esecuzione penale esterna del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Ieri invece sono state pubblicate le statistiche sulla popolazione carceraria, 53.283 persone rispetto a una capienza carceraria regolamentare di 49.427. Nelle statistiche anche i dati che riguardano i detenuti usciti dagli istituti penitenziari dall'entrata in vigore della legge del 2010, cosiddetta svuota-carceri: in tutto 16.802 persone di cui 5.097 di nazionalità straniera. Secondo i dati diffusi oggi gli affidamenti in prova al servizio sociale riguardano 12.581 persone; in semilibertà risultano 768 persone ai domiciliari 9.712. Ai lavori di pubblica utilità sono impiegati in 6.052, in libertà vigilata 3604, 164 in libertà controllata, 4 in semidetenzione. Quanto agli affidamenti in prova, si tratta nella metà dei casi di condannati a piede libero (6332 persone) o già detenuti ma agli arresti domiciliari (2735). In più di un quarto dei casi si tratta di tossicodipendenti o di alcol dipendenti. L'affidamento in prova al servizio sociale di malati di Aids riguarda 34 casi. Quanto ai lavori di pubblica utilità che interessano in tutto poco più di 6000 persone, si tratta in 5.736 casi di violazioni del codice della strada. Le indagini per la messa in prova sono state 9.491: è stata accordata in 3173 casi. Quanto alla voce "attività di consulenza" sono state condotte 15.834 osservazioni della personalità (nella stragrande maggioranza dei casi, 11.313 hanno riguardato condannati in stato di detenzione) e 6744 indagini socio familiari. Dai dati diffusi ieri riguardanti invece la popolazione carceraria emerge invece il persistente sovraffollamento carcerario: nei 198 istituti penitenziari ci sono oltre 3800 persone in più della capienza regolamentare. La situazione appare particolarmente gravosa per le carceri di Lombardia e Campania: nei 19 istituti lombardi sono presenti 7559 persone rispetto ad una capienza consentita di poco più di 6000, mentre nelle 17 strutture campane i detenuti (7188) sono circa 1000 in più di quanto previsto, con particolare criticità per quel che riguarda gli istituti di Milano - Opera e Napoli - Poggioreale e Secondigliano. Del totale dei detenuti in carcere, come detto 53283 persone, i condannati definitivi sono 34.461, mentre ben 9138 persone sono in attesa di primo giudizio. Quanto alla presenza di detenuti stranieri, in tutto 17.374, circa 10 mila sono definitivi, mentre 3691 sono in carcere in attesa di primo giudizio. Le prime tre regioni per numero di detenuti stranieri presenti negli istituti penitenziari sono la Lombardia (3.379), il Lazio (2583) e il Piemonte (1537), seguito a stretto giro da Toscana (1491). Il Molise (con 33 detenuti stranieri), la Basilicata (63) e la Valle d'Aosta (92) chiudono la classifica. Dai dati del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, si evince quanto agli effetti della legge cosiddetta svuota carceri che la misura ha alleggerito prevalentemente la situazione nelle carceri di Lombardia (sono uscite 2646 persone di cui 1200 stranieri), Sicilia (18814), Lazio (1569), Toscana (1493), Piemonte (1451), Campania (1443). Giustizia: Simspe-Simit; in 10 anni raddoppiati i malati Hiv che sono in cura nelle carceri Adnkronos, 5 giugno 2015 Più dell'80% della popolazione detenuta Hiv positiva è sotto trattamento antivirale con una buona efficacia. Oltre il 73% dei detenuti trattati infatti dimostra una massima efficacia antivirale: considerato l'ambiente, è un ottimo risultato, specie se lo confrontiamo ad esempio con quello della popolazione americana, in cui la percentuale dei pazienti con virus negativo nel sangue è inferiore al 45%, livelli che in Italia si registravano all'inizio degli anni Duemila. Se n'è parlato a Cagliari durante la prima giornata del XVI Congresso Nazionale Simspe-Onlus. L'Agorà Penitenziaria 2015: "Se il Paziente è anche Detenuto". L'appuntamento, che prevede la presenza di 250 specialisti, italiani ed europei, e che proseguirà sino a venerdì 5 giugno, è organizzato e presieduto da Sergio Babudieri, Professore di Malattie Infettive all'Università di Sassari nonché Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe). Molti gli argomenti previsti: si parlerà di emergenze cardiologiche e di "Sex Offender", tra punizione e risocializzazione, nonché di rischio clinico e responsabilità degli operatori sanitari penitenziari, di gestione dello stress e del malessere organizzativo in carcere. "Il titolo "Se il Paziente è anche Detenuto" è già eloquente - spiega il Prof. Sergio Babudieri, Coordinatore Scientifico del Congresso e Presidente della Simspe - Si tratta di un richiamo per tutta la nostra categoria di medici, ma anche per infermieri, operatori sanitari, agenti di polizia penitenziaria che operano all'interno dei 199 istituti penitenziari italiani, che deve ricordare che stiamo parlando di pazienti. Sono detenuti, ma in primo luogo sono dei pazienti. La peculiarità della medicina penitenziaria è che anche le persone che sono sane ricadono sotta la giurisdizione del magistrato di sorveglianza che ha la responsabilità della loro salute; peraltro, per sapere che una persona non è malata è necessario comunque un atto medico. Quindi stiamo parlando di 60mila persone giornalmente in carcere e di circa 100-110mila che sono transitate nel sistema penitenziario italiano nel corso di ogni anno: una popolazione simile ad una media città italiana che ha una serie di forti esigenze in tema di salute". "La Simit, Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali - dichiara Massimo Andreoni, Professore di Malattie Infettive, Università di Roma "Tor Vergata" e Presidente Simit - è molto interessata al prossimo convegno nazionale di medicina penitenziaria in quanto ritiene che le istituzioni nel mondo carcerario rappresentano una priorità. Recenti studi condotti in merito, infatti, dimostrano come la percentuale di detenuti con infezioni da virus epatici, dal virus dell'Aids e da tubercolosi sia rilevante. Inoltre, il periodo di detenzione può rappresentare un momento fondamentale sia per l'eventuale diagnosi di infezioni non riconosciute sia per avviare cicli di terapia che permettano, come nel caso dell'epatite C, di guarire dall'infezione. In tal senso, il periodo di detenzione, che rappresenta un momento drammatico per la vita del detenuto, sotto il profilo sanitario può essere funzionale sia a fini diagnostici che terapeutici per le malattie infettive in atto". Hiv nelle carceri - "Un recente studio fatto con la Simit, Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali - spiega il Prof. Roberto Monarca. Presidente Simspe-onlus - dimostra che i pazienti affetti da infezioni da HIV sono trattati abbastanza bene all'interno delle carceri: c'è una elevata accessibilità ai trattamenti, c'è una buona capacità di monitoraggio di questi pazienti perché in quasi tutti gli istituti praticamente è possibile eseguire sia una carica virale che il monitoraggio delle funzioni immunitarie". Più dell'80% della popolazione detenuta Hiv positiva è sotto trattamento antivirale con una buona efficacia; oltre il 73% dei detenuti trattati infatti dimostra una carica virale sotto le 50 copie: considerato l'ambiente, è un ottimo risultato, specie se lo confrontiamo ad esempio con quello della popolazione americana, in cui la percentuale dei pazienti sotto le 50 copie è inferiore al 45%. "Uno dei problemi che stiamo studiando è la carenza di terapie innovative nei pazienti detenuti affetti da Hiv, ossia vengono spesso utilizzate per i detenuti delle terapie che sono un po' datate. I nuovi farmaci, quelli più costosi, ma anche le terapie di semplificazione, hanno ancora una scarsa applicazione in ambito penitenziario e lì dobbiamo lavorare, affinché i nostri detenuti abbiano le terapie più efficaci. L'utilizzazione di solo uno o due farmaci al giorno potrebbe semplificare di molto l'organizzazione e la qualità della vita dei detenuti". "Numerosi studi, sia americani che europei, dimostrano che le persone che vengono prese in carico dalle strutture esterne - aggiunge il Prof. Monarca - una volta rilasciate dal carcere hanno una minore recidività, sia dal punto di vista clinico che da quello delinquenziale; in altri termini, in questi casi più difficilmente rientrano in carcere. Quindi per interrompere quello che in gergo è definito come il ciclo di carcerazione-uscita-reincarcerazione, bisogna intervenire proprio garantendo la continuità terapeutica per il detenuto tornato in libertà". Overdose - Oggi c'è ancora una elevata percentuale di persone che muore di overdose nelle prime settimane successive all'uscita dal carcere, oltre a persone che nel primo anno rientrano in carcere perché compiono nuovamente dei reati. "Lasciare a se stessi questi pazienti - chiosa il Prof. Monarca - espone loro stessi a elevati rischi per la loro salute e la società stessa per la recidività dei reati. Studi americani confermano che nei primi 5 anni dalla liberazione, circa il 75% rientra in carcere; il 43% solo nel primo anno. In Italia non abbiamo percentuali così elevate, ma nel primo anno siamo comunque intorno al 30%. Questi sono dati che vengono dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, dove esiste una capacità di monitoraggio di queste situazioni molto precisa". Giustizia: Mafia Capitale; intervista a Rodotà "un doppio Stato con poteri extralegali" di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 5 giugno 2015 "Il doppio stato oggi è un modo consolidato di gestire il potere. Lo abbiamo visto all'opera all'Expo, al Mose, e in altre città. L'illegalità non è un fenomeno marginale, è centrale nella vita dello Stato". "Davanti ai nostri occhi si è aperto un abisso che la parola corruzione descrive solo parzialmente - afferma Stefano Rodotà - Mafia Capitale conferma l'esistenza di un sistema parallelo che permette solo ai poteri criminali di approvvigionarsi alle risorse pubbliche per lucrare sugli immigrati, sui rom, su tutti coloro che andrebbero tutelati con la solidarietà pubblica e civile. La solidarietà si è capovolta in un'opportunità di arricchimento di un ceto che esercita poteri extralegali o del tutto extralegali". Come definire questo sistema parallelo alla politica "istituzionale"? Quando scoprimmo la P2 venne coniata l'espressione "Doppio stato". A qualcuno sembrò un'espressione senza fondamento. I dati di fatto andavano invece in questa direzione. Mafia Capitale ci mette di fronte ad un doppio stato. E questo non è avvenuto solo a Roma. Il doppio stato oggi è un modo consolidato di gestire lo stato. Lo abbiamo visto all'opera all'Expo, al Mose, e in altre città. L'illegalità non è un fenomeno marginale, è centrale nella vita dello Stato. La sua è una visione inquietante, professor Rodotà, evoca tra l'altro gli aspetti più cupi della Prima Repubblica. Non sta esagerando? No, non lo credo affatto. Siamo di fronte ad una modalità istituzionale di gestione del potere parallela alla quella del potere ufficiale che ha finito per sovrastarla. Se misuriamo il rapporto tra il potere, le istituzioni e i cittadini con il metro tradizionale oggi non siamo più in condizione di descriverlo. Il metro di giudizio è affidato al sistema parallelo. Questo rovesciamento è inquietante. Il presidente del Pd Orfini ha evocato i servizi segreti e si chiede perché non sono intervenuti per fermare Carminati. Sono sempre stato ostile alla logica delle deviazioni. In Italia abbiamo avuto la prova provata che i servizi hanno fiancheggiato fenomeni eversivi. Quelli erano un pezzo del doppio stato. In questo caso non mi sembra che ci sia una deviazione rispetto ad una normalità democratica. Sta invece emergendo un vero e proprio sistema di governo. Qual è la differenza tra Mafia Capitale e Mani pulite? Allora si diceva la corruzione che fosse funzionale all'attività di partito, e non ai singoli. Ammesso che questa spiegazione fosse giustificata, ciò che accade oggi dimostra che quel metodo è proseguito indipendentemente dai partiti. Oggi esiste una società che ha prodotto un autonomo sistema di "governo" che fa uso privato delle risorse pubbliche, sfrutta le persone e arriva a schiavizzarle. In Italia ci sono persone sono ridotte a oggetti produttivi di utilità per chi esercita un potere amministrativo, imprenditoriale, maschile. Questo sistema si è coagulato per sfruttare la nuda vita dei migranti. I diritti esistono solo se sono monetizzabili? È il lato più terribile di questa vicenda. I diritti non vengono impugnati per creare un'organizzazione sociale e praticare la solidarietà, ma sono lo strumento che riduce i migranti ad oggetti per spremerli al fine di un profitto personale. Questa torsione finisce per screditare i diritti. Questa catena dev'essere spezzata. Quali sono gli effetti di questa situazione sui cittadini? Un distacco drammatico rispetto alle istituzioni e ad un potere che si è fatto oscuro e minaccioso. L'effetto più visibile è quello dell'astensione dal voto alle ultime elezioni regionali che resta a mio avviso la chiave più significativa per interpretarlo. Il fatto che si rinuncia al voto deriva dalla constatazione che gli enti locali sono impotenti ad affrontare i problemi dei trasporti o il sociale. Ma credo che il distacco derivi fondamentalmente dal fatto che esiste un sistema parallelo che affianca quello istituzionale e poi se lo mangia pezzo per pezzo. Questa espropriazione della democrazia è diventata un elemento costituivo del sistema. Giustizia: Mafia Capitale; la politica in vendita e gli anticorpi necessari di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 5 giugno 2015 Nuovo capitolo nella trama del "Mondo di mezzo". Si racconta un altro pezzo dell'imbroglio pianificato a tavolino: il sistema corruttivo è risultato talmente diffuso, autoalimentato e condizionante, da diventare esso stesso una sottospecie di mafia. Dal punto di vista culturale e della mentalità che contiene in sé, prima ancora che sul piano penale. La prima trama del "Mondo di mezzo" raccontava di un gruppo di persone, qualificato come "associazione mafiosa", che utilizzava la corruzione come strumento di pressione e di conquista del tessuto amministrativo di Roma; ipotesi confermata dalla Corte di cassazione, per la quale è già stato fissato un processo che comincerà all'inizio di novembre. Ora si apre un nuovo capitolo, che racconta un altro pezzo dell'imbroglio pianificato a tavolino: il sistema corruttivo è risultato talmente diffuso ed esteso, autoalimentato e condizionante, da diventare esso stesso una sottospecie di mafia. Dal punto di vista culturale e della mentalità che contiene in sé, prima ancora che sul piano penale. Per via dei comportamenti che impone, e del metodo anche intimidatorio - in forme dirette o indirette - sul quale si fonda. Nelle nuove carte scoperte dalla Procura di Roma c'è un esempio di "fecondazione in vitro di una corruzione da asservimento" (così la definiscono i pubblici ministeri) svelata dalle parole di un consigliere comunale della maggioranza che sembra quasi offrirsi a Salvatore Buzzi come amministratore in vendita. Dopo aver discusso di ciò che bisognava fare, il "re delle cooperative" lo rassicura: "Poi ti ricambio, non ti preoccupare… siamo riconoscenti". E l'amministratore locale aderisce volentieri, dando per scontato che così vadano le cose: "Sì, lo so… come vi rapportate di solito coi consiglieri… C'è il guadagno, no? La percentuale". Un sistema già rodato, insomma, al quale ci si adegua con la prospettiva di guadagnare qualcosa mettendosi a disposizione per favorire accordi e spartizioni che poco o nulla hanno a che fare con il buongoverno di una città. Poi c'è l'aspetto legato a metodi di convincimento più tradizionali ma sempre efficaci, come quello narrato in una conversazione con Massimo Carminati in cui Buzzi parla di un funzionario che notoriamente "piglia i soldi", quindi "andiamocelo a comprà". E Carminati spiega che per rimuovere possibili ostacoli frapposti da qualche impiegato non ci sono che due strade: "O si caccia o si compra… se si compra è meglio". Infine ecco l'intercettazione dove si fa valere il passato e il presente di personaggi che - secondo l'impostazione dell'accusa - costituiva il "capitale criminale" dell'organizzazione infiltratasi in ogni ganglio dell'amministrazione. "I consiglieri comunali devono stare ai nostri ordini" perché io "te pago", afferma Buzzi. Con un'aggiunta significativa: "E se non rispetti gli accordi, tu lo sai chi sono io? Lo sai da dove vengo?". A quel punto Carminati evoca il dovere del "rispetto", e il suo socio vanta la "grandissima credibilità" conquistata sul campo con simili sistemi. Così è stata comprata e inquinata la politica nella capitale d'Italia, cancellando ogni distinzione tra destra, centro e sinistra. Anche attraverso veri e propri ricatti come quelli confessati da un altro indagato: "Ho dovuto fare una trattativa un po' sgradevole con questi qua…". Si tratta di intercettazioni, certo, e come tali sono state trattate dagli inquirenti secondo le regole del garantismo: le semplici parole registrate dalle microspie non bastarono, sei mesi fa, ad arrestare persone che all'epoca furono solo inquisite; oggi sono finite in carcere, o ai domiciliari, sulla base dei riscontri cercati e trovati dagli investigatori del Ros: dal denaro effettivamente versato (quando i crediti non sono stati onorati in contanti, come qualcuno degli indagati ha preteso e ottenuto) alle assunzioni di parenti e altre persone appositamente segnalate; in tempi di crisi anche un posto di lavoro può trasformarsi nel prezzo della corruzione. Tuttavia anche in questo caso vale la regola del buon senso, e al di là delle necessarie verifiche per dare consistenza alle frasi intercettate, è difficile immaginare che dei soci in affari millantino situazioni inesistenti quando discutono tra loro di lavoro; indipendentemente dal fatto che siano complici nella commissione di eventuali reati. Per questo, prima delle prevedibili strumentalizzazioni e di tornare a polemizzare se si tratta di vera mafia oppure no, se le accuse resteranno quelle già confermate dalla Cassazione o saranno derubricate, sarebbe utile che la politica - romana e non solo - ne prendesse atto una volta per tutte. E trovasse soluzioni adeguate. Senza rifugiarsi - come fa di solito - dietro i necessari accertamenti giudiziari, aspettare la celebrazione dei vari gradi di giudizio o le conclusioni del prefetto sull'esistenza o meno delle condizioni formali per lo scioglimento di un consiglio comunale. Il marcio emerso finora è sufficiente a destare il giusto allarme e a prendere le contromisure necessarie. Nella speranza che per una volta si dimostrino efficaci. Giustizia: Mafia Capitale; tangenti delle coop "2 euro al giorno per ogni migrante accolto" di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 5 giugno 2015 Le cooperative rosse e quelle bianche. Non conta il colore politico: quello dei migranti è un affare d'oro per tutti. Per chi si aggiudica la gestione dei centri e, soprattutto, per chi decide gli appalti. Un sistema rodato e un tariffario altrettanto rigido: dai 50 centesimi ai 2 euro al giorno di tangente per ogni profugo, da versare a chi assicura l'assegnazione. Lo sa bene Luca Odevaine, appartenente al tavolo di Coordinamento Nazionale sull'accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale, ed ex vice capo di gabinetto di Walter Veltroni sindaco di Roma. Che con gli immigrati ci fa così tanti soldi da avere il problema di come investirli. L'ordinanza con cui ieri sono finite in manette altre 44 persone per la seconda tranche di Mafia Capitale mette il luce, ancora una volta, il giro lucroso che si nasconde dietro all'accoglienza. È il 6 giugno 2014. Odevaine parla con Domenico Cammisa e Carmelo Parabita, entrambi indagati ed entrambi legati alla cooperativa "La Cascina", considerata vicina a Comunione e Liberazione. I due sono interessati al centro di Mineo, sul quale l'ex capo di gabinetto sembra avere un controllo quasi totale. Odevaine è chiaro: "Questa volta, una volta nella vita, vorrei quantomeno non regalare le cose, insomma... almeno io da questa roba qua, visto anche che sto finendo di lavorare in Provincia (come capo della Polizia, ndr) e quant'altro, almeno ce vorrei guadagnà uno stipendio pure per me... Secondo me, poi, alla fine, bisogna accordarsi su una cifra complessiva, considerando Mineo, considerando quello che sarà, San Giuliano, considerando quello che si muove intorno a Roma. Poi, una vola che abbiano stabilito una cifra, il come, troviamo la soluzione". E racconta al suo commercialista, Stefano Bravo: "Ti spiego l'accordo con "La Cascina" per i prossimi tre anni... Sono accordi che riguardano circa 50mila euro al mese... in teoria posso andà al mare". L'appalto per il C.A.R.A. di Mineo, d'altronde, "è blindato" come dice lui stesso. "È una gara finta". Tanto che ieri il presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone ha scritto ad Alfano per avere chiarimenti su quell'assegnazione. I carabinieri del Ros hanno documentato almeno cinque episodi del passaggio di denaro da "La Cascina" a Odevaine: l'ultimo il 6 ottobre scorso quando Parabita gli consegna 15mila euro. Non va per il sottile Odevaine. Fa capire che vuole farci i soldi veri sulla questione. Ne parla con un suo collaboratore, Gerardo Addeo (indagato): "Adesso vedrò sinceramente sulla cifra da chiedergli... C'ho qualche... cioè non saprei, ti dico la verità, non saprei nel senso che su Mineo mi devono alzare la quota. Non dico raddoppiarla ma almeno, insomma, il 50 per cento in più perché l'accordo su 10mila era quando erano 2.000 (i profughi, ndr), insomma la devo almeno ritoccare, almeno a 15, su San Giuliano (altro centro al quale "La Cascina" è interessata, ndr) gli chiederei 2 euro che sono all'inizio sui 500 perché si inizierà da 500, sò 300 e... 32mila euro al mese e possono diventare 60 no?". Odevaine è convinto che un migrante valga almeno un euro al giorno. Come spiega anche il gip Flavia Costantini: "Individua il criterio di calcolo delle tangenti dovute in base al numero di immigrati ospitati nei centri, arrivando a prospettare un vero e proprio "tariffario per migrante ospitato"". Ancora, sempre l'ex vice capo di gabinetto, descrive l'accordo con Buzzi: "Allora con loro abbiamo fatto un altro tipo di accordo, perché io poi gli ho fatti avere altri centri, in Sicilia, in provincia di Roma e quant'altro, più o meno, stiamo concordando una cifra tipo come 1 euro a persona, ci danno, calcolando, che so, almeno un migliaio di persone, dovrebbero essere grosso modo un migliaio di persone, insomma sò 1000 euro al giorno quindi 30.000 euro al mese che entrano". È sul C.A.R.A. di Castelnuovo di Porto che gli interessi delle coop bianche e di quelle rosse convergono. Anche perché l'affare vale 12 milioni di euro. La Cascina, sottobanco, si allea con il ras delle cooperative e braccio imprenditoriale di Massimo Carminati e, ovviamente, grazie ai loro contatti, riescono ad aggiudicarsi la gestione del centro. È proprio Buzzi a cercare l'accordo chiamando Francesco Ferrara della "Cascina" il 7 agosto scorso: "Famo un accordo io e te - gli dice - nun ce famo la guerra. Ce la dividiamo tra amici". Il business va in porto anche grazie alla corruzione del sindaco di Castelnuovo, Fabio Stefoni, ieri arrestato: aveva chiesto 50 centesimi a immigrato e il 10 per cento sull'intero affare. Ed è proprio per Castelnuovo che Odevaine comunica a Buzzi di aver agganciato il sottosegretario al ministero dell'Interno, Domenico Manzione. Racconta sempre Odevaine che "La Cascina" ha rapporti in particolare con Ncd. Nomina una serie di politici, tra i quali il ministro Angelino Alfano, l'ex ministro Maurizio Lupi e il sottosegretario all'Agricoltura, Giuseppe Castiglione. Immediata la replica del partito: "Cl non ha mai finanziato la nostra formazione politica". Giustizia: in galera per 22 anni da innocente, ora Giuseppe Gulotta racconta la sua storia di Francesco Lo Dico Il Garantista, 5 giugno 2015 Era il 7 novembre 2014, quando "Il Garantista" vi aveva raccontato insieme all'avvocato Baldassarre Lauria, il più grande caso di ingiustizia dal dopoguerra a oggi. Protagonista di quella storia era Giuseppe Gulotta, un galantuomo di Alcamo finito dietro le sbarre appena diciottenne nel 1976, che ha speso 36 anni della sua vita tra galera e tribunale pur essendo innocente. Accusato dell'omicidio di due carabinieri, di aver fatto un blitz nella casermetta di Alcamo, Gulotta si rivelò molti anni dopo al centro di una sporca macchinazione di Stato che lo vide torturato e incriminato per nascondere l'indifendibile: un omicidio di Stato, voluto da Gladio e servizi deviati, che trovò in Giuseppe il perfetto capro espiatorio grazie a una confessione, estorta con la tortura, che lo costrinse a dichiararsi colpevole. Dopo qualche anno di silenzio, dopo vani tentativi di ottenere giustizia per i ventidue anni di carcere scontati da innocente, Giuseppe Gulotta ha deciso di raccontare la sua incredibile storia in "Alkamar" (il nome della piccola caserma di Alcamo che gli cambiò per sempre la vita), libro verità che ha scritto per ChiareLettere, e che presenterà il 10 giugno alle 19 e 30 presso "La luna ribelle" di Reggio Calabria assieme al giornalista Nicola Biondo. All'evento, ideato e realizzato dalla Fondazione "Giuseppe Marino" e introdotto da Daniela Bonazinga, saranno presenti anche Antonio Marino, presidente Fondazione "Giuseppe Marino", Giuseppe Falcomatà, Sindaco di Reggio Calabria, Giovanni Muraca, Assessore comunale alla Legalità, Pardo Cellini e Baldassarre Lauria, avvocati, e suoi difensori. La data scelta per l'uscita del libro non è casuale. Proprio il 10 giugno, al tribunale di Reggio Calabria, si terrà difatti l'udienza relativa alla causa civile per il deposito delle perizie che verificheranno gli eventuali danni esistenziali, morali, biologici e patrimoniali subiti da Giuseppe Gulotta. Per comprendere di che tenore sarà il racconto di questo uomo mite, che pure non riesce a esprimere nemmeno un'ombra di rancore verso i suoi carnefici, ma soltanto rammarico per il figlio che non è riuscito a crescere, basti riandare con la memoria al racconto del suo legale Lauria. Che bene raccontò al nostro giornale, sulla base della confessione dell'ex brigadiere Olino, uomo meritevole che lasciò la divisa dopo gli orrori vissuti, come andarono le cose. "Gulotta, Ferrantelli e Santangelo vennero arrestati nella notte del 12 febbraio - ricorda Lauria - e brutalmente torturati e picchiati. Smisero di fare loro del male soltanto quando si autoaccusarono della strage di Alcamo. Tutto accadde in assenza dei loro difensori. C'era anche un allora giovane magistrato della Procura di Trapani, che assistette a quell'orrore senza farne denuncia. Non ebbe il coraggio di firmare i verbali. Lo chiameremo a rispondere di quella condotta". "Giuseppe Gulotta - prosegue l'avvocato - fu arrestato e riempito di botte per una notte intera. Fu preso a calci, gonfiato di pugni, gli puntarono le pistole alla tempia, gli presero a calci i genitali. Bevve acqua salata. Smisero di farlo a pezzi soltanto quando ebbero ciò che volevano: la confessione di essere stato il responsabile dell'eccidio in caserma". Il perché di tutta questa barbarie, giova ancora una volta ricordarlo. Ed ha a che fare con "Alkamar", la casermetta in cui prestavano servizio due carabinieri sbagliati. Pochi giorni prima avevano fermato un camioncino che dovevano fingere di ignorare. Era carico d'armi destinate alla mafia. Armi di cui lo Stato sapeva negli anni sporchi di gladio. Leonardo Messina riferì alla Dia nel 99 che ad Alcamo, proprio negli anni dell'eccidio, era stato programmato un attacco a varie sedi delle istituzioni. Era giunto un contrordine, ma ormai il pasticcio era fatto. Trucidare i due uomini di Stato impiccioni, per lo Stato deviante non fu per nulla complicato. Le uniche complicazioni le ebbe Gulotta. Oggi finalmente Giuseppe può raccontare la sua storia. Da uomo libero. Da uomo distrutto che però non ha perso fiducia nelle istituzioni. Ce lo ha raccontato l'avvocato Lauria: "Dice che ha un solo rammarico, Giuseppe. Dice che quando finì in carcere aveva un bimbo di un anno e mezzo. Gli sarebbe piaciuto accompagnarlo a scuola. Almeno un giorno. Un giorno solo della sua vita". Giustizia: io, in fuga dalla ‘ndrangheta… il caso del detenuto-scrittore Carmelo Gallico di Massimo Nava Corriere della Sera, 5 giugno 2015 Carmelo Gallico non ha mai partecipato ad azioni violente, non si è macchiato di omicidi, ha denunciato la cultura mafiosa, ma è tuttora in carcere. "Sono nato in terra di faide e ‘ndrangheta….ho sperato di vivere la vita normale di ogni mio coetaneo….non avevo previsto che i peggiori nemici non erano coloro che si nascondo dietro una lupara, ma il pregiudizio che mi ha catalogato per l'appartenenza a una terra e a una famiglia e non per quello che ero e avrei voluto essere". È una lettera forte e amara che Carmelo Gallico scrive al Corriere, nella speranza che qualcuno lo ascolti, dopo una vita di processi, condanne e latitanze. A 53 anni, la sua è stata un'esistenza in fuga. Più che da polizie e procure, da un'identità che lo ha marchiato fin dall'adolescenza e che ha cercato di cancellare con un dono del destino, l'unico : la scrittura. Bella, appassionata, forgiata dalla cultura dietro le sbarre e dalle sofferenze patite, al punto da definirsi "voce narrante del dolore". "Soltanto così la mia vita ha ancora un senso". La scrittura gli ha permesso di raccontarsi in un libro ("Senza scampo, la mia vita rubata da faide e ‘ndrangheta", ed. Anordest 2013), di denunciare il suo mondo di arcaismi familiari, il gorgo di vendette e complicità che ti risucchia e ti spinge in basso ogni volta che tenti con tutte le tue forze di risalire. La scrittura gli ha regalato la beffa di un premio prestigioso, il "Bancarella" per la migliore recensione, ottenuto con lo pseudonimo Erasmus. Altrimenti perché la giuria avrebbe dovuto prendere in considerazione lo scritto di un detenuto per mafia? Anche di fronte al "tribunale" della cultura, Gallico dovette dimostrare la sua "innocenza", ossia che lo scritto era farina del suo sacco, frutto degli studi proseguiti in carcere, fino alla laurea in giurisprudenza, e delle letture di filosofia davvero sterminate, come hanno "testimoniato" i direttori dei penitenziari in cui è passato. A rileggere la sua vicenda personale e giudiziaria, viene spontaneo il confronto Cesare Battisti, condannato per quattro omicidi e terrorismo, rifugiato in Francia, tutt'ora latitante in Brasile. Ma non è un confronto di pene da scontare né di responsabilità, bensì di risonanza mediatica, di indulgenza intellettuale, di retroscena politici che hanno regalato a Battisti il beneficio del dubbio, il diritto a una nuova vita e la fama letteraria. Nel caso di Carmelo Gallico, sembra invece che la giustizia abbia fatto il suo corso inesorabile, usando il moltiplicatore aritmetico delle pene e gettando via la chiave. La sua prima colpa è di essere nato a Palmi. La seconda di appartenere alla famiglia Gallico, uno dei clan più noti in Calabria, coinvolto anni fa in una terribile faida con un clan rivale. La terza di essere fuggito, pensando di essere inseguito da tanti Javert. La casa dei Gallico venne distrutta da una bomba, il padre e capo clan riuscì a nascondersi, i fratelli e sorelle finirono ad uno ad uno dietro le sbarre per vicende di mafia. Carmelo viene arrestato una prima volta con l'accusa di associazione mafiosa, perché avrebbe aiutato uno dei fratelli a sfuggire alla polizia. Scarcerato per decorrenza dei termini, è rimasto nascosto per nove anni, fino a quando viene arrestato una seconda volta. Scontata la pena, si trasferisce a Brescia, dove lavora come cameriere tutto fare presso l'abitazione di una signora che ha preso a cuore il suo caso: un'insegnante in pensione, ormai ottantenne, a sua volta in seguito condannata per avere favorito una delle ultime latitanze di Carmelo, in Spagna. Quando decide di tornare in Calabria per una breve vacanza, viene colpito da un nuovo provvedimento di custodia. Ha un momento di sconforto, decide di togliersi la vita, tagliandosi la giugulare. Lo salva una delle guardie, entrata per caso in quel momento nella sua cella. Comincia un lungo calvario, il carcere duro, in regime di 41bis. Una prima sentenza della Cassazione accoglie il ricorso contro l'ordinanza di custodia cautelare per mancanza d'indizi riguardo i reati contestati. L'illusione di riconquistare con la libertà anche la dignità di cittadino dura poco. Il tribunale del riesame di Reggio Calabria gli contesta la fittizia intestazione di un terreno, ossia il reato di associazione mafiosa, in quanto il Gallico gestirebbe attraverso prestanome i beni del clan. Condannato a vent'anni, ottiene una riduzione a dodici, in quanto riconosciuto come partecipante e non come capo della cosca. La sua vicenda è troppo complessa per essere riassunta in poche righe. Ma alcuni elementi, al di là dei riscontri giudiziari e della versione dell'imputato, sono certi: Carmelo Gallico non ha mai partecipato ad azioni violente, non si è macchiato di omicidi, ha denunciato la cultura mafiosa, ha voluto essere un esempio, almeno letterario, per tanti giovani della sua terra. Se il carcere, come si dice, ha senso perché restituisce individui alla vita, questo è un caso esemplare. La Corte di Cassazione dovrà stabilirlo il prossimo 8 giugno. Giustizia. Tar Lazio; legittima l'estradizione cittadino italo-brasiliano Henrique Pizzolato Dire, 5 giugno 2015 Il Tar del Lazio ha respinto il ricorso del banchiere Henrique Pizzolato, ex dirigente del Banco do Brasil condannato in patria a 12 anni e 7 mesi di reclusione nell'ambito della Tangentopoli brasiliana, che chiedeva la sospensione dell'esecuzione del decreto di estradizione in Brasile disposta dal ministro della Giustizia. Il 3 giugno 2015 la Sezione Prima del T.A.R. Lazio ha pronunciato ordinanza con la quale è stata rigettata la domanda cautelare del sig. Henrique Pizzolato, cittadino italo-brasiliano, volta ad ottenere la sospensione dell'esecuzione del decreto del Ministro della Giustizia italiano che ne disponeva l'estradizione in Brasile, in seguito a specifica richiesta della Repubblica Federativa Brasiliana e dopo che la Corte di Cassazione aveva riconosciuto la sussistenza dei presupposti ai sensi degli artt. 697 e ss. c.p.p. Il provvedimento del T.A.R. ha evidenziato il ristretto margine della sindacabilità del provvedimento ministeriale riconosciuta al Giudice amministrativo in questo campo, limitata a ipotesi di abnormità, illogicità o erroneità dei presupposti, nel caso in esame ritenuti assenti, in quanto è risultata la sussistenza di dichiarazioni e impegni ad alto livello diplomatico da parte della Autorità brasiliane, discrezionalmente valutati dal Ministero della Giustizia. In base a tali impegni l'interessato sarà recluso in un'ala speciale del carcere di destinazione e non unitamente agli altri detenuti, nelle loro medesime condizioni carcerarie, secondo il profilo che la stessa Corte di Cassazione aveva rimandato alla valutazione del Ministro. In sostanza, alla luce degli impegni diplomatici e delle norme dei trattati vigenti tra i due Paesi, il giudice amministrativo ha operato un mero scrutinio di legittimità sul provvedimento impugnato, senza entrare, non avendone il potere, nell'ambito di valutazioni di merito che erano già state oggetto di deliberazione di altro giudice e del Ministro della Giustizia, secondo la ripartizione delle rispettive competenze. La messa alla prova dell'imputato va accolta anche senza la confessione di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione V civile - Sentenza 4 giugno 2015 n. 24011. "La confessione da parte del richiedente del fatto oggetto dell'imputazione non integra un requisito della sospensione del procedimento con messa alla prova". Questo il principio di diritto espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 24011/2015. Sul tavolo della Corte è finita una vicenda in cui il Tribunale di Brescia - pur riconoscendo nei confronti dell'imputato la possibilità (in relazione alla pena da espiare) di ottenere il beneficio della emessa alla prova - tuttavia, tale misura non doveva essere concessa in assenza da parte dell'imputato di una volontà di eliminare le conseguenze dannose e pericolose del reato non solo per oggettive difficoltà economiche, ma, soprattutto, per l'atteggiamento sostanzialmente denegatorio della propria penale responsabilità, condizione quest'ultima che era di ostacolo al programma di risocializzazione. La risposta della Cassazione - I Supremi giudici, invece, hanno accolto la richiesta dell'imputato considerando quanto previsto in materia dalla recente legge 67/2014. Quest'ultima infatti non annovera tra i presupposti per la messa alla prova la confessione in senso stretto da parte dell'imputato. Questo perché il giudice deve formare il proprio convincimento e quindi il giudizio sulla serietà e volontarietà dell'imputato di intraprendere un percorso di risocializzazione anche da altri elementi che esulano dalla confessione come ad esempio prendere in considerazione il programma di trattamento elaborato o in corso di elaborazione dall'Uepe (Ufficio di esecuzione penale esterna). Si legge, peraltro, nella sentenza che così come previsto dall'articolo 464-quater comma 3, del cpp la sospensione è disposta quando il giudice, in base ai parametri previsti dall'articolo 133 cpp, reputa idoneo il programma presentato e ritiene che l'imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati. Conclusioni - D'altra parte chiarisce la Corte che la qualificazione del fatto-reato quale requisito per la sospensione con messa alla prova risulta assolutamente incompatibile sul piano sistematico con la complessiva disciplina dell'istituto: posto che in caso di revoca dell'ordinanza di sospensione il procedimento riprende il suo corso, "la subordinazione dell'accoglimento dell'istanza all'ammissione del fatto-reato rivelerebbe, in tale ipotesi, profili di tensione con le garanzie sostanziali e processuali dell'imputato". L'ordinanza emessa dal Tribunale di Brescia, pertanto, va annullata e rimessa ai giudici che si dovranno attenere al principio di diritto enunciato. "Particolare tenuità del fatto", inoffensive otto telefonate anonime di Antonino Porracciolo Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2015 Corte di appello di Caltanissetta - I sezione penale - Depositata il 28 aprile 2015. La particolare tenuità, che in base all'articolo 131-bis del Codice penale esclude la punibilità del reo, ricorre in presenza di un fatto inoffensivo o che, comunque, determina una minima lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice. È quanto emerge da una sentenza della Corte d'appello di Caltanissetta (presidente Aloisi, relatore Occhipinti), depositata lo scorso 28 aprile. Nel primo grado del giudizio, l'imputato era stato condannato per il reato previsto dall'articolo 660 del Codice penale ("Molestia o disturbo alle persone") perché, attraverso l'uso del telefono cellulare, aveva contattato in maniera anonima un uomo, ritenendo che lo stesso avesse una relazione sentimentale con la propria moglie. Contro la sentenza ha proposto appello la difesa del condannato, chiedendone l'assoluzione. A seguito dell'entrata in vigore della norma contenuta nell'articolo 131-bis del Codice penale, il procuratore generale e il difensore dell'imputato hanno quindi domandato una pronuncia di non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto. Nell'accogliere l'istanza, il giudice d'appello afferma che la nuova disposizione "appare chiara nell'ancorare il giudizio di non punibilità (...) a dati obiettivi", costituiti dalle modalità della condotta e dalle caratteristiche del danno. La "lieve entità del fatto" - prosegue la Corte - è già stata usata dal legislatore "quale strumento giuridico di personalizzazione della pena". Ciò è avvenuto, per esempio, nell'articolo 648 del Codice penale, che prevede la circostanza attenuante speciale della "particolare tenuità" per il reato di ricettazione. O, ancora, nell'articolo 626 dello stesso Codice, che richiede la querela della parte offesa per la punizione del furto di "cose di tenue valore" (commesso per provvedere a un grave e urgente bisogno). La "particolare tenuità" prevista dall'articolo 131-bis del Codice penale ha oggi lo scopo di "fare regredire la soglia della rilevanza penale tutte le volte in cui il fatto - si legge nella sentenza - risulti esprimere un livello minimo di offensività, pur continuando a essere astrattamente conforme a un modello tipico di reato". L'offensività diventa dunque "elemento costitutivo dell'illecito penale", giacché la sua mancanza rappresenta un "limite all'applicazione della sanzione". E spetta "alla prudente valutazione del giudice un'interpretazione adeguatrice delle norme" così da rendere la risposta dell'ordinamento più conforme "al nuovo "sentire sociale", ovvero all'evoluzione dei costumi". Nel caso esaminato, la condotta ascritta all'imputato rientra "nell'alveo delle ipotesi di "particolare tenuità"", essendo consistita in un numero limitato di telefonate (8 in totale) effettuate in un arco di tempo contenuto (11 giorni). Nuove norme sugli eco-reati: i dubbi della Cassazione di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2015 Corte di cassazione - Ufficio del Massimario - Sezione penale - Rel. III 4 2015. Con un provvedimento fiume (36 pagine ) dell'ufficio del Massimario, la Corte di cassazione traccia le prime linee guida sulla controversa legge 68/2015 che ridisegna i reati ambientali. Un documento asettico, come è nel ruolo dell'istituzione, ma che non manca di sottolineare problemi strutturali delle nuove norme, dal lessico al coordinamento con il Codice ambientale e con il vecchio reato "innominato" (articolo 434 del Codice penale) utilizzato nelle recenti, grandi inchieste sui disastri ambientali. Per quanto riguarda il delitto di inquinamento ambientale (da 1 a sei anni e fino a 100 mila euro di multa) secondo la Corte i punti critici sono i concetti di "deterioramento e compromissione" e, soprattutto, la "misurabilità" del danno. Sul primo aspetto, dopo aver stabilito una continuità tra l'illecito disegnato nel codice ambientale e il nuovo reato - in sostanza sono compatibili - il relatore suggerisce una sostanziale identità di significato tra le due condotte distruttive ( deterioramento e compromissione), che peraltro traggono ispirazione dalla direttiva 99/2008. La misurabilità del danno invece, a giudizio della Cassazione, nonostante abbia sollevato notevoli polemiche, è un requisito necessario della fattispecie - appunto per non cadere in una indeterminatezza discrezionale poco compatibile con il principio di tassatività - e inoltre delimita il reato: il livello di "ingresso" è il superamento delle soglie di rischio autorizzate (nel caso appunto di attività inquinanti lecite), mentre il confine superiore è il più grave illecito di disastro. Ma è sull'oggetto del deterioramento che sorgono i problemi più seri: l'ecosistema citato dal legislatore, pur avendo un rilievo costituzionale (articolo 117) non ha una definizione legislativa, pertanto le Corti si misureranno con le indicazioni della scienza e, soprattutto, si atterranno al dato normativo che esige la compromissione non "dell'" (intero) ecosistema, ma "di un" (solo, anche se minuscolo) ecosistema. Certamente però, secondo la Corte, la nuova strutturazione del reato come di evento - e non più di pericolo - rende più difficile la ricostruzione del nesso causale, non bastando più oggi il semplice superamento dei valori soglia per l'incriminazione. Quanto all'abusività della condotta, la Cassazione finisce per inquadrare l'avverbio in una formula "elastica" necessaria per ricomprendere una platea di fattispecie non esauribile in un dettagliato, e perciò limitato, elenco di condotte tipizzate. Problemi di inquadramento sorgono con l'aggravante dell'evento morte (articolo 452-ter), soprattutto perché non è prevista per il più grave reato di disastro ambientale. Secondo il relatore si crea il paradosso di un evento giuridico tale da provocare la morte di una persona fuori dai casi di disastro e, soprattutto, fuori da un contesto di "irreversibile compromissione" dell'ambiente. Ma è proprio nel nuovo reato di disastro ambientale (452-quater) che si intravedono problemi, soprattutto perché si passa dal delitto a consumazione anticipata del vecchio "disastro innominato" (in cui l'evento è una semplice circostanza aggravante) a una vera fattispecie di evento, con tre presupposti alternativi: la compromissione irreversibile di un'ecosistema, ovvero un suo risanamento comunque troppo oneroso o lungo, o ancora l'intensità dell'offerta alla popolazione. La questione, qui, sta proprio nell'aver separato due aspetti - l'elemento dimensionale del disastro e quello dell'offesa - che la giurisprudenza costituzionale aveva considerato legati, e legittimi, nel vecchio disastro colposo innominato. Delicato poi il rapporto tra il principio di precauzione previsto nel Codice ambientale e il reato colposo all'articolo 452- quinquies (inquinamento o disastro per colpa) del Codice penale. Secondo la Corte per il secondo vale sempre la regola della prevedibilità dell'evento lesivo. Temi non risolti dalla legge sono poi il ravvedimento operoso, le aggravanti e la confisca per equivalente, mentre per la prescrizione - che pure può arrivare a cinquant'anni per i casi più gravi - si pone il problema del tempus commissi delicti legato alla struttura "a evento" del reato, che nei casi più subdoli di inquinamento certo non agevola la ricerca della prova e la dimostrazione del nesso causale. Attività per il traffico illecito di rifiuti: è reato se c'è organizzazione di Mauro Calabrese Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2015 Per potersi configurare il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all'articolo 260 del Dlgs 3 aprile 2006 n. 152, Codice dell'ambiente, deve essere riscontrato il requisito dell'organizzazione professionale di mezzi e capitali, seppure rudimentale, finalizzata al conseguimento di un ingiusto profitto, attraverso la gestione di ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo e abituale, realizzata con una pluralità di condotte. A pochi giorni dall'entrata in vigore della legge 22 maggio 2015, n. 68 recante "Disposizioni in materia di delitti contro l'ambiente", che ha introdotto nel codice penale un rinnovato nucleo di reati contro l'ambiente, la Corte di Cassazione, sezione III, con la sentenza n. 18669 del 6 maggio 2015torna a riaffermare i presupposti per l'applicazione della prima e più importante disposizione penale a tutela dell'ambiente. Il reato L'articolo 260 Dlgs 152/2006 punisce "Chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni. Se si tratta di rifiuti ad alta radioattività si applica la pena della reclusione da tre a otto anni.". Si prevede quindi un reato comune, di pericolo presunto e di pura condotta, in cui è richiesto l'elemento soggettivo del dolo specifico, poiché prevede, in capo al reo, il fine di conseguire un ingiusto profitto, che non deve necessariamente assumere natura patrimoniale, potendo essere integrato anche da un risparmio di costi o dal perseguimento di vantaggi economici di altra natura. Si tratta inoltre di reato abituale in quanto integrato necessariamente dalla realizzazione di più comportamenti della stessa specie. Le nuove norme inserite nel titolo VI bis del Codice penale, sono intervenute anche sul disposto dell'articolo 260 Dlgs 152/2006, estendendo, anche alla fattispecie in esame, l'operatività dei benefici del ravvedimento operoso oltre a introdurre un nuovo comma "4-bis", a tenore del quale, anche per le ipotesi di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, è sempre ordinata la confisca delle cose che servirono a commettere il reato o che costituiscono il prodotto o il profitto del reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato, anche per equivalente, su beni di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità. Prevista inoltre, la confisca di valori ingiustificati e l'incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione. La condotta La condotta punibile, deve, secondo la ricostruzione della giurisprudenza, consistere nel compimento di operazioni e attività ripetute, continuative e organizzate, con la predisposizione di mezzi e capitali, quale una struttura organizzativa di tipo imprenditoriale, idonea e adeguata a realizzare l'obiettivo criminoso, anche se non in via esclusiva, potendo l'attività criminosa essere marginale o secondaria rispetto all'attività principale lecitamente svolta. Sottolineano gli Ermellini come la legge richieda che la realizzazione di una pluralità di operazioni, tipizzate nelle attività di cessione, ricezione, trasporto, esportazione, importazione, o comunque gestione abusiva di rifiuti già sanzionate penalmente nella Parte quarta del Dlgs n. 152 del 2006, debba coesistere con la predisposizione di una struttura organizzata, non occasionale, con l'allestimento di mezzi e attività continuative e abituali, in continuità temporale, finalizzate alla abusiva gestione di ingenti quantità di rifiuti: "alla pluralità delle azioni, - recita la pronuncia - che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica violazione di legge, e perciò il reato è abituale dal momento che per il suo perfezionamento è necessaria le realizzazione di più comportamenti della stessa specie". Il quantitativo "ingente" L'ulteriore elemento costitutivo del reato riguarda la determinazione, da parte del giudice, dei criteri in base ai quali ritenere sussistente la natura ingente del quantitativo dei rifiuti gestiti illecitamente, che devono riguardare non solamente la mole dei rifiuti stessi, ma anche la potenziale pericolosità e gravità dei danni provocabili per i beni giuridici tutelati dalla fattispecie, ovvero il bene ambiente e la tutela dell'incolumità pubblica, tenendo conto della natura del rifiuto, delle caratteristiche di sensibilità e vulnerabilità del luogo in cui l'illecito è commesso, della la tipologia di condotta. "Abusivamente" Come messo in luce dal dibattito in ordine alla richiamata recente approvazione dei nuovi delitti ambientali, che hanno previsto la costruzione di fattispecie di reato con l'introduzione del medesimo avverbio, la condotta punibile dal reato in esame deve quindi essere compiuta "abusivamente", ovvero, secondo l'interpretazione sviluppata dalla giurisprudenza di legittimità, senza le autorizzazioni necessarie, ma anche con la continuativa inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni, con autorizzazioni palesemente illegittime o scadute, oppure ancora quando, pur formalmente rispettando le prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazione stesse, per le modalità concrete con cui sono esplicate le attività, queste risultano totalmente difformi dal provvedimento autorizzativo. Il caso concreto Nel caso deciso dalla Cassazione, la corte ha annullato la decisione dei giudici del Riesame, verso un provvedimento di sequestro cautelare ai danni di una società appaltatrice di lavori di bonifica di un sito minerario che faceva trasportare lastre di cemento-amianto rimosse dal sito e destinate alla discarica senza che fosse stato osservato il preliminare trattamento (cd incapsulamento), constatando che l'indagine non aveva correttamente accertato il rigoroso rispetto delle prescritte modalità di smaltimento. Disegno di legge di riforma dell'azione collettiva, class action con procedura in 3 fasi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2015 Una class action con procedura in 3 fasi (decisione sull'ammissibilità dell'azione, sul merito e liquidazione delle somme dovute agli aderenti). Con un modello di adesione ibrido che miscela elementi più tradizionali con altri tipici degli ordinamenti giuridici anglosassoni. La riforma della class action che mercoledì sera è stata approvata all'unanimità dalla Camera punta a un notevole rafforzamento dell'istituto. La prima fase si conclude con il giudizio di ammissibilità dell'azione: la class action va proposta con citazione davanti al tribunale delle imprese (competenza prevista anche dal disegno di legge delega sul nuovo Codice di procedura civile). L'atto è poi pubblicato nell'area pubblica del portale dei servizi telematici gestito dal ministero della Giustizia, con l'obiettivo di rendere il più agevole possibile la reperibilità delle informazioni. Entro 30 giorni dalla prima udienza il tribunale decide sull'ammissibilità; l'azione sarà dichiarata inammissibile: il verdetto sarà di inammissibilità se: • manifestamente infondata. Ne sarà possibile una nuova proposizione in presenza di circostanze diverse o nuove ragioni di fatto o di diritto; • carente del requisito dell'omogeneità dei diritti; • l'attore è in conflitto di interessi nei confronti del convenuto; • proposta da associazioni o comitati non adeguatamente rappresentativi degli interessi fatti valere. L'ordinanza di inammissibilità è impugnabile in Corte d'appello, che decide entro 40 giorni, e poi ricorribile in Cassazione (viene così sciolto il nodo che, con la disciplina attuale, meno chiara, ha fatto porre la questione alle Sezioni unite). Il procedimento per l'adesione all'azione di classe può avvenire in due distinti momenti. Innanzitutto nella fase immediatamente successiva all'ordinanza che ammette l'azione. In questo caso, è lo stesso tribunale, nell'ordinanza, a fissare un termine per l'adesione e a definire i caratteri dei diritti individuali omogenei che consentono l'inserimento nella classe. Nella fase successiva alla sentenza di condanna: il tribunale, infatti, con la sentenza che accoglie l'azione provvede sulle domande di risarcimento proposte; nello steso tempo, però, definisce i caratteri dei diritti individuali omogenei che permettono l'inserimento nella classe, individua la documentazione che dovrà essere prodotta dagli aderenti e assegna un termine non superiore a 180 giorni per l'adesione. Con la sentenza viene nominato anche un giudice delegato per gestire la procedura di adesione e un rappresentante comune degli aderenti. La terza fase disciplina l'accoglimento delle domande di adesione da parte del giudice delegato e condanna il convenuto al pagamento delle somme dovute agli aderenti. È previsto che, in seguito della presentazione delle domande di adesione, l'impresa abbia la possibilità di prendere posizione su ciascuna domanda; successivamente, il rappresentante comune degli aderenti predispone un programma nel quale indica, per ciascun aderente, l'importo che il convenuto dovrà liquidare, chiedendo eventualmente al tribunale la nomina di esperti. Il giudice delegato decide quindi con decreto succintamente motivato sull'accoglimento, anche parziale, delle domande di adesione. Diritto dei consumatori: paga l'impresa per il danno entro 6 mesi di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2015 Corte di giustizia europea - causa C-497/13 - Sentenza del 4 giugno 2015. Il giudice nazionale deve verificare d'ufficio se il contraente, che ha subito il danno e che rivendica la responsabilità del venditore, è un consumatore e applicare, quindi, la direttiva 1999/44 sulla vendita e le garanzie dei beni di consumo (recepita in Italia con Dlgs 2002/24). Con una presunzione di responsabilità sul venditore se i difetti del prodotto si manifestano entro sei mesi dalla consegna. È la Corte di giustizia dell'Unione europea a intervenire, con la sentenza di ieri (C-497/13 ), per stabilire gli obblighi dei giudici nazionali, tenuti a interpretare il diritto interno in modo conforme alla direttiva Ue, che pure non ha effetti diretti, assicurando il rispetto del principio di effettività. A vantaggio dei consumatori che non hanno l'onere di provare la causa del difetto di un prodotto se si manifesta entro sei mesi e se la contestazione avviene entro due mesi. In questa ipotesi, infatti, si presume che i difetti di conformità già esistessero. È stata la Corte di appello di Arnhem (Paesi Bassi) a chiamare in aiuto Lussemburgo. Una donna aveva acquistato un'automobile usata da un'autorimessa che, però, aveva preso fuoco. L'autoveicolo era stato demolito e la donna aveva chiesto al venditore la restituzione del valore del mezzo. In primo grado la donna aveva avuto torto. I giudici nazionali non avevano applicato la direttiva perché la stessa ricorrente non l'aveva richiamata non chiarendo se, nell'acquisto, avesse agito come consumatore o nell'esercizio della sua attività professionale. I giudici di appello si sono rivolti a Lussemburgo. Prima di tutto, la Corte Ue ha precisato che i giudici nazionali hanno l'obbligo di verificare d'ufficio se pende una questione relativa al diritto dell'Unione. Questo vuol dire che i giudici interni sono tenuti ad accertare se l'acquisto è stato effettuato dal contraente come consumatore, anche se la questione non è sollevata nel procedimento nazionale, interpretando così il diritto interno, che ha recepito la direttiva, in modo conforme al diritto dell'Unione. La Corte ha anche chiarito la natura di norma di ordine pubblico dell'articolo 5, paragrafo 3 della direttiva che prevede l'inversione dell'onere della prova a vantaggio del consumatore se il difetto di un prodotto si manifesta entro 6 mesi dall'acquisto e se la denuncia di non conformità avviene entro due mesi dal manifestarsi dell'evento. Senza oneri eccessivi sull'acquirente che già subisce un danno a pochi mesi dall'acquisto. In questo caso, il consumatore non è tenuto a dimostrare la causa del difetto né a provare che l'origine è imputabile al venditore. Che, però, può ribaltare la presunzione a suo danno e provare, con elementi giuridicamente sufficienti, che la causa è sopravvenuta alla consegna del bene. Corte Ue, sì all'esame di educazione civica per gli immigrati di lungo periodo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2015 Sentenza della Cgue, causa C579/13. Gli Stati membri possono imporre ai cittadini di Paesi terzi, che siano soggiornanti di lungo periodo, l'obbligo di superare un esame di integrazione civica. Tuttavia, le modalità non devono essere tali da compromettere la realizzazione degli obiettivi di integrazione perseguiti dalla direttiva 2003/109/Ce. Lo ha stabilito la Corte Ue, sentenza 4 giugno 2015, Causa C-579/13, respingendo il ricorso di due cittadine extra-Ue residenti in Olanda da oltre 7 anni che hanno impugnato l'obbligo del Governo di superare un esame di educazione civica e di lingua olandese. L'Olanda fissa un termine entro cui i soggiornanti di lungo periodo devono sostenere l'esame, e se i termini non vengono rispettati, infligge un'ammenda fino a 1000 euro. Per la Corte, dunque, un simile obbligo non viola la direttiva Ue in cui si prevede che gli Stati membri conferiscano lo status di soggiornante di lungo periodo ai cittadini di Paesi terzi che hanno soggiornato nel loro territorio legalmente e ininterrottamente per cinque anni. Infatti, prosegue la sentenza, la direttiva "non impone né vieta agli Stati membri di esigere dai cittadini di Paesi terzi l'adempimento di obblighi di integrazione dopo aver ottenuto lo status di soggiornante di lungo periodo". Ma "è innegabile che l'acquisizione di una conoscenza di lingua e società dello Stato membro ospitante favorisca l'interazione e lo sviluppo di rapporti sociali tra i cittadini nazionali e dei Paesi terzi e faciliti l'accesso a mercato del lavoro e formazione professionale". Tuttavia, le modalità di attuazione di tale obbligo non devono essere tali da compromettere gli obiettivi della direttiva. Ovvero, la Corte ritiene che si debba tener conto "in particolare del livello di conoscenze richiesto per superare l'esame, dell'accessibilità ai corsi e al materiale necessario per preparare l'esame, degli importi applicabili a titolo di costi d'iscrizione o ancora delle circostanze individuali particolari, come l'età, l'analfabetismo o il livello di istruzione". Con riguardo poi all'effetto combinato della ammenda (pari a 1.000 euro ogni volta che i termini per l'esame non vengono rispettati) e dei costi di iscrizione (230 euro da pagare anche questi tutte le volte), la Corte afferma che spetta al giudice del rinvio verificare se una simile spesa possa compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva 2003/109 e, pertanto, privarla del suo effetto utile. Lettere: e alla fine Travaglio epurò pure Cantone di Pietro Mancini Il Garantista, 5 giugno 2015 Marco Travaglio, che ha accusato il Presidente dell'Authority anti-corruzione di aver preso "delle cantonate" sullo scontro tra "lo sceriffo di Salerno", De Luca", e la pia ( di recente, mica tanto...) vestale dell'Antimafia, Rosy Bindi? Potremmo, anche noi, sorridere dell'ironia del collega piemontese. Come abbiamo fatto, l'altra sera, assistendo all'intervista, in ginocchio, del conduttore di un talk Tv a Travaglio, che era stato invitato per presentare il suo ultimo libro-requisitoria contro i giornalisti, ritenuti troppo ossequiosi con i potenti delle "infami Caste". Tutte, meno quella in toga. Ma la questione è più seria. E non si risolve con una battuta, pur se azzeccata. E neppure rispolverando il notissimo monito di Pietro Nenni ai puri a fare attenzione a quelli, più puri di loro, che li epureranno. I nodi sono, a nostro avviso, 2. Il primo: in questo Paese, le cose non filano alla perfezione, eufemismo, perché quasi nessuno osserva le regole e si limita a fare il proprio mestiere. A Cantone, che è stato un ottimo magistrato, il governo ha affidato un incarico molto delicato : vigilare sui meccanismi delle pubbliche amministrazioni affinché non si ripetano scandali, non volino tangentone e le gare di appalto si svolgano nella massima trasparenza. Dunque, l'ex toga partenopea non può essere tirata per la giacca ne dai politici, che lo candidano a tutte le poltrone, come il suo collega calabrese, Gratteri, e come, una vita fa, Di Pietro. Né bacchettato dai giornalisti per aver rilasciato un'intervista a una brava cronista de "La Repubblica", sua concittadina, Conchita Sannino, nella quale ha detto delle cose molto ragionevoli. In primis, che la black list degli "impresentabili" è stata un "passo falso" e un "grave errore istituzionale" dell'Antimafia. Il secondo punto, caro Travaglio, sta proprio qui. È vero che l'Antimafia non è l'Accademia dei Lincei. Ma è un organismo, delicato, da guidare con equilibrio, con funzioni di vigilanza, politica e istituzionale. E che, come ha documentato il direttore di questo giornale, è stato guidato in passato, con imparzialità e correttezza, da illustri personalità, che mai avrebbero "scomunicato", 72 ore prima del voto, per presunti reati, non connessi alla mafia, dei candidati alle elezioni. E non spetta a Cantone, come ha chiesto il direttore de "Il Fatto Quotidiano", esprimere solidarietà alla Bindi e schierarsi contro De Luca, che Travaglio non ama, arrivando ad accostarlo a Salvo Lima. Ma che gli elettori della Campania, con i loro voti (tutti inquinati?), hanno scelto come Governatore. Gli elettori, caro Caldoro, e non don Nicola Cosentino, che è in carcere preventivo da 2 anni, in attesa del processo, e neppure gli aderenti (chi sono?) alla loggia P3. Non è la prima volta che assistiamo a delle aspre contese tra esponenti del cosiddetto "partito, duro e puro, dei giudici" contro loro ex compagni di cordata. Qualche tempo fa, Travaglio fu molto duro con Violante, perché si era permesso, come Giorgio Napolitano e Giuseppe Ayala, collega e amico di Falcone, di esternare delle perplessità sul processone di Palermo contro i presunti responsabili della trattativa Stato-boss di 22 anni fa. E lo accusò, su "L'Espresso", di "aver fatto carriera, anche a colpi di antimafia progressista". Ieri, su "Il Garantista", abbiamo rievocato la vicenda di Giulio Andreotti, trascinato in giudizio a Palermo, dopo essere stato "mascariato", e neppure ascoltato a San Macuto, nel silenzio della Bindi, da Buscetta e "compagni assassini" davanti all'Antimafia di Violante. Ebbene, a proposito del caso-De Luca e degli scontri tra politica e magistratura, sottoponiamo ai lettori, e a Travaglio, una riflessione, che firmò proprio il Grande Inquisitore di "zu Giulio". "Democrazia e legalità-dichiarò, nel 2009, al "Corriere della Sera" proprio Gian Carlo Caselli-non sono pianeti diversi. Il consenso della maggioranza dei cittadini è, ovviamente, decisivo. Ma non esaurisce il controllo di legalità, affidato a una magistratura indipendente". Indipendente, dunque, non a parlamentari-giustizieri delle presunte malefatte dei loro compagni di partito, ma non di corrente, come De Luca, che la Bindi, nel 2010, elogiò come un campione della corretta ed efficiente amministrazione. E, dopo aver ricordato le liti di ex compagni di cordata giustizialista, come quella tra Antonio Ingroia e "Gigino ‘a manetta" de Magistris, che cacciò dalla sua giunta l'ex magistrato d'assalto, Narducci, non invitiamo Travaglio a "slurpare" De Luca. Ma, renzianamente, ad essere più sereno e meno tranchant nelle sue, legittime, critiche, senza "scantonare" negli insulti, e nelle derisioni e nella eccessiva personalizzazione delle polemiche. Luciano Violante non è un nostro beniamino. Ma non possiamo dar torto all'ex Presidente della Camera, che venne considerato il "braccio giudiziario" del Pei di Ugo Pecchioli, quando sottolinea, con forza, "la prevalenza del principio democratico sul principio di legalità". E rivolge a tutti un triplice invito, opposto a quello di Borrelli, ai tempi ruggenti di Mani Pulite : dialogare, dialogare, dialogare ! E i giudici, come scrisse Francis Bacon - ministro della Giustizia, in Inghilterra, sotto Re Giacomo I -siano "leoni. Ma leoni sotto il trono". Sardegna: Socialismo Diritti Riforme "nell'isola cresce il numero dei detenuti stranieri" Ristretti Orizzonti, 5 giugno 2015 "La Sardegna assiste costantemente all'arrivo di detenuti, prevalentemente stranieri, dalle carceri della Penisola. È la conferma che le nuove strutture sorte nell'isola non sono destinate a rafforzare la risocializzazione e il reinserimento sociale dei condannati ma primariamente ad alleviare il sovraffollamento negli Istituti ubicati dalle Alpi in giù. Un'amara considerazione confortata purtroppo da inequivocabili numeri". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento ai dati diffusi dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria relativi al mese di maggio appena trascorso. "Nella nostra realtà infatti - sottolinea - cresce il numero dei detenuti stranieri. Su 1.950 persone private della libertà, 509, pari al 26,1% del totale, non è italiana. Il dato è particolarmente significativo perché è il risultato dei trasferimenti nell'isola di cittadini considerati, troppo spesso a torto, senza legami familiari e per i quali quindi la territorialità della pena non è un principio da rispettare. Una sottovalutazione del Dap che il più delle volte genera disagio, squilibri e sofferenza durante l'espiazione e dopo la liberazione". "La fotografia ministeriale - evidenzia la presidente di Sdr - delinea una realtà detentiva con diverse percentuali di presenza straniera, prevalentemente extracomunitaria. L'indice più elevato si registra a Mamone-Lodè. Nella colonia penale si trovano 138 detenuti (per 392 posti) 109 dei quali sono stranieri (circa il 79% dei ristretti). La percentuale "scende" al 64,1% ad Arbus "Is Arenas" (50 stranieri su 78 reclusi per 176 posti). Sorprendente, per certi versi, la situazione di Sassari-Bancali con 149 persone non italiane su 361 detenuti (pari al 41%). A Isili, con 155 posti, ci sono invece 31 stranieri su 82 detenuti (37,7%). Salta agli occhi anche la situazione di Cagliari-Uta dove apparentemente la percentuale è bassa (18,8%) ma in numeri assoluti si tratta di 106 persone". "Le difficoltà - afferma ancora Caligaris - aumentano anche in considerazione del conclamato sovraffollamento di Tempio-Nuchis dove, a fronte di 167 posti regolamentari, sono presenti 198 detenuti (7 stranieri). Preoccupa la situazione di Sassari-Bancali con 361 ristretti per 363 posti e Cagliari-Uta in cui ci sono 563 ristretti per 567 posti effettivi (659 quelli regolamentari considerando il padiglione del 41 bis non ancora terminato). Insomma, ormai quasi tutte le celle costruite per ospitare due detenuti ne accolgono tre o addirittura quattro. In breve faranno di nuovo la loro bella figura i letti a castello. I dati del Dap (2.638 posti regolamentari), che comprendono le Colonie Penali sottodimensionate, non evidenziano le situazioni più difficili". "Ad aumentare le difficoltà di gestione è anche il numero degli Agenti di Polizia Penitenziaria rispetto ai detenuti. Sono infatti complessivamente circa 1.800, insufficienti per far fronte adeguatamente alle necessità dentro gli Istituti, soprattutto laddove diventano indispensabili le scorte e i piantonamenti. La realtà è capovolta nelle Colonie dove invece gli Agenti sono sufficienti. Le piante organiche dovrebbero quindi essere aggiornate e il Dap dovrebbe indire un nuovo interpello per consentire il ritorno in Sardegna ai Berretti Azzurri che lo desiderano. Il sistema detentivo nell'isola continua a presentare aspetti problematici, nonostante la buona volontà degli operatori, e grava in modo pesante sulla Magistratura di Sorveglianza che deve far fronte a una serie di incombenze burocratiche derivanti dalle più recenti disposizioni di legge. Il risultato è che spesso la liberazione anticipata viene concessa con notevoli ritardi e ciò - conclude Caligaris - incide negativamente sull'azione risocializzante e sulle attività di reinserimento". Piemonte: cartoline da "Marte", a Torino un temporary store delle produzioni carcerarie di Josephine Condemi Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2015 Creare un ponte tra dentro e fuori, attraverso dei prodotti che raccontino una storia. La storia di chi, nel dentro per eccellenza, il carcere, ci vive. La storia di chi, da fuori, guarda e non capisce. "Il carcere è un'istituzione totale, un mondo che molti non conosceranno mai, insomma, un po' Marte" ammette Giancarlo Boggia, presidente di "Extraliberi", cooperativa sociale che insieme all'associazione "La casa di Pinocchio" ha aperto a Torino, nel dicembre scorso, il primo jail concept store italiano. Ovvero, il primo negozio con brand che afferiscono a diverse cooperative operanti in carcere. Punto di riferimento, la legge 193/2000, la cosiddetta legge Smuraglia, che riconosce incentivi e sgravi contributivi a cooperative o imprese che assumano o svolgano attività formativa nelle carceri. Le cooperative, avendo dichiarato per statuto l'inserimento delle persone svantaggiate, sono dal 2000 i soggetti giuridici affermatisi come interlocutori principali delle case di reclusione. Ma come funziona? "Si fa una convenzione con il carcere" spiega Boggia "e alla cooperativa viene affidato uno spazio in comodato d'uso, generalmente in contiguità spaziale alle sezioni o ai padiglioni in cui sono posti i detenuti selezionati". Selezione che avviene in base ad una graduatoria stilata dagli operatori penitenziari che viene quindi vagliata dai formatori della cooperativa. Un periodo di prova, e "se ci troviamo bene a vicenda", il detenuto viene assunto. In Piemonte, si parlava da tempo di un emporio che raccogliesse e raccontasse l'esperienza delle dieci cooperative e associazioni impegnate negli istituti di pena per il miglioramento della qualità della vita dei detenuti: era nato nel 2013 un temporary store in occasione delle feste natalizie, chiamato appunto Marte, con il sostegno della Compagnia San Paolo e del Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria, il Prap. Da quell'esperienza, la volontà di tentare di tenere in piedi qualcosa di permanente. "Abbiamo rilanciato quest'anno, aprendo ad altre realtà fuori regione" conferma Boggia. Oltre i biscotti di Verbania e Saluzzo e il vino di Alba, compaiono tra gli scaffali le mandorle da Ragusa, i taralli da Trani, il pane da Brissogne (Val d'Aosta), le colombe pasquali da Busto Arsizio, i dolci da Rebibbia, le borse e gli accessori da Milano, le agende in plastica riciclata e i prodotti per cosmesi da Venezia. Tra il lavoro come sfruttamento e il lavoro come realizzazione di sé e formazione personale passa un confine sottilissimo: non c'è il rischio di strumentalizzare una situazione di disagio? "No, perché sono gli stessi detenuti che una volta selezionati devono manifestare un interesse verso l'attività" precisa Boggia. Seguendo i dati Istat, al 2013 risultavano detenute 62.536 persone su 47.709 posti di capienza con il 54,4% dei detenuti con meno di quarant'anni e una percentuale di occupazione del 23,3%. "Dentro si lavora in condizioni particolari, come si deduce. Non c'è telefono, mail, contatti con l'esterno, non tutti possono essere sempre presenti, c'è una buona dose di incertezza e ne occorre altrettanta di elasticità" continua Boggia, che dal 2007 si dedica alla serigrafia e alla stampa e ha scelto le attività in carcere complice una tesi "di diritto penale con cento pagine che mi hanno segnato sugli istituti di pena". Istituti che, secondo l'articolo 27 della Costituzione, dovrebbero favorire il reinserimento e la rieducazione del condannato. Rendendosi meno marziani. Civitavecchia (Rm): un bando comunale per il reinserimento lavorativo di detenuti ed ex terzobinario.it, 5 giugno 2015 C'è tempo fino al 22 giugno per aderire al progetto finanziato dalla Regione Lazio e presentato dai Servizi Sociali che prevede 16 tirocini lavorativi finalizzati al rientro nel circuito occupazionale di detenuti o ex tali. L'avviso è stato pubblicato sul sito del Comune lo scorso 26 maggio ed è riportato in fondo all'articolo. Questo il commento dell'assessore Daniela Lucernoni: "I nostri uffici hanno lavorato con il supporto della Regione Lazio a questa iniziativa destinata a detenuti ed ex detenuti e mi auguro che venga colta con ampia partecipazione questa opportunità di reinserimento sociale e lavorativo. C'è tempo per presentare la domanda fino al 22 giugno, raccomando agli aventi diritto di rispettare i tempi e le modalità di adesione". Il dirigente del servizio politiche del welfare rende noto: che la Regione Lazio, sulla base di progetti presentati dall'Ufficio Servizi Socio Assistenziali, ha concesso al Comune di Civitavecchia contributi per tirocini lavorativi, finalizzati al rientro nel circuito occupazionale di detenuti o ex-tali, assegnazione di n. 16 Tirocini lavorativi finalizzati al rientro nel circuito occupazionale, della durata di 12 mesi, per una attività di ore 25 settimanali e per un compenso mensile di € 500,00 a favore di: 5 Giovani adulti (18-25 anni) seguiti dal Servizio Sociale della Giustizia Minorile e sottoposti a misure alternative alla detenzione; 6 Ex Detenuti (18-55 anni) (massimo un anno dal fine pena e/o sottoposti a misure alternative alla detenzione; 5 Affidati (18-55 anni) al Servizio Sociali in esecuzione Penale esterna con un fine pena superiore a cinque mesi (affidati in prova al Servizio Sociale provenienti dalla detenzione o dalla libertà). I moduli per la richiesta possono essere ritirati presso l' Ufficio Servizi Sociali, sito in Via Cesare Battisti 14, il Martedì e Giovedì dalle ore 9,00 alle ore 12,00 o scaricati dal sito internet del Comune. La busta sigillata contenente la domande, dovrà essere indirizzata al: Comune di Civitavecchia - Piazzale Guglielmotti - recante la seguente dicitura : "Tirocini lavorativi finalizzati al rientro nel circuito occupazionale - Ufficio alla persona e socio-assistenziali- e presentata all'Ufficio Protocollo del Comune di Civitavecchia, pena l'esclusione, entro e non oltre le ore 12,00 del 22.06.2015. Modena: delegazione della Regione in visita alla Casa di Lavoro di Castelfranco Emilia Ansa, 5 giugno 2015 Una delegazione di consiglieri regionali, in gran parte della commissione Parità e diritti delle persone, accompagnati dalla Garante regionale dei detenuti, Desi Bruno, e dalla presidente della commissione, Roberta Mori, ha visitato ieri la Casa lavoro e reclusione a custodia attenuata di Castelfranco Emilia (Modena). La struttura di Castelfranco è composta da due distinte sezioni, di cui una per detenuti definitivi tossicodipendenti e la seconda per internati (soggetti sottoposti ad una misura di sicurezza detentiva), e registra la presenza di 102 persone. La Garante, Desi Bruno, ha rilevato "la necessità di arrivare ad un ripensamento delle misure di sicurezza detentive applicate nell'istituto", proponendone l'abrogazione: "Le casa di lavoro - ha sottolineato - rappresentano il conclamato fallimento della funzione rieducativa della pena e forniscono una risposta di tipo esclusivamente segregante ed emarginante a domande di tipo eminentemente assistenziale e sanitario". "La struttura penitenziaria di Castelfranco - ha aggiunto - pone una serie di criticità, la prima legata alla presenza nel nostro ordinamento delle misure di sicurezza detentive, come appunto la casa lavoro, che possono essere prorogare a tempo indeterminato, c'è quindi discrasia con la disciplina relativa al superamento degli Opg: il legislatore se ne deve occupare. C'è anche un problema di scarso utilizzo della sezione a custodia attenuata per i tossicodipendenti, pur essendoci ancora una percentuale elevata nelle nostre carceri di persone con queste problematiche. E poi c'è il problema di inutilizzo di un patrimonio immobiliare e agrario di dimensioni considerevoli, che va via via deteriorandosi, su questo l'amministrazione penitenziaria è in assoluto ritardo, è necessario che venga fatto un intervento strutturale per decidere cosa fare". La Commissione regionale Parità e diritti delle persone in visita alla Casa lavoro Un fortilizio, voluto nel 1626 da Papa Urbano VIII per difendere i confini dello Stato Pontificio, circondato da mura di cinta imponenti, che già nel 1805 perse di importanza strategica e venne trasformato in casa di pena. È la Casa lavoro e di reclusione a custodia attenuata di Castelfranco Emilia, nel modenese, un carcere a tutti gli effetti, dove però non c'è il lavoro, ovvero l'attività per la quale è stata pensata e istituita. La struttura di Castelfranco è composta da due distinte sezioni, di cui una per detenuti definitivi tossicodipendenti e la seconda per internati (soggetti sottoposti ad una misura di sicurezza detentiva), e registra la presenza di 102 soggetti (96 internati e 6 detenuti), principalmente di origine lombarda (24) e campana (24), mentre gli emiliano-romagnoli sono solo 5 e 16 gli stranieri. Una delegazione di consiglieri regionali, in gran parte della commissione Parità e diritti delle persone - Giuseppe Boschini (Pd), Gabriele Delmonte (Ln), Tommaso Foti (Fdi), Andrea Liverani (Ln), Barbara Lori (Pd), Daniele Marchetti (Ln), Francesca Marchetti (Pd), Nadia Rossi (Pd), Luca Sabattini (Pd), Luciana Serri (Pd) e Yuri Torri (Sel) -, accompagnati dalla Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, e dalla presidente della commissione, Roberta Mori, ha visitato ieri la struttura. Gli internati hanno manifestato ai componenti la delegazione il loro disagio e la loro frustrazione, in particolare per l'incertezza del fine pena, e le loro richieste sono emerse chiare durante l'incontro: "L'ergastolo bianco deve cessare"; "Quale casa lavoro? Che lavoro faccio qui?"; "Non voglio uscire di qui già vecchio"; "Proroghe, proroghe, solo proroghe". Chi è soggetto a questo tipo di misure, un migliaio in tutta Italia, è reduce da anni di carcere e si ritrova, nonostante la pena già scontata, di nuovo in carcere. All'interno della casa lavoro ci sono diverse serre, adibite a coltivazioni agricole, delle stalle in cui si allevano bovini, ci sono poi un vigneto e un impianto destinato all'apicoltura. I terreni lavorati ricoprono una superficie di 22 ettari. I prodotti agricoli vengono venduti all'esterno. È inoltre presente una falegnameria, non funzionante per motivi di inagibilità degli stabili, e una lavanderia, attualmente ferma per un guasto alle attrezzature. In un'area da poco ristrutturata è attivo uno spazio pedagogico, con una biblioteca e aule rivolte ai soggetti che devono concludere la scuola dell'obbligo. La Garante, Desi Bruno, ha rilevato "la necessità di arrivare ad un ripensamento delle misure di sicurezza detentive applicate nell'istituto", proponendone l'abrogazione: "Le casa di lavoro- ha sottolineato- rappresentano il conclamato fallimento della funzione rieducativa della pena e forniscono una risposta di tipo esclusivamente segregante ed emarginante a domande di tipo eminentemente assistenziale e sanitario". "La struttura penitenziaria di Castelfranco - ha aggiunto - pone una serie di criticità, la prima legata alla presenza nel nostro ordinamento delle misure di sicurezza detentive, come appunto la casa lavoro, che possono essere prorogare a tempo indeterminato, c'è quindi discrasia con la disciplina relativa al superamento degli Opg: il legislatore se ne deve occupare. C'è anche un problema di scarso utilizzo della sezione a custodia attenuata per i tossicodipendenti, pur essendoci ancora una percentuale elevata nelle nostre carceri di persone con queste problematiche. E poi c'è il problema di inutilizzo di un patrimonio immobiliare e agrario di dimensioni considerevoli, che va via via deteriorandosi, su questo l'amministrazione penitenziaria è in assoluto ritardo, è necessario che venga fatto un intervento strutturale per decidere cosa fare". Per il direttore della Casa lavoro, Gianluca Candiano, "la pericolosità sociale è presente solo in parte, le misure sono applicate principalmente a soggetti indigenti, privi di riferimenti familiari e abitativi". L'obiettivo è programmare una territorializzazione delle misure di sicurezza, "è fondamentale - ha sottolineato Candiano - il rapporto degli internati con il territorio di origine per reintegrare i soggetti in una attività lavorativa". Per il direttore, la struttura di Castelfranco non ha le caratteristiche adatte al compito che ricopre attualmente, dovrebbe "essere trasformata in casa di reclusione a trattamento avanzato, rivolta a soggetti in esecuzione di pena, non pericolosi". Candiano ha poi parlato del problema della "scarsa progettualità, causata dalle insufficienti risorse: nell'ultimo anno i tagli sono stati pari al 40%. È stato pubblicato un bando dalla Regione Emilia-Romagna - ha concluso il direttore - per sei distinti progetti collegati alla struttura, che vorrebbero coinvolgere soggetti privati, spero che le iniziative vadano in porto". Il medico della struttura ha parlato di "problematiche psicopatologiche che coinvolgono numerosi ospiti", ricordando che i detenuti "si vedono senza sbocchi, parcheggiati in attesa di qualcosa che non arriva mai". Infine, il sanitario ha riferito di diverse minacce di suicidio da parte degli internati e dei detenuti e scioperi della fame in atto. Al termine della visita, la presidente della commissione Parità e diritti delle persone, Roberta Mori, ha rimarcato la volontà di "dare un contributo istituzionale e politico per l'attivazione di un vero percorso di lavoro di reinserimento per soggetti che hanno un diritto ma non possono esercitarlo fino in fondo, perché non ci sono le opportunità". "Quella di Castelfranco - ha aggiunto - è una struttura complessa ma con tante potenzialità, crediamo che l'amministrazione penitenziaria debba assolutamente investire nel progetto di rilancio della casa lavoro e che possa anche rassicurarci in termini sociali, sia nelle aspettative dei soggetti che oggi vi risiedono ma anche per l'obiettivo che la società vuole, che la pena sia rieducativa". Il consigliere Tommaso Foti (Fdi) ha rimarcato l'importanza della visita, "per rendersi conto della situazione dei detenuti. L'elemento che manca di più è il lavoro, gran parte dei detenuti, che ovviamente aspirerebbe a poter lavorare, il lavoro non ce l'hanno, quindi deve essere ripensato in parte il modello gestionale e probabilmente anche il modello strutturale. A questo aggiungiamo che sarebbe necessario che le misure di sicurezza non venissero reiterate in modo inopportuno". Per Daniele Marchetti (Ln), "è una casa lavoro che non dà possibilità alle persone che sono ospitate di lavorare e di riuscire a reintegrarsi nel tessuto sociale, manca una visione strategica a livello nazionale, situazione che come Regione dobbiamo cercare di risolvere". Per Yuri Torri (Sel), "la visita di oggi ha toccato nel profondo tutti i commissari che hanno partecipato. Da un lato credo sia emerso con drammatica evidenza l'effetto di un certo modo di affrontare la crisi, che ha acuito le differenze tra chi aveva tanto e chi aveva poco, dove gli ultimi sono diventati sempre più ultimi, dall'altro invece siamo davanti a uno scenario di inerzie e di inefficienze riferite al sistema, che la Regione può aiutare a correggere e migliorare, organizzando il lavoro degli enti locali e coinvolgendo le Regioni con scarsa recettività". "Oltre allo spreco dato dalla non valorizzazione di un patrimonio immobiliare importante - ha affermato Luciana Serri (Pd) - si genera un fallimento rispetto al percorso di reinserimento. Inoltre, vi è uno scarso collegamento con il Sert e il Centro di salute mentale, mentre è certamente fondamentale arrivare alla territorializzazione della pena e alla possibilità di lavorare per chi è all'interno della struttura". Cagliari: perquisizione celle nella Colonia agricola di Is Arenas, trovati coltelli e droga di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 5 giugno 2015 Nei giorni scorsi è scattata da parte degli agenti una improvvisa perquisizione delle celle e di luoghi sospetti con il risultato che sono saltati fuori tre telefonini, stupefacenti, coltelli e uno smart-watch. Fra i detenuti della casa di reclusione di Is Arenas circola un po' di tutto, tutta roba che entra facilmente nel carcere colonia penale proprio per questa sua caratteristica di penitenziario in cui buona parte dei reclusi gode di un regime di semi libertà vigilata andando a lavorare dalla mattina al tramonto nei terreni interni in cui si pratica l'agricoltura e l'allevamento. Gli agenti della polizia penitenziaria fanno quanto è nelle loro possibilità per vigilare, ma sono in numero insufficiente e con turni massacranti. Pertanto molto sfugge e da fuori entra droga, armi da taglio e telefonini cellulari che i detenuti poi si passano l'un l'altro, facendo pagare salatamente le telefonate a chi ha necessità (e desiderio) di comunicare con l'esterno. I giorni scorsi è scattata da parte degli agenti una improvvisa perquisizione delle celle e di luoghi sospetti, con il risultato che sono saltati fuori tre telefonini, fra un sofisticato orologio-smart-phone, carica batteria, un coltello a serramanico con lama di 13 centimetri, una discreta quantità di sostanze stupefacenti. "Sono gli effetti della detenzione a vigilanza dinamica - spiega Sandro Atzeni, del coordinamento regionale della Fp-Cgil Polizia penitenziaria in servizio nella casa di reclusione di Is Arenas, dove la sicurezza non esiste più. Basterebbe invece pensare ad alcune soluzioni rapide, come schermare l'istituto penitenziario da qualsiasi mezzo di comunicazione non consentito e dotare il personale di appositi rilevatori". Il Coordinamento regione Sardegna della Fp-Cgil Polizia penitenziaria sottolinea in un comunicato "l'impegno degli agenti in servizio nell'istituto di Is Arenas-Arbus, che, nonostante lavorino spesso sotto organico, rispettano quotidianamente il dovere istituzionale e per questo dovrebbero perlomeno ricevere un riconoscimento economico previsto dal Dpr 82/99". Rimini: aggressione nel carcere, detenuto prende a bastonate agenti e ispettore altarimini.it, 5 giugno 2015 Giovedì mattina, nel carcere di Rimini, un ispettore della polizia penitenziaria ed alcuni agenti sono stati aggrediti prima verbalmente e poi fisicamente da un detenuto straniero. A raccontarlo sono stati Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Francesco Campobasso, segretario regionale. L'uomo aveva iniziato ad urlare nella propria cella, e quando l'ispettore e gli agenti sono entrati per capire cosa stesse accadendo, il detenuto aveva nel frattempo scardinato la porta e usandone un pezzo come bastone ha colpito l'ispettore, cui poi ha lanciato pure il televisore. L'ispettore ha riportato varie escoriazioni, la lesione dell'arcata sopraccigliare destra e varie contusioni a braccia e gambe. L'ispettore e un agente hanno dovuto fare ricorso alle cure ospedaliere, il primo ha avuto una prognosi di sette giorni. "Dobbiamo evidenziare - spiegano i sindacalisti - che a seguito di una legge del 2009 gli appartenenti alle Forze di polizia ed alle Forze armate non possono usufruire della tutela Inail e, quindi, sono costretti a pagarsi le cure, per le lesioni riportate in servizio. Chiediamo che l'amministrazione assuma i provvedimenti disciplinari previsti dell'ordinamento penitenziario, oltre alle iniziative di carattere penale, di competenza dell'autorità giudiziaria". Roma: oggi e domani il convegno "Lo stato della pena", il punto con esperti e volontariato Adnkronos, 5 giugno 2015 "Lo Stato della Pena". È il titolo scelto dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia per la sua VIII Assemblea che si terrà a Roma il 5 e 6 giugno. Apriranno i lavori venerdì alle ore 10 presso il Museo Criminologico Dap, la Presidente Cnvg Elisabetta Laganà, il Presidente Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo e l'Ispettore Generale delle Carceri Italiane Virgilio Balducchi. L'Assemblea sarà l'occasione per fare il punto della situazione su carcere e giustizia in Italia, a partire da cosa è stato fatto e cosa invece ancora si deve fare dopo la cosiddetta Sentenza Torreggiani, con cui la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha condannato l'Italia per reato di tortura o trattamenti disumani e degradanti. Alessandro Pedrotti, vice presidente Cnvg, ne discuterà insieme al Presidente Emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, il Presidente Onorario di Antigone Stefano Anastasia, il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi, il Vice Capo Dap Luigi Pagano e l'avvocato Michele Passione della Camera Penale di Firenze. Occhi puntati anche su misure alternative e recenti misure di messa alla prova. Giovanni Torrente, Vice presidente Cnvg, presiederà un tavolo di discussione con il Coordinatore della Direzione Generale Uepe Eustachio Vincenzo Petralla, la rappresentante del Uepe Venezia Chiara Ghetti e Edoardo Patriarca, componente della XXII commissione Affari sociali della Camera dei Deputati. Seguiranno le testimonianze dirette delle associazioni, con i rappresentanti del Vic Caritas di Roma, Caritas Ambrosiana, Caritas di Napoli e Associazione Papa Giovanni XXIII. Concluderà questa prima giornata un focus sulla questione Minori grazie agli interventi della comunità cagliaritana La Collina di Serdiana, dell'associazione A Roma Insieme e di Gino Rigoldi, Cappellano dell'Istituto penale per minorenni Beccaria di Milano. Sabato 6 giugno, presso il Centro di Servizio per il Volontariato SPES in Via Liberiana 17, si terrà a partire dalle 9 un Workshop esperienziale sulla Tutela degli Affetti aperto a tutti i volontari. Interverranno Roberta Palmisano, Direttrice dell'Ufficio Studi, Ricerche, Legislazione e Rapporti Internazionali del DAP, e Ornella Favero, Direttrice della testata Ristretti Orizzonti. Roma: il Cappellano del carcere "i detenuti non mollano, sono pazzi di Papa Francesco" Il Garantista, 5 giugno 2015 Presente in Piazza San Pietro tra i fedeli presenti all'Udienza generale, con il Papa, il cappellano della casa circondariale di Civitavecchia, anche una rappresentanza della Casa Circondariale di Civitavecchia, Don Lazare Relewende Yelyaore ha portato al Pontefice le parole di affetto dei suoi detenuti e ha fatto il punto sulla condizione del carcere in cui opera, e sulla situazione in cui versano i detenuti delle nostre prigioni in generale. "Il carcere di Civitavecchia - spiega Don Lazare a Davide Dionisi - accoglie 450 detenuti e ha una fisionomia particolare, perché è vicino all'aeroporto e quindi accoglie tantissime persone, che partono per il viaggio della speranza e che finiscono lì. Ci troviamo, quindi, a gestire situazioni umane alcune volte non facili. Approfitto del microfono per dire a chi ci può aiutare, che ci venga in aiuto in tutto, per poter ridare speranza anche a chi è già deluso del proprio viaggio e aspetta di vedere il volto umano di Cristo anche in questo contesto carcerario". "Quando abbiamo detto che andavamo dal Papa - racconta il religioso - tutti volevano venire; c'è stato un momento di entusiasmo in chiesa; erano contenti. Chi non poteva venire ha detto: "Padre, le mando una lettera per Papa Francesco, una poesia". Sono colpiti dal messaggio del Papa e vogliono incontrarlo. Mi dicono: "Padre, quando vai, dì a Papa Francesco che l'aspettiamo qui a Civitavecchia, l'aspettiamo". A proposito del suo lavoro in cella, il prete ha riferito che "essere cappellano a Civitavecchia significa tante cose: un'assistenza sia spirituale che materiale. Il lavoro è quello di incontrare i giovani, parlare con loro, incoraggiarli, ascoltare le storie, ridare a ciascuno la speranza e la gioia. È un lavoro che prende tante energie, tanto tempo". "Come camilliano - ha proseguito - quello che cerco di fare è testimoniare la compassione di Cristo, cercare di sollevare e far sentire a ciascuno la vicinanza di Cristo e anche questo volto della Chiesa, che sta lì semplicemente come segno di speranza e che fa quello che riesce a fare con fede, con speranza e con carità". Pisa: "Favolare", un laboratorio di scrittura in carcere per inventare nuovi racconti La Nazione, 5 giugno 2015 L'emozione di scrivere, la gioia di farlo per qualcun altro e con qualcun altro. Il sogno di portare la scrittura, che rende liberi, in carcere. Tutto vero. "Favolare" è stato stampato da Mds. È un progetto per raccogliere fondi per l'inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. E sono stati proprio loro i protagonisti di questo libro, i detenuti della casa circondariale Don Bosco di Pisa. Hanno seguito un laboratorio di fiabe e hanno poi realizzato i loro racconti. Di vita. Così Roberto ha scritto di un libro prezioso, snobbato perché isolato; Jimmy di un ragazzo che grazie all'amore diventa libero, Federico ha descritto la sua esperienza bella e triste, dentro, fuori e ancora dentro. Glay ha raccontato le vicende di un camaleonte che si adatta e affronta gli ostacoli ma resta differente, c'è poi Giuseppe che narra dei pericoli dietro le sbarre, di quando quella volta il lupo cattivo voleva mangiarsi il bel ragazzo. Augusto ha parlato di sé e del rapporto con suo padre. Mohamed ha spiegato il suo viaggio: in tante città, in un altro Paese, nella vita di un'altra persona. Alessandro il sacrificio di qualcosa di buono per tutti. Un'iniziativa che ha coinvolto una città intera e parte della Toscana: un detenuto è di Prato, un altro è stato trasferito da poco a Sollicciano, un terzo a Massa. Un altro ancora vive a Livorno. Curatori, la collega Antonia Casini e Giovanni Vannozzi. Pagine rese ancor più leggere dalla matita poetica di Michele Bulzomi. Tutti insieme hanno tenuto lezioni da gennaio fino a maggio. Stasera "Favolare" uscirà per essere presentato all'Sms di Pisa sul viale delle Piagge.