L'umanità delle vittime, la disumanità del sistema di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 4 giugno 2015 Lettera aperta ai dirigenti del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, a proposito dei circuiti di Alta Sicurezza, e di chi sembra destinato a starci per sempre: vite umane che rischiano di essere sacrificate per mantenere in piedi un sistema, che ha bisogno di grandi cambiamenti. Gentili dirigenti del DAP, se non ne sapete nulla, voglio raccontarvi un'esperienza avvenuta di recente nella Casa di Reclusione di Padova, la Giornata di Studi "La rabbia e la pazienza", e ve la racconto attraverso le parole di Lucia Annibali, una giovane donna, avvocato di professione, sfigurata dall'acido che le è stato tirato in faccia. Per quel terribile atto sono stati condannati due uomini, ritenuti gli esecutori del gesto, e un terzo, ritenuto il mandante, che con Lucia aveva avuto una tormentata relazione. Scrive Lucia su Io donna "Il momento più interessante e toccante dell'intera giornata, è stato ascoltare le storie dei detenuti: scoprire, attraverso i loro racconti, il motivo che aveva aperto per loro le porte del carcere, il momento in cui avevano scelto di essere persone violente, le cause che stavano alla base di quella scelta. La loro voce si spezzava mentre provavano a comunicare a tutti i presenti quanto fosse difficile la vita del carcere, quanto fosse grande il vuoto per il distacco dagli affetti familiari, soprattutto per chi un fine pena non ce l'ha. Erano le testimonianze di persone che avevano iniziato un difficile percorso di presa di coscienza delle proprie responsabilità. Mentre li ascoltavo, mi scoprivo a commuovermi; la loro rabbia, la tristezza, il dispiacere per se stessi e per il male che quella scelta di tanti anni fa aveva generato, anche nella vita di altri, mi arrivavano dritti al cuore". Fra i detenuti di cui scrive Lucia Annibali c'era Giovanni Donatiello, che è intervenuto di fronte a seicento persone, arrivate da tutta Italia per entrare in un carcere, e ha raccontato la sua esperienza di pena "rabbiosa" trascorsa al 41 bis e poi per ben quindici anni in Alta Sicurezza, e il cambiamento radicale avvenuto in lui da quando è a Padova, frequenta la redazione di Ristretti Orizzonti, si confronta con centinaia di studenti, dialoga con vittime come Lucia. Ma c'è qualcuno che le cose significative, importanti, che avvengono in carcere non le guarda molto, e preferisce decidere a tavolino che Giovanni non merita di restare a Padova, che 29 anni di galera sono pochi per considerarlo non più pericoloso e metterlo non fuori libero!, per carità, ma semplicemente in una sezione di media sicurezza: quella stramaledetta declassificazione che tutti noi di Ristretti avevamo sperato per lui. Quindici anni fa Giovanni usciva dal 41 bis perché "vista la nota (…) con la quale la Procura Distrettuale della Repubblica di Lecce ha segnalato di non ritenere più attuale il collegamento del Donatiello con l'ambiente criminale associato di appartenenza" il Ministro revocava il decreto con il quale era stato disposto nei suoi confronti il regime detentivo speciale di cui all'art. 41 bis, e ora invece il DAP respinge la richiesta di declassificazione perché sembra (non so le parole esatte perché al detenuto non è stata data copia del rigetto dell'istanza di declassificazione, pare non abbia diritto di sapere da chi e da che cosa si deve difendere, diciamo che deve sentirsi sotto indagine a vita, e basta) che la Direzione Distrettuale Antimafia, dopo lunghe ed articolate indagini, coperte da segreto investigativo, ritenga che il suo gruppo criminale sia ancora operante sul territorio e che Donatiello non abbia mutato la sua posizione al vertice. Quindi nelle sezioni di Alta Sicurezza hanno vigilato così male da riuscire a far rinascere l'organizzazione criminale di cui faceva parte Giovanni Donatiello nel lontano 1984 e a rimetterlo a capo della stessa? E perché allora non lo riportano al 41 bis? Continua Lucia Annibali: "E così mi sono chiesta: è possibile, ed è giusto provare ancora umanità, dopo che qualcuno ha scelto di arrecare un dolore alla tua vita? Chi soffre a causa d'altri, spesso prova rabbia, rancore, persino odio nei confronti del responsabile della sua sofferenza; è un suo diritto e, forte di questo, può arrivare a decidere che quei sentimenti saranno, da ora in poi, il filo conduttore della sua intera esistenza. Ma può anche succedere che decida di fare la scelta opposta e di trasmettere il proprio dolore senza rabbia né rancore. È in questo caso che ci si scopre ancora capaci di provare umanità. Essere "umani" significa, dunque, guardare oltre il male, staccarsi da esso, impedirgli di condizionare un'intera vita. Non necessariamente ha a che fare con il perdono, né vuol dire non sentire dolore: piuttosto riguarda la capacità e la volontà di trasformare qualcosa di brutto in qualcosa di bello. Provare umanità aiuta a sperare, e se è vero che sperare è già resistere al male, la nostra umanità può essere un modo attraverso cui chiedere, a chi è stato capace di fare del male, di non farlo più, di cambiare per diventare una persona migliore, per sé e per gli altri. È giusto allora provare umanità, se questo può servire a preservare altri da un dolore e aiutare chi soffre, a farlo in modo costruttivo. Essere "umani", dunque, per chiedere, in cambio, un po' di umanità. Ecco perché la vittima può decidere di confrontarsi con gli autori di reato". A scuola di umanità da Lucia bisogna mandarci le persone detenute, ma bisogna anche mandarci le istituzioni. Mentre scrivo questo pezzo, mi arriva una notizia "Carcere: muore da solo, di cancro, al 41 bis. Non ha potuto dire addio alla famiglia. Il Tribunale di Napoli aveva dato l'ok a un colloquio con i cari: l'autorizzazione del DAP non è arrivata in tempo". Ma tanto forse non è così importante, si tratta pur sempre dei cattivi più cattivi, dei mafiosi, e noi siamo i buoni. E a decidere della sorte dei cattivi chi sarà? Pedagogisti con grande competenza, esperti di rieducazione, teorici di una pena sensata, tesa davvero a responsabilizzare chi ha fatto del male? Certo che no, sarebbe tutto troppo semplice, nel nostro Paese a decidere del "trattamento" delle persone detenute, dunque dei loro percorsi di risocializzazione, sono dei magistrati. E non magistrati di Sorveglianza, esperti di esecuzione della pena, sarebbe troppo normale! no, meglio magistrati inquirenti, ex procuratori della Direzione Antimafia, magari quegli stessi che prima ti hanno condannato all'ergastolo, o alla "pena di morte nascosta", come l'ha definito Papa Francesco, e ora dovrebbero finalmente decretare che non sei più lo stesso di venti o trent'anni fa, e magari avere il coraggio di non prendere per oro colato i pareri dei loro ex colleghi dell'Antimafia. "Provare umanità aiuta a sperare, e sperare è già resistere al male" In questi ultimi due mesi, a partire dalla chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza di Padova, si è scoperto che da anni si lasciavano logorare, a volte anche "marcire" le persone in questi circuiti senza fare quasi nessuna declassificazione. Da Padova stavano già partendo 96 detenuti, ma noi di Ristretti Orizzonti abbiamo combattuto, con la forza della competenza e dell'umanità, a partire dal fatto che da anni a Padova le sezioni di Alta Sicurezza sono integrate nella vita del carcere, e non isolate e tagliate fuori da tutto, e quelle partenze sono state bloccate, ed è stata fatta addirittura una nuova circolare sulle declassificazioni, che accoglie le NOSTRE osservazioni, presentate direttamente al Capo del DAP. È anche vero che le Circolari si emanano, ma non sempre si applicano (ne è prova la circolare sui trasferimenti, che ancora non riesce a portare umanità nella materia delicata delle persone spostate spesso come pacchi senza vita, e costrette ogni volta in questi spostamenti a perdere speranza. Cosa succederà a Giovanni se dall'esperienza calda e forte di Ristretti Orizzonti sarà ributtato in un carcere ben più povero di iniziative e di possibilità come Parma?): però aspettiamo per lo meno, rispetto alla mancata declassificazione di Giovanni Donatiello dopo 29 anni di galera, una operazione TRASPARENZA, chiediamo che ci dicano come ha fatto Giovanni, con i pochissimi colloqui che ha avuto (in tutto l'ultimo anno due colloqui in totale, con la figlia e con il fratello) a ritornare ai vertici della sua organizzazione criminale. O che abbiano il coraggio di cambiare rotta, e di ammettere che la comunità carceraria non corre nessun rischio se Giovanni resta a Padova e viene trasferito in una sezione di Media Sicurezza. Restituiteci allora Giovanni, e non toglieteci gli altri detenuti della sezione AS1, come Tommaso Romeo, Agostino Lentini, Giovanni Zito, Antonio Papalia e tutti quelli che lavorano con noi di Ristretti da anni: perché per noi sono importanti gli esseri umani, e nel nostro percorso di responsabilità e consapevolezza ogni persona conta, ha un ruolo, vale per quello che è diventata. E cominciamo poi a parlare seriamente di 41 bis, di circuiti di Alta Sicurezza, di declassificazioni e di un trattamento umano e non degradante per TUTTI, non solo per i "meno cattivi" dei cattivi. Giustizia: Luigi Pagano, vicecapo Dap "in carcere tira aria di cambiamento, sfruttiamola" di Daniele Biella Vita, 4 giugno 2015 Il 5 e il 6 giugno agli stati generali della Cnvg, Conferenza nazionale volontariato e giustizia, siederanno attorno a un tavolo vertici dell'amministrazione penitenziaria, politici, operatori e volontari del mondo del carcere. "La svolta è epocale: si ragiona finalmente di carcere come extrema ratio e si dà priorità alle pene alternative, ora puntiamo a rendere agevole l'ingresso delle aziende nel sistema". "Il periodo è d'oro, bisogna sfruttarlo il più possibile. Avete sentito cos'ha detto il ministro della Giustizia? Il carcere deve essere visto solo come extrema ratio". In decenni di lavoro nel Dap, Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, l'attuale vicecapo Luigi Pagano non aveva mai vissuto un periodo così propositivo come l'attuale: "da almeno un anno a questa parte si ragiona sulla pena come avrei voluto si ragionasse da sempre", spiega a pochi giorni dalla propria partecipazione, assieme a tante altre figure di riferimento, all'Assemblea annuale della Cnvg, Conferenza nazionale volontariato giustizia, che si tiene a Roma il 5 e 6 giugno con il titolo "Lo stato della pena". Solo un paio di anni fa il problema del sovraffollamento dava l'assoluta maglia nera al sistema detentivo italiano. Ora l'aria è diversa, cosa è cambiato? "L'inversione di tendenza è stata due anni fa la sentenza della Corte europea per i diritti umani di Strasburgo, che condannava l'Italia per il caso Torreggiani e che spronava il Governo a cambiamenti strutturali pena multe molto salate. Questo ha dato la scossa a tutti, permettendo di migliorare le condizioni detentive e i numeri, che sono scesi ai 54mila attuali - e fissi da 12 mesi - rispetto ai 66mila del periodo più grave del 2013". Qual è l'aspetto che la rende più ottimista? "L'aumento delle pene alternative introdotto con le ultime azioni legislative. Invocavamo da decenni un cambiamento in tal senso, ovvero un nuovo modo di vedere la pena, improntato sul superamento del carcere in senso stretto come unica via di recupero sociale del detenuto: il reinserimento passa attraverso il lavoro". Ma la burocrazia è ancora tanta per un'impresa esterna che volesse assumere o dare lavoro, e oggi ci si basa molto su Cassa ammende per avere incentivi. "Sì, ma la direzione è tracciata. Ci vuole una normativa specifica sul lavoro penitenziario, che permetterebbe di uscire dall'univocità della presentazione dei progetti a Cassa ammende a vantaggio di un sistema generale che abbia un vero tornaconto per i privati. Per fare questo bisogna rimodulare tutti i tempi attuali del carcere, le attività trattamentali devono essere strutturate in funzione del lavoro e non viceversa. Per esempio, un lavoro "normale" non può essere interrotto per un colloquio, bisogna rendere più elastico il sistema per dare più garanzie al privato, sociale o meno, che voglia investire nel carcere". Ci sono carceri già più aperte in tal senso, e altre dove è difficile pensare a cambiamenti, dato che spesso dipende dalla sensibilità dei vertici delle singole strutture. "Si tratta di una rivoluzione culturale che è lenta, ma è già stata messa in moto e le parole del ministro in tal senso ne sono la prova. Sempre più direttori si stanno rendendo conto che l'architettura attuale di molti istituti penitenziari oggi è "povera" sono pochi il luoghi di incontro, di socialità: aumentare tali spazi, naturalmente controllati, significa non ridurre la detenzione a troppe ore passate in cella e poche fuori, perché la cella crea inevitabilmente tensioni. Poco alla volta questo nuovo pensiero sta prendendo piede, sono già partiti dei lavori sempre grazie al finanziamento di Cassa ammende, anche nelle situazioni di custodia cautelare". Giustizia: Orlando; sempre più difficile essere garantisti di fronte a pressione della piazza Il Velino, 4 giugno 2015 Il Guardasigilli ammette le difficoltà del governo: difendere il diritto, in politica, non dà dividendi. "Credo che vadano sostenute le ragioni del garantismo, e che occorre ricostruire quest'accezione, togliendo le incrostazioni intervenute nel tempo. Se vogliamo fare una discussione sul garantismo, dobbiamo capire come si sia evoluta questa corrente di pensiero e il perché la sua spinta si sia attenuata. Si tratta di discutere non solo su quali siano gli obiettivo, ma come questi obiettivi vadano conquistati". Lo afferma il Guardasigilli Andrea Orlando, intervenendo al convegno "Essere sempre garantisti". "Quali sono - si domanda il ministro - gli strumenti per sottrarsi alla piazza in una società sempre più mediatizzata? Penso che dalla nostra abbiamo l'impianto costituzionale e principi come la presunzione di non colpevolezza e il giusto processo. Abbiamo però difficoltà a resistere, di fronte ad alcune campagne. Difendere chi è ritenuto un mostro dalla piazza è un esercizio che nessuno vuole fare. L'unica strada - prosegue il ministro - è ricostruire i soggetti della giurisdizione, ma l'idea di garantismo non deve essere unilaterale. Il garantismo non è la tutela degli imputati". Orlando fa l'esempio dei detenuti: "L'utilizzo esclusivo del carcere - osserva - come metodo di esecuzione della pena ha fallito totalmente sul terreno della riabilitazione. Il carcere è produttore di crimine, di recidiva. Attualmente in Italia ci sono 53mila detenuti, a fronte di 49mila posti disponibili. Abbiamo pressoché portato il sistema in equilibrio, a fronte dell'aumento delle pene alternative. Ma risolvendo il sovraffollamento, risolviamo solo una parte, perché c'è il problema del trattamento carcerario. Scriveremo delle nuove norme sull'ordinamento penitenziario entro la fine dell'anno, ma questo non è sufficiente, perché c'è bisogno di trasmettere il messaggio che il carcere non è altra cosa rispetto al resto della società, ma un pezzo della società. Ma purtroppo è un tema che politicamente non dà dividendi". Giustizia: Unione Camere Penali; preoccupa decisione Dap su sezioni per detenuti "violenti" Adnkronos, 4 giugno 2015 L'Unione delle Camere penali, con il proprio Osservatorio Carcere, esprime preoccupazione per la decisione del Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria di sollecitare, con una circolare, "l'istituzione negli istituti di sezioni, appositamente dedicate, in cui collocare quei detenuti non ancora pronti al regime aperto o che si siano manifestati incompatibili con lo stesso, con particolare riguardo a coloro che si siano resi responsabili di aggressioni al personale di polizia penitenziaria". "Al di là dell'apprezzabile precisazione, contenuta nella stessa circolare, secondo cui tale misura non perseguirebbe una logica di "isolamento" o punizione, ma di un'idonea attività trattamentale che miri ad agevolare, per questi soggetti, il ritorno al regime comune "aperto", separare i detenuti "violenti" per sottoporli a un regime detentivo più rigido di quello comune - sottolineano i penalisti in una nota - rappresenta oggettivamente un aggravamento delle loro condizioni di detenzione che esorbita rispetto al contenuto dei provvedimenti disciplinari loro legittimamente irrogati e, per di più, adottato al di fuori del contraddittorio garantito dal procedimento disciplinare". A giudizio dei penalisti "appare alto inoltre il rischio di un innalzamento della tensione dei rapporti con la popolazione carceraria interessata, potenzialmente foriero di effetti controproducenti: è la stessa circolare che sottolinea come simili eventi critici siano meno frequenti nelle sezioni "aperte". Non può infine sottacersi che la misura non appare conforme al dettato dell'art. 32 del Regolamento di esecuzione O.P. - conclude la nota dell'Ucpi - laddove si prevede la possibilità di creare apposite sezioni ove collocare detenuti ed internati per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni, volte dunque ad isolare, per motivi di sicurezza, le possibili vittime e non già i potenziali autori di atti di violenza". Giustizia: pm Gratteri "mia riforma consegnata a gennaio e non se ne è più saputo nulla" di Sergio Luciano Italia Oggi, 4 giugno 2015 "Se diventassero legge il 50% delle proposte contenute nella mia bozza di riforma sarebbe una rivoluzione sia nella lotta alla mafia che nell'aumento delle garanzie processuali per tutti": Nicola Gratteri, procuratore a Reggio Calabria, è persona seria e non è un estremista. "Nel luglio 2014 il governo mi ha chiesto di stilare una bozza di riforma della giustizia, con una commissione entro il successivo mese di dicembre l'abbiamo finita e a gennaio 2015 l'abbiamo consegnata. Da allora non ne ho saputo più niente", dice, rispondendo ad un'intervista pubblica di Panorama, nella tappa varesina del "tour" del settimanale mondadoriano. Domanda. Perché una rivoluzione, dottor Gratteri? Risposta. Abbiamo proposto la modifica di 150 articoli di legge. Con tre regole: non abbassare il livello delle garanzie, applicare l'informatica al processo; eliminare la carta dai tribunali. In generale, rendere il delinquere non più conveniente. La bozza è pronta, ed è un articolato di legge, non una relazione. D. Qualche esempio di innovazioni? R. Ogni anno lo Stato spende 70 milioni di euro per gestire le traduzioni degli imputati in attesa di giudizio dal carcere dove sono rinchiusi ai tribunali sedi dei processi. Mobilitando in permanenza 10 mila uomini della polizia penitenziaria per garantire le traduzioni. Così, molte carceri devono tenere vuote, inutilizzate, intere sezioni perché mancano gli agenti per gestirle. Se invece le testimonianze e gli interrogatori venissero fatti in videoconferenza dalle carceri ai tribunali, tutto questo non accadrebbe, e sarebbe un vantaggio enorme per i tempi e i costi della giustizia, oltre che per la funzionalità delle carceri. D. Impressionante. Poi? R. Proponiamo una modifica importantissima sulla gestione dei collaboratori e testimoni di giustizia. Quando un imputato diventa collaboratore di giustizia viene nascosto in un luogo segreto, conosciuto da una sola persona, appartenente al cosiddetto ufficio protezioni, un organismo interforze costituito da Polizia, Carabinieri e Guardia di finanza. Abbiamo proposto che quest'ufficio sia invece gestito dalla polizia penitenziaria. Perché? Semplice. Poniamo che un ‘ndranghedista di Reggio Calabria diventi collaboratore di giustizia e venga nascosto ad Ancona. Un dirigente della Questura di Reggio vuole interrogarlo ancora, chiede a un collega amico che lavora all'ufficio protezione di dirgli dove si trova, e spesso lo viene a sapere. Sa com'è: tra colleghi, i reciproci interessi di carriera, la solidarietà Il protetto si vede raggiunto dal poliziotto e gli condiziona le nuove rivelazioni alla concessione di favori. Questo discredita tutto. Se le tutele fossero gestite da una polizia diversa, che non prende parti alle indagini e non ha relazioni con gli inquirenti, sarebbe molto meglio. D. E sui beni della mafia? R. Le aziende vanno confiscate subito dopo la sentenza di primo grado. D. Ma spesso poi falliscono R. Perché spesso sono state costituite o acquisite per riciclare a qualsiasi condizione, ma se gestite come aziende pulite si rivelano non profittevoli!". D. A proposito di mafia. Nel suo libro "Oro bianco" traccia un quadro impressionante del traffico della cocaina R. Milano è la più grande piazza europea per il consumo di cocaina. Ma è la Spagna il ventre molle europeo della lotta alle mafie. Un terzo delle banconote da 500 euro circolanti in Europa si trova in Spagna. In Spagna ci sono vere e proprie colonie di colombiani, e depositi segreti da dieci tonnellate di cocaina ognuno. Abbiamo indagato su agenzie che chiedono il 5% di provvigione per fare arrivare i soldi sporchi in Sudamerica ad altre agenzie riceventi che trattengono un altro 5%. Ma solo il 9 per cento di questo denaro sporco torna in Sudamerica, il resto rimane in Europa, e questi narcotrafficanti stanno comprando di tutto in tutta l'Unione. D. Ma quanto denaro contante circola in Europa? R. Una montagna. Il 36% di tutto il valore monetario degli euro circolanti in Europa è in banconote da 500 euro. E un milione di euro in banconote da 500 pesa solo 2,2 chili, sta benissimo in una valigetta 24 ore. Lo stesso valore in dollari pesa 11 chili e mezzo e sta in 5 valigette. D. Gli altri Stati europei, Spagna a parte, capiscono la gravità della piaga delle narcomafie? R. No, non abbastanza. Quando vado a Strasburgo mi arrabbio sempre e mi esprimo con durezza perché vedo e dico che c'è un'Europa solo economica, che s'interessa soltanto delle norme bancarie e finanziarie, o delle quote latte. E attorno, intanto, cosa accade? In Europa non c'è cultura del controllo del territorio. L'Unione non è attrezzata per contrastare le mafie. La legislazione antimafia italiana è la più evoluta al mondo, e non basta, ma nel resto d'Europa è assao peggio. Nei Paesi dell'Europa centrale c'è il nulla, è quindi sono paesi pieni di ‘ndranghetisti e camorristi, indisturbati. Quando leggete di qualche arresto in uno di quei paesi, siamo sempre noi, dall'Italia. Ad esempio: in Olanda non si possono fare provvedimenti di ritardato sequestro, appena si sa che c'è qualcuno in possesso di 2 chili di droga bisogna arrestarlo. Questo significa non poter mai risalire dai pesci piccoli a quelli grandi. Con simili premesse, figuratevi cosa mi capita ad andare a parlare a Strasburgo dell'articolo 416 bis: quando al Parlamento europeo ho detto che in Germania c'è la ‘ndrangheta un gruppetto di parlamentari tedeschi mi avrebbe sbranato. Lo stesso in Svizzera". D. Parlando d'altro: che ne pensa della lista degli "impresentabili" stilata dalla presidente della Commissione antimafia Rosi Bindi, che ha influenzato l'esito delle elezioni regionali? R. Non posso dare valutazioni politiche. Rilevo solo che ogni volta che ci sono elezioni di qualsiasi genere c'è sempre questo ritornello sul codice di autoregolamentazione. Ma poiché chi fa le liste conosce chi ci mette, è evidente che fa un calcolo cinico, mette in lista pregiudicati o faccendieri perché prevede che una fetta dell'elettorato comunque li voterà. Quindi ogni volta ci si meraviglia, ma io mi meraviglio che la gente continui a meravigliarsi. Giustizia: Oua; ddl sulla riforma della procedura civile, esecutorietà allargata da rivedere Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2015 L'Oua, nel corso dell'audizione svoltasi ieri alla Camera in commissione Giustizia sul disegno di legge delega sulla procedura civile, mette una serie di paletti alla riforma. Secondo il presidente, Mirella Casiello, "va apprezzata l'ispirazione di fondo della proposta di legge delega di invertire la tendenza, consolidata negli ultimi venti anni, di predisporre riforme prevalentemente finalizzate a scoraggiare il ricorso alla Giurisdizione con provvedimenti che hanno compresso progressivamente il diritto di difesa e hanno comportato aumenti sempre più onerosi dei costi di accesso alla giurisdizione. Ma è anche bene ricordare che in meno di dieci anni sono già 17 le riforme procedurali e siamo sempre al punto di partenza. Questo sarebbe il diciottesimo tentativo". Nel merito si condivide la finalità di arrivare a un modello processuale, tendenzialmente unico, ma flessibile rispetto alle caratteristiche di ciascuna controversia; ed è allora necessario che sia valorizzato l'istituto del "calendario del processo" in maniera che, nel rispetto del principio del contraddittorio, giudice e avvocati assumano e condividano la responsabilità dei tempi del processo; in questa prospettiva, eventuali violazioni, non giustificate, devono costituire elemento di valutazione non solo disciplinare, ma anche ai fini della valutazione della professionalità e dell'assunzione di incarichi direttivi e semi-direttivi dei magistrati. Non convince invece "la generalizzazione della provvisoria esecutorietà delle sentenze diverse da quelle di condanna, giacché mentre non ha alcun effetto benefico sul tempo del processo, rischia di innescare "focolai" di ulteriore contenzioso per l'ipotesi di riforma della sentenza nei successivi giudizi di impugnazione". Giustizia: il governo corre ai ripari, i magistrati potranno lavorare fino a 72 anni Silvia Barocci Il Messaggero, 4 giugno 2015 Tecnicamente lo chiamano "differimento". Di fatto è una proroga - di uno o due anni - al pensionamento dei magistrati che, per effetto della legge Madia sulla Pubblica amministrazione, avrebbero dovuto lasciare all'età di 70 anni entro il 31 dicembre del 2015. Il governo Renzi sembra deciso a correggere il tiro con una norma che probabilmente finirà nel decreto enti locali o, in alternativa, in un testo ad hoc. Una decisione che sarebbe non tanto una marcia indietro rispetto al taglio di ben 5 anni all'età pensionabile di tutti i magistrati (ordinari, amministrativi e contabili), quanto la presa d'atto che una misura così drastica avrebbe come conseguenza vuoti d'organico difficilmente colmabili a stretto giro. E questo nonostante al Csm il vicepresidente Giovanni Legnini stia procedendo a tambur battente e, nel giro di pochi mesi, abbia già provveduto a 100 nomine (il triplo rispetto alle precedenti consiliature) per incarichi direttivi e semi-direttivi, ai quali se ne aggiungono un'altra trentina che devono arrivare all'esame del plenum. Tanto lavoro ma non basta: le nomine tra capi e vice di procure e tribunali devono arrivare entro la fine dell'anno a un totale di 500, il che equivale a 43 posti al mese, 14 a settimana. Senza tener conto che già oggi le scoperture d'organico in magistratura sono di oltre mille unità. Le ripercussioni più pesanti sono previste per la Corte di Cassazione: entro la fine dell'anno andranno in pensione 38 presidenti di sezione. Il 91% dei magistrati della Suprema Corte rischia di essere "rottamato", incluso il primo presidente Giorgio Santacroce, che in occasione della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario aveva lanciato il grido d'allarme. Lo stesso Legnini ha più volte sollecitato governo e parlamento a un ripensamento. L'ultima volta in febbraio, in occasione del primo plenum presieduto da Sergio Mattarella. Di fronte ai "prevedibili disagi e rallentamenti negli uffici giudiziari", secondo il vicepresidente del Csm sarebbe preferibile "una scansione biennale delle procedure di rinnovo". Il testo per far slittare la "rottamazione" delle toghe è ancora in fase di limatura. L'ipotesi al momento prevalente è differire al 31 dicembre 2016 il pensionamento dei magistrati che al 31 dicembre del 2015 avranno compiuto 70 o 71 anni. In teoria il decreto dovrebbe riguardare tutti i magistrati, inclusi quelli di Tar, Consiglio di Stato e Corte dei Conti. Di fatto, però, i magistrati amministrativi non sembrerebbero gradire una proroga di lunga durata. Sia perché il problema del vuoto di organico li tocca solo in parte (appena il 20%), sia perché uno slittamento superiore a un anno tarperebbe le ali a quei magistrati di 68-69 anni che puntano a ricoprire incarichi di vertice. È presto per dire con certezza chi potrà beneficiare della proroga. Molto dipende da come sarà scritta la norma. Se passerà l'ipotesi di uno slittamento di un anno per i magistrati classe 1944-1945, potrebbero farcela il capo della procura e il pg di Milano, Edmondo Bruti Liberati e Giovanni Canzio, il presidente del Tribunale di Roma Mario Bresciano, il pg di Reggio Calabria Salvatore Di Landro e il pg della Cassazione Pasquale Ciccolo. Sempre però che, per scelta personale, qualcuno non decida di lasciare ugualmente. Giustizia: spazio al merito in assegnazione degli incarichi di vertice degli uffici giudiziari di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2015 Più prevedibilità e trasparenza nell'assegnazione degli incarichi di vertice degli uffici giudiziari. Criteri differenti a seconda delle dimensioni degli uffici, con previsioni specifiche per quelli collocati in zone ad alta densità mafiosa. Irrilevanza dell'anzianità come parametro di valutazione. Sono questi alcuni degli elementi chiave del Testo sulla dirigenza giudiziaria messo a punto dalla Quinta commissione del Csm, ancora soggetto a cambiamenti, ma che già oggi potrebbe ricevere un primo passaggio in plenum. L'articolato dovrebbe contribuire anche a evitare o comunque a circoscrivere i rischi di nomine ad alta tensione "politica", come quelli relativi all'ultima nomina del capo procuratore di Palermo, rendendo meno ampio il margine di discrezionalità. In questa prospettiva, per rafforzare la trasparenza dell'azione amministrativa, nelle procedure di conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, è facoltà degli aspiranti concedere il consenso alla pubblicazione sul sito intranet www.cosmag.it dell'autorelazione, del parere attitudinale, delle statistiche e del progetto organizzativo. I parametri chiave sono rappresentati dalla miscela di attitudini e merito che il Testo unico si incarica di puntualizzare e che andranno a confluire in un giudizio unitario e complessivo. Quanto alle prime, e relativamente al conferimento degli incarichi direttivi, sono ricavabili da un intreccio tra funzioni e esperienze precedenti o in atto e da esperienze significative sul piano organizzativo. Troppo astratto? Il Testo unico si preoccupa di circostanziare meglio. Così, riguardo alle funzioni direttive o semi-direttive, assumono importanza la gestione dei flussi di lavoro e delle risorse sulla base del rispetto dei piani di riduzione della durata dei procedimenti che sono già previsti sin dal 2011; la capacità di valorizzare le capacità dei magistrati; le soluzioni organizzative adottate; i rapporti con avvocati e personale amministrativo. Ma a pesare, in tempi di processo telematico, sarà anche "l'efficace utilizzo delle tecnologie avanzate, la partecipazione ai progetti e all'attività di innovazione". Merito e attitudini sono ricavabili, tra l'altro, dai pareri dei Consigli giudiziari, dai risultati sul carico e natura del lavoro svolto, con riferimento alle rilevazioni statistiche, dal progetto organizzativo relativo all'ufficio direttivo richiesto, dagli esiti delle ispezioni ministeriali. Le condanne disciplinari sono di regola di ostacolo al conferimento dell'ufficio nel caso di perdita dell'anzianità o di censura per fatti commessi negli ultimi 10 anni. Criteri diversi sono previsti a seconda delle dimensioni degli uffici, tenendo presente che sono considerati "di piccole e medie dimensioni" gli uffici giudicanti di primo grado che presentano in pianta organica sino a 5 presidenti di sezione e gli uffici della pubblica accusa istituti presso gli stessi. Ma indicatori su misura sono previsti anche per gli uffici direttivi giudicanti e requirenti specializzati nei settori minorenni e sorveglianza. Nero su bianco nel Testo unico si sottolinea come "è esclusa la rilevanza dell'anzianità come parametro di valutazione"; anzianità che però può riacquistare un ruolo solo in caso di giudizio di equivalenza tra due o più candidati al medesimo posto. La valutazione comparativa viene poi incanalata attraverso il peso diverso da dare ai vari indicatori, precisando quali saranno quelli destinati ad assumere natura prevalente. Criteri particolari poi per quanto riguarda gli uffici di Procuratore della Repubblica in zone caratterizzate da rilevante presenza di criminalità organizzata di tipo mafioso, dove va considerata la precedente esperienza specifica acquisita presso una Procura, una Procura generale della Repubblica o presso la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo per un periodo non inferiore a quattro anni negli ultimi undici. Giustizia: sì alla nuova class action, incentivi agli avvocati e adesione dopo la condanna di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2015 Un plebiscito per la riforma della class action. La Camera ha approvato ieri sera con 388 voti favorevoli, nessuno contrario e un solo astenuto, il disegno di legge, che ora passa al Senato, che riscrive radicalmente l'azione collettiva. Uno strumento che, introdotto del 2010, in Italia non è certo decollato: poche le azioni proposte, rare quelle che hanno superato il primo giudizio di ammissibilità. Esito di un sistema che prevede una serie di meccanismi per rendere il giudizio di classe equilibrato e sostenibile da parte delle imprese. Il disegno di legge, invece, rivede in profondità l'ambito di applicazione dell'istituto, modifica la struttura del giudizio e le modalità per l'adesione e introduce un pacchetto di incentivi all'azione che spostano in maniera netta il baricentro dell'azione collettiva. Fortissima la contrarietà di Confindustria che già nelle settimane scorse aveva chiesto (almeno) una pausa di riflessione, se non un ripensamento. Vaste e, come ovvio, di segno positivo le reazioni sia del Pd, con il responsabile giustizia David Ermini che mette l'accento sul fatto che la riforma avvicinerà la legislazione italiana a quella europea, sia del Movimento 5 Stelle che ricorda come in questo modo sia stato rispettato uno dei punti qualificanti del programma. In ogni caso, vista l'ampiezza del consenso ottenuto, un cambiamento al Senato non appare agevole. Vediamo punto per punto allora le principali novità, accompagnate dalle osservazioni critiche di Confindustria che ne hanno ripercorso tutto l'impianto. Innanzitutto, l'estensione dei soggetti tutelati, conseguenza diretta della collocazione della nuova azione collettiva nel Codice di procedura civile, traghettandola da quello del Consumo. A potere costituire la classe potranno essere non solo i consumatori/utenti, ma anche imprese, pubblica amministrazione e associazioni. Un ampliamento che, nel giudizio di Confindustria presta il fianco a strumentalizzazioni con effetti deleteri per il sistema giustizia. Il riferimento, per esempio, è ai rapporti emittenti-investitori e agli effetti in termini di contenzioso e di tenuta dei titoli. Ampliate anche le ipotesi di illecito extracontrattuale, sino a comprendere tutti i casi di responsabilità per fatto illecito. In questo modo, è la perplessità, può trovare forma di tutela attraverso class action qualsiasi diritto individuale, come quello alla salute e alla riservatezza, e risarcimento ogni danno ingiusto (all'integrità fisica, alla libertà individuale). Circostanza che espone le imprese, fa notare Confindustria, al rischio di un contenzioso enorme, con conseguenze pesanti anche sul piano reputazionale. Le modalità di adesione aprono a un allargamento della classe anche dopo la sentenza di condanna e non solo prima del giudizio di merito come nell'attuale Codice del consumo. Da una parte gonfiare la classe dopo la condanna apre la strada a condotte opportunistiche di chi preferisce attendere l'esito della controversia prima di agire, dall'altra introduce un'alea di constante incertezza sull'impatto che il giudizio potrebbe avere sulle imprese, rendendo assai ardua anche la presentazione di transazioni. A incentivare la raccolta di mandati per la proposizione dell'azione di classe, la riforma prevede l'obbligo a carico dell'impresa di pagare un compenso di natura premiale al rappresentante comune della classe, agli avvocati dei soggetti vittoriosi intervenuti e ai difensori degli attori delle cause riunite. Il compenso è calcolato sulla base dell'importo complessivo dovuto ai danneggiati, tenuto conto della complessità e qualità dell'opera prestate e del numero degli aderenti. Una previsione che, fa notare Confindustria, oltre che fare da volano al contenzioso si mette in contrasto con la Raccomandazione della Commissione europea che invita a definire parcelle per i legali che non rappresentino incentivi alla litigiosità. Giustizia: le società quotate si possono intercettare… la custodia cautelare vale per tutti di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2015 Nei casi di false comunicazioni sociali per le società quotate in borsa saranno consentite le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche, mentre la custodia cautelare potrà riguardare anche le ipotesi di falsità commesse nelle società non quotate. Si allungano poi i termini di prescrizione per le quotate che potranno arrivare fino a 10 anni. Sono queste alcune modifiche ai nuovi delitti di false comunicazioni sociali che entreranno in vigore dal prossimo 14 giugno. In base all'articolo 266 del Codice di procedura penale le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione sono consentite, tra l'altro, nei procedimenti relativi ai delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a cinque anni. I precedenti reati di false comunicazioni sociali (in vigore fino al 13 giugno 2015) prevedevano al massimo, nel caso di società quotate, la reclusione da uno a quattro anni (per le non quotate la reclusione era da sei mesi a tre anni). Solo nel caso in cui fosse stato cagionato un grave nocumento ai risparmiatori da parte di imprese quotate, la pena era da due a sei anni. Ne conseguiva pertanto che eventuali intercettazioni potevano essere svolte solo in presenza di tale grave nocumento ai risparmiatori. Con le nuove norme, invece, le false comunicazioni sociali delle società quotate ed assimilate sono ordinariamente sanzionate con la reclusione da tre a otto anni e, pertanto, potranno sempre effettuarsi le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche. Per le imprese non quotate invece, ancorché la sanzione edittale sia aumentata (dai tre anni di reclusione quale pena massima si passa a cinque) non sarà possibile effettuare detta attività investigativa. La custodia cautelare in carcere (ex articolo 280 del Codice di procedura penale) può essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore (nel massimo) a cinque anni e per il delitto di finanziamento illecito dei partiti. Ne consegue che, in passato, tale misura poteva essere adottata, ricorrendone ovviamente anche le altre condizioni previste dal codice di rito, solo nel caso di società quotate che, per effetto delle false comunicazioni, avessero cagionato un grave nocumento ai risparmiatori. In tutte le altre ipotesi era esclusa. Dal 14 giugno 2015, invece, questa misura coercitiva personale potrà riguardare non solo tutte le condotte relative alle quotate ma anche alle società non quotate. Restano escluse le ipotesi di lieve entità (per le non quotate) e le false comunicazioni delle società non fallibili (articolo 2621 bis, comma 2). La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e, comunque, un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria. Con in reati in vigore fino al 13 giugno prossimo: • le false comunicazioni sociali, per le non quotate, senza danno ai creditori, ai soci e alla società, costituivano una contravvenzione e pertanto il termine prescrizionale era di quattro anni (che diventavano cinque in caso di interruzione); • in ipotesi invece di danno, il delitto, anche per la società quotata, si prescriveva in sei anni (che diventavano 7 anni e sei mesi in caso di interruzione). Per le nuove fattispecie, tali termini aumentano, in quanto: • nei casi di false comunicazioni sociali, per le non quotate ma anche per le società non fallibili, a prescindere dal danno, la prescrizione del reato è sempre in sei anni, che diventano sette anni e sei mesi in presenza di interruzione; • per le quotate, il delitto, invece, si prescriverà in otto anni che diventeranno dieci in caso di interruzione. Da segnalare, infine, che permangono le disposizioni già vigenti in passato in tema di confisca e di autorità giudiziaria competente. In particolare, per le ipotesi di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei delitti in questione è sempre ordinata la confisca del prodotto o del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo. Nel caso in cui non sia possibile l'individuazione o l'apprensione di tali beni, la confisca ha ad oggetto una somma di denaro o di beni di valore equivalente. Infine, a norma dell'articolo 33 bis del Codice penale, sono attribuiti al tribunale in composizione collegiale, e non monocratica, tutti i delitti previsti dal Titolo XI del libro V del Codice civile, tra cui quelli sulle false comunicazioni sociali. L'ingiusta detenzione vale anche per chi è trattenuto nella comunità terapeutica di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 3 giugno 2015 n. 23726. La riparazione per ingiusta detenzione spetta anche a chi sia stato trattenuto illegittimamente presso una comunità terapeutica. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 23726/2015. Si allargano dunque i confini del risarcimento per chi è privato della propria libertà non dovendo più solo e necessariamente considerare la detenzione in una struttura carceraria, ma presso ogni luogo in cui si venga condotti con conseguente privazione o forte limitazione della propria libertà così come sancito dall'articolo 13 della Costituzione. La vicenda. La Corte si è trovata a decidere su una vicenda in cui il Tribunale del riesame di Torino aveva respinto la richiesta dell'indagato di ottenere il ristoro, per carenza di interesse. Secondo il Collegio piemontese nel caso non doveva essere riconosciuta una riparazione per ingiusta detenzione in quanto si trattava di misura di sicurezza priva di carattere detentivo, rispetto alla quale non dovevano essere avanzate richieste ex articolo 314 del cpp. Contro tale decisione è stato presentato ricorso per Cassazione. In particolare il ricorrente ha evidenziato come l'applicazione di una misura di sicurezza comportante l'allontanamento dalla case familiare, l'isolamento dal contesto familiare, la limitazione della libertà di circolazione, l'obbligo non solo di sottoporsi alle cure mediche ma anche di risiedere presso la struttura terapeutica non potesse che definirsi come una misura detentiva, tanto più considerato che il gip fissava il luogo di dimora dell'indagato nella stessa comunità e autorizzava l'indagato a recarsi all'udienza di incidente probatorio innanzi al Tribunale con la scorta di un educatore della medesima comunità. Ricovero equiparato alla detenzione. I Supremi giudici a tal proposito hanno precisato che la richiesta per ingiusta detenzione è ammissibile anche in relazione alla restrizione della libertà indebitamente sofferta per l'applicazione della misura di sicurezza del ricovero in una casa di cura. La motivazione poggia fondamentalmente sulla violazione commessa per errata applicazione non solo degli articoli 314, comma 2 e 627 del codice di procedura penale ma soprattutto per aver ignorato quanto previsto dall'articolo 13 della Costituzione in tema di libertà personale. Assistenza penale, rogatorie più facili fra i Paesi Ue di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2015 Ratifica Convenzione Bruxelles - Testo proposta di legge 1460. Assistenza giudiziaria garantita anche per l'applicazione di sanzioni amministrative e utilizzo ad ampio raggio delle informazioni trasmesse dalle autorità straniere. Con un rafforzamento del dialogo diretto tra le autorità giudiziarie degli Stati membri, per esempio per le regoatorie. Queste tra le novità che prenderanno corpo con l'adozione dei decreti legislativi previsti dal disegno di legge di ratifica ed esecuzione della Convenzione relativa all'assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell'Unione europea del 29 maggio 2000, che ieri ha avuto il via libera alla Camera. Il testo passa al Senato. Tutto nel segno della fiducia reciproca. Con l'Italia, però, in ritardo: la Convenzione, infatti, è in vigore dal 2005 ed stata già ratificata da 24 Stati. Oltre all'Italia mancano la Grecia, la Croazia e l'Irlanda. Non solo. Nonostante i tempi lunghi per l'esecuzione, l'Italia sceglie di accantonare, almeno per il momento, la ratifica del Protocollo del 2001 relativo alle informazioni sui conti bancari. La Convenzione introduce un sistema di assistenza variabile con forme particolari di cooperazione nel caso di restituzione di cose pertinenti al reato, di trasferimento temporaneo di persone, per le audizioni mediante videoconferenza o in conferenza telefonica, per lo svolgimento di indagini ai fini della confisca, per le attività di intercettazione delle telecomunicazioni all'estero e le operazioni di infiltrazione. Spazio anche alle cosiddette consegne sorvegliate da parte dello Stato richiesto e allo scambio spontaneo di informazioni, con la possibilità, per lo Stato che fornisce notizie, di imporre all'autorità richiedente condizioni per l'uso. Per quanto riguarda le deleghe al Governo, la proposta di legge dà tempo sei mesi per l'adozione dei decreti legislativi. In primo piano, il restyling del libro XI del codice di procedura penale, con limiti più stretti per la non esecuzione delle domande di assistenza giudiziaria nei rapporti con gli Stati Ue, possibile solo nei casi di pericolo per la sovranità, per la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato. Nella direzione di incrementare il dialogo diretto tra autorità giudiziarie, il procuratore generale potrà avviare l'interrogatorio richiedendo direttamente all'autorità giudiziaria dello Stato estero la documentazione e le informazioni necessarie, dando comunicazione al Ministero della giustizia. L'Italia, poi, nonostante il grave ritardo nel recepimento della decisione quadro 2002/465/Gai sulle squadre investigative comuni, dovrà disporle nella fase di attuazione della legge di ratifica. Prevista anche la riparazione per ingiusta detenzione subita all'estero ai fini dell'estradizione e il riconoscimento e l'esecuzione delle sentenze penali straniere nel segno della massima semplificazione. Casellario informatico: segnalazioni all'Anac anche per appalti di servizi e di forniture di Ilenia Filippetti Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2015 Il casellario informatico dell'Anac contiene i dati che le stazioni appaltanti devono consultare per riscontrare l'effettivo possesso dei requisiti di partecipazione alle gare. Al fine di razionalizzare il sistema e, soprattutto, al fine di consentire la parità di trattamento di tutti gli operatori economici, ne è consentita la consultazione anche per le gare di servizi e di forniture. È questo il principio affermato dalla sesta sezione del Consiglio di Stato con la sentenza 15 maggio 2015, n. 2466. Nel dicembre del 2007 una stazione appaltante dispone la revoca dell'aggiudicazione di un appalto di servizi dopo aver verificato che l'amministratore unico della società aggiudicataria aveva falsamente dichiarato l'insussistenza di condanne penali a proprio carico; la stazione appaltante segnala la dichiarazione mendace anche all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici la quale, nel dicembre 2008, dispone l'iscrizione della società all'interno del casellario informatico. La società impugna l'iscrizione nel casellario, unitamente alla determinazione n. 1/2008 con la quale l'Autorità aveva disposto l'estensione delle annotazioni nel casellario informatico anche per i dati degli appalti di servizi e forniture, in aggiunta ai dati relativi agli operatori economici del settore dei lavori. Il Tar Lazio respinge il ricorso e, con la pronuncia in rassegna, il Consiglio di Stato conferma la decisione assunta in prime cure. L'articolo 38, comma 1 del Codice dei contratti prevede una serie di cause di esclusione - applicabili alle gare di lavori, servizi e forniture - che devono essere verificate accedendo alle "annotazioni riservate" contenute nel casellario informatico istituito presso l'Osservatorio sui contratti pubblici (articolo 7, comma 10 del Codice). Prima dell'entrata in vigore dell'attuale Codice dei contratti pubblici, con la determinazione n. 10/2003 l'Autorità di vigilanza sui lavori pubblici aveva stabilito che i responsabili unici del procedimento nelle ipotesi di esclusione dalle gare di lavori dovevano segnalare i concorrenti all'Autorità entro 10 giorni dalla data dell'esclusione. Con la successiva determinazione n. 1/2005 l'Autorità aveva inoltre disposto che per le imprese che avessero dichiarazioni non veritiere nelle procedure per appalti di lavori il divieto di partecipare alle gare per un periodo "fino a un anno" doveva decorrere dall'inserimento dell'annotazione all'interno del casellario informatico. Dopo l'adozione dell'attuale Codice di cui al Dlgs 163/2006, l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ha deliberato, con la determinazione n. 1 del 10 gennaio 2008, di estendere l'ambito di applicazione del casellario anche ai servizi e alle forniture: anche per gli appalti di tali settori, pertanto, le stazioni appaltanti devono verificare - ai fini dell'ammissione dei concorrenti alle gare - l'effettivo possesso dei requisiti di cui all'articolo 38 del codice. Con la deliberazione n. 111/2012 l'Autorità di vigilanza ha, inoltre, sottolineato che le annotazioni riservate contenute nel casellario sono rese disponibili anche nell'ambito del sistema Avcpass. La pronuncia in rassegna sottolinea che l'articolo 7, comma 10 del Codice ha esteso - espressamente - l'operatività del casellario informatico anche ai servizi e alle forniture grazie alla modifica apportata al Codice dal c.d. terzo decreto correttivo (Dlgs 11 settembre 2008, n. 152); nondimeno - prosegue il Consiglio di Stato - l'Autorità aveva già esteso, con la determinazione n. 1/2008, l'operatività del casellario informatico anche ai servizi e alle forniture al fine di consentire alle stazioni appaltanti di poter disporre, anche in tali settori, degli elementi informativi necessari per riscontrare l'effettivo possesso dei requisiti di partecipazione alle gare. In questo quadro, il Consiglio di Stato rileva che anche prima del terzo correttivo - allorché il Dpr 34/2000 prevedeva, testualmente, il casellario informatico solo per i lavori pubblici - vigeva comunque il principio per cui le annotazioni nel casellario informatico riguardavano anche gli appalti di sevizi e forniture (cfr. anche Consiglio di Stato, sezione 6, sentenza 4 agosto 2009, n. 4905): si trattava di un principio ritenuto "immanente nell'ordinamento settoriale dei contratti pubblici", in quanto desumibile dall'intero sistema fondato sul Codice unico dei contratti di lavori, servizi e forniture del 2006. La norma introdotta dal terzo decreto correttivo ha quindi avuto una valenza semplicemente ricognitiva - e non innovativa - di tale principio, già desumibile dal Codice dei contratti anche nella formulazione antecedente alla novella del 2008. A ciò va aggiunto che l'Autorità di settore può sempre, nell'esercizio del potere di vigilanza, richiedere dati e informazioni alle stazioni appaltanti (cfr. articolo 6, comma 9 del Codice), con la conseguenza che la medesima Autorità può legittimamente stabilire, con deliberazione di carattere generale - così come avvenuto con la determinazione n. 1/2008 - quali sono gli atti e i documenti che le stazioni appaltanti sono tenute a trasmettere ed a verificare attraverso il casellario informatico. La pronuncia in rassegna si segnala anche per aver sottolineato che la soppressione dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici e la conseguente attribuzione dei relativi compiti e funzioni all'Autorità nazionale anticorruzione, ai sensi dell'articolo 19, commi 1 e 2 del Dl 90/2014, non possono determinare l'interruzione del processo ai sensi dell'articolo 79 del Codice del processo amministrativo: secondo il Consiglio di Stato, infatti, in tal caso non si realizza un'ipotesi di successione a titolo universale, nel senso proprio del termine, tra due soggetti distinti ma si verifica il diverso fenomeno della c.d. successione nel munus, di natura prettamente pubblicistica, caratterizzata dal passaggio di attribuzioni fra amministrazioni pubbliche accompagnato dal trasferimento della titolarità delle strutture e dei rapporti ancora pendenti. Non si realizza, in tal caso, una vera soluzione di continuità tra l'ente che si estingue e l'ente che subentra, con conseguente insussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'istituto dell'interruzione. Analoga vicenda, peraltro, si era già verificata nel 2006, quando l'attuale codice dei contratti pubblici aveva disposto che l'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici istituita dall'articolo 4 della legge 109/1994 dovesse assumere la nuova denominazione di Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (articolo 6, comma 1 del Codice). Fallimento del piccolo consumatore, il giudice "pesa" la fattibilità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2015 A suo modo un classico fallimento del consumatore. Anzi, del piccolo consumatore. Con poco da ripartire, un unico cespite di proprietà, un immobile, da vendere alla moglie del valore di circa 33mila euro e il sostegno esterno della madre del debitore (oltre ad altri due soggetti che si sono obbligati all'erogazione delle somme che risultano dal piano sottostante all'accordo) che si impegna ad apportare la somma necessaria per il soddisfacimento dei creditori chirografari. Questi per sommi capi i contenuti di una proposta di composizione della crisi da sovra-indebitamento che non è stata accompagnata da contestazioni da parte dei creditori concorsuali. Una situazione che riduce allora i margini di intervento del giudice delegato che, nel decreto di omologazione del Tribunale di Bergamo n. 25 del 2015, sottolinea come la sua valutazione, a questo punto, non può riguardare la convenienza della proposta di soddisfacimento rispetto all'ipotesi alternativa del pagamento derivante dalla liquidazione concorsuale del patrimonio del debitore. Il giudizio di convenienza è infatti riservato alla massa dei creditori concorsuali. L'intervento dell'autorità giudiziaria è invece circoscritto alla legittimità del procedimento e alla fattibilità del piano inserito nella proposta di accordo. Sotto il primo punto di vista, chiarisce il decreto, si tratta di accertare l'esistenza delle condizioni di ammissibilità sostanziali e formali della procedura concorsuale, l'assenza di ostacoli all'omologazione e di violazioni a norme imperative. Fatta questa premessa, il giudice delegato osserva che, a questo tipo di scrutinio, l'accordo passa indenne. La proposta infatti arriva da un soggetto persona fisica, che non può essere assoggettato a fallimento e concordato, che si trova in condizioni di sovraindebitamento, dal momento che è evidente lo squilibrio tra il suo patrimonio liquidabile e la complessiva esposizione nei confronti dei creditori. E allora il piano per fronteggiare una situazione certo assai critica è stato messo a punto, come prevede la legge (la n. 3 del 2012) da un organismo di composizione della crisi che è rappresentato, in questo caso, da un professionista in possesso dei requisiti di legge nominato dal presidente del tribunale. Nella documentazione presentata hanno trovato posto: l'elenco dei creditori con tutte le somme dovute, la lista dei beni del debitore, gli atti di disposizione del patrimonio relativi agli ultimi cinque anni, le dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre e l'attestazione sulla fattibilità del piano. Il piano, che prevede la cessione integrale di tutti i beni del debitore, è poi stato approvato da creditori che rappresentano complessivamente oltre il 70% del totale dei crediti, percentuale assai al di sopra di quel 60% previsto dalla legge. Al giudice compete allora una valutazione, di natura officiosa, sulla fattibilità del piano stesso "poiché soltanto quest'ultima garantisce l'attuabilità degli accordi e che da essi, quindi, scaturisca il soddisfacimento dei creditori in termini coerenti con la proposta". Oggetto della valutazione è allora la proposta dell'organismo di composizione della crisi, al quale la legge affida il compito di attestare, sotto la propria responsabilità, l'esistenza e la consistenza dei beni sui quali è imperniato il piano e, in secondo luogo, l'attuabilità degli accordi, da intendere, come idoneità degli stessi a permettere il soddisfacimento dei creditori concorsuali. Il giudice delegato deve quindi valutare, precisa il decreto, se le argomentazioni dell'organismo di composizione della crisi tradotte nella relazione sono esaustive, coerenti e non contraddittorie. Prospettiva che impone pertanto anche una considerazione dei contenuti del piano per accertare la loro corrispondenza ai contenuti dell'attestazione definitiva. Via libera allora alla proposta che prevede il soddisfacimento di tutti i creditori concorsuali, con una assai significativa falcidia di quelli chirografari, soddisfatti nella percentuale del 2,5 per cento e alla vendita dell'immobile alla moglie che ha versato una prima tranche del pagamento complessivo, subito messa a disposizione dei creditori. Avvocati, la "standardizzazione" degli atti comprime i diritti della difesa di Giuseppe Sileci Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2015 La Corte di Cassazione, muovendo dalla premessa che la giurisdizione è una "risorsa limitata", ha affermato che "ben può la legge, esplicitamente o implicitamente, limitare il ricorso al giudice per fare valere pretese di natura meramente patrimoniale, tenendo anche conto che il numero delle azioni giudiziarie non può non influire, stante la limitatezza delle risorse disponibili, sulla durata ragionevole dei giudizi, che è bene protetto dall'art. 111 della Costituzione e dall'art. 6 della Corte di Giustizia Europea" (Cassazione 3 marzo 2015 n. 4228). La posizione di Piazza Cavour. Non merita tutela, quindi, un credito residuo per interessi di appena 21 euro quando il debitore ha pagato, dopo la notifica del precetto, l'intera sorte capitale e gli accessori. Immaginando il disappunto del Collegio quando ha dovuto esaminare una causa che il buon senso avrebbe dovuto certamente sconsigliare, la decisione solleva alcuni interrogativi perché si tratta di capire quando "un credito di natura esclusivamente patrimoniale, nemmeno indirettamente connesso ad interessi giuridicamente protetti di natura non economica …., non può ricevere tutela giuridica". Per la Corte ricorre questa ipotesi "se l'entità del valore economico è oggettivamente minima e quindi tale da giustificare il giudizio di irrilevanza giuridica dell'interesse stesso". Alla luce dei predetti principi, sembrerebbe quindi sempre meritevole di tutela giudiziaria, indipendentemente dall'ammontare, un credito che sia almeno indirettamente connesso ad interessi non economici; e se, invece di un credito, fosse in contestazione un debito, pur esiguo, per sanzioni amministrative? Anche in questo caso ci troveremmo di fronte ad una situazione di "irrilevanza giuridica"? E quale sarebbe la soglia minima, al di sopra della quale una ragione creditoria meriterebbe tutela? La sentenza non offre risposte, anche perché la decisione sembra essere stata molto condizionata dal "caso concreto" ed appare dettata dalla volontà di stigmatizzare una iniziativa processuale animata dal "puntiglio" piuttosto che dall'interesse. La pronuncia è successiva di alcuni mesi ad altra sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile un ricorso troppo lungo appellandosi, anche in quel caso, al rispetto dei principi del giusto processo di cui agli articoli 111 Costituzione e 6 Cedu nonché all'esigenza di non gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui (Cassazione 30 settembre 2014 n. 20589). I prospetti milanesi - E sempre in nome della ragionevole durata del processo, e dunque al precipuo scopo di accelerare il lavoro dei Giudici, a Milano la Commissione mista avvocati-magistrati sta studiando la opportunità di inserire, all'inizio degli atti introduttivi (citazione e comparsa di risposta) dei giudizi aventi ad oggetto azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di società di capitali, due "prospetti" riepilogativi, "da riempire con indicazioni del tutto sintetiche … e senza alcuna incidenza sul contenuto vero e proprio dell'atto difensivo, la cui modalità di redazione è compito proprio della difesa". La tipizzazione del Csm - Infine, il Consiglio Superiore della Magistratura, in esito al monitoraggio e studio delle problematiche attuative del Processo Civile Telematico, ritiene necessario, tra l'altro, incentivare la "tipizzazione degli atti, con l'introduzione di regole in ordine alla loro forma rendendo cogente l'impegno alla sinteticità e consentire (anche sotto il profilo normativo) il ricorso all'ipertesto specialmente per l'indicizzazione dei documenti" (Delibera Plenum 13.05.2015). In breve, sembra davvero imminente il rischio di una standardizzazione degli atti difensivi che - a pena di inammissibilità - dovranno soddisfare determinati requisiti di forma: e ciò in nome di quella ragionevole durata del processo che sarebbe irrimediabilmente vulnerata dalla limitatezza delle risorse da destinare alla giurisdizione e che, paradossalmente, sarebbe compromessa dall'introduzione del processo civile telematico, se non si interverrà con i correttivi (non proprio a costo zero) auspicati dal Csm. La libertà dell'avvocato - Se riflettiamo un attimo sul fatto che un quinto del contenzioso civile è imputabile allo stesso Stato in tutte le sue articolazioni (si pensi all'enorme contenzioso previdenziale ed ai giudizi in cui è parte una pubblica amministrazione) e che certamente non aiutano a velocizzare i tempi processuali i vuoti (oltre mille unità) nella pianta organica del personale giudiziario (a breve aggravati dal prepensionamento di molti magistrati per l'abbassamento dell'età pensionabile), non può non destare preoccupazione e perplessità il tentativo di costringere la attività difensiva all'interno di schemi eterodiretti di redazione degli atti: c'è un valore che più di ogni altro, assieme alla autonomia ed indipendenza del giudice, garantisce la attuazione della giustizia, e cioè la libertà intellettuale di ogni avvocato di illustrare le proprie tesi difensive nel modo che ritiene più efficace per persuadere il giudice, al quale - certo - sarà richiesto il faticoso compito di leggere gli atti ed esaminare i documenti. Compito non più gravoso di quello al quale è chiamato l'avvocato quando deve predisporre un atto di appello o un ricorso in Cassazione. Lettere: non c'è giustizia senza garantismo di Maria Teresa Olivieri avantionline.it, 4 giugno 2015 "Essere (sempre) garantisti", è il titolo del convegno tenuto ieri a Roma, a Palazzo San Macuto. Il tema è antico quanto il diritto, ma resta di attualità, soprattutto in questi giorni, dopo una campagna elettorale cavalcata dal "giustizialismo" di origine populista. La tavola rotonda è stata introdotta dagli avvocati Oreste Campopiano (Responsabile nazionale Psi problemi dello stato) e Luigi Iorio (Responsabile nazionale PSI diritti umani e della persona), proprio Iorio ha posto l'accento su quanto sia rivoluzionario e antico questo termine, nato nell'Illuminismo per difendere i più poveri e arrivato nel nostro Paese solo a partire "dagli anni ‘90 quando l'Italia finalmente inizia il suo cammino con i Paesi liberali del ‘giusto processò". Ma questa direzione pare arrestata per via della "politicizzazione sempre più frequente della Giustizia nel pieno di ondate popu­li­sti­che come quelle che seguirono la metà degli anni ‘90". Marco Di Lello, Presidente Deputati Socialisti e segretario della Commissione Antimafia, ha rilevato come esiste dal 92 una sorta di "doppio binario" per quanto riguarda alcune garanzie processuali che iniziò "con la legge Martelli-Scotti, un decreto che rispondeva però all'emergenza mafiosa dopo la strage di Capaci". "Allora - rileva Di Lello - le garanzie vennero mitigate solo per i reati di stampo mafioso. Ma con il tempo quella legge è stata usata per altri reati, come la droga e il terrorismo, che non avevano nessuna emergenza". Di Lello ha anche proposto di fissare dei limiti ai vari Gradi di processo, in quanto "questi tempi morti rischiano di portare solo alla prescrizione del reato". La tavola rotonda ha visto gli interventi di figure autorevoli della Giurisprudenza italiana come quello di Vincenzo Improta (Vice Presidente Oua - Organismo Unitario Avvocatura Italiana), Vincenzo Maiello (Docente di Diritto Penale) Domenico Ciruzzi (Unione Camere Penali) e Gennaro Marasca (Presidente di Cassazione). "Il Garantismo non è un privilegio", ha puntualizzato Claudio Fava (Vice Presidente Commissione Bicamerale Antimafia). l'Onorevole Fava ha anche ricordato l'importanza di pene alternative a quelle detentive e a come ci sia "un vero abuso del carcere nel nostro Paese", e rilevando, dati alla mano, come ad essere recidivi sono sempre più spesso coloro che sono stati in carcere, mentre la percentuale è "bassissima per quelli che hanno scontato pene alternative". Il problema delle carceri è stato affrontato anche dal Ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "Il carcere - dice il Ministro - è ormai diventato produttore di criminalità, invece che deterrente". Orlando ha fatto notare come il problema e lo stato delle carceri del nostro Paese sarebbe peggiorato se non fosse intervenuta più volte la Corte di Strasburgo. Inoltre il Ministro ha messo in evidenza come spesso "introdurre reati al di fuori dei Codici crea solo confusione". Sono stati introdotti ben 309 nuovi reati dal 1999, alimentando populismo e confusione e rendendo ancora più difficile la certezza della pena, e di conseguenza della Giustizia. Lettere: bene valutare i giudici, ma con quali criteri? di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2015 La giustizia è allo sfascio. Leggi sbagliate, va bene. Computer obsoleti e uffici disastrati, anche. Ma i magistrati lavorano? Si guadagnano lo stipendio? Per mia esperienza personale sì; quasi sempre; beh, chi più, chi meno. Sicché il problema sta nel farli lavorare - tutti - il giusto, valutare il loro lavoro e sanzionare chi tira a campare. Il procedimento disciplinare funziona meglio che in ogni altra Amministrazione: più giudizi e più sanzioni. Che non vuol dire che funzioni bene: l'inquinamento correntizio si fa sentire. La valutazione del lavoro non funziona per niente: perché è una cosa quasi impossibile. Un medico specializzato nell'asportare le adenoidi fa solo quello. Il tempo di ogni intervento è conosciuto; ogni tanto qualche complicazione, ma stabilire una media è possibile. L'Asl si aspetta da lui X interventi e, se non li fa, gliene chiede conto. Lo stesso avviene per uno specialista in trapianti di cuore; anche qui il tempo medio di ogni intervento è noto. Ma per i processi è diverso. Prima di tutto non esiste una divisione tra magistrati che fanno processi semplici (guida senza patente) e altri che fanno processi più complessi (rapine, furti, lesioni). Tutti fanno tutto. Vero, ci sono i dipartimenti specializzati: reati contro la PA, societari, criminalità organizzata. Ma la fuffa, i reati quotidiani, quelli li trattano tutti. Solo in casi rarissimi si è esentati dall'ordinaria amministrazione; e anche qui tra mugugni e maldicenze dei colleghi: celebre il caso di Falcone che Meli mise a fare i turni. Sicché può capitare (capita sempre) che nel lavoro ordinario irrompa la "rogna". E la produttività annua prevista vada a... farsi benedire. E poi non tutti i processi specialistici "pesano" nello stesso modo. In Procura lo sfottò tra chi si occupa di reati economici e chi indaga in materia di criminalità organizzata è quotidiano: "Si vabbè, voi state a leggervi un centinaio di intercettazioni e poi chiedete perquisizioni e catture; provate a studiarvi bilanci e contratti internazionali". E viceversa, naturalmente. Chi abbia ragione non si sa; però la valutazione del "peso" di questi processi è complicata. Alla fine tutti sanno chi lavora tanto e chi poco. Ma dimostrarlo con numeri è impossibile. Men che meno con il risultato dei processi: assolvere un innocente richiede la stessa attività e lo stesso impegno necessari per condannare un colpevole. E allora? Si potrebbe chiedere agli avvocati: loro lo sanno benissimo quanto vale e quanto lavora ogni singolo giudice. Ma non si può prima di tutto perché si pregiudicherebbe l'imparzialità dei magistrati: la tentazione di accogliere le tesi dei Principi del Foro, dei Consiglieri dell'Ordine, sperando in un riconoscimento al momento delle valutazioni di professionalità (il Csm le fa periodicamente) sarebbe forte. E poi perché gli stessi avvocati favorirebbero il magistrato che gli ha dato spesso ragione o almeno in quella causa importantissima che tanto successo professionale ed economico gli ha dato. E infine per i PM sarebbe dura. Avvocati e PM sono come cane e gatto: qualche volta nascono amicizie che durano una vita; ma in genere sono graffi e morsi. Restano i Capi degli uffici e il Csm. Sistema imperfetto come dimostrano i tanti casi alla Bruti-Robledo e i tantissimi di inquinamento correntizio. Ma c'è poco da fare. Come diceva Dante, "State contenti, umana gente, al quia, che, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria". Lettere: la ridicola libertà del boss Lampada di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2015 Stavolta niente coni d'ombra, di quelli che a cicli regolari aiutano i clan. Nemmeno il terremoto elettorale può far dimenticare l'incredibile perizia che ha spedito per dieci anni agli arresti domiciliari, anziché tenerlo in carcere, il presunto boss Giulio Lampada, condannato in appello a 14 anni ed esponente di punta della famiglia regina che, imparentata con quella dei Valle, la fa da padrona da decenni nella Lombardia meridionale. La motivazione è echeggiata in tutta la sua drammatica comicità nei telegiornali. Lampada non ha proprio piacere di stare in carcere. Non lo sopporta. Non sopporta la vista delle divise. Ma non può stare nemmeno nell'infermeria, perché neanche i camici bianchi sopporta. E nemmeno in una comunità protetta. Potrebbe perfino uccidersi alla vista di quegli indumenti. È "incompatibile con qualunque tipo di luogo detentivo". Dunque deve starsene a casa sua, circondato dall'affetto dei suoi cari. Nemmeno una commedia all'italiana sarebbe arrivata a tanto. Invece lo ha stabilito una perizia ufficiale. E la giustizia italiana, quella che assiste inerte a qualche massacro all'anno nelle celle, si è prontamente inchinata. D'ora in poi nessun professore bocci più un allievo, potrebbe uccidersi nel pieno di una crisi esistenziale (e succede). Questa storia delle perizie medico-giudiziarie è uno scandalo su cui nessuna (ma proprio nessuna) riforma della giustizia ha mai saputo balbettare qualcosa. La mafia ha sempre potuto contare su medici e psichiatri che, per soldi, dottrina o misericordia, hanno accertato che il boss affidato al loro giudizio fosse incompatibile con la detenzione. Si ha così da decenni il grottesco di magistrati, poliziotti e carabinieri che investigano, sudano e rischiano in nome dello Stato, decidono coraggiosamente, insieme a quei semplici cittadini che sono i giurati popolari, di infliggere condanne; qualcuno ci resta anche per strada; e poi medici, anch'essi pubblici ufficiali, che con una firma mandano all'aria qualsiasi pretesa punitiva dello Stato. Il grado di appello del maxiprocesso si celebrò praticamente a gabbie vuote perché decine e decine di boss avevano avuto la loro brava perizia. Non solo. Qualche anno fa un oculista ragusano della Maugeri di Pavia, Aldo Fronterré, certificò che il capo dell'ala militare dei casalesi, Giuseppe Setola, era affetto da maculopatia, dunque avviato alla cecità e per giunta inoperabile. Setola uscì così dal carcere ed ebbe gli arresti domiciliari a Pavia. Da cui scappo' per tornare in Campania, dove il killer "cieco" seminò il terrore uccidendo diciotto persone, tra cui imprenditori e commercianti che avevano testimoniato contro di lui. Una firma e, zac, diciotto morti. C'è materia per gli ordini professionali, che in genere se ne infischiano. Naturale dunque chiedersi, nell'ultimo caso di Milano: quale giudice ha scelto quel perito, Elvezio Pirfo, sentendo la necessità di andarlo a prendere a Torino? Per quale motivo lo ha ritenuto così conforme ai propri ideali di terzietà e di giustizia? Forse a Milano non c'era nessun perito o collegio di periti di valore disponibile? Anche perché questo dottore così premuroso nei confronti di Giulio Lampada ha fama di avere fatto lo psichiatra nelle strutture pubbliche torinesi con le maniere un po' forti. Anzi, il perito premuroso ha scritto di un'anziana signora torinese che non vi erano dati certi sul fatto che nella sua adolescenza avesse subito "eventi sostanziali e/o psicosociali avversi" o "dinamiche familiari da lei vissute come negative". A 17 anni le avevano semplicemente sterminato la famiglia durante un rastrellamento nazista! Un paio di settimane fa Marco Travaglio ha posto su questo giornale un problema che non si può più eludere. Quello di rendere chiare le responsabilità dei giudici che con le loro sentenze o i loro provvedimenti fanno la storia d'Italia, decretano stati di paura nelle popolazioni, incoraggiano il senso di impunità dei criminali e inducono alla rassegnazione e all'omertà le persone per bene. Gian Carlo Caselli ha opposto obiezioni di rilievo, a partire dalla necessità di proteggere magistrati e giurati popolari dalle rappresaglie. Purtroppo però i criminali vengono sempre a sapere (come nel caso del procuratore Gaetano Costa, che per questo fu ucciso) chi si è schierato contro di loro. Ecco, noi, a proposito del Tribunale del Riesame di Milano, vorremmo sapere quali giudici e quale loro dottrina dobbiamo ringraziare, leggendo motivazioni di un provvedimento che suonano offesa per chiunque abbia subito la violenza mafiosa. Li vorremmo conoscere, i loro nomi, per dare un senso a questa storia maledetta senza fine. Perché, certo, in questo caso ci troviamo davanti solo a diversità di opinioni. Ma dietro c'è il disagio di chi sa che la vicenda dei Lampada è stata zeppa, ma proprio zeppa, di giudici, avvocati e finanzieri accusati e in qualche caso condannati per corruzione. Domande: il Consiglio superiore della magistratura starà davvero a guardare? E il ministro? Ci sarà qualcuno in grado di chiedere una controperizia? O la Lombardia, tra Cassazione e magistrature giudicanti, è condannata a diventare la Sicilia degli Anni Settanta? Cagliari: Uil-Pa; detenuto tenta il suicidio, il nuovo carcere di Uta è già sovraffollato Ansa, 4 giugno 2015 "La Uil ha segnalato che la situazione all'interno dell'istituto non è più sostenibile, stanno continuando ad arrivare detenuti dalla penisola e la popolazione detentiva ha superato già le 550 presenze, di contro la carenza organica di Polizia Penitenziaria. Un detenuto di 45 anni ha tentato il suicidio nella tarda mattinata nel carcere di Uta (Cagliari), ma è stato prontamente salvato dagli agenti della Polizia penitenziaria. Lo ha reso noto il coordinatore regionale della Uil Penitenziari, Michele Cireddu. "La tempestività e la grande capacità operativa degli agenti in servizio ha scongiurato un epilogo tragico per il detenuto - ha sottolineato il sindacalista. La Uil ha segnalato che la situazione all'interno dell'istituto non è più sostenibile, stanno continuando ad arrivare detenuti dalla penisola e la popolazione detentiva ha superato già le 550 presenze, di contro la carenza organica di Polizia Penitenziaria è pari a 130 Agenti". Il detenuto, secondo una prima ricostruzione dell'accaduto, ha tentato di impiccarsi ed è stato soccorso dagli uomini della Penitenziaria. Sul posto è poi arrivata un'ambulanza del 118 che ha trasportato il 45enne in ospedale, in condizioni gravissime. La prognosi è riservata. Per protestare contro la situazione in cui versa la Polizia penitenziaria, il sindacato ha intenzione di organizzare un sit-in di protesta "in ogni luogo dove avremo notizia della presenza del Ministro Orlando o dei vertici del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria - evidenzia Cireddu -. Si comincerà dall'imminente visita del Ministro che sancirà l'Ufficiale inaugurazione dell'Istituto di Cagliari Uta". Roma: "Donne dentro e fuori", l'arte delle allieve detenute Ansa, 4 giugno 2015 Progetto liceo E. Rossi, con Associazione Stampa Romana e Unicoop. Donne dentro e fuori dal carcere. Libere di volare grazie allo studio, all'arte e al lavoro e di avere una chance per reinserirsi nella società. Le detenute della Casa Circondariale di Rebibbia alunne del Liceo artistico statale "Enzo Rossi" di Roma saranno protagoniste, dal 4 al 6 giugno, di una mostra allestita nello spazio Factory presso la Pelanda del Macro a Testaccio. Sette "speciali" allieve, che frequentano i corsi organizzati dal liceo e che si sono diplomate nell'anno 2013-2014, verranno premiate per il loro talento. I corsi prevedono l'esecuzione di opere e manufatti, che saranno esposti a dimostrazione che l'arte da sempre contiene in sé un grande valore libertario. E riesce a risarcire da errori e condanne, alla ricerca di una nuova definizione della propria personalità. Si parte domani 4 giugno alle 9.30 con un incontro-dibattito incentrato sull'importanza di questo tipo di didattica in particolari realtà e dell'affinamento dei relativi strumenti d'intervento. Al dibattito parteciperanno: Paolo Masini, assessore Scuola, Sport, Politiche Giovanili e Partecipazione di Roma Capitale; Massimiliano Valeriani, vicepresidente Consiglio regionale Lazio; Gildo De Angelis, direttore generale ufficio scolastico regionale Lazio; Maria Claudia Di Paolo, provveditore regionale amministrazione penitenziaria Lazio; Ida Del Grosso, direttore Casa circondariale femminile Rebibbia; Mariagrazia Dardanelli e Alessandro Reale, rispettivamente dirigente scolastico e collaboratore vicario del Liceo Artistico Enzo Rossi. Modera l'incontro il segretario dell'Asr, Lazzaro Pappagallo. Dopo il dibattito, sarà inaugurata la mostra e per tre giorni alla Pelanda, il progetto "Donne dentro e fuori" annovererà concerti ed esposizioni, performance teatrali e balletti, dibattiti e conferenze, con l'intervento di tante realtà culturali presenti sul nostro territorio quali il Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, il Conservatorio "O. Respighi di Latina, l'Accademia Nazionale di Danza. Il Liceo Artistico Statale "Enzo Rossi", da circa 10 anni, ha attivato il Corso Arti Figurative presso la casa Circondariale Rebibbia Femminile, un progetto culturale e didattico voluto dalla dirigente Mariagrazia Dardanelli, sostenuto dal Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Lazio Angiolo Marroni. Il carcere è da allora parte della scuola ed assicura alle detenute il diritto allo studio. Tutto è stato promosso e incoraggiato mediante borse di studio, finanziamenti con sponsorizzazioni e sostegno all'organizzazione e alla diffusione dei risultati in partenariato con diversi attori istituzionali e, in particolare, l'Associazione Stampa Romana e la Unicoop Tirreno. Milano: la San Vincenzo de Paoli a Expo "orti condivisi come riscatto sociale dei detenuti" Askanews, 4 giugno 2015 La strada per il riscatto sociale, per una formazione, e anche per una risposta non scontata alle domande di un disagio sociale passa anche per gli orti. La Federazione Nazionale Società di San Vincenzo de Paoli - presente questa settimana in Cascina Triulza, il Padiglione della Società Civile in Expo 2015 - racconta sabato 6 giugno (dalle 10 alle 15) il progetto Orti Condivisi, che racconta l'impegno dell'associazione in favore di giovani e donne detenute e persone in difficoltà attraverso la creazione di orti condivisi in diversi centri penitenziari e in alcune città italiane. Tre le città coinvolte, Piacenza, Vigevano e Aosta. Il progetto di Piacenza, "Effetto serra, i semi della speranza", è rivolto ai detenuti iscritti alla sezione interna al carcere piacentino dell'Istituto professionale Agroambientale "G. Marcora". Questo progetto prevede la ristrutturazione della serra, che permetterà agli studenti detenuti di vivere al meglio la fase sperimentale del curriculum scolastico, attività pratica da svolgere in serra indispensabile per il conseguimento di un titolo di studio in ambito orto-floro-vivaistico con validità europea. "Vivaio didattico" invece prevede la riqualificazione di un cortile interno dell'edificio di detenzione femminile di Vigevano: l'attività si trasforma in una opportunità per alcune detenute di acquisire competenze professionali spendibili al termine della detenzione, nonché di usufruire dei benefici dell'ortoterapia. "Hortus inclusus", infine è il progetto realizzato ad Aosta. Nelle adiacenze delle mura romane della città, la San Vincenzo de Paoli ha avviato la creazione di orti per agricoltura biologica. Nel lavoro verranno impiegate una decina di persone in stato di disagio. Con i prodotti coltivati si potranno sostenere una trentina di famiglie in stato di necessità. Sempre il 6 giugno a Cascina Triulza si svolgerà anche la premiazione del premio letterario Carlo Castelli, riservato ai detenuti. Da un modo di dire ben radicato - mettere a pane e acqua, che significava anche mettere in carcere - è tratto lo spunto per il tema di questa ottava edizione del concorso che coinvolge ogni anno più di un centinaio di detenuti. L'Esposizione Universale e la presenza in Cascina Triulza diventano così occasione importante per la San Vincenzo de Paoli per illustrare le attività che svolge in Italia e nel mondo, attraverso l'impegno dei propri soci (in Italia circa 13.000) e volontari: formata da di laici cattolici, l'organizzazione è attiva a livello internazionale in 148 paesi e aiuta oltre 30 milioni di persone in difficoltà, tra cui indigenti, ammalati, ex detenuti, anziani in condizione di solitudine. E a proposito di orti condivisi, sempre in Cascina Triulza, ma il 7 giugno, i Lions racconteranno il loro impegno nel diffondere cultura e benefici degli orti, realizzati in tutto il mondo per scuole, popolazioni rurali e persone diversamente abili. Sedano, carciofi, fragole, salvia, infine, sono alcune delle specie orticole e aromatiche coltivate in 260 metri quadri nel cuore verde di Cascina Triulza. Grazie al progetto della Regione Umbria, ogni week end si potranno visitare gli orti sotto la guida degli studenti dell'Università degli Studi di Perugia, insieme a quelli di cinque Istituti Agrari umbri. E grazie a un codice QR e un'app realizzata nell'ambito del progetto, i visitatori potranno conoscere tutte le specifiche delle piante coltivate in Cascina Triulza. Forlì: "strappa" la sigaretta di bocca a un uomo, condannato a 3 anni per rapina romagnanoi.it, 4 giugno 2015 Una sigaretta strappata di bocca a un uomo, un cinquantenne forlivese che gliel'aveva negata, è costata tre anni di reclusione a un rom di 30 anni. Il nomade, nei giorni scorsi, è stato infatti condannato in primo grado dal giudice del Tribunale monocratico di Forlì per rapina. La rapina di una sigaretta, un gesto ritenuto così violento da configurare questa ipotesi di reato. L'episodio era avvenuto nel 2012. All'epoca il rom era ospitato nel campo nomadi allestito dal Comune di Forlì a Durazzanino. Era stato denunciato dal forlivese che si era visto strappare di bocca la sigaretta - la stava fumando - dopo che si era rifiutato di offrirgliene un'altra. La reazione del nomade era infatti scattata dopo il rifiuto della vittima di regalargli una sigaretta anche perché, a detta dell'imputato, il forlivese l'aveva donata a un gruppo di stranieri che aveva appena incontrato sulla sua strada. È quanto ha riferito l'avvocato difensore dell'imputato che in aula ha definito l'atto catalogato come rapina, una vero e proprio furto messo in atto con la violenza, semplicemente come "un gesto da caserma, una goliardata". Una goliardata che è costata cara al rom perché la vittima, dopo i primi attimi di stupore, anziché rispondergli con la stessa violenza, l'aveva lasciato proseguire per la sua strada dicendogli che l'avrebbe denunciato. Intenzione che poi aveva messo in pratica e che in tribunale è finita con la dura condanna del nomade. È stata proprio la valutazione del fatto come rapina sotto il profilo della violenza grave a far sì che il giudice monocratico accogliesse la richiesta di condanna formulata dal pubblico ministero. Sui tre anni di reclusione ha pesato anche il fatto che il rom non fosse incensurato. Infatti, il trentenne si trova già in cella, detenuto nel carcere di Ferrara dove sta scontando la pena per un'altra vicenda. E adesso rischia di farsi altri tre anni. Stati Uniti: da Patrioti a Libertà, più vincoli ai servizi segreti (ma all'estero si spia) di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 4 giugno 2015 Finita l'emergenza seguita all'11 settembre, Obama riscrive la sorveglianza. Dal Patriot Act al Freedom Act: l'"accecamento" dei servizi segreti americani (in realtà una cecità tutt'altro che sostanziale) è durato solo 48 ore. Scadute le norme della sezione 215 della legge antiterrorismo varata dopo l'attacco di Al Qaeda dell'11 settembre 2001 a New York e Washington, quelle che autorizzano lo spionaggio telefonico a tappeto della Nsa, l'altra sera il Senato ha colmato la falla votando ad ampia maggioranza (67 sì, 32 no) le nuove norme sulla sorveglianza approvate un mese fa dalla Camera dei Rappresentanti. Le nuove procedure limitano il potere delle agenzie di intelligence di rastrellare dati all'ingrosso sul traffico telefonico americano: d'ora in poi la Nsa e l'Fbi dovranno intervenire caso per caso e non avranno accesso diretto ai dati. Li otterranno attraverso le società di telecomunicazione. Apparentemente una forte limitazione, ma il nuovo regime, oltre che da Obama, è stato approvato esplicitamente anche dalla Cia che evidentemente non lo considera troppo penalizzante. Del resto da quando, dopo le rivelazioni di Edward Snowden di due anni fa, era emersa una forte contrarietà dell'opinione pubblica americana e dello stesso Congresso a una sorveglianza troppo pervasiva, i servizi segreti Usa hanno cominciato a studiare tecniche alternative (e meno invadenti) di sorveglianza. Il nuovo provvedimento lascia però immutati i poteri sulle intercettazioni fuori dai confini degli Stati Uniti. Il passaggio da Patriot a Freedom non è solo un fatto nominalistico: la svolta ha anche un valore politico per Obama che, costretto da anni a spalleggiare per esigenze di sicurezza norme potenzialmente liberticide introdotte dalla precedente presidenza repubblicana, con la nuova legge può finalmente smarcarsi. Ora può dire di aver adempiuto alla promessa di rivedere tutta la materia ripristinando, per quanto possibile, le garanzie per la privacy, che aveva fatto agli americani all'indomani della pubblicazione dei documenti Nsa trafugati dall'ex contractor. Snowden, che da allora si è rifugiato in Russia nel timore di essere arrestato e condannato a pene severissime, ha certamente commesso reati molto gravi per la sicurezza nazionale. Ma la Casa Bianca ha anche ammesso che è proprio a partire dalle sue rivelazioni che è partita la riflessione sulla necessità di riformare un sistema di raccolta dati divenuto gigantesco per via di un uso sempre più esteso e discrezionale delle tecnologie di "Big Data". Un perdono è improbabile, ma dopo la transizione dal Patriot al Freedom Act il caso Snowden si presenta sotto una luce diversa. Le nuove norme consentono a Obama di ricucire anche il rapporto con le grandi aziende dell'economia digitale e con i social network, da Google a Facebook, che, dopo le rivelazioni sulla collaborazione imposta loro dai servizi segreti, avevano reagito con grande durezza. Spaventate dalla prospettiva di perdere il loro asset più prezioso, la fiducia di centinaia di milioni di navigatori, le aziende dell'economia digitale avevano minacciato un vero ammutinamento. In questa svolta il vero sconfitto è il leader repubblicano del Senato Mitch McConnell e gli altri conservatori che, come lui, avevano osteggiato il Freedom Act, considerando troppo blando il suo regime di controlli. Ma alla fine il vecchio notabile del Kentucky ha dovuto prendere atto che non era in grado di cambiare il corso delle cose al Senato. Stati Uniti: giustiziato il 67enne Lester Bower, 30 anni dopo la condanna a morte Askanews, 4 giugno 2015 Dopo trent'anni nel braccio della morte e dopo sette esecuzioni annunciate e rinviate all'ultimo momento, Lester Bower, un uomo bianco di 67 anni, è stato giustiziato con un'iniezione letale nel carcere di Huntsville, in Texas. Bower era stato condannato alla pena capitale nel 1983 per l'omicidio di quattro persone in un hangar aereo di Grayson County, dopo aver rubato un aereo a una delle sue vittime. I legali di Bower hanno sempre respinto tutte le accuse e sostenuto che tutto l'impianto accusatorio fosse stato costruito solo su prove circostanziali e non su prove dirette. Le sue ultime parole, registrate dal personale della prigione, sono state rivolte al suo avvocato e alla famiglia: "Ora è tempo di andare. Ho combattuto una battaglia giusta, ho avuto fede. Non diro addio, vi dirò arrivederci. Vi amo tanto, tantissimo. Grazie alle guardie". Poche ore prima dell'esecuzione - la quindicesima dall'inizio dell'anno negli Stati Uniti e la nona solo nel Texas - la Suprema Corte Federale americana aveva respinto l'ultimo appello. Nigeria: rapporto Amnesty; 8mila persone assassinate, torturate o lasciate morire di fame pressenza.com, 4 giugno 2015 In un nuovo rapporto Amnesty International ha chiesto che alcuni alti ufficiali dell'esercito nigeriano siano indagati per aver preso parte, autorizzato o evitato d'impedire la morte di oltre 8.000 persone assassinate, soffocate, torturate o lasciate morire di fame. Basato su anni di ricerche e di analisi delle prove - tra cui documenti e corrispondenza riservata diventati di dominio pubblico e oltre 400 interviste a vittime, testimoni oculari e alti funzionari delle forze di sicurezza - il rapporto di Amnesty International intitolato "Stellette sulle loro spalle, sangue sulle loro mani". Crimini di guerra commessi dall'esercito nigeriano" elenca una serie di crimini di guerra e di possibili crimini contro l'umanità commessi dalle forze armate della Nigeria nel contesto dello scontro contro Boko haram nel nord-est del paese. Il rapporto rivela che dal marzo 2011 oltre 7.000 uomini in giovane età e anche minorenni sono morti nelle carceri militari e che dal febbraio 2012 più di 1200 persone sono state uccise in modo illegale. Amnesty International ritiene che, sulla base delle schiaccianti prove fornite nel suo rapporto, sia necessaria un'indagine sulle responsabilità individuali e di quelle connesse alla funzione di comando, che inclusa anche i comandanti di medio e di alto grado. Il rapporto descrive il ruolo e le possibili responsabilità penali di coloro che fanno parte della catena di comando (fino al comandante generale delle forze armate e al capo di stato maggiore dell'Esercito) e fa i nomi di nove alti ufficiali che dovrebbero essere indagati per responsabilità individuali e di comando. "Queste prove nauseanti rivelano come migliaia di giovani uomini e minorenni siano stati arrestati in modo arbitrario e deliberatamente uccisi o lasciati morire in carcere, nelle più orrende delle condizioni. Vi sono forti ragioni per indagare sulle possibili responsabilità penali dei rappresentanti delle forze armate, compresi quelli ai più alti livelli" - ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International. "Sebbene un'indagine imparziale e urgente su questi crimini di guerra sia determinante, il nostro rapporto non è circoscritto alle singole responsabilità penali ma chiama in causa la leadership della Nigeria, che deve agire per porre fine al pervasivo clima d'impunità all'interno delle forze armate" - ha aggiunto Shetty. Amnesty International chiede alla Nigeria di assicurare indagini rapidi, indipendenti ed efficaci sui seguenti ufficiali, riguardo a possibili responsabilità penali individuali o di comando per i crimini di guerra di omicidio, tortura e sparizione forzata descritti nel suo rapporto: - generale maggiore John Ewansiha - generale maggiore Obida T Ethnan - generale maggiore Ahmadu Mohammed - brigadier generale Austin O. Edokpayi - brigadier generale Rfus O. Bamigboye Inoltre, Amnesty International chiede alla Nigeria indagini rapide, indipendenti ed efficaci sui seguenti alti ufficiali per le loro possibili responsabilità di comando in relazione a crimini commessi dai loro sottoposti. La responsabilità esiste quando le persone in questione sapevano o avrebbero dovuto essere a conoscenza della commissione di crimini di guerra e non hanno preso misure adeguate per impedirli o per assicurare la consegna alla giustizia dei responsabili: - generale Azubuike Ihejirika, capo di stato maggiore dell'esercito dal settembre 2010 al gennaio 2014; - ammiraglio Ola Sàad Ibrahim, comandante generale delle forze armate dall'ottobre 2012 al gennaio 2014; - capo dell'aeronautica Marshal Badeh, comandante generale delle forze armate dal gennaio 2014; - generale Ken Minimah, capo di stato maggiore dell'esercito dal gennaio 2014. Nel corso della risposta agli attacchi di Boko haram nel nord-est del paese, dal 2009 le forze armate nigeriane hanno arrestato almeno 20.000 uomini, giovani e minorenni, alcuni dei quali di soli nove anni, spesso sulla base della segnalazione di un unico informatore segreto. La maggior parte di queste persone è stata arrestata nel corso di massicce operazioni di "controllo" o di rastrellamenti di centinaia di uomini. Quasi nessuno degli arrestati è stato condotto di fronte a un giudice e tutti sono stati privati delle salvaguardie fondamentali contro l'omicidio, la tortura e i maltrattamenti. Le persone arrestate dall'esercito sono state trattenute senza poter comunicare con l'esterno, in celle sovraffollate, prive di ventilazione e di servizi igienico-sanitari e con poco cibo e acqua a disposizione. Molti prigionieri sono stati sottoposti a tortura e migliaia di essi sono morti per questo motivo o a causa delle pessime condizioni detentive. "Tutto quello che so è che una volta che sei stato preso dai soldati e portato a Giwa [una base militare], la tua vita è finita" - ha dichiarato un ex detenuto ad Amnesty International. Un militare di alto grado ha fornito ad Amnesty International l'elenco di 683 detenuti morti in carcere dall'ottobre 2012 al febbraio 2013. L'organizzazione per i diritti umani ha inoltre verificato che nel 2013 oltre 4700 corpi sono stati trasferiti dalla base militare di Giwa a una camera mortuaria. Solo nel giugno 2013, ne sono arrivati oltre 1400. Un uomo che ha trascorso quattro mesi in carcere ha descritto come all'arrivo i soldati gli abbiano detto: "Benvenuto nella tua camera della morte. Benvenuto nel posto dove morirai". Solo 11 del 122 uomini arrestati con lui sono sopravvissuti. I ricercatori di Amnesty International hanno potuto vedere corpi emaciati negli obitori. Un ex detenuto di Giwa ha dichiarato che circa 300 persone della sua cella sono morte dopo essere state private dell'acqua per due giorni: "A volte bevevamo le nostre urine, ma alla fine non c'era neanche quella". Le prove fornite da ex detenuti e testimoni oculari sono corroborate dalle fonti militari. Un alto ufficiale ha detto ad Amnesty International che i centri di detenzione non ricevono danaro sufficiente per fornire cibo a tutti e che a Giwa i prigionieri vengono "deliberatamente affamati". Le malattie, comprese possibili epidemie di colera, sono diffuse. Un agente di polizia assegnato a un centro di detenzione chiamato "La casa del riposo", nella località di Potiskum, ha rivelato ad Amnesty International la sepoltura sommaria di oltre 500 cadaveri: "Non li portano in ospedale quando sono ammalati e non li portano all'obitorio quando sono morti". Alla base militare di Giwa e nel centro di detenzione di Damaturu il sovraffollamento è tale che centinaia di detenuti in ciascuna cella devono fare i turni per dormire o anche per sedere sul pavimento. La base di Giwa, che non è stata progettata come centro di detenzione, ha avuto in una sola volta anche 2000 detenuti. Un ufficiale dell'esercito ha dichiarato ad Amnesty International che "centinaia di persone sono morte in carcere, o uccide dai soldati o per soffocamento" nel settore Alfa di Giwa, chiamato "Guantánamo". Amnesty International ha potuto confermare che in un solo giorno, il 19 giugno 2013, 47 detenuti sono morti soffocati. Per combattere la diffusione delle malattie e il cattivo odore, le celle vengono regolarmente irrorate di sostanze chimiche che, a causa della scarsa ventilazione, possono causare la morte di molti detenuti. Un militare di stanza a Giwa ha dichiarato ad Amnesty International: "Molti presunti membri di Boko haram sono morti a causa della fumigazione. Spruzzano gli insetticidi che voi usate per uccidere le zanzare. Sono molto potenti e pericolosi". Amnesty International ha ricevuto credibili rapporti e prove filmate sulle torture commesse dai militari durante e dopo gli arresti. Ex detenuti e fonti militari hanno parlato di persone regolarmente torturate a morte, appesi a pali sotto i quali viene acceso il fuoco, interrati in fosse profonde o colpiti con manganelli elettrici. Queste conclusioni sono analoghe a quelle cui Amnesty International era giunta in rapporti pubblicati negli anni precedenti. Oltre 1.200 persone sono state uccise in modo illegale nel nord-est della Nigeria dai militari e dalle milizie loro alleate. Nel peggiore dei casi denunciati da Amnesty International, il 14 marzo 2014 l'esercito ha ucciso oltre 640 persone che erano evase dal centro di detenzione di Giwa a seguito di un attacco di Boko haram. Molte di queste uccisioni appaiono atti di ritorsione contro gli attacchi di Boko haram. Un alto ufficiale ha dichiarato ad Amnesty International che si tratta di una prassi comune: i soldati "vanno nel posto più vicino e uccidono tutti i giovani…persone che potrebbero essere innocenti e non armate". In un'operazione di "rastrellamento" seguita a un attacco di Boko haram risalente al 15 aprile 2013, i militari - nelle parole di un ufficiale di alto grado - "hanno trasferito la loro aggressione sulla comunità", uccidendo almeno 185 persone. I detenuti vengono regolarmente uccisi. Un ufficiale di stanza a Giwa ha riferito ad Amnesty International che dalla fine del 2014 il numero delle persone arrestate e portate in custodia è diminuito, in quanto si preferisce ucciderle sul posto. Questa tendenza è stata confermata anche da numerosi difensori dei diritti umani e testimoni oculari. I più alti livelli della catena di comando dell'esercito erano regolarmente informati sulle operazioni condotte nel nord-est della Nigeria. Le prove raccolte da Amnesty International mostrano che queste persone erano a conoscenza, o avrebbero dovuto essere a conoscenza, della natura e della dimensione dei crimini in corso. Come si legge nei documenti interni dell'esercito, erano aggiornati sull'alto numero di morti tra i detenuti mediante rapporti quotidiani dal campo, lettere e schede di valutazione provenienti dai comandanti locali e indirizzati al quartier generale della Difesa e a quello dell'Esercito. Amnesty International ha visto numerose richieste e promemoria inviati dai comandanti locali in cui si segnalavano l'alto numero dei morti, il pericolo delle fumigazioni e la necessità di trasferire detenuti. Inoltre, i rapporti degli osservatori inviati dal quartier generale della Difesa per controllare le strutture militari e "autenticare i dati", evidenziano a loro volta l'elevato numero dei morti e mettono in guardia dal rischio che il sovraffollamento possa dare luogo a "epidemie". Amnesty International ha potuto verificare che gli alti vertici militari sapevano e non hanno agito attraverso una serie di fonti, compresi alti ufficiali militari. Uno di loro ha dichiarato: "Quelli al vertice hanno visto ma non hanno voluto fare niente". "Nonostante venissero informati sul numero delle morti e sulle condizioni detentive, le autorità militari nigeriane non hanno preso alcun provvedimento degno di questo nome. Chi era a capo dei centri di detenzione, così come i loro superiori al quartier generale della Difesa e a quello dell'Esercito, devono essere posti sotto indagine" - ha dichiarato Salil Shetty. "Sono anni che le autorità nigeriane minimizzano le accuse di violazioni dei diritti umani attribuite ai militari. Ma ora non possono smentire i loro stessi documenti interni. Non possono ignorare le testimonianze oculari né le parole di chi, dall'interno delle forze armate, ha deciso di raccontare. Infine, non possono negare l'esistenza di corpi emaciati e mutilati accatastati negli obitori o sepolti nelle fosse comuni" - ha proseguito Shetty. "Chiediamo al neo-eletto presidente Buhari di porre fine alla cultura dell'impunità che ha rovinato la Nigeria e sollecitiamo l'Unione africana e la comunità internazionale a sostenere e incoraggiare questo tentativo. È urgente che il presidente lanci un'indagine immediata e imparziale sui crimini descritti nel nostro rapporto e chiami tutti i responsabili a rispondere del loro operato, a prescindere dal grado o dalla posizione. Solo allora potrà esserci giustizia per i morti e i loro parenti" - ha concluso Shetty. Turchia: il premier Erdogan invoca l'ergastolo per la stampa d'opposizione di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 4 giugno 2015 Il presidente turco contro il direttore di un quotidiano che accusa il governo di fornire armi ai jihadisti in Siria. A due giorni dalle elezioni parlamentari, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è nervoso. Così nervoso da aver invocato l'ergastolo per il direttore del giornale d'opposizione Cumhuriyet, reo di aver diffuso un video da cui si può dedurre che i servizi segreti di Ankara (Mit) riforniscono di armi i jihadisti in Siria. Le immagini trasmesse dal quotidiano venerdì scorso mostravano la perquisizione al confine di camion carichi di container, scortati da un po' troppi agenti della sicurezza per contenere soltanto i farmaci indicati sulle bolle d'accompagnamento. Alla presenza di un procuratore e, senza bisogno di frugare a lungo, gli ispettori hanno trovato proiettili da mortaio e casse di munizioni. Anziché domandarsi come fosse arrivato tutto quel materiale bellico a un passo dai gruppi islamici che si stanno scannando oltre frontiera, il presidente ha chiesto come quelle immagini fossero arrivate nelle mani di Can Dündar, il direttore del quotidiano. Che si è limitato a fornire la data in cui era stato girato il video: 19 gennaio 2014. Mentre decine di giornalisti turchi si sono dichiarati pronti a condividere le sue responsabilità. "La pagherà cara. Non gliela faremo passare liscia", ha promesso Erdogan, 24 ore prima che il suo legale intervenisse con una denuncia per conto del capo di Stato nell'inchiesta aperta dalla procura suggerendo - secondo la stampa turca - di condannare Dündar al carcere a vita. L'accusa: spionaggio, in combutta con i militari che hanno effettuato la perquisizione e con "l'organizzazione parallela" di Fethullah Gülen, predicatore turco un tempo braccio destro e ora antagonista di Erdogan, dall'esilio in Pennsylvania. Secondo il presidente si è trattato di un montaggio ordito oltreoceano. Sempre alla longa manu di Gülen apparterrebbe Fuat Avni, misterioso titolare di un conto Twitter tra i più seguiti e meglio informati sulle mosse, spesso censorie e repressive, del potere contro giornalisti o magistrati indocili. Il petulante cinguettio ha già messo in guardia il suo milione di follower sui brogli in vista alle elezioni di domenica prossima. Il fronte dell'Akp, il partito di Erdogan e del premier Ahmet Davutoglu, replica attraverso il giornale filogovernativo Yeni Safak, ipotizzando un "golpe travestito da elezioni". Per la prima volta in 13 anni i sondaggi annunciano un drastico calo di consensi per l'Akp. Potrebbe essere la fine del governo monocolore e dei sogni di Erdogan di trasformare la Turchia in repubblica presidenziale. Turchia: processo a noto giornalista, rischia 52 anni per "rivelazione di segreti militari" Ansa, 4 giugno 2015 Il noto giornalista investigativo turco Mehmet Baransu rischia una condanna a 52 anni di prigione per avere pubblicato nel novembre 2013 un documento riservato del 2004 dei militari del Consiglio di sicurezza nazionale che prevedeva azioni contro la confraternita islamica dell'imam Fetullah Gulen, allora alleato - ma da un anno avversario politico - del presidente Recep Tayyip Erdogan. Il quale, secondo il documento, approvò l'azione dei militari, su loro pressione. Baransu non era presente oggi alla prima udienza del processo per motivi di salute. Da tre mesi è detenuto in un carcere di Istanbul perché incriminato in un altra inchiesta sulla rivelazione di documenti confidenziali. Con lui è incriminato il direttore vicario del quotidiano indipendente Taraf Murat Sevki Coban. I due giornalisti sono accusati di "rivelazione di documenti o informazioni relativi alle attività o ai compiti" dei servizi segreti del Mit. Nel documento pubblicato nel 2004 da Baransu, il Consiglio di Sicurezza Nazionale, aveva deciso di tenere sotto controllo la confraternita di Gulen. La decisione era stata approvata dall' allora premier Erdogan, al potere da due anni, sotto pressione dei militari. Erdogan era allora alleato di Gulen. La misura di controllo, aveva affermato il governo islamico dopo le rivelazioni di Baransu, non era però stata applicata. L'avvocato del giornalista, riferisce Hurriyet online, ha respinto le accuse mosse a Baransu, affermando che la costituzione turca garantisce che se c'è un interesse pubblico nel rivelare il contenuto di un documento un giornalista è tenuto a pubblicarlo, anche se è confidenziale. Uzbekistan: tra ragion di stato e violazione dei diritti umani di Domenico Letizia L'Opinione, 4 giugno 2015 Desta preoccupazione la situazione di non democrazia in Uzbekistan. Il Comitato Helsinki per i diritti umani della Norvegia, insieme ad altre nove organizzazioni per la tutela dei diritti umani hanno inviato una lettera aperta ai rappresentanti permanenti e agli osservatori del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, esortandoli ad affrontare la delicata questione di perenne violazione dei diritti umani in Uzbekistan. Nel paese la situazione è progressivamente peggiorata dopo il massacro di Andijan del 13 Maggio 2005. Allora, centinaia di manifestanti furono massacrati dalle forze di sicurezza filogovernative. La violenza delle istituzioni spinse centinaia di persone ad attraversare il confine per recarsi in Kirghizistan scatenando anche problematiche umanitarie legate ai rifugiati e ai dissidenti politici. Ancora oggi, il governo uzbeko si rifiuta di avviare delle indagini per punire i mandanti e i protagonisti dei massacri del 2005, perseguitando e reprimendo chiunque tenti di affrontare pubblicamente la tematica. Nuove problematiche si sono presentante il 13 Maggio 2015 in occasione dell'anniversario dei fatti accaduti nel 2005. Molti manifestanti scesi per le strade sono stati caricati dalle forze di polizia. In ambito internazionale, il governo dell'Uzbekistan non ha riposto a tredici richieste di vista ispettiva presentante dal Consiglio per i diritti umani dell'Onu a partire dal 2002. Il Comitato Helsinki per i diritti umani della Norvegia ha richiamato l'attenzione anche sulla violazione di tali procedure, poiché il governo dell'Uzbekistan ignora sistematicamente le raccomandazioni provenienti dalle Nazioni Unite. Molti attivisti, operatori e dissidenti politici sono trattenuti in carcere, sono vittime della tortura, dell'isolamento carcerario, non vedono garantite le fondamentali cure mediche stabilite dalle convenzioni internazionali e viene registrata l'elevato utilizzo arbitrario del trattenimento detentivo a scopo cautelare. Il governo Uzbeko ha introdotto nel 2008 il controllo giurisdizionale delle detenzione, ma contrariamente a quanto si auspicavano le organizzazioni internazionali, nessun significativo miglioramento del quadro giuridico all'insegna dei diritti umani sembra essersi verificato. Non vi sono stati miglioramenti nello svolgimento dei processi, non vi è una netta separazione dei poteri, viene ancora censito l'utilizzo reiterato della tortura per cercare di ottenere con la forza falsi confessioni. Le organizzazioni internazionali denunciano anche la continua repressione da parte delle autorità dell'Uzbekistan nei confronti delle minoranze etniche e religiose. Vengono imposte severe restrizioni alla libertà di culto, di coscienza e di fede. Migliaia di membri della comunità musulmana, denunciano le Ong, sono stati condannati alla detenzione, giustificando l'arresto all'opinione pubblica e internazionale, con la costruzione fittizia di reati non commessi. Anche molti giornalisti e attivisti per i diritti umani sono stati imprigionati o costretti ad abbandonare il paese, denunciando le politiche del paese di origine all'estero. Il governo Uzbeko ha addirittura organizzato dei campi di lavoro forzato per i dissidenti-detenuti finalizzati alla raccolta e alla produzione del cotone. Norvegia: l'istituto di massima sicurezza di Halden è la prigione "più umana" del mondo di Lorena Cotza thepostinternazionale.it, 4 giugno 2015 Per il sistema giudiziario norvegese il periodo in carcere deve servire a riabilitare il prigioniero, anziché punirlo. Nel carcere di massima sicurezza di Halden, in Norvegia, nessuna finestra è sbarrata. Visto da fuori, potrebbe sembrare un campus universitario o un ospedale. Lungo le mura del carcere non ci sono né filo spinato né guardie armate a pattugliare, ma solo alberi di pino e betulle. Eppure, finora nessun detenuto ha mai cercato di fuggire. I prigionieri hanno una stanza privata con televisione a schermo piatto, una doccia, un frigo e mobili in legno. Trascorrono la maggior parte della giornata fuori dalla loro cella. Possono giocare a baseball, fare jogging e allenarsi sulle pareti da arrampicata. La durata massima delle sentenze in Norvegia, anche per gli omicidi, è di 21 anni. Le prigioni cercano dunque di preparare i detenuti al ritorno nella società e per questo ricreano un ambiente simile a quello al di fuori del carcere. La filosofia del sistema giudiziario norvegese è "meglio fuori che dentro": il periodo in carcere deve servire non a punire, ma a riabilitare il prigioniero. Ad Halden sono incarcerati assassini, stupratori e pedofili. Si trova qui anche Anders Behring Breivik, il responsabile dell'attacco sull'isola di Utoya che nel 2011 uccise 77 persone. Breivik non è stato portato a Ringerike, la prigione più sicura della Norvegia, perché da qui avrebbe avuto la vista su Utoya. Halden, rinominata "la prigione più umana del mondo", è costata oltre 187 milioni di euro. In Norvegia per ogni prigioniero si spendono circa 80mila euro all'anno, il triplo rispetto agli Stati Uniti. Non solo si tende a riabilitare i prigionieri, ma in Norvegia si cerca anche di evitare di incarcerarli: solo 75 ogni 100mila abitanti nel Paese scandinavo, rispetto a 707 negli Stati Uniti e 103.8 in Italia. Il metodo norvegese sembra funzionare: nel Paese scandinavo c'è un tasso di recidività del 20 per cento, tra i più bassi al mondo. Negli Stati Uniti invece il 75 per cento dei detenuti vengono arrestati nuovamente dopo la scarcerazione e in Italia la percentuale di recidiva media è del 68.45 per cento. Nella prigione norvegese di Bastoy, solo il 16 per cento dei detenuti scarcerati torna a commettere crimini o reati. "Se trattiamo le persone come fossero animali quando sono in prigione, è probabile che si comportino come animali. Per questo qui cerchiamo di trattare i detenuti come esseri umani", dice Arne Nilsen, direttore di Bastoy, in un'intervista al The Guardian. Quando i detenuti vengono scarcerati, si fa in modo che riescano a trovare un lavoro e che abbiano una casa, per evitare che la povertà e la disoccupazione li inducano a ricascare nei circoli viziosi di violenza e criminalità. Inoltre, in Norvegia a tutti i cittadini sono garantite le cure pubbliche e una pensione minima. "La vera giustizia è rispettare i prigionieri: in questo modo insegniamo loro a rispettare gli altri", dice Nilsen. "Ma continuiamo a tenerli d'occhio. È importante che quando siano scarcerati siano meno propensi a commettere altri crimini. Così si crea una società più giusta". Venezuela: Onu "molto preoccupata" per gli oppositori in carcere, devono essere liberati Ansa, 4 giugno 2015 L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unhcr) si è dichiarato "molto preoccupato" per le condizioni di detenzione di Daniel Ceballos, ex sindaco di San Cristobal, capitale dello stato venezuelano di Tachira (ovest) e degli altri detenuti politici nel paese sudamericano. Rupert Collville, portavoce dell'Unhchr, ha detto che il caso di Ceballos, in carcere da marzo del 2014, è particolarmente preoccupante perché ha iniziato lo scorso 22 maggio uno sciopero della fame, insieme ad altri tre detenuti. Collville ha ricordato che nell'agosto scorso il gruppo di lavoro dell'Onu sulle detenzioni arbitrarie aveva chiesto al governo di Nicolas Maduro di liberare immediatamente Ceballos, così come altri dirigenti dell'opposizione, considerando che la loro carcerazione risultava abusiva. Il portavoce Onu ha ricordato alle autorità di Caracas che devono "garantire che ogni detenuto in sciopero della fame abbia accesso a un medico di sua fiducia" e possa ricevere visite di "famigliari e avvocati".