Giustizia: "stretta su sicurezza e clandestini", dopo le elezioni cambia l'agenda del governo di Alberto Gentili Il Messaggero, 3 giugno 2015 Si cambia. Dopo l'opaco risultato elettorale del Pd e l'avanzata della Lega di Matteo Salvini spinge Matteo Renzi a prendere di petto il tema dell'immigrazione e della sicurezza. Una partita che il premier intende giocare su più tavoli. Il primo è quello europeo: al Consiglio Ue di fine mese Renzi farà la voce grossa per ottenere un'immediata applicazione del sistema delle quote, finora osteggiato da Francia, Spagna, Regno Unito, Olanda e Paesi Baltici. Il che vuol dire che entro l'anno dovranno essere "ricollocati" almeno 24mila esuli sbarcati sulle nostre coste. Una partita difficile, che però Renzi gioca di sponda con Angela Merkel e il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker. L'altro tavolo è quello interno. "Per combattere la percezione dì insicurezza dei cittadini", spiega Emanuele Fiano della segreteria Pd, "già questa settimana il governo procederà a varare un decreto per il Giubileo con l'assunzione di mille agenti di polizia, mille carabinieri e cinquecento finanzieri, attingendo alle graduatorie dei concorsi già svolti". In più il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, sta lavorando a un provvedimento per aumentare le pene dei "reati predatori", come scippo e furto in appartamento. "E sempre sul fronte-sicurezza", aggiunge Fiano, "abbiamo già stanziato 2 miliardi per investimenti a favore delle forze dell'ordine, sbloccando i tetti salariali e portando il turnover al 55%. Pensate che il governo di Berlusconi e della Lega l'aveva ridotto al 20% e aveva tagliato 3,5 miliardi al comparto-sicurezza". C'è poi il capitolo dedicato ai rom. Il piano del governo, che dovrà interfacciarsi con il lavoro dei sindaci, prevede la chiusura dei campi nomadi, con alloggi per chi ne ha diritto e l'allontanamento degli altri. Più "un'integrazione effettiva", attuando l'obbligo della frequenza scolastica per i bambini rom. Misure che dovrebbero essere inserite nella legge per lo jus soli (la cittadinanza per i figli nati in Italia da coppie immigrate) programmata per fine luglio in Senato. Come annunciato a inizio maggio, Renzi inoltre ha dato il via alla nuova legge sul conflitto d'interessi. Proprio oggi si riunisce il comitato ristretto della commissione Affari costituzionali incaricato di scrivere il testo base. Si parte della bozza di lavoro del relatore Francesco Sanna (Pd), in cui compare una nuova autorità (o commissione) indipendente (eletta sul modello del Csm e della Corte costituzionale), incaricata di valutare "preventivamente" l'esistenza di conflitti d'interessi. Oppure di intervenire successivamente, con sanzioni come la decadenza o il risarcimento del danno, nel caso in cui il membro del governo o il parlamentare, o il componente delle autorità indipendenti (Antitrust, Privacy, ecc.) abbia tenuto nascosto il conflitto. Secondo il testo base "è in conflitto d'interessi chi comanda un gruppo imprenditoriale -anche mediante partecipazioni incrociate, possesso di azioni o società fiduciarie - che per svolgere la propria attività necessita di concessioni o autorizzazioni dello Stato di rilevante valore economico". Se il "conflitto" è radicale c'è l'ineleggibilità o l'incompatibilità. Oppure, in alternativa, c'è l'obbligo della vendita forzata o il blind trust: un soggetto terzo cui l'imprenditore, che ambisce ad assumere un incarico di governo, affida la gestione della propria attività e con cui "interloquisce solo ed esclusivamente" attraverso l'Autorità di controllo, "fino a conclusione del proprio mandato". Va da sé che Silvio Berlusconi, "avendo il controllo di fatto e di diritto di Mediaset, non potrebbe più fare il premier", dicono al Nazareno. Giustizia: il Ministro Orlando "sarebbe un errore inseguire la Lega sul fronte della paura" di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 3 giugno 2015 Il ministro: abbiamo tenuto, ma metà degli elettori resta a casa Sopravvalutate le Europee. Andrea Orlando è chiamato in causa dal risultato delle elezioni come ministro di Grazia e Giustizia, come elemento di raccordo fra renziani e vecchia guardia del partito, e come ligure, figlio di militanti del Pci spezzino. Ministro Orlando, non lo neghi: è stata una battuta d'arresto. "Il Pd tiene e vince. Affronta riforme difficili e adesso governa nella stragrande maggioranza delle Regioni. Forse si era sopravvalutato il voto delle Europee. Ma il segnale d'allarme è il risultato complessivo: nonostante la crescita di forze dichiaratamente antisistema, metà dell'elettorato se ne sta a casa. Se sommiamo i voti dei movimenti anti-euro e l'astensionismo siamo di fronte a un tema enorme. Dobbiamo chiedere un cambiamento profondo delle politiche economiche europee se vogliamo evitare che la crisi sociale si trasformi in crisi democratica". Renzi per prima cosa dovrà ricucire con la minoranza interna? "Per prima cosa dobbiamo ricostruire il Pd. La suggestione del partito della nazione mi pare superata da queste elezioni. Oggi l'obiettivo è costruire un grande soggetto riformista del centrosinistra. Qualche anno fa avrei detto una grande forza del socialismo europeo; oggi è un richiamo non più sufficiente. Il multipolarismo anche in Italia è un dato strutturale". Addio partito della nazione, quindi. "Io non ci ho mai creduto. L'ho sempre considerata un'idea ambigua, addirittura pericolosa. Una forza politica del centrosinistra europeo deve mantenere solide radici, e conquistare una parte dell'elettorato moderato". Nell'ora di massimo disorientamento, la destra si dimostra a sorpresa competitiva. "L'Italia è un Paese dove la destra ha un substrato storico fortissimo. L'idea di sbaragliarla soltanto con una leadership forte e con un posizionamento politico intelligente è una velleità che non ho mai condiviso". D'accordo. Ma come spiega ad esempio il crollo in Veneto? "Guardi, l'illusione dello scorso anno - lo sfondamento al centro e la tenuta a sinistra - poteva essere consolidata con il lavoro sul territorio, con la costruzione di un partito che in questi mesi non c'è stata. Per onestà intellettuale, devo riconoscere che non c'è stata neppure negli anni precedenti. È stato un errore pensare di poter trasfondere la luna di miele alle Regionali, senza strumenti organizzativi, senza luoghi di mediazione". Sta dicendo che avete sbagliato la campagna elettorale? "Sto dicendo che la campagna elettorale non basta e tantomeno quella fatta dai singoli candidati. Osservo però che per esempio non c'è stata un'iniziativa sui territori per spiegare agli insegnanti e ai genitori cosa c'era di buono nella riforma della scuola, magari anche per raccogliere dissensi e perplessità. E anche i temi su cui eravamo tutti d'accordo, ad esempio gli ecoreati, non sono stati sostenuti dall'attività politica sul territorio. Nella mia provincia il partito non ha poi neppure fatto la conclusione della campagna elettorale. Da quando faccio politica, è la prima volta". Lei ha 47 anni e fa politica da ragazzo. In Liguria avete sbagliato candidato? "Il candidato che vince le primarie è il candidato giusto. Ha pesato tantissimo il comportamento sleale di un pezzo del partito. Ma è stato un errore anche aver pensato che le primarie potessero risolvere tutto, dal programma alla coalizione". Quanto ha influito il caso Bindi, la lista degli impresentabili? "Non voglio entrare nella vicenda Bindi e impresentabili. Certo è stato un fattore di disorientamento per gli elettori e anche per i militanti sentire dirigenti del Pd dare un giudizio sul governo assai più duro dei più aspri oppositori. È un elemento cui il popolo del centrosinistra non era abituato, e che certo non ha aiutato". Lei crede alla possibilità di tenere unito il partito democratico? "Quando ci siamo riusciti, abbiamo fatto cambiare noi idea agli altri. È successo per l'elezione di Mattarella, per la pubblica amministrazione, per l'anticorruzione e anche in materia di giustizia. Un supplemento di ascolto è sempre utile; purché non sia finalizzato a evitare di arrivare al risultato, e purché venga rispettato il principio di maggioranza". Si può rivedere la riforma del Senato, in modo da renderlo elettivo? "Sulla composizione del Senato Renzi ha già aperto ben prima delle elezioni. L'importante è che un'apertura non sia esibita come uno scalpo conquistato sul terreno delle Regionali. Sarebbe abbastanza surreale se la sconfitta in Liguria fosse vista da una parte del Pd come un successo interno". "Repubblica" scrive che lei potrebbe essere il nuovo premier. "Ho letto e ho controllato la data del giornale: era proprio il 2 giugno. Pensavo fosse il primo aprile". La leadership di Renzi non è in discussione? "La sua vittoria alle primarie, e la sconfitta delle altre ipotesi compresa quella che sostenevo io, sono state incontrovertibili. Renzi è andato a Palazzo Chigi per un voto della direzione, sollecitato dalla minoranza. Il governo e il parlamento stanno portando a casa risultati. É un dinamismo che si inizia a percepire anche a livello internazionale e questo dá forza al Paese. Una crisi di governo oggi sarebbe lunare. Pensiamo piuttosto a come sostenere la battaglia più difficile: quella in Europa, per superare l'austerità. Come conferma il voto italiano dopo quello di altre nazioni, è una battaglia non solo per uscire dalla crisi ma per difendere l'impianto democratico dei Paesi europei e l'Europa stessa". Non crede che la battuta d'arresto del Pd nasca anche da altre questioni? L'immigrazione fuori controllo. Il senso di insicurezza. La giustizia che non garantisce la certezza della pena. "Le statistiche su quantità e qualità delle sanzioni dicono cose diverse. Siamo tra i Paesi che per una serie di reati hanno le pene più alte. Si può sempre fare meglio e stiamo lavorando sui tempi dell'esecuzione della pena: è stato giusto l'adeguamento salariale per le forze dell'ordine; stiamo lavorando per rendere più rapido il processo penale. Ma la ragione del malessere, al di là del singolo episodio di cronaca, non è un'escalation di reati, che non c'è se si eccettua l'aumento dei furti nella case, su cui stiamo intervenendo; è invece il disagio economico e sociale, è la qualità delle periferie". Sui rom e sull'immigrazione Salvini ha fatto la campagna elettorale. "Sono temi su cui la sinistra ha avuto un atteggiamento di sufficienza che va superato. Ma sarebbe un errore inseguire la Lega sul fronte della paura". Non dirà pure che sarebbe un errore tagliare vitalizi e privilegi per inseguire Grillo? L'astensionismo si spiega anche così. Come crede che si sentano i cittadini, nel leggere che un ex consigliere regionale Pd come Frisullo in Puglia prende 10.383 euro al mese? "Alla Camera e al Senato la questione è stata affrontata. Le Regioni hanno pessima stampa e pessimi esempi: fenomeni da esecrare, che però non spiegano un astensionismo di queste dimensioni. C'è qualcosa di molto più profondo. Una parte di società non si sente più rappresentata dai processi democratici, non si sente più inclusa nell'occupazione, nel welfare. I privilegi sono benzina sul fuoco, ma il fuoco sono le diseguaglianze sociali. Per spegnerlo occorre ribaltare le politiche economiche a livello europeo e sostenere la ripresa con politiche industriali. Deve essere questo il primo impegno del governo". Giustizia: inutile inasprire le pene, perché rappresenta soltanto l'impotenza dello Stato di Marco Cappato Il Garantista, 3 giugno 2015 In un articolo sugli "Eccessi di riforma" della giustizia italiana, apparso su Il Messaggero di lunedì 25 maggio, Carlo Nordio censura l'incompetenza del legislatore. Ha ragione da vendere, Nordio: nel complesso e articolato quadro dei problemi che affliggono la giustizia nel Paese, l'incapacità professionale di chi ha la responsabilità di dettare le regole viene prima di qualsiasi valutazione politica. Nel diritto penale sostanziale e processuale, di questi tempi l'incompetenza del legislatore si esprime in una specifica inclinazione a produrre leggi che, da un lato, inaspriscono le pene e, dall'altro, allungano i tempi della prescrizione. In realtà, chi è propenso ad attività delittuose non se ne astiene al pensiero dell'entità della pena che rischia, ma se mai a quello di una giustizia che funziona e che, anzitutto per questo, induce rispetto. L'inasprimento delle pene più che altro esprime dunque l'impotenza dello Stato che, quanto meno sarà in grado di punire, tanto più mostrerà i denti con i quali morderebbe se fosse in grado. In particolare, come ha detto e scritto Mario Baldassarri ad altro proposito, l'aumento delle pene comminabili per il reato di corruzione farà aumentare il prezzo della condotta del reo, ma non modificherà le statistiche della commissione del reato. E l'allungamento dei tempi della prescrizione, in parte come effetto legale automatico dell'aumento delle pene, in parte per diretta disposizione, produce come unico risultato che i cittadini imputati di reati possono trovarsi a do-vere attendere tempi ancora più lunghi prima che i processi si concludano - peraltro di frequente non con la pronuncia di una sentenza definitiva, ma, come in precedenza, con il compimento della prescrizione. Il legislatore sa che dell'inefficienza della giustizia spesso si avvalgono gli avvocati, contribuendo volontariamente a che il processo penale duri fino a che il reato del quale è imputato il cliente si estingua in esito al maturare del termine di prescrizione; al che il legislatore reagisce allungando il tempo a disposizione della magistratura per completare il processo prima che il termine maturi, forse pensando che la paradossale irraggiungibilità della tartaruga da parte di Achille non sia poi tanto irrealistica, se la corsa viene resa praticamente infinita. Di nuovo, dunque, il legislatore fornisce denti da mostrare, che il magistrato potrà usare proprio sul presupposto dell'abnorme durata dei processi penali, in qualche modo confermato come normale e del quale anzi gli è implicitamente rivolto l'invito ad approfittare. Un paio di settimane addietro, nel corso di un incontro presso l'associazione radicale milanese Enzo Tortora, il parlamentare membro della Commissione giustizia Stefano Dambruoso ha diffusamente parlato, appunto, del progetto relativo all'aumento delle pene e all'allungamento dei tempi di prescrizione del reato di corruzione. Nell'occasione, alla quale ero presente, ho esposto quanto nuovamente espongo qui, citando anche il pensiero di un bravo giudice che ho conosciuto in tempi ormai lontani, il cui assunto centrale è che, riguardo alla prescrizione del reato nel processo penale, il legislatore dovrebbe adottare una disciplina analoga a quella che vige riguardo alla prescrizione del diritto azionato nel processo civile. In sede civile, la prescrizione di un diritto è interrotta dall'inizio di un giudizio, o dalla domanda proposta nel corso di un giudizio già iniziato, e dall'interruzione inizia un nuovo periodo di prescrizione che, peraltro, non corre fino al momento in cui il giudizio è definito con sentenza passata in giudicato; dunque, il trascorrere del tempo nel quale si svolge la vicenda processuale non influenza la prescrizione del diritto - salvo rimanendo il caso che il processo si estingua in esito ad abbandono per inattività delle parti, o a loro rinuncia in ragione di intervenuti accordi conciliativi, o ad altro. In sede penale, invece, dall'interruzione la prescrizione comincia nuovamente a correre e, raggiunti determinati traguardi, si compie determinando l'estinzione del reato; indipendentemente dalla condotta sia dei giudici che degli imputati, per il solo trascorrere del tempo. C'è da chiedersi il perché delle due differenti discipline della prescrizione, quali siano gli effetti di quella in sede penale e cosa, in un'ottica riformatrice, si potrebbe ipotizzare di cambiare. Alla prima domanda, l'usuale risposta è che il cittadino imputato non può rimanere indefinitamente in attesa di giudizio, mentre l'attore e il convenuto in sede civile se la possono vedere tra di loro, arrangiandosi in qualche modo; alla quale considerazione viene spesso aggiunto che, se venisse meno il rischio del compimento della prescrizione durante lo svolgimento del giudizio penale, verrebbe anche meno qualunque propensione dei giudici ad adoperarsi, lavorando duramente, al fine di sventarlo, con conseguente aumento dell'inefficienza del sistema giudiziario. Lode dunque al Codice Rocco del 1930, che ha dettato i principi ancora oggi vigenti in tema di prescrizione del reato - elaborati, comunque, in epoca nella quale il numero delle prescrizioni era infinitamente minore di quello odierno. La replica viene in primo luogo dalla Carta costituzionale: il cui art. 111, nel dettare ai commi I e II che "la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge" la quale "ne assicura la ragionevole durata", non si riferisce, come invece distintamente fanno i commi che seguono, al processo penale, ma al processo tout court e quindi non solo al processo penale, ma anche a quello civile; né tanto meno attribuisce all'imputato una tutela "privilegiata" rispetto a quella della parte di un processo civile. Dunque, sul piano dei principi, è sensato concepire che la ragionevole durata di ogni tipo di processo (anche amministrativo, tributario, eccetera) sia regolata in modo omogeneo anche per quanto concerne la prescrizione dei diritti che in esso si facciano valere, compresi quelli dello Stato. Inoltre, a sostegno dell'opportunità di una conforme disciplina degli effetti del decorso del tempo nei vari tipi di processo, sul piano pratico non va trascurato il fatto che l'estenuante durata di un importante processo civile può rappresentare per un cittadino un problema non meno grave della perdurante pendenza di un importante processo penale e, anzi, molto più grave di quella di un processo penale per fatti di modesto rilievo o, comunque, senza carcerazione preventiva. Né, con riferimento al preteso aumento dell'inefficienza del sistema giudiziario, sembra potersi immaginare qualcosa di peggio di una situazione come quella che si produrrebbe con l'entrata in vigore di una legge come quella allo studio sul reato di corruzione, nella quale il corso dei nuovi termini prescrizionali coprirebbe in molti casi una porzione fondamentale della vita dell'imputato, poco distinguibile da una situazione caratterizzata dall'assenza di termini. L'attuale disciplina della prescrizione in sede penale, ha innegabilmente l'effetto di indurre gli imputati ad adottare una linea difensiva che spesso ha il centrale obbiettivo di fare trascorrere il tempo necessario affinché maturi la prescrizione del reato. Tale risultato è perseguibile in quanto un termine di prescrizione che possa maturare durante il processo esista, per quanto lontano: se tale termine mancasse, come manca nel diritto civile, le difese dilatorie perderebbero la loro ragione di essere. L'assenza di un termine di prescrizione del reato che possa maturare durante il processo penale, in primo luogo, consentirebbe ai magistrati di disporre di tempo per la gestione dei processi senza essere "incalzati" dal termine di prescrizione, evidentemente ancor più che potendo contare su un termine di prescrizione di grande lontananza; in secondo luogo, l'assenza del corso della prescrizione dei reati durante i processi accelererebbe la speditezza di quelli pendenti e ne ridurrebbe notevolmente il numero. In altri termini, se divenisse operativo il principio per cui, come il diritto fatto valere in un processo civile, anche il reato oggetto di un processo penale non si può prescrivere durante il relativo corso, avrebbe luogo senza alcun costo un importante effetto deflattivo sia delle condotte difensive dilatorie nei processi di primo grado, che della promozione dei processi di secondo grado e di legittimità avanti alla Corte di cassazione, alle quali gli imputati che mirano alla prescrizione del reato loro ascritto non avrebbero più alcun interesse. Al che il legislatore potrebbe aggiungere la previsione di depenalizzazioni, di sanzioni alternative, di nuovi tipi di "patteggiamento" e di altri riti alternativi attuabili in qualunque stadio anche avanzato del processo, unitamente a una completa riorganizzazione dei servizi: così indicando e iniziando a percorrere una strada riformatrice ben più promettente di quella, velleitaria e inconcludente, dell'inasprimento delle pene e dell'allungamento dei termini di prescrizione. Giustizia: i reati calano, ma la fabbrica dell'insicurezza intercetta le paure irrazionali di Carlo Alberto Romano (Professore di Giurisprudenza all'Università di Brescia) Corriere della Sera, 3 giugno 2015 Insicurezze e paure ingiustificate non nascono casualmente. Prefettura e forze dell'ordine lo hanno confermato: a Brescia i crimini sono in calo e solo alcune fattispecie paiono contraddire il regresso, ma in questo caso sembrano più casualità statistiche che reali controtendenze. Dunque il fenomeno criminalità assume dimensioni sempre più contenute, e non solo sotto il preoccupante profilo dei reati violenti ma anche sotto quello dei più insidiosi reati predatori. Ma allora per quale motivo in città si parla di una strisciante ma diffusa insicurezza percepita, contrapposta alle risultanze statistiche? Come si collocano nell'immaginario collettivo gli autori delle spaccate e chi incendia le vetture? Diverse le risposte. Innanzitutto occorre dire che qualsiasi considerazione sul fenomeno criminale deve scontrarsi con l'esistenza del problema del "numero oscuro", vale a dire il valore differenziale fra il fenomeno così come viene dimensionato dalle denunce ricevute e il fenomeno reale. Una prima ipotesi, perciò, è che i cittadini percepiscano questo disvalore e temano il rischio derivante dall'effettiva consistenza del fenomeno delittuoso più che dalla sua emergenza statistica. Ipotesi suggestiva ma poco probabile: l'insicurezza collettiva non era così accentuata neppure quando gli indicatori erano assai più preoccupanti. Per giunta, mentre la misurazione del crimine si basa su valori dimensionali oggettivi, la misurazione delle paure trae spunto da indicatori soggettivi. Questo non significa non tenere in debita considerazione i sentimenti di chi subisce un reato; tutt'altro. Le vittime vanno anzi tutelate e supportate molto di più di quanto il nostro sistema penale-penitenziario attualmente consenta. Ma il luogo idoneo per farlo non sono le interviste post delitto che generano reazioni molto emotive e poco razionali. E le paure si nutrono, come è noto, molto più di pathos che di ratio. Difficilmente negabile, poi, appare l'idea che il sistema mediatico contribuisca all'aumento dell'insicurezza percepita, per il noto meccanismo, da tutti sperimentato e riassumibile nello schema: "Ho saputo che è successo qualcosa: me ne devo preoccupare? Constato che tutti ne parlano: significa che sì, me ne devo preoccupare!" Parliamone quindi, ma con la dovuta oggettività. La vera cassa di risonanza delle paure, va detto, più che le pagine di cronaca nera o giudiziaria della carta stampata, sembrano essere i talk show, i canali tematici, i libri di sedicenti esperti che ovviamente si pongono in sintonia con le corde della curiosità superficiale molto più che non con un auspicabile desiderio di conoscenza. L'insicurezza percepita dai cittadini è una insicurezza generica, una paura sommaria di rimanere vittime di un reato senza neppure immaginare quale (altrimenti chi non è commerciante con negozio vetrinato o non ha un'auto parcheggiata in zona ovest della città dovrebbe sentirsi al sicuro) e non una circostanziata riflessione relativa al rischio di essere vittimizzati a cagione di specifiche variabili demoscopiche legate al contesto sociale, professionale o relazionale di appartenenza. A queste paure si rivolgono distratti o tendenziosi commentatori politici che colgono ogni occasione per intercettarne le configurazioni psicodinamiche. E lo sanno bene anche le forze dell'ordine che si impegnano quotidianamente per contrastare reati e malaffare (e i dati ci dicono che lo sanno fare piuttosto bene) e poi devono fare i conti con la sfiducia causata da una qualsiasi (irresponsabile) dichiarazione. Perché è inutile manifestare solidarietà per l'encomiabile sforzo profuso dalle nostre forze di polizia e poi dichiarare che le paure dei cittadini sono giustificate: significa conoscere poco il problema o essere in malafede. Molto meglio spiegare, circostanziare, aiutare la gente a crescere anche culturalmente. E qui arriviamo all'ultimo punto di questa breve analisi. Io non credo che insicurezze e paure ingiustificate nascano casualmente. Credo che tali (dis)percezioni abbiano un significato per alcuni assolutamente consapevole e per i più probabilmente inconsapevole. Si tratta di un meccanismo di trasposizione che sposta insicurezze e paure dal piano irrazionale a quello razionale, consentendo di dare una dimensione e una identità concreta (spesso anche una faccia, magari colorata) alla paura del futuro sempre meno foriero di certezze. Si tratta insomma di trovare un nemico concreto da combattere e la paura del crimine può servire perfettamente allo scopo, consentendo di non doversi occupare delle paure che albergano dentro di noi, legate agli inevitabili e repentini cambiamenti (forse dovremmo dire stravolgimenti) che i nuovi assetti sociali impongono. In fondo le fiabe ce lo hanno insegnato fin da piccoli: la paura dell'uomo nero ci aiuta a capire da che parte sta il male. O almeno così ci hanno sempre detto. Giustizia: detenuti e animali non devono essere trattati da "bestie" di Fabio Balocco Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2015 L'art. 27 della Costituzione Italiana, riguardo ai detenuti, così recita: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Probabilmente non vi è altra norma della nostra Carta così negletta come questa. I carcerati, in realtà, non solo non vengono rieducati, ma spesso e malvolentieri vivono in condizioni letteralmente bestiali in celle superaffollate. Del resto, la stessa "Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati" non parla esplicitamente di un diritto degli stessi ad essere reintegrati nella società civile allo sconto della pena, dopo aver fatto un percorso di riabilitazione all'interno o all'esterno del carcere. Eppure la Costituzione dice chiaramente che le pene "devono" tendere alla rieducazione. I dati parlano chiaro. Al 31 dicembre 2014 (dati del Ministero della Giustizia) in Italia su una popolazione carceraria di oltre 53.623 detenuti, solo 14.550 lavorano. Eppure, se si seguisse la strada della rieducazione, oltre a rispettare la Costituzione, ci si garantirebbe una diminuzione di recidiva e quindi di delinquenza futura. Si calcola infatti che sono circa il 60% i detenuti che tornano a delinquere, mentre per quelli occupati durante lo sconto della pena il rischio si dimezza (recidiva di circa il 30%). Anche in questo campo, siamo ben indietro rispetto ad altre nazioni europee, visto che da noi il 72,87% delle condanne viene scontato all'interno di pochi metri quadri di cemento armato, mentre ad esempio in Francia e Gran Bretagna avviene quasi l'esatto contrario, con il 75% delle condanne che viene scontato lavorando all'esterno del carcere. Non mancano certo progetti virtuosi, che danno bei risultati, come Pausa Cafè, una cooperativa che opera nel campo del commercio equo e solidale e che ha in corso progetti di reinserimento di detenuti presso le carceri di Torino e Saluzzo. Ma forse il caso più bello è stato l'esperimento svolto all'Isola di Gorgona, con i carcerati che lavoravano all'aperto in campo agricolo e zootecnico, a fianco di Marco Verdone, veterinario atipico, che, oltre a prendersi cura della salute degli animali, aveva a cuore il loro destino ed in particolare che non finissero destinati al macello. Perché uso il verbo al passato? Perché la prosecuzione di questo esperimento è tutt'altro che certa. La decisione dell'Amministrazione Penitenziaria di esternalizzare le attività produttive, compresa la gestione degli animali presenti sull'isola, mette in forse sia la rieducazione dei condannati ispirata a principi di nonviolenza nel rispetto dell'alterità animale, sia la salvaguardia della vita degli animali stessi. In proposito, peraltro, si è registrato a maggio un primo importante fatto, e cioè una mozione firmata da ventitré senatori di diversi schieramenti, che impegna il governo "a valorizzare e promuovere buone pratiche come l'esperienza di reinserimento e recupero dei detenuti del carcere dell'isola di Gorgona attraverso attività con animali domestici". Ad essa si aggiunge anche una recentissima petizione congiunta dalle associazioni Lav e Essere Animali, che chiede al Ministro della Giustizia e a molti altri soggetti competenti di salvare l'esperienza innovativa di Gorgona e la vita degli animali che hanno rivestito un così importante ruolo sia nel percorso rieducativo che nella valorizzazione e conoscenza di questo carcere modello. L'esperienza della Gorgona non solo non dovrebbe esaurirsi ma essere sostenuta ed estesa, perché uomini ed animali non sono "bestie" (e gli animali sono esseri senzienti, come riconosciuto dall'art. 13 del Trattato di Lisbona), ma hanno dei diritti che debbono essere riconosciuti e rispettati. Giustizia: "Giulio Lampada vada in cella!". Morirà? Chissenefrega di Vincenzo Vitale Il Garantista, 3 giugno 2015 Il sito del "Fatto quotidiano" riporta la notizia che il senatore del Movimento Cinque Stelle Mario Michele Giarrusso ha affermato che Giulio Lampada - accusato di essere un capo cosca calabrese, trattenuto in carcerazione preventiva per circa quattro anni, e pochi giorni or sono inviato agli arresti domiciliari per gravi ragioni di salute su istanza dei difensori - deve tornare in carcere. Giarrusso chiederà l'intervento diretto del ministro della giustizia e farà convocare per un'audizione, in Parlamento, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza che ha assunto la decisione di scarcerare Lampada. Ora, di fronte a prese di posizione di questo genere, non si sa se ridere o piangere: ci sarebbero buone ragioni per l'una e per l'altra cosa. Per ridere: il Tribunale di Sorveglianza non c'entra per nulla, perché esso si occupa solo di casi di detenuti definitivi, non di quelli ancora in attesa di una sentenza definitiva, come nel caso di Lampada, per il quale mi permetto di sperare - senza chiedere il permesso di Giarrusso - che la sentenza di condanna che lo riguarda non diverrà mai definitiva; cosa dovrà mai fare il ministro della giustizia invocato da Giarrusso? Colpire di anatema il Tribunale del Riesame di Milano che, dopo ben nove consulenze mediche, ripeto dopo nove consulenze tutte concordi, ha inviato Lampada agli arresti domiciliari? O che altro? Quali nuove e sconcertanti competenze Giarrusso vorrà mai attribuire al ministro? Quante sono, per amor di precisione, le consulenze mediche che debbono concordemente ritenere una persona in condizioni di salute talmente gravi da essere mandato a casa? Dieci, cento, trecentosessantacinque (cioè una consulenza per ogni giorno dell'anno)? Da quante Giarruso sarebbe alla fine soddisfatto? O, forse, debbo presumere che non lo potrebbe mai essere? Giarrusso tende forse all'infinito? E dall'audizione del Presidente del Tribunale del Riesame, tanto scrupoloso d'avere atteso per mesi e mesi prima di decidere, e l'esperimento di un numero sovrabbondante di consulenze di parte e d'ufficio - lo ripeto: tutte concordi - cosa spera di conoscere che non sia negli atti del procedimento? E questi atti ai quali egli spregiudicatamente si sovrappone per smentirli, Giarruso, componente di varie commissioni parlamentari e credo anche di quella antimafia, li conosce? Ne ha forse una pallida idea? Ce lo dica per favore, ce lo faccia sapere. Per piangere: ebbene, siamo in presenza di un senatore della repubblica italiana, uno cioè mandato dal popolo sovrano ad esercitare la sovranità per suo conto, che ragiona in questo modo, cioè come uno che pretende di sparare giudizi di tale gravità - e per giunta pubblicamente - a prescindere da ogni prova circa la reale colpevolezza di Lampada e soprattutto circa il suo reale stato di salute che lo rende incompatibile con la detenzione in carcere. Giarrusso mostra cioè di vivere e di esprimere il proprio mandato politico in chiave strettamente osservante dei pre-giudizi, che, come è noto, sono i nemici giurati dei giudizi, dal momento che mentre i primi si basano su una opinione del tutto sganciata dalla realtà, i secondi tendono a fondarsi sulla verità oggettiva dei fatti che sia stato possibile provare. Anzi, potrebbe dirsi di più. Potrebbe cioè leggersi tutta l'attività dei Tribunali e delle Corti, nei vari e a volte contrastanti gradi di giurisdizione, come il faticoso, laborioso, ma necessario tentativo di transitare dal pregiudizio, al giudizio, dalla semplice opinione ( dei singoli ) alla verità ( da tutti condivisa). Ecco qual è, fra l'altro, il compito dei giudici nello Stato di diritto: spodestare il pregiudizio, per far posto alla verità. Il che è ovviamente accaduto anche nel caso di Lampada e del suo invio agli arresti domiciliari per gravi ragioni di salute ( fra l'altro, calo ponderale di oltre trenta chili, incapacità di alimentarsi, duplice tentativo di suicidio…). Sicché è il caso di comunicare a Giarrusso che con le sue improvvide dichiarazioni - tese a far tornare subito in carcere Lampada - egli si pone in rotta di collisione proprio con il lavoro dei giudici, tende cioè a vanificarne il significato e la funzione, cercando di regredire dal giudizio - da loro scrupolosamente formulato - al pregiudizio - di cui egli soltanto è evidentemente l'integerrimo custode e il pubblico dispensatore. Ma quali titoli, quale legittimazione vanterebbe Giarruso per sovrapporsi a tal segno alle decisioni dei Tribunali? Per esigere cioè che Lampada torni "subito" fra le mura di quel carcere, dove, secondo i consulenti nominati dal Tribunale, altissimo sarebbe il rischio di più non uscirne vivo? Lo ignoro. Probabilmente, Giarruso si ritiene legittimato per definizione attraverso il suo impegno antimafia: ma - il punto è questo - l'impegno antimafia da chiunque rivendicato - o si esprime attraverso le strutture e i meccanismi giuridici dello Stato di diritto oppure, nel caso voglia farne a meno, diviene esso stesso, tragicamente, una forma di violenza e di sopraffazione, contro la quale è doveroso schierarsi e combattere da parte di ogni essere umano. Perciò, se il Giarrusso politico non vuol contraddire il Giarrusso essere umano, che smetta i panni di Minosse, il quale, come è noto, "orribilmente… ringhia, giudica e manda, secondo che avvinghia" e torni a risiedere fra di noi, semplici esseri umani, che - con grande e diuturna fatica - cerchiamo di servire la giustizia nell'unico modo in cui riteniamo sia possibile e lecito farlo: spodestando il pre-giudizio, per far posto al giudizio. Non sarà, per lui, facilissimo: ma con un po' di impegno genuinamente umano, che non guasta mai, speriamo tutti possa farcela. Giustizia: estate, tempo di volontariato… bimbi di mamme detenute escono dal carcere di Valeria Calò redattoresociale.it, 3 giugno 2015 Due esperienze gestite dalle associazioni a Roma, permettono uscite dal carcere ai bimbi che vivono con le mamme detenute a Rebibbia. Passeggiate nei boschi per i ragazzi con disabilità intellettive, uscite con tanti giochi per i bambini che abitano con le loro madri detenute nella sezione nido del carcere di Rebibbia: non si fermeranno neppure d'estate le iniziative di due associazioni impegnate a Roma per migliorare la vita dei bambini. "La Casa di Pulcinella", attiva dal 1998 nei quattro centri di Roma est con i laboratori teatrali destinati ai ragazzi con disabilità mentali, ripropone la sua colonia settimanale mentre i volontari di "A Roma Insieme" si impegneranno per accompagnare i bambini delle detenute del carcere di Rebibbia nelle loro uscite del sabato. "La Casa di Pulcinella" garantirà la sua presenza con ragazzi disabili nella località estiva di Morlupo, dove a fine luglio si riproporranno le attività svolte durante l'anno scolastico e a titolo gratuito nelle quattro sedi romane di San Lorenzo, Pietralata, Tuscolana e Tiburtina. Come spiega Anna Maria Tamburro, presidente dell'associazione, "la colonia estiva è un appuntamento importante che aspettiamo con tanto entusiasmo e che cerchiamo di strutturare come un momento di natura ludica. Dunque accantoniamo i laboratori di teatro e musicoterapia che sviluppiamo durante l'anno scolastico per dare spazio a giochi e passeggiate nei boschi. È anche il metodo più adeguato per testare i progressi fatti dai ragazzi durante il ciclo di incontri invernali. Alcuni di loro hanno disabilità mentali molto gravi, dunque permettiamo la partecipazione soltanto ai ragazzi che conosciamo e che abbiamo seguito per un periodo sufficientemente lungo. Per i sessanta ragazzi ci sono circa quaranta volontari: accanto ad un gruppo di operatori qualificato formato da educatori psicologi e medici ci sono persone che ci aiutano da tanti anni; si sono affezionati ai ragazzi, hanno imparato a conoscerli e, semplicemente, hanno maturato sul campo le competenze necessarie a dare il sostegno di cui ciascuno di loro ha bisogno. Dunque la conoscenza è una componente fondamentale del lavoro che facciamo". Altra esperienza è quella dei volontari dell'associazione "A Roma insieme" che come ogni anno garantiranno anche nei mesi estivi l'uscita settimanale ai bambini residenti nella sezione nido del carcere di Rebibbia. Dal 1994 l'attività dell'Associazione si è infatti concentrata sul lavoro con le donne e i bambini in carcere, per rispondere alla legge 354/1975 sull'ordinamento penitenziario, secondo il quale le madri detenute possono tenere con sé i figli fino all'età di 3 anni. Tra i progetti proposti dall'associazione con "Conoscere e giocare per crescere" si garantiscono strumenti e spazi di gioco, laddove i bambini sono costretti a trascorrere in carcere un periodo così fondamentale per la loro crescita fisica ed emotiva; mentre i due laboratori di arte terapia e di musicoterapia, condotti da operatori professionisti, sono pensati per stimolare la loro crescita intellettiva ed emozionale e di sostenere il rapporto madre-figlio. Come spiega Valentina Gnesutta, tra i responsabili dell'assegnazione volontari-bambini, "il progetto Sabati di libertà ufficialmente si interrompe nel mese di agosto. Ma paradossalmente in questo periodo le uscite sono maggiori perché aumenta la disponibilità dei volontari, anche se cambiano le condizioni: ogni operatore deve muoversi autonomamente per procurarsi il permesso di ingresso ai reparti del carcere e per il trasporto dei bambini quando il servizio comunale che fornisce una vettura viene interrotto. Dunque anche eventuali costi di vitto alloggio quando si tratta di uscite prolungate, vengono sostenuti dai singoli volontari con un piccolo sostegno dell'associazione". E continua "l'ultimo anno è stato molto particolare, dei 20 bambini ospitati dal carcere soltanto cinque di loro sono usciti: molti non hanno ancora compiuto il primo anno di età, altri sono arrivati da poco, dunque le mamme non hanno ancora sufficienti strumenti per fidarsi del lavoro che facciamo e rilasciare le autorizzazioni necessarie". Quello dei sabati di libertà è comunque un progetto che non volta le spalle alla missione con cui l'associazione si identifica, nella persona di Leda Colombini, fin dalla sua nascita: i bambini non devono stare in carcere. Come sottolinea Gnesutta, "tra tutti i luoghi possibili questo è forse il migliore: è un luogo colorato e pulito, dove hanno degli spazi dedicati, ma è pur sempre un carcere". Una condizione determinata anche dalla mancata applicazione della direttiva n.62/2011 entrata in vigore già il 1 gennaio 2014: prevede che il giudice possa disporre della custodia presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri laddove "la persona da sottoporre a custodia cautelare sia donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni". Giustizia: caso De Luca- Rosy Bindi… ecco servito il festival dell'immoralità di Tiziana Maiolo Il Garantista, 3 giugno 2015 Dalla lotta di classe alle battaglie giudiziarie, dalla superiorità morale a quella immorale, dal Pci al Pd. Potrebbe essere la sintesi, da spiegare nelle scuole, della storia di quello che fu il più imponente partito della sinistra d'Europa. Il partito di Gramsci, Longo, Togliatti, Berlinguer e… Renzi. Nell'epilogo, il "compagno" De Luca, governatore zoppo della Regione Campania, ingaggia una battaglia legale con l'"amica" di partito Rosy Bindi, la quale a sua volta gli aveva appuntato una sorta di stella gialla al petto, definendolo "impresentabile". Come a dire: uno che si può anche votare, ma cui non si può stringere la mano. C'è una grande immoralità in tutto ciò, che va al di là persino dello storico doppiopesismo della sinistra. C'è la trasformazione della politica, che diventa di volta in volta una grande aula giudiziaria (in cui la classe politica viene selezionata dai magistrati) piuttosto che un confessionale collettivo in cui si puniscono i peccatori. La vicenda delle elezioni regionali della Campania gode di questi due retroscena. C'è il senso di colpa dei parlamentari e uomini di governo, che dopo la batosta di Tangentopoli, pur dopo vent'anni non sapranno più ritrovare la nobiltà né la dignità della politica e si affanneranno, con un guazzabuglio di leggi e deliberazioni masochistiche, a uccidere, insieme ai reati e ai peccati, l'intero Stato di diritto. La storia delle "norma anticorruzione" comincia nel 2010 con il governo Berlusconi e il suo ministro Alfano. Concludono il lavoro il premier Monti con il ministro Severino, la quale, usando a piene mani la delega affidata al governo dal Parlamento con l'approvazione della legge anticorruzione del 6 novembre 2012, darà il proprio nome a una serie di norme così strampalate da aver acceso i riflettori della Corte costituzionale e persino della Corte europea dei diritti dell'uomo. Si è mossa, di recente, addirittura la Cassazione a sezioni unite per mettervi un po' di ordine. Vincenzo De Luca l'"impresentabile", che è stato eletto ma non potrà governare, è arrivato buon ultimo, dopo che la legge Severino ha già mandato a casa 17 consiglieri regionali e 20 provinciali e comunali, perché condannati in primo grado, in gran parte per abuso d'ufficio. C'è poi stato il caso del presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti e quello più clamoroso di Silvio Berlusconi. Tutte vittime di una sorta di pena accessoria, oltre a tutto retroattiva, non erogata dall'organo giudiziario, ma dal potere esecutivo. La situazione si è ancor più complicata con il caso De Magistris, il sindaco di Napoli sospeso dal prefetto e reintegrato dal Tar. Che però in futuro non potrà più svolgere questa attività perché la Cassazione ha stabilito che i ricorsi andranno presentati al giudice ordinario. In mezzo al guazzabuglio, potremmo ricordare senza essere linciati, che l'articolo 27 della Costituzione prevede la "non colpevolezza" fino al terzo grado di giudizio? E che dire del fatto che quello che divenne il simbolo delle ingiustizie italiane, Enzo Tortora, in primo grado fu condannato come "mercante di morte", cioè narcotrafficante? La "legge Severino" piaceva moltissimo alla sinistra e allo stesso segretario del Pd (e non ancora premier) Matteo Renzi quando si trattò di cacciare con molta speditezza Silvio Berlusconi dal Senato, senza guardare troppo per il sottile al fatto che sei costituzionalisti avessero espresso seri dubbi sull'applicabilità della norma in modo retroattivo. La norma continuò a piacere anche quando fu applicata a De Magistris. La sinistra non è forse campionessa di legalità e di moralità? Non è forse stata la prima a far scattare le manette anche ai polsi dei parlamentari in attesa di giudizio, privilegiando il potere dell'ordine giudiziario rispetto all'autonomia del parlamento? Ma è accaduto che, quando Renzi non ha potuto dire di no alla partecipazione di De Luca alle primarie per le regionali campane, e poi lui le ha vinte e ora è anche diventato Governatore, improvvisamente non c'erano più regole, non c'era più legalità. Il Pd ha scelto l'immoralità. Dopo aver usato una legge (incostituzionale) contro gli avversari politici, si è rivoltato contro la stessa legge per favorire un amico. Ma che ci importa della "Severino", dicono gli uomini del partito di Renzi. Una soluzione la troveremo, se De Luca sarà eletto. È a questo punto che immoralità si è sommata a immoralità. Rosy Bindi, presidente della commissione bicamerale di inchiesta sulla mafia, ha deciso di presentare una sorta di "lista nera" di persone poco presentabili sulla base di un (piuttosto sconosciuto) codice di autoregolamentazione che la Commissione aveva votato, all'unanimità (ah, i sensi di colpa!), nel settembre 2014. La black list viene annunciata, nel tripudio generale. Il segretario del Pd Renzi si fa indovino e gufo: nell'elenco non c'è nessuno del mio partito, sentenzia, e comunque questi signori non saranno mai eletti. Infatti. Quando viene reso noto il nome di De Luca nella lista, lui diventa la vittima e Rosy Bindi il carnefice. Tutti contro di lei, che adesso vuole le scuse del suo partito, mentre De Luca la denuncia per diffamazione, attentato ai diritti politici costituzionali e abuso d'ufficio. Giustissimo. Affidiamoci di nuovo ai giudici. Vediamo se vorranno partecipare anche loro al festival dell'immoralità. Sospensione dell'esecuzione della pena per grave infermità, il rigetto va motivato di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2015 Corte di cassazione - I sezione penale - Sentenza numero 23443/2015. Il giudice che rigetta una richiesta di sospensione dell'esecuzione della pena per grave infermità, deve dare conto della scelta con una motivazione compiuta e non generica che consenta la verifica dei passaggi logici della scelta effettuata. Questa la massima che si può trarre dalla sentenza 23443 del 1° giugno 2015 della Corte di cassazione. La vicenda riguarda un detenuto - fine pena previsto nel 2019 - che nell'aprile 2014 chiede i domiciliari per ragione di salute in quanto nel 2010 aveva subito un doppio trapianto di cornea a cui "era seguita la perdita di funzionalità dell'occhio sinistro, a causa delle cure inadeguate nel regime detentivo". Il tribunale di sorveglianza di Catania, nel giugno 2014, rigettava l'istanza. Ma per la Corte di cassazione non in modo corretto. Il giudice di merito, infatti, per i giudici di legittimità avrebbe dovuto "operare un bilanciamento di interessi tra le esigenze di certezza e indefettibilità della pena, da una parte, e la salvaguardia del diritto alla salute e a un'esecuzione penale rispettosa dei criteri di umanità, dall'altra, al fine di individuare la situazione cui dare la prevalenza". Nel caso in oggetto, la decisione di rigetto risultava troppo generica non riportando né la patologia subita dal detenuto né facendo riferimento concreto al contenuto della relazione sanitaria - manca anche la data - o al contenuto delle consulenza di parte. Da qui la decisione di annullare l'ordinanza del tribunale di sorveglianza disponendo un nuovo esame. La notifica all'imputato di Giorgio e Marco Guerra Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2015 La Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21626/2015 depositata in data 26.05.2015, ha delineato con chiarezza il sistema processuale penale in materia di notifiche all'imputato. In particolare, dopo aver affermato che il sistema italiano è tra i più garantisti del mondo, è stata effettuata una puntuale ricostruzione precisando che solo la prima notifica debba essere effettuata all'imputato personalmente, mentre quelle successive possono essere effettuate mediante consegna al difensore di fiducia ex art. 157 c.p.p. Una svolta importante nella ricerca dell'equilibrio tra l'esigenza di garantire all'imputato una conoscenza effettiva dell'esistenza di un procedimento o provvedimento giudiziario a suo carico e la necessità della ragionevole durata del processo, è avvenuta con l'aggiunta del comma 8 bis all'art. 157 c.p.p., operata dall'art. 2, comma 1, del D.L. 21.2.2005, n. 17, convertito, con modificazioni, nella L. 22 aprile 2005, n. 60. Una volta che l'imputato abbia ricevuto la prima notifica ed abbia nominato un difensore di fiducia, tutte le notifiche successive possono essergli effettuate presso il difensore ai sensi dell'art. 157, comma 8 bis, c.p.p., a meno che il difensore non dichiari preventivamente all'Autorità Giudiziaria procedente di non accettare la notifica. Nel caso in cui l'imputato non sia assistito da un difensore di fiducia, ma da un difensore d'ufficio, anche le notifiche successive alla prima dovranno essere eseguite all'imputato secondo le modalità di cui ai commi da 1 a 7 dell'art. 157 c.p.p. Nel caso in cui l'imputato elegga o dichiari domicilio, tutte le successive notificazioni andranno effettuate presso il domicilio eletto o dichiarato ai sensi dell'art. 161 c.p.p. L'istituto della contumacia, in virtù della Legge n. 67 del 2014, non esiste più: se il giudice ha la prova che l'imputato assente abbia ricevuto personalmente la notifica dell'avviso dell'udienza ovvero risulti con certezza che lo stesso sia a conoscenza del processo a suo carico, si procede in sua "assenza", ed è rappresentato dal difensore. Le disposizioni della L. n. 67/2014 si applicano ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge (17 maggio 2014) a condizione che non sia stato pronunciato il dispositivo della sentenza di primo grado (con verifica delle ragioni dell'assenza dell'imputato). Pertanto nei processi in cui al 17 maggio 2014 non sia stata pubblicata la sentenza di primo grado mediante lettura del dispositivo il giudice, anche se vi sia stata la dichiarazione di contumacia, deve verificare la situazione dell'imputato alla luce della nuova normativa (dichiarando l'imputato assente o sospendendo il processo per irreperibilità). Se, invece, l'imputato sia stato dichiarato contumace e sia stato pronunciato il dispositivo di primo grado, si applicano le disposizioni previgenti (salva l'applicazione delle nuove disposizioni qualora la dichiarazione di contumacia sia stata preceduta dal decreto di irreperibilità in cui la notifica avviene mediante consegna al difensore). Per "prima notificazione" deve intendersi solo quella relativa al primo atto del procedimento e non anche quella relativa al primo atto di ogni grado di giudizio (non essendo necessario individuare per ciascuna fase processuale una "prima" notificazione). La modalità di notifica di cui all'art. 157, comma 8 bis, c.p.p. (al difensore) non presuppone il previo infruttuoso esperimento della stessa con le modalità di cui ai commi precedenti, ma soltanto che si tratti di una notificazione successiva ad altra già eseguita con le modalità ordinarie nel corso dell'intero processo fin dal suo inizio (e non con riferimento al grado). L'impossibilità della notifica al domicilio eletto (che ne legittima l'esecuzione presso il difensore di fiducia) può essere integrata anche dalla temporanea assenza dell'imputato al momento dell'accesso dell'ufficiale notificatore, non essendo necessario procedere ad una verifica formale di irreperibilità, così da qualificare come definitiva l'impossibilità di ricezione degli atti nel luogo eletto o dichiarato dall'imputato. La chiara sentenza termina con l'osservazione che la scelta di privilegiare le modalità di notificazione degli atti processuali fissate dall'art. 157, comma 8 bis, c.p.p. risponde alla esigenza di assicurare il rispetto del valore della celerità del processo, costituzionalmente garantito, cui fungono da contro-limiti la possibilità che l'imputato, attraverso un'espressa elezione di domicilio, o il suo difensore di fiducia, attraverso la dichiarazione di non accettazione delle notificazioni, hanno di escludere l'operatività della disposizione, ripristinando la ordinaria disciplina. Pertanto non è conforme allo spirito della norma ritenere che la stessa possa essere vanificata nell'ipotesi in cui - per motivi diversi dalla richiesta da parte dei soggetti a ciò legittimati della applicazione dei ricordati contro-limiti - l'autorità giudiziaria, pur avendone la possibilità, abbia provveduto a far eseguire una notificazione all'imputato non detenuto, successiva alla prima, senza adottare la forma di cui all'art. 157 c.p.p., comma 8 bis. Corruzione con pene più alte, condizionale solo a chi risarcisce di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2015 Il giro di vite nel trattamento penale dei reati contro la pubblica amministrazione, in vigore dal prossimo 14 giugno, è su tre versanti: misure più severe contro il soggetto "esterno", pene più alte per il dipendente pubblico e, dal punto di vista processuale, premialità per chi si dissocia e collabora, mentre per l'imputato sconti di rito e di pena sono condizionati alla restituzione integrale del profitto illecito e anche a una (quasi) inedita "riparazione pecuniaria". La legge 69/2015, pubblicata sulla "Gazzetta Ufficiale" del 30 maggio 2015 n. 124, e quindi in vigore dalla metà del prossimo mese, a dispetto delle polemiche che ne hanno segnato il cammino, può rappresentare un importante passo in avanti nel processo di modernizzazione del rapporto tra Pa e mondo delle imprese e delle professioni. Proprio da qui parte la riforma, alzando il periodo di incapacità a contrarre con la Pa - da 3 a 5 anni nel massimo - per chi ha contribuito a commettere o ha beneficiato di un reato contro l'amministrazione. Anche per i professionisti la sanzione accessoria della sospensione sale dai 15 giorni fino ai due anni attuali, al minimo di tre mesi e fino a tre anni previsti dalla legge 69/2015. La parte caratterizzante, comunque più conosciuta, della riforma è però nelle pene edittali per peculato, corruzione e induzione indebita. Il peculato sarà punito da 4 a 10 anni e 6 mesi (aggiunta di 6 mesi rispetto al passato), la corruzione per l'esercizio della funzione sale a sei anni (oggi 5), quella per atti contrari ai doveri d'ufficio sarà compresa tra 6 e 12 anni (oggi 4-10). Pesanti anche le aggravanti specifiche: se il fatto illecito è commesso nell'ambito dei contratti con la Pa, la pena andrà da 6 a 12 anni (oggi 4-10), se in atti giudiziari si rischieranno fino a 20 anni di carcere, partendo da un minimo di 6 (oggi 5). Patteggiamento e sospensione condizionale della pena prendono una strada speciale per i condannati dei delitti contro la Pa. La condizionale non sarà più "semi-automatica" come oggi, ma verrà legata alla restituzione del profitto accertato, fermo restando il diritto della Pa a farsi liquidare altri titoli di danno ulteriore. Anche il patteggiamento sarà considerato "ammissibile" - e comunque sempre subordinato alla valutazione di congruità del giudice - solo se vi è stata "restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato". Debuttano, infine, le attenuanti speciali per chi si dissocia e si adopera per evitare le estreme conseguenze del reato o per assicurare la prova del delitto: per i "pentiti" è previsto lo sconto di pena da un terzo a due terzi rispetto a quello che il giudice dovrebbe infliggere nel caso specifico. Infine, misura da tempo invocata dall'Anac, i pm che esercitano l'azione penale per reati contro la Pa devono informare l'Authority di Raffaele Cantone nel dettaglio dell'imputazione. Alle Sezioni unite il ricorso sull'inammissibilità della class action di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2015 Corte di cassazione - Terza sezione civile - Ordinanza n. 8433 del 2015. Alle Sezioni unite la possibilità di impugnare in Cassazione il giudizio di inammissibilità della class action. A rinviare la questione è la Terza sezione civile con l'ordinanza n. 8433 del 2015. Nell'ambito di un'azione collettiva promossa da Codacons contro Bat Italia della quale veniva chiesta la condanna al risarcimento dei danni provocati per avere generato dipendenza da fumo in una pluralità di soggetti, sono stati emessi due verdetti di inammissibilità. A fronte di quello di appello, Codacons ha impugnato in Cassazione; Bat ha rilevato l'inammissibilità del ricorso facendo osservare come l'ordinanza con la quale la Corte d'appello ha dichiarato inammissibile l'azione non ha carattere decisorio nè definitivo e dunque non è soggetta a impugnazione. A corroborare questa conclusione veniva ricordata la decisione della Cassazione, sentenza n. 9772 del 2012, secondo la quale l'ordinanza di inammissibilità dell'azione di classe è fondata su una valutazione sommaria e solo finalizzata a una pronuncia di rito, che non assume la natura di giudicato sostanziale ma è idonea "solo" a condizionare la prosecuzione di quel processo di classe. La Terza sezione, però, ora dichiara di non condividere questa conclusione. Innanzitutto, ricorda, non c'è traccia nella disciplina della class action di un'esplicita possibilità di riproporre l'azione che è stata dichiarata inammissibile. Anzi, il riferimento espresso è alla riproposizione dell'azione individuale, non di quella collettiva. Inoltre, "non sembra appagante sostenere che l'azione di classe costituisca una mera forma processuale di tutela dei diritti, alternativa ed equipollente rispetto all'azione individuale: con la conseguenza che, dichiarata inammissibile la prima, la libera riproponibilità della seconda impedirebbe di ritenere decisoria e definitiva la dichiarazione di inammissibilità". L'azione collettiva, infatti, per la maggiore pressione economica e psicologica, rappresenta uno strumento più efficace a disposizione del proponente rispetto a quella individuale. Per questo, una volta dichiarata inammissibile l'azione collettiva, non si può dire che il relativo provvedimento sia "non definitivo" solo perché formalmente resta a disposizione l'azione individuale. Infine, non convince la Terza sezione, l'asserita sommarietà della valutazione in sede di ammissibilità e la conseguenze impossibilità ad assumere la fisionomia di giudicato. Infatti, legare, come fa la norma, il verdetto di inammissibilità della class action a una considerazione di manifesta infondatezza è almeno ambiguo, visto che anche una cognizione piena può condurre a un giudizio di manifesta infondatezza: "la cognizione sommaria è la forma del giudizio, la manifesta infondatezza ne è il risultato. Sono concetti eterogenei e l'uno non implica l'altro". E ancora: se davvero l'azione collettiva fosse sempre riproponibile non avrebbe senso l'imposizione della massima pubblicità al giudizio di inammissibilità. Niente diffamazione al reporter che riporta una frase dell'accusa di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2015 Corte europea - Sentenza Hlynsdottir del 2 giugno 2015. Il giornalista che riporta una vicenda giudiziaria di interesse generale, riproducendo passi dell'atto di accusa, senza ricordare espressamente, per la frase contestata, che essa proviene dal documento degli inquirenti, non commette diffamazione. Di conseguenza, se è condannato a seguito dell'assoluzione della persona citata nell'articolo, scritto nel rispetto delle regole deontologiche, è certa la violazione dell'articolo 10 della Convenzione dei diritti dell'uomo che assicura il diritto alla libertà di espressione. È ancora una volta la Corte europea dei diritti dell'uomo, con la sentenza Hlynsdottir, depositata ieri, a intervenire a tutela della libertà di stampa e del diritto della collettività a ricevere informazioni, condannando l'Islanda. A rivolgersi a Strasburgo è stata una giornalista che aveva riportato l'indagine nei confronti di un uomo accusato di traffico di cocaina. L'articolo era corredato dalla fotografia e dal titolo che lo indicava come trafficante. Dopo l'assoluzione, l'uomo aveva agito contro la giornalista che era stata condannata per diffamazione, insieme all'editore. La donna aveva versato, come sanzione, 450 euro, facendo poi ricorso a Strasburgo. Che le ha dato ragione, non solo accertando la violazione della Convenzione da parte dell'Islanda perché i procedimenti nazionali non hanno seguito gli standard di Strasburgo in materia di libertà di stampa, ma anche disponendo una riparazione per i danni materiali pari alla somma che la donna aveva dovuto versare a titolo di sanzione e un indennizzo di 4mila euro per lo stress e la frustrazione che la giornalista aveva subito a seguito del procedimento nei suoi confronti. Per la Corte europea, la condanna della reporter non era necessaria in una società democratica perché la giornalista aveva riportato una questione giudiziaria di interesse generale, agendo in modo conforme ai doveri e alle responsabilità dei giornalisti. Nel valutare il comportamento del giornalista le autorità nazionali devono considerare l'articolo nel suo insieme, mentre non ha nessun rilievo l'assoluzione del presunto diffamato dopo la pubblicazione. Leggendo l'articolo - osserva la Corte - era evidente che il procedimento era ancora in corso e che non vi era stata una condanna. Inoltre, spetta solo al giornalista stabilire se, nel riportare frasi dell'atto di accusa, sia necessario indicare in modo espresso l'atto e utilizzare ulteriori precauzioni, ad esempio ricordando al lettore che si tratta unicamente di affermazioni provenienti dagli inquirenti. D'altra parte, rispetto alla frase contestata, poche righe prima era stato citato l'atto di accusa e la richiesta di condanna presentata dal Procuratore. A ciò si aggiunga che proprio l'impiego dell'atto di accusa come base dell'articolo fa sì che non sia necessario svolgere ulteriori verifiche sulle dichiarazioni di fatto in esso contenute posto che la fonte è chiaramente identificata. Di qui la contrarietà della condanna della giornalista alla Convenzione, tanto più che la reporter è stata sanzionata anche per il titolo del quale non era responsabile. La tenuità del danno esclude la punibilità per il falso in bilancio di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2015 Per far scattare la causa di non punibilità sulla particolare tenuità del fatto nel falso in bilancio il giudice dovrà valutare l'entità dell'eventuale danno cagionato, con la conseguenza che anche i nuovi delitti verranno normalmente sanzionati solo in presenza di effettivo danno, nonostante le condotte costituiscano dei reati di pericolo. È quanto emerge dalla lettura del nuovo articolo 2621 ter del Codice civile introdotto dalla legge 69/2015, cosiddetta "anticorruzione". In via generale il Codice penale, all'articolo 131 bis, prevede per i reati con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni l'esclusione della punibilità quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. I criteri sui quali deve incardinarsi il giudizio di "particolare tenuità del fatto" sono cosi due: • la particolare tenuità dell'offesa, che implica una valutazione sulle modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo; • la non abitualità del comportamento dell'autore (che non deve essere un delinquente abituale, professionale o per tendenza, né aver commesso altri reati della stessa indole). Sono così state introdotte delle circostanze che escludono la particolare tenuità del fatto le quali, ovviamente, non possono riguardare i reati di falso in bilancio (aver agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà; il caso in cui la condotta abbia determinato, quale conseguenza non voluta, la morte o lesioni gravissime, eccetera). Da ricordare, peraltro, che la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto scatta dopo un effettivo accertamento della responsabilità a carico dell'indagato e non in modo automatico. La nuova versione dell'articolo 2621 relativa alle società non quotate sanziona ora con la reclusione da uno a cinque anni l'esposizione di fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero l'omissione di fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore. È poi prevista (articolo 2621 bis del Codice civile) una riduzione della pena (da sei mesi a tre anni) allorché i fatti siano di "lieve entità". Questa circostanza dovrà essere valutata, per espressa previsione normativa, tenendo conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta. Analoga sanzione penale ridotta è poi prevista nel caso delle società cosiddette "non fallibili", ma solo a seguito di querela della società, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari della comunicazione sociale. È evidente quindi che le nuove fattispecie rispetto al passato non richiedono più il danno: la tutela penale viene infatti anticipata al pericolo (la concreta idoneità a indurre in errore). Il nuovo articolo 2621 ter del Codice civile introduce i criteri che il giudice deve porre a base della propria valutazione affinché possa applicare la causa di non punibilità per la tenuità del fatto nei reati di falso in bilancio commessi dalle società non quotate. Egli deve considerare in modo prevalente l'entità dell'eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori. Ne consegue che ove non vi sia stato alcun danno alla società, ai soci, o ai creditori, è verosimile, in presenza delle altre condizioni previste dal Codice penale (non commissione di fatti della stessa indole, eccetera) l'applicazione della causa di non punibilità. Di fatto, così, per effetto di questa previsione, la nuova fattispecie di reato di pericolo troverebbe raramente applicazione, dovendosi concretizzare sempre un danno che, peraltro, se di ridotta entità farebbe scattare comunque la causa di non punibilità. Nel caso di società quotate la tenuità del fatto non potrà mai trovare applicazione sia perché la legge anticorruzione non prevede specifiche previsioni (e infatti l'articolo 2621 ter si riferisce esclusivamente alle non quotate), sia perché l'istituto generale disciplinato dall'articolo 131 bis del Codice penale subordina l'applicazione della causa di non punibilità ai reti puniti fino a cinque anni. Le false comunicazioni sociali delle quotate in futuro saranno sanzionate con la reclusione da tre a otto anni, per cui sono escluse dall'istituto. I fatti illeciti commessi fino al 13 giugno dalla quotate, invece, vi rientrerebbero in quanto la pena attualmente in vigore è da uno a quattro anni. Abuso di diritto per ogni tassa di Roberto Rosati Italia Oggi, 3 giugno 2015 Il divieto di abuso di diritto, principio immanente all'ordinamento giuridico in quanto derivante dai principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione, è applicabile a tutti i tributi, compresa l'imposta di registro. Lo ha stabilito la Corte di cassazione nella sentenza n. 6718 del 2 aprile scorso, in relazione a un accertamento con il quale l'ufficio fiscale, invocando appunto il principio del divieto dell'abuso di diritto, aveva rideterminato la base imponibile di un atto di cessione d'azienda negando una passività contabile assai sospetta. La sentenza ribadisce quindi con chiarezza esemplare quanto già riconosciuto dalla Corte suprema nella sentenza n. 12042/2009. Va evidenziato anzitutto che, come osserva la Corte, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, l'art. 20 del dpr n. 131/86, che impone di applicare l'imposta di registro secondo l'intrinseca natura degli atti, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, non esprime una clausola antielusiva generale, limitandosi ad affermare la prevalenza della sostanza sulla forma. La disposizione non potrebbe quindi essere utilizzata in una situazione quale quella di specie, in cui non vi era divergenza tra la forma dell'atto e la sua natura, bensì, ad avviso dell'amministrazione finanziaria, una indebita riduzione della base imponibile, desunta dagli elementi oggettivi e soggettivi dell'operazione. In questa situazione, quindi, soccorre il principio del divieto dell'abuso di diritto, che, seppure non (ancora) codificato nell'ordinamento interno, salvo che per i tributi armonizzati a livello comunitario, nel cui ambito è stato statuito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, in virtù della sua derivazione costituzionale, è comunque applicabile e quindi consente, nella fattispecie, di disconoscere la computabilità di una posta passiva che si presume essere stata appostata artificiosamente, per abbattere il valore dell'azienda ceduta. Donde l'accoglimento del ricorso dell'Agenzia delle entrate, con conseguente cassazione della pronuncia impugnata e rinvio alla Ctr dell'Emilia Romagna per un nuovo esame. A margine della sentenza, si deve ricordare che l'applicabilità del divieto di abuso anche ai tributi indiretti diversi dall'Iva è stata sostenuta dall'Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 234/2009, in relazione all'imposta di successione e donazione. Lettere: i Tribunali minorili vanno sostituiti con giudici di famiglia di Bruno Ferraro (Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione) Libero, 3 giugno 2015 Il problema di un giudice specializzato, competente a trattare tutte le controversie che concernono i minori e, più in generale, la famiglia, si trascina irrisolto da molti anni. I Tribunali per i minorenni, istituiti dal regime fascista nel 1934, appaiono sempre più inadeguati ed anacronistici. Con riferimento alla materia civile il minore va considerato ormai come un soggetto giuridico a pieno titolo, con una sua precisa soggettività e personalità. Non è sufficiente l'ottica di mera protezione insita nelle leggi che lo riguardano, ma occorre promuovere una cultura che sia in grado di rendere la loro tutela effettiva, tempestiva ed incisiva. Necessitano quindi forme processuali e misure sostanziali in grado di contemperare l'obiettivo della tutela con l'esigenza di un procedimento modellato sulla falsariga del giusto processo, nello spirito dell'art.111 della Carta Costituzionale. Quanto alla materia penale, non può certamente soddisfare il fatto che per i reati da loro commessi i minori sono sottoposti al giudizio dei Tribunali minorili, mentre per i reati in loro danno, sempre più numerosi ed inquietanti (si pensi alla pedofilia ed ai maltrattamenti), la competenza passa ai Tribunali ordinari, con totale stravolgimento della procedura applicabile. L'assurdo, in tale ambito, si coglie nel momento in cui, concorrendo nello stesso reato maggiorenni e minorenni, i primi sono giudicati dai Tribunali ordinari ed i secondi dai Tribunali minorili, con il concreto rischio di verdetti contrastanti e contraddittori a fronte dell'identità del materiale probatorio valutato dai due organi. Quanto alla materia amministrativa, attinente ai minori che, senza commettere reati, mantengono una "condotta irregolare", si tratta di aspetti superati, balzando all'evidenza l'impossibilità di scindere aspetti sempre compresenti nella devianza del mondo giovanile, in cui il limite dell'illiceità penale non si presta ad essere percepito da una personalità ancora in formazione. Di qui un grande interrogativo del mondo forense e giudiziario: che si aspetta a tradurre in realtà l'aspettativa di un Tribunale o Sezione Specializzata "per la famiglia", chiudendo i Tribunali minorili ed utilizzando i locali, prossimi a dismissione, delle attuali sezioni dei Tribunali ordinari? È il tempo infatti di un giudice specializzato e formato, che sia in grado di maneggiare gli strumenti giuridici, ma che sappia andare anche a fondo nelle vicende umane e seguirne l'evoluzione fino alla concreta soddisfazione dei diritti in gioco; che sia competente a comprendere le condotte, attento all'ascolto, con attitudini miti, capace di relazionarsi con i servizi e con le strutture di mediazione del territorio, decidendo in tempi ragionevoli. È indispensabile pertanto un tribunale per la persona, i minorenni e le relazioni familiari, con composizione multi-professionale, con funzioni esclusive in materia civile, penale e amministrativa: anche perché si parla da tempo di una "lenta eutanasia" dei Tribunali per i minorenni. Sulla base di tali considerazioni mi è toccato redigere, illustrandola in un Convegno svoltosi il 20 maggio al Consiglio Nazionale delle Ricerche, una proposta di legge in 34 articoli, con tanto di relazione illustrativa, che fa il paio con una proposta di legge attualmente pendente in Senato con il numero 194. Le ragioni che la rendono assolutamente meritevole di attenzione sono: sintonia con non poche esigenze prospettate dall'Associazione Nazionale dei giudici minorili; un testo pronto per l'aula, laddove la proposta 194 è una legge delega destinata, qualora approvata, a tempi più lunghi ed ai decreti attuativi del Governo; utilizzo, con i giudici di carriera, dei giudici onorari, il cui apporto è necessario ed irrinunziabile. Lettere: la politica del Csm e il caso Lo Voi di Francesco Lo Voi Il Manifesto, 3 giugno 2015 Il nodo del contendere è, da alcuni decenni, l'autonomia della giurisdizione dai circuiti del potere, voluta dalla Costituzione ma intollerabile in tempi di accentramento e di decisionismo. Una settimana fa il Tar del Lazio ha annullato la nomina del Procuratore della Repubblica di Palermo, effettuata dal Consiglio superiore della magistratura nel dicembre scorso (preferendo Francesco Lo Voi a Sergio Lari e Guido Lo Forte, procuratori della Repubblica rispettivamente di Caltanissetta e di Agrigento). La notizia, oltre a una qualche immediata eco di stampa (per lo più con accenti scandalistici, quasi che si trattasse di un unicum nella nostra vicenda istituzionale) ha suscitato una polemica che ha avuto come protagonisti Giovanni Fiandaca (Il Foglio del 27 maggio) e Gian Carlo Caselli (Il fatto quotidiano del 29 maggio). D'accordo nel ritenere inevitabile l'annullamento, non avendo il Consiglio dato spiegazione delle ragioni della pretermissione dei titoli specifici dei candidati soccombenti (all'evidenza maggiori di quelli di Lo Voi), i due commentatori si dividono sulla valutazione della decisione del Consiglio. Secondo Fiandaca essa risponde all'intento di chiudere, con la nomina di un magistrato "moderato" e in buona parte estraneo all'ufficio, una stagione della Procura palermitana e, più in generale, "di arrestare, e al tempo stesso di prevenire, i guasti e le derive ad ampio raggio di una certa antimafia giudiziaria fondamentalista e scontrollata": intento indicibile ma - prosegue Fiandaca - sacrosanto "per la salute della nostra democrazia". Per Caselli, che di quella stagione è stato protagonista, la ricostruzione effettuata da Fiandaca, oltre a poggiare su dati di fatto errati (come l'asserito coinvolgimento, seppur indiretto, di Lari e Lo Forte nel processo sulla trattativa Stato-mafia) è incompatibile con il ruolo del Csm che "non può e non deve interferire in alcun modo con la giurisdizione". Quest'ultimo rilievo sul rapporto tra organo di governo della magistratura e giurisdizione è incontestabile ma lascia senza risposta il nodo fondamentale: perché il Csm ha nominato Lo Voi disattendendo propri orientamenti consolidati? Se non si risponde a questa domanda non si capisce che cosa è accaduto da ultimo e cosa sta accadendo nel Consiglio superiore, nei suoi rapporti con le altre istituzioni e, più in generale, nella giurisdizione. Perché una cosa è certa: la nomina di Lo Voi non è stata un infortunio o un errore tecnico o il frutto di logiche interne alle correnti della magistratura, ma una scelta (o, più esattamente, una forzatura) politica, in gran parte eterodiretta. Ed è esattamente la scelta indicata da Fiandaca (che sbaglia nel ritenerla condivisibile, ma non nel descriverla), inscritta in una strategia che viene da lontano e ha molti padri e madri. Il nodo del contendere è, da alcuni decenni, l'autonomia della giurisdizione dai circuiti del potere, voluta dalla Costituzione ma intollerabile in tempi di accentramento e di decisionismo. La caduta verticale di credibilità della politica ne impedisce peraltro, dopo i tentativi berlusconiani, una esplicita riduzione. Di qui ripetuti interventi per indebolirla in maniera indiretta. Si è cominciato con alcune modifiche bipartisan dell'ordinamento giudiziario che accentuano i poteri dei capi degli uffici (soprattutto di Procura) e aumentano a dismisura la discrezionalità del Csm nelle relative nomine (svincolate da criteri oggettivi e legate, conseguentemente, a valutazioni del tutto soggettive). Modificate le norme occorreva controllare il Consiglio. E l'operazione si è sviluppata con alcune tappe fondamentali: l'interventismo a piedi giunti del presidente Napolitano che, innovando rispetto ai suoi immediati predecessori, ha drasticamente ridotto le prerogative del Consiglio rivendicando un discutibile (a dir poco) potere di definizione dell'ordine del giorno e di controllo preventivo su tutte le decisioni rilevanti; l'acquiescenza a tale impostazione della componente togata del Csm e, in generale della magistratura, che spesso, durante la lunga età di Napolitano, hanno preferito al confronto pubblico un filo diretto e riservato con il Quirinale; la scelta del Parlamento di privilegiare, nella nomina dei componenti laici, i percorsi e i legami politici rispetto alle competenze e ai meriti scientifici (fino ad arrivare al transito diretto dell'attuale vicepresidente da un incarico di Governo). Questo insieme di fattori ha condotto progressivamente e in modo sempre più marcato a decisioni consiliari dettate da scelte di politica generale più che dal rispetto di regole predeterminate e da valutazioni di buon funzionamento della giurisdizione. La nomina di Lo Voi a procuratore di Palermo si colloca in questa logica, come dimostrano il clima che l'ha preparata e il concorso unanime dei componenti laici di tutte le estrazioni (compresi Sel e 5Stelle) in non casuale alleanza con i vertici della Cassazione e i membri togati del gruppo che fa capo a un ex consigliere (Cosimo Ferri) da tempo approdato al ruolo di sottosegretario alla giustizia. Se non si coglie questo intreccio e non si opera per denunciarlo e invertire la tendenza molti altri casi analoghi a quello della Procura di Palermo si ripeteranno (magari occultati da motivazioni formali più accurate). E a poco servirà dolersene a cose fatte, magari a seguito dell'intervento di un Tar. Porto Azzurro (Li): gli animali come "terapia" contro il disagio, anche in carcere tenews.it, 3 giugno 2015 Esperti e detenuti a confronto sull'uso, a fini del reinserimento sociale, degli interventi assistiti con animali, già utilizzati nella cura di problemi fisici e relazionali. Un'esperienza che alcuni istituti stanno già sperimentando. Un'interessante iniziativa si è tenuta presso il carcere di Porto Azzurro, con un incontro programmato e autorizzato dalla Direzione carceraria con i rappresentanti della Associazione animalista elbana "Animal Project" rappresentata dalla Signora Rossana Braschi. Frutto del continuo lavoro e impegno dei volontari di Animal Project sono le molteplici iniziative a tutela degli animali in difficoltà e progetti atti alla diffusione di una solida cultura di "benessere animale", quale solida garanzia di un ambiente più "accogliente" anche dal punto di vista dei rapporti umani. Oltre ad alcune valide Collaboratrici dell'Associazione era presente anche il Dott. Renato Rondinella, medico specializzato in interventi riabilitativi assistiti con Animali e Persone in difficoltà (Pet terapy), giunto appositamente da Bologna. Innanzi ad un numeroso, interessato e partecipe gruppo di Detenuti e dei Loro Educatori si è illustrata l'efficacia di interventi con cani, cavalli, asini e piccoli animali nel trattamento riabilitativo di molte forme di "disagio" fisico, psichico, relazionale e sociale in soggetti a partire dall'età prescolare e infantile, giovanile, adulta, ed anziana. Efficacia ormai validata dalla Comunità medico-scientifica internazionale. Si è ricordato come gli IAA (interventi assistiti con animali) siano oggi materia d'insegnamento anche nell'Università italiana e che già esistono leggi in alcune Regioni italiane che li riconoscono come veri interventi, terapeutici, educativi o ludico-ricreativi, vista la loro efficacia in molteplici e diverse situazioni, patologiche o di disagio esistenziale o sociale. Ciò anche alla luce dell'individuazione, da parte del Ministero della Salute, di un Centro di referenza nazionale per le "Linee guida degli AAI". Si è sviluppato con i detenuti un ampio e vivace dibattito, prendendo in considerazione anche l'utilità, già verificate in alcune esperienze in carceri italiane, non solo minorili, di una applicazione di tali metodiche riabilitative, nella speranza che esse possano, in un non lontano futuro, trovare cittadinanza e applicazione anche a Porto Azzurro. Livorno: la madre muore in ospedale, gli negano il permesso di dirle addio di Francesco Lo Dico Il Garantista, 3 giugno 2015 Voleva dire addio alla mamma moribonda. Ci teneva tanto a vederla l'ultima volta su quel letto d'ospedale che la vedeva rantolare in attesa dell'ultimo respiro. Eppure nessuno si è preso la briga di rispondere alle richieste di Andrea Calloni, carcerato in attesa di processo nel penitenziario delle Sughere, a Livorno. E così, quando Marusca Tarquini se ne è andata dopo una lunga malattia all'età di 67 anni, Andrea non c'era. Era nella sua cella, prigioniero di una burocrazia inumana, che ancora una volta si dimostra vicina parente della strafottenza pura. Non è altrimenti giustificabile il fatto che le richieste e i solleciti del 42enne, peraltro soggetto a custodia cautelare per ragioni tutt'altro che chiare, siano state ignorate. Ed è a maggior ragione che il benestare concessogli invece per assistere al funerale, giunto puntuale a mamma morta, appare il disdicevole prosieguo di una beffa. Andrea Calloni, 42 anni, è recluso dal 18 settembre scorso, e non ha voluto tacere l'amarezza per quella che definisce come "una vera ingiustizia". "Sono deluso dal sistema giudiziario - fa sapere il quarantaduenne tramite il suo avvocato Barbara Luceri - io sono in carcere per reati contro il patrimonio. E soprattutto sono in attesa di giudizio. Quindi fino a quel giorno per la legge italiana c'è la presunzione di innocenza. Ecco perché non capisco il motivo di questo torto. Si tratta di un'ingiustizia che poteva essere evitata solo usando il buon senso e un po' di umanità". L'uomo, accusato di associazione per delinquere, ha fatto richiesta di vedere la madre in ospedale lo scorso 19 maggio, quando le condizioni di questa si sono notevolmente aggravate. "I medici - racconta l'avvocato Luceri - hanno detto molto chiaramente che non c'erano molte speranze. Le condizioni della donna erano gravissime, ma in alcune circostanze riusciva ancora ad essere presente a sé stessa". A quel punto, Calloni ha fatto richiesta di un permesso alle autorità competenti, ma "visto che non ho ricevuta alcuna risposta - riferisce l'uomo - ho fatto altri due solleciti il 21 e il 23 maggio. Ma nonostante queste richieste non c'è stata alcuna decisione: la richiesta è stata ignorata". Il 28 maggio, la signora Marusca però è morta. E solo al giungere di questa terribile notizia, è arrivato dal Tribunale l'ok per la partecipazione al funerale. Una vicenda miserrima, resa ancora più penosa dalla posizione giudiziaria di Calloni. L'uomo, in carcere dal 18 settembre del 2014 per esigenze di custodia cautelare, ha trascorso diversi mesi in isolamento. "Una situazione psicologicamente difficile, soprattutto perché le visite di esterni, a cominciare dai familiari, sono molto complicate se non impossibili", aveva spiegato il suo difensore Massimo Batini. "Tali misure - aveva avvertito il legale - assomigliano molto all'anticipazione di una condanna che potrà arrivare solo al termine di un dibattimento o all'esito del procedimento". Secondo gli inquirenti Andrea Calloni, presunto sodale di Andrea Polinti, aveva il ruolo "di braccio destro e uomo di fiducia del capo, addetto alla organizzazione e realizzazione di truffe nonché spacciatore di banconote contraffatte". È per queste ragioni che l'uomo è stato recluso e posto in custodia cautelare. Ma 9 mesi di carcere duro, in attesa di un processo che inizierà questa settimana, non sono certo acqua fresca. Anche se fosse poi il peggiore dei boss, a un figlio non si nega l'addio alla sua mamma. E a una madre, fosse anche il più famigerato dei banditi, l'addio a suo figlio. Napoli: sit-in degli operatori della comunità pubblica di Nisida al molo Cappellini La Repubblica, 3 giugno 2015 Sit-in degli operatori della comunità pubblica di Nisida al molo Cappellini, di fronte all'ingresso dell'isolotto di Nisida. Lo spazio, chiuso dal primo giugno dopo 25 anni di attività, fino a venerdì 26 maggio ha accolto in regime residenziale imputati minorenni (massimo nove), sottoposti a misure cautelari non detentive per non interrompere il percorso di studio e socio-educativo. Dal primo giugno i servizi della struttura, gestita dalla cooperativa "Il Quadrifoglio", a poche centinaia di metri dal carcere minorile di Nisida, sono stati sospesi a tempo indeterminato dal capo dipartimento reggente della Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia. La protesta degli educatori e vigilanti della cooperativa durerà tutta la giornata. L'incontro con il ministero è fissato per mercoledì 3 giugno. "Nell'ultima proroga ricevuta fino al 31 maggio il ministero ha definito il nostro servizio soddisfacente e proficuo - spiegano gli operatori - poi è stato sospeso senza motivo, chiediamo di avere spiegazioni: anche i ragazzi che sono stati spostati nelle strutture delle altre province, lontano da Napoli, sono rimasti sconcertati dalla decisone di chiudere la comunità pubblica di Nisida. In questo modo le loro famiglie, spesso indigenti, avranno più difficoltà per andare a fargli visita". Viterbo: "Scacco matto alla noia", il progetto per i detenuti della scuola scacchistica tusciaweb.eu, 3 giugno 2015 La scuola scacchistica viterbese, dopo il successo ottenuto negli istituti di Viterbo e provincia, non si è voluta riposare sugli allori. Gli istruttori, nonché pionieri di questo gioco all'interno della nostra provincia, Paradisi Micaela, Massetti Gianfranco, Marini Riccardo e Marini Massimiliano sono andati oltre: "Diamo la possibilità a tutti di conoscere questo fantastico gioco", è il loro motto, che ha permesso ai detenuti del carcere Mammagialla di Viterbo di realizzare il loro sogno, insegnare l'arte degli scacchi, si esattamente, un arte. Come si può definire qualcosa che leghi benefici intellettivi, educativi e allo stesso tempo il divertimento… qualcosa che unisca generazioni, classi sociali, età e culture diverse. Noi della scuola scacchistica viterbese crediamo davvero che gli scacchi non sono solo un semplice gioco, ma molto di più. Il progetto "Scacco matto alla noia" rivolto ai detenuti è stato realizzato grazie alla collaborazione della fondazione Carivit che ci ha aiutato finanziariamente a sostenere i costi del corso. Il corso di livello base, iniziato il 18 maggio, ha ottenuto un enorme successo grazie alla partecipazione di numerosi detenuti, che hanno accolto con interesse l'iniziativa, proponendo già da ora successive lezioni di livello avanzato. Con l'occasione ricordiamo che la scuola scacchistica viterbese è aperta tutti i giorni, anche la mattina. Libri: "Le livre du camp d'Aguila", i versi del deportato Rajab Abuhweish di Claudio Canal Il Manifesto, 3 giugno 2015 "Le livre du camp d'Aguila": il canto del deportato Rajab Abuhweish, al confine tra Tripolitania e Cirenaica, che in Italia è stato sempre proibito. Quando noi italiani migravamo in massa in Libia attraversavamo il Mediterraneo a bordo di cacciatorpediniere e corazzate. I nostri scafisti si fregiavano del titolo di ammiraglio, capitano di vascello ecc. A partire dal 1911 i nostri migranti, messo piede a terra, si trasformavano in combattenti che non disdegnavano fucilazioni in massa, bombardamenti, rastrellamenti, deportazioni. Diventate regolarmente spietate con l'avvento del fascismo. I flussi migratori, chiamiamoli così, avevano il compito di costruire l'impero. Il che voleva dire annientamento di ogni resistenza, sottomissione delle popolazioni anche attraverso il bombardamento con i gas e i campi di concentramento. "Il mio solo tormento / l'impotenza / il castigo / di subire la vita / e di non viverla / gli uomini migliori della tribù / sono oggi considerati come / miserabili degenerati. Il mio solo tormento / i cuori spezzati / queste lacrime che sgorgano / dai nostri uomini imprigionati / dalle famiglie dimenticate / abbandonate / alla loro sorte". Un canto in trenta strofe brevi che Rajab Abuhweish (in francese traslitterato come Rajab Bou Houaiche) recita mentre è detenuto nel campo di concentramento di El Agheila sul golfo della Sirte, al confine tra Tripolitania e Cirenaica. Vi è arrivato dopo essere stato deportato con una marcia della morte di più di 400 chilometri attraverso il deserto. Lui e tutto il suo clan. Era membro della tariqa-confraternita dei Senussi che aveva già dato filo da torcere sia ai francesi sia, e ancora di più, agli italiani. Apparteneva al clan al-Manifi, il medesimo di Omar el Mukhtar, il "leone del deserto", impiccato dagli italiani nel 1931 dopo un processo farsa. Le testimonianze raccolte da Eric Salerno (Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell'avventura coloniale italiana, 1911-1931, Manifestolibri, Roma, 2006) non lasciano spazio alla benevolenza: "Ogni giorno uscivano da el Agheila cinquanta cadaveri. Venivano sepolti in fosse comuni. Cinquanta cadaveri al giorno, tutti i giorni. Li contavamo sempre. Gente che veniva uccisa. Gente impiccata o fucilata. O persone che morivano di fame o di malattia. Di solito quelli che cercavano di scappare, giovane, vecchio o bambino che fosse, venivano presi e messi al centro del campo. Gli veniva buttata della benzina addosso e tutti dovevano essere presenti a guardare". Un avventuroso giovane danese, Knud Holmboe, si prefigge di attraversare in auto il Nord Africa da ovest ad est. E ci riesce, nel 1930. Conosce bene l'arabo e i suoi dialetti, è diventato musulmano. Ama gli arabi, ma non esita a denunciarne le ingiustizie così come riconosce la straordinaria umanità di alcuni ufficiali italiani che incontra. Ma: "Il paese è un bagno di sangue… Nel periodo che trascorsi in Cirenaica avevano luogo trenta esecuzioni al giorno e questo significa che ogni anno vengono giustiziati 12.000 arabi… I pozzi vengono cementificati per impedire di abbeverare gli animali". Il suo libro, Incontro nel deserto, è stato sempre proibito in Italia. Era stato pubblicato nel 1931, che è anche l'anno della sua misteriosa uccisione nel golfo di Aqaba. Verrà tradotto in italiano nel 2005 da E. Kampmann per l'editore Longanesi. Ma bi marad - Il mio solo tormento è ripetuto 26 volte nel poema secondo una recitazione ritmica rigorosa. Oggi sarebbe un rap. "Il mio solo tormento / perdere la mia dignità/ in una età avanzata e / dovermi separare / dai nostri uomini migliori / nostro bene più prezioso". È in prima persona, ma esprime il dolore di un popolo, è una elegia, rith, che lamenta l'esilio e trova nella lingua il suo rifugio. Nel frastuono del campo, tra le migliaia di voci, il canto del poema è anche una testimonianza, una fonte di storia che scavalca il filo spinato che recinta le tende. Immigrazione: il Viminale "le Regioni del Nord Italia accolgano i richiedenti asilo" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 3 giugno 2015 La Circolare trasmessa dal Viminale ai prefetti il giorno dopo le elezioni amministrative disegna il quadro della situazione. Perché la richiesta urgente di almeno 7.500 posti fa comprendere in quale affanno sia il sistema e soprattutto quali rischi ci siano in vista dei nuovi flussi migratori che quest'estate porteranno decine di migliaia di stranieri sulle nostre coste. Non solo. Nel documento partito lunedì dal ministero dell'Interno viene specificato come la maggiore disponibilità sia richiesta a quelle Regioni settentrionali - Veneto e Lombardia in testa - che finora hanno chiaramente respinto l'ipotesi di alloggiare i profughi. E tanto basta per comprendere in quale clima politico si vivranno le prossime settimane. Le cifre sono eloquenti. A parte la Sicilia, che si sobbarca la pressione maggiore, sono state soprattutto la Puglia, la Campania e il Lazio a mostrare disponibilità, mentre al settentrione le percentuali di stranieri accolti sono bassissime. Ecco perché, se davvero continuerà questo atteggiamento, non è escluso - come del resto era già stato paventato in una precedente circolare - che si possa arrivare a requisire le strutture dove sistemare i richiedenti asilo. I centri del Viminale sono infatti stracolmi e al momento sembra esclusa la possibilità di confidare su un concreto aiuto internazionale. La missione italiana a Dresda in occasione del G6 dei ministri dell'Interno non ha avuto i risultati sperati. Il viceministro dell'Interno Filippo Bubbico ammette che "pur in presenza di un passo significativo come l'Agenda della commissione europea, il problema rimane impegnativo e di non facile soluzione". Nessuno lo dice chiaramente, ma il muro eretto in questa occasione da Francia, Spagna, Polonia rafforza le resistenze degli altri Stati membri su una distribuzione reale dei profughi, soprattutto fa venire meno la possibilità che durante la prossima riunione fissata a Bruxelles per il 15 giugno - che nei piani avrebbe dovuto spianare la strada a un'intesa definitiva - si riescano a sciogliere tutti i nodi. L'Italia è dunque costretta ad attrezzarsi. E la tregua concessa nel corso della campagna elettorale evitando di forzare la mano su governatori e sindaci impegnati, è ormai finita. La circolare che cerca di bilanciare il divario tra Nord e Sud è soltanto il primo passo. Nei prossimi giorni si cercherà una soluzione che consenta di poter contare sul maggior numero di posti senza doversi muovere sempre in emergenza. Un negoziato con i rappresentanti delle Regioni e dei comuni che il ministro Angelino Alfano continuerà a condurre consapevole che l'aiuto dell'Ue sarà pure un primo passo, ma certamente non risolutivo. Immigrazione: oltre 500 profughi siriani ed eritrei incarcerati in Egitto di Nello Scavo Avvenire, 3 giugno 2015 Il caos libico sposta le rotte verso Est Fermati siriani ed eritrei: 3 morti. Erano appena salpati da un porto non lontano dal delta del Nilo. Già pregustavano l'arrivo in Italia. Sono finiti in una prigione e nessuno sa cosa sarà di loro. E la sorte toccata ad almeno 500 profughi siriani, eritrei e somali, arrestati dalle autorità del Cairo mentre tentavano la traversata nel Mediterraneo. Un gruppo di circa 300 è stato accerchiato prima dell'imbarco, ma altri 220 erano riusciti a partire, quando sono stati intercettati dalle motovedette che hanno fatto fuoco: 3 morti annegati, forse per tentare di alla cattura. Scappare dell'Isis in Siria per finire nelle mani dell'Isis in Libia. È questo il nuovo pericolo che corrono i profughi. Un rischio che neanche i trafficanti posso più permettersi. Perciò i più remoti porti egiziani stanno tornando ad assumere un ruolo chiave nei flussi dell'emigrazione verso l'Europa. Se la Libia è l'inferno dei diritti umani, l'Egitto non è il paradiso. La marina egiziana che ha sparato contro il barcone che trasportava 220 persone, in maggioranza siriani, ne è la riprova. Della carovana di fuggiaschi si hanno notizie frammentarie. Si sa che sono partiti dai campi profughi di Giordania e Libia. "Hanno pagato 2.500 dollari, poi attraverso il valico di Rafah, in Israele - racconta dalla Germania il marito di una donna arrestata con i figli piccoli - hanno raggiunto un porto vicino Alessandria. Poche ore dopo avermi avvertito della partenza mi hanno chiamato per dirmi che li stavano arrestando". Da allora nessuna notizia diretta. La speranza è che almeno lui possa tentare il ricongiungimento familiare in Germania. Ma che ne sarà di tutti gli altri? Non è toccata una sorte migliore neanche al gruppo di eritrei, somali e sudanesi che hanno seguito la rotta terrestre da Khartoum, la capitale del Sudan, al delta del Nilo, nei villaggi tra Damietta ed Alessandria. Questi ultimi hanno pagato tra i 1.500 e i 2.ooo dollari. E anche di loro non si hanno più notizie ufficiali. Organizzazioni non governative e agenzie Onu come l'Acnur, stanno pressando Il Cairo per avere accesso ai migranti e procedere alla loro scarcerazione. Tra essi un gruppo di 70 eritrei, di cui 20 trasferiti in alcuni centri detenzioni nel distretto del Cairo. Nelle ultime settimane si sono ripetuti sbarchi in Italia da mezzi salpati in Egitto. In totale 2.800 persone (contro i 30 mila partiti dalla Libia) che fanno del paese dei faraoni la seconda marineria dei trafficanti di uomini. Con numeri ancora più rilevanti, se si considerano alcuni recenti sbarchi avvenuti in Grecia. Una tendenza in crescita, segnalata nei giorni scorsi da Fabrice Leggeri, capo dell'agenzia europea Frontex. Episodi che di fatto rischiano di far invecchiare i propositi dell'Ue, con l'intervento delle forze armate autorizzato solo per la Libia, quando oramai i trafficanti si stanno spostando in Paesi come l'Egitto su cui Bruxelles può usare solo armi diplomatiche. Intanto altri 230 migranti, a bordo di due gommoni, sono stati soccorsi dai mezzi della Guardia di Finanza a nord della Libia, circa 140 miglia a sud est di Lampedusa, mentre in serata diverse segnalazioni di barconi diretti verso la Grecia sono state raccolte dalla autorità di Atene. Droghe: Lsd legale? Un dibattito dalla Norvegia agli Usa di Giorgio Bignami Il Manifesto, 3 giugno 2015 "L'Lsd terrorizza i governi, che hanno una paura tremenda che cambi il modo in cui la gente guarda al mondo" (David Nutt, Imperial College di Londra). "Se usi Lsd, salterai giù dal tetto": con argomenti come questo, pur mascherati da un linguaggio pseudoscientifico, circa mezzo secolo fa furono demonizzate e bandite le sostanze psichedeliche, classificate insieme alle droghe più "dure" nelle convenzioni internazionali e nei singoli paesi. Una decisione apparentemente legittimata dai noti casi di abuso, ma nella sostanza una grave prevaricazione ideologico-politica: e questo, tenuto conto sia dei dati sulla effettiva pericolosità, sia dei risultati che si andavano ottenendo nelle ricerche in campo psicologico e in quello della terapia di alcuni disturbi mentali. Tuttavia da qualche tempo si è avviato un processo di revisione di tale anomalia, per esempio, con lo studio del 2007 condotto nel Regno Unito da un gruppo di esperti sotto la guida del professor Nutt e con un secondo studio sui criteri di classificazione del danno delle sostanze pubblicato sul Lancet nel 2010. In base a un indice di pericolosità comprensivo di tre componenti (danno fisico, dipendenza, danno sociale), su 20 droghe lecite e illecite l'Lsd e l'ecstasy finirono rispettivamente in 14a e in18a posizione: lontanissimi da droghe illecite dure come l'eroina e la cocaina (prime due posizioni) e da droghe lecite come l'alcol (sesto) e il tabacco (nono). Ora un servizio del New York Times dei primi di maggio, ripreso da Repubblica/Nyt del 18, è dedicato a un gruppo norvegese di advocacy per la legalizzazione delle sostanze psichedeliche (principalmente Lsd, ecstasy e psilocibina). L'iniziativa, lanciata dallo psicologo Pål-Örjan Johansen e da sua moglie Teri Krebs, ha avuto un successo inatteso, raccogliendo autorevoli sostegni sia scientifici che giuridici e politici. "L'Lsd terrorizza i governi, che hanno una paura tremenda che cambi il modo in cui la gente guarda al mondo" (David Nutt, Imperial College di Londra). ll succitato professor Nutt ha sottolineato il contributo dell'iniziativa alla lotta contro lo stigma e la paura per gli psichedelici, e come sia in corso un vero rinascimento della ricerca su di essi dopo decenni di paranoia e di censura letali per la scienza. E aggiunge "l'Lsd terrorizza i governi, che hanno una paura tremenda che cambi il modo in cui la gente guarda al mondo". Il direttore medico dell'Agenzia norvegese del farmaco, Steinar Madsen, ha espresso il suo interesse per l'iniziativa (data la sua posizione, ovviamente, non poteva spingersi oltre). Un giudice in pensione della Suprema Corte norvegese, Ketil Lund, ha dichiarato il suo sostegno in quanto la proposta contribuisce alla battaglia contro le politiche antidroga dei paesi occidentali, che ha definito un "fallimento assoluto". Un analogo appello dello psichiatra britannico James Rucker, per una riclassificazione di LSD e altri psichedelici tale da liberare dalle pastoie gli studi mirati alla valutazione del loro potenziale terapeutico, è apparso il 26 maggio sul British Medical Journal: anche questo ripreso in un vistoso paginone di Repubblica il giorno successivo (p. 37). Comunque su molte altre azioni in questa direzione non possiamo soffermarci ulteriormente. Insomma, si moltiplicano e si qualificano i focolai di opposizione alle politiche proibizioniste: cioè al coro di denunce dei disastri della guerra alla droga, si aggiungono strada facendo, nella marcia verso Ungass 2016, gli specifici interventi che insistono sui danni alla ricerca scientifica, a importanti aree della terapia, all'esercizio dei diritti come le scelte ricreazionali. E quanto ai rischi, ricorda Johansen:"Ogni cosa comporta un rischio: se passeggiate in una foresta, un albero può cadervi in testa; ma questo non significa che non dovreste mai entrare in un bosco". Brasile: intervista alla presidente Roussef "la tortura e il carcere restano dentro di noi" di Roberto Zanini Il Manifesto, 3 giugno 2015 La presidente del Brasile e la lotta armata. "Ne ho parlato con Mujica, non siamo pentiti. Ma era un altro periodo". Lei è stata tre anni in carcere durante la dittatura: qual è il suo bilancio di quel periodo? "Ne ho parlato molto con il presidente dell'Uruguay, Pepe Mujica, un altro ex prigioniero politico. Non siamo pentiti di niente, ma è chiaro che è necessario capire quali erano le circostanze politiche di quegli anni (fine anni 60, inizio dei 70), circostanze che ci hanno portato ad agire come abbiamo fatto, cioè la lotta armata. Quella situazione oggi non esiste più, questa è la prima cosa. La seconda è che ciascuno cambia, anche se non cambia lato. Anni dopo si vedono gli errori, ci sono cose che sono frutto della gioventù ma oggi non vado a mettermi contro ciò che sono stata. E non ho mai dimenticato cosa mi è successo, la mia vita ne è stata marcata senza alcun dubbio. Una volta ho testimoniato davanti al Congresso e qualcuno, un senatore di destra, mi ha accusata di aver mentito durante le sessioni di tortura. E meno male che l'ho fatto: dire la verità sotto tortura significava consegnare i propri compagni, i propri amici. Non critico quanti sotto tortura hanno parlato, ci dicevano se parli smetto di torturarti e questo scatena una lotta interna, ciascuno cerca di resistere, cerca forza dentro di sé e per riuscirci bisogna avere delle convinzioni. Io non dico che chi ha resistito è un eroe, nessuno è un eroe. In quei giorni per resistere ingannavo me stessa, mi dicevo "adesso tornano" per essere pronta. E alla fine tornavano, mi legavano al pau de arara (il "trespolo del pappagallo": barra di ferro tra l'incavo delle braccia e l'incavo delle gambe del prigioniero, a cui vengono poi legati i polsi alle caviglie, ndt), mi davano un colpo con la picana elettrica. La strategia per resistere? Non bisogna pensare, è quasi un esercizio di meditazione per svuotare del tutto la testa e non farsi corrodere dalla paura. La paura è dentro di noi. Il dolore umilia, degrada. Resistere è difficile. Se ha resistito a quello, può sopportare tranquillamente le pressioni della destra contro il suo governo, o no? "Sono molto più facili da sopportare. Non voglio dire che sia facilissimo, o che siano irrilevanti. Il difficile è stato resistere a quello, e quando uno resiste non torna un eroe, torna una persona". O torna presidente… "Meglio arrivare alla presidenza della repubblica senza passare dalla tortura (ridendo)". Egitto: posticipata al 16 giugno condanna a morte definitiva contro l'ex presidente Morsi Nova, 3 giugno 2015 La Corte criminale del Cairo incaricata di porre la condanna definitiva nei confronti del deposto presidente egiziano Mohamed Morsi ha rimandato la discussione delle raccomandazioni finali della sentenza alla pena capitale comminata lo scorso 16 maggio all'ex capo dello Stato. Secondo quanto riferisce il quotidiano egiziano "al Ahram", la prossima seduta avverrà il 16 giugno. In una dichiarazione i tre giudici incaricati del processo contro l'ex presidente hanno sottolineato di aver ricevuto per ora solo una raccomandazione non vincolante da parte del gran muftì d'Egitto, chiedendo ancora due settimane di tempo per confermare o mutare la condanna alle pena capitale. Il deposto presidente islamista egiziano Mohammed Morsi è stato condannato a morte lo scorso 16 maggio da un tribunale del Cairo nel processo che lo vede imputato, insieme ad altre 108 persone per l'evasione dal carcere di Wadi al Natrun nel 2011, avvenuta secondo gli inquirenti grazie all'appoggio del movimento palestinese di Hamas legato ai Fratelli Musulmani. Morsi e gli altri sono accusati anche di rivelazione di documenti segreti all'intelligence del Qatar. Tuttavia come fanno notare alcuni quotidiani egiziani i verdetti nei confronti di Morsi e di altri 108 imputati, tra cui 17 leader dei Fratelli musulmani, saranno ufficializzati il prossimo 2 giugno e la condanna capitale dovrà essere confermata dal Gran Muftì d'Egitto. Quindi vi sarebbe ancora spazio per eventuali per una modifica delle pene. Altri 18 esponenti dei Fratelli musulmani, incluso l'ex ministro dell'Informazione Salah Abdul Maqsoud (latitante) e il predicatore Yousuf al Qaradawi, sono stati condannati a morte nel processo che li vede accusati, insieme a Morsi, per spionaggio a favore del Qatar e di intelligence straniere. Nella lettura della sentenza capitale per il reato di spionaggio non è stato fatto però il nome di Morsi.