Giustizia: la Repubblica si festeggia con la pace di Giulio Marcon Il Manifesto, 2 giugno 2015 Sarebbe bello che il 2 giugno tornasse ad essere una celebrazione senza tanti fasti guerrieri e con più sobrietà civile. Ma c'è da legittimare l'aumento della spesa militare: tra F35, fregate Fremn e sommergibili, verranno spesi oltre 20 miliardi di euro nei prossimi anni. Il 2 giugno si festeggia la Repubblica (più precisamente l'anniversario del referendum che segna il passaggio dell'Italia da un regime monarchico ad un ordinamento repubblicano) e non la nazione e la patria, che sono cose ben diverse, più vaghe e anche più discutibili. Né tanto meno è la festa delle Forze Armate, che hanno il loro giorno di festa, il 4 novembre. Non si capisce perciò perché il 2 giugno i festeggiamenti della Repubblica siano in modo preponderante occupati - anche dal punto di vista dei costi, parliamo di alcuni milioni di euro - dalle esibizioni delle "frecce tricolori" e dalla sfilata di mezzi militari, soldati in armi ai Fori Imperiali, la via - giova sempre ricordarlo- voluta dal fascismo (allora si chiamava via dell'Impero) per ostentare il proprio "fulgore" militarista e imperialista. Che le "feste nazionali" (di varia tipologia) siano con retorica patriottarda ricordate "in armi" è purtroppo un'abitudine non solo italiana nell'occidente democratico (pensiamo alla Francia), ma è molto in voga anche (e soprattutto) tra i paesi autoritari, nazionalisti e dittatoriali. L'esibizione, l'ostentazione delle armi e della forza militare è un retaggio - di cui purtroppo non riusciamo a liberarci - che serve a darci una parvenza di orgoglio e sicurezza. Una sicurezza effimera in tempi di terrorismo internazionale, ma soprattutto in una situazione di crisi, come quella dell'Italia dove ci sono 6 milioni di persone che vivono in condizione di "povertà assoluta", più di 1 milione di cassintegrati e oltre 3 milioni di disoccupati. La Repubblica Italiana, ricordiamolo sempre, ha una sua Costituzione che dice all'articolo 1 di essere "fondata sul lavoro" e la festa di oggi purtroppo è all'insegna del "non lavoro" con il 13% di disoccupati di cui oltre il 44% tra i giovani. Una ben più concreta sicurezza - di quella in armi - sarebbe quella del lavoro, di un welfare che funziona, di un'economia che riprende a marciare. Si è cercato in questi anni - sulla spinta delle organizzazioni pacifiste - di cambiare almeno la concezione della "difesa" del paese introducendo il concetto di "difesa non armata". Si può "difendere" il paese anche con il servizio civile e la nonviolenza, senza bisogno di armi. 50mila cittadini hanno appena sottoscritto un progetto di legge di iniziativa popolare per introdurre la "difesa non armata" nel nostro ordinamento. Per questo è importante che nella stessa giornata della sfilata dei blindo e dei volteggi delle "frecce tricolori" la presidente della Camera Laura Boldrini ospiti 600 ragazze e ragazzi in servizio civile nell'aula di Montecitorio, spendendo solo qualche migliaia di euro. Ma a parte questo gesto simbolicamente importante, il 2 giugno sarà purtroppo in modo preponderante all'insegna delle armi. Che senso abbia spendere alcuni milioni di euro per una sfilata militare non si capisce. O forse sì. A parte la retorica nazionale sempre da rinfocolare, una ragione è proprio quella della legittimazione dell'aumento della spesa militare ed in particolare degli investimenti nei sistemi d'arma: tra F35, fregate Fremn, sommergibili, ecc. oltre 20 miliardi di euro nei prossimi anni. Investimenti di cui sono contente l'industria bellica, le società e i consulenti che sul business delle armi hanno fatto in questi anni la loro fortuna. E un'altra ragione è la ricerca del consenso per le tante operazioni militari all'estero, nel segno di un ruolo sempre più interventista delle nostre Forze Armate. Sarebbe bello che il 2 giugno tornasse invece ad essere veramente la festa della Repubblica, senza tanti fasti guerrieri e con più sobrietà civile. Una Repubblica che ha tra i suoi principi fondamentali il "ripudio della guerra" (articolo 11) e che si festeggia facendo sfilare i mezzi che servono a farla la guerra rischia di perdere il suo fondamento, le sue radici. Altri invece sono i valori a mettere al centro di questa giornata: il lavoro, la democrazia ed i diritti, la pace. Giustizia: Simspe; nelle carceri italiane due persone su tre affette da patologie Adnkronos, 2 giugno 2015 È allarme salute per i detenuti negli istituti penitenziari italiani: 2 su 3 sono malati, nel 48% dei casi per malattie infettive, il 32% ha disturbi psichiatrici. L'epatite colpisce 1 detenuto malato su 3, mentre sono in riduzione i sieropositivi per Hiv. È la fotografia scattata dagli esperti Società italiana di Medicina e sanità penitenziaria (Simspe) per la tutela delle condizioni di salute dei detenuti italiani per il congresso nazionale che si aprirà mercoledì a Cagliari. Sono 199 gli istituti penitenziari aperti, con una capienza totale di 49.493, nonostante i detenuti presenti siano 53.498, per un sovraffollamento di 4.628, che equivale ad un +8,1%. I detenuti stranieri rappresentano il 32,6% del totale, pari a 17.430, mentre le donne sono 2.309, ossia il 4,3%. Secondo l'indagine, che sarà presentata durante il congresso, almeno una patologia è presente nel 60-80% dei casi. Questo significa che almeno due persone su tre sono malate. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%). Una situazione che, nonostante l'appello della Simspe si è fatta portavoce negli ultimi anni, non ha sortito l'effetto sperato. Gli ultimi dati sulle epatiti, infatti, hanno rilevato la presenza di un malato di questa patologia ogni tre persone residenti in carcere. Mentre sono in calo i sieropositivi per Hiv. "Bisogna ricordare che il paziente detenuto di oggi, è il cittadino libero di domani - afferma Sergio Babudieri, presidente della Simspe. Tutte le informazioni di tipo scientifico ed epidemiologico, sia in Italia che all'estero, indicano sempre lo stesso punto, ossia che in carcere si concentrano persone che hanno comportamenti di vita che sono a rischio dell'acquisizione di una serie di malattie non solo infettive, ma anche di tipo metabolico, come ad esempio obesità, fumo, alcolismo; da ciò si evince evidentemente che il carcere è un ambito in cui la sanità pubblica può più facilmente intercettare persone che, una volta invece diluite nella popolazione generale, è più difficile incontrare, anche perché per il loro stile di vita spesso non hanno il bene salute nei primi posti della loro scala dei valori". La popolazione detenuta in Italia è cresciuta negli ultimi dieci anni dell'80% - ricordano i medici penitenziari - La maggior parte delle carceri ha dei tratti comuni: bagno e cucina nello stesso locale, cambio di lenzuola ogni 15 giorni, bagno alla turca o water separati gli uni dagli altri da un muretto alto appena un metro, strutture fatiscenti. Il personale è insufficiente, gli assistenti sociali sempre meno del necessario. L'assistenza sanitaria, come si può facilmente intuire da questo quadro, può risultare spesso di pessima qualità. "Bisogna ricordare che il paziente detenuto di oggi, è il cittadino libero di domani - chiosa Babudieri. Tutte le informazioni di tipo scientifico ed epidemiologico, sia in Italia che all'estero, indicano sempre lo stesso punto, ossia che in carcere si concentrano persone che hanno comportamenti di vita che sono a rischio dell'acquisizione di una serie di malattie non solo infettive, ma anche di tipo metabolico, come ad esempio obesità, fumo, alcolismo; da ciò si evince evidentemente che il carcere è un ambito in cui la sanità pubblica può più facilmente intercettare persone che, una volta invece diluite nella popolazione generale, è più difficile incontrare, anche perché per il loro stile di vita spesso non hanno il bene salute nei primi posti della loro scala dei valori". Infine, secondo l'indagine della Simspe, che ha studiato i singoli casi dei detenuti che si sono sottoposti a test e controlli (circa il 56%), il tasso di trasmissione stimato dalle persone positive all'Hiv consapevoli si aggira tra l'1,7% e il 2,4%. Molto più alto, quasi 6 volte superiore, quello stimato dalle persone Hiv positive inconsapevoli, che raggiunge il 10%. Giustizia: incidente di Roma; arrestati i due fuggitivi, trovati grazie alla madre di Domenico Palesse Ansa, 2 giugno 2015 Erano nascosti tra i cespugli, in una distesa d'erba a pochi chilometri di distanza da casa, dalle baracche e roulotte del campo della Monachina. Avevano ancora i segni dell'incidente, i vestiti strappati e qualche escoriazione sul corpo. All'arrivo degli agenti si sono consegnati, hanno smesso di fuggire. Prima di andare davanti al magistrato si sono lasciati andare in un pianto disperato, di chi sa di aver commesso un crimine orrendo. Da cinque giorni i due fratelli fuggitivi, responsabili dell'incidente mortale di mercoledì sera nel quale ha perso la vita la filippina Corazòn Abordo, si erano volatilizzati nel nulla. A rintracciarli, prima ancora della polizia, è stata la madre al termine di una lunga notte passata tra le sterpaglie che avvolgono la periferia ovest della Capitale, tra Casal Lumbroso e Massimina. "Li ho trovati", ha detto alla figlia mentre il sole cominciava ad albeggiare. Ora il 19enne si trova nel carcere di Regina Coeli, mentre il 17enne - marito della coetanea arrestata a poche ore dall' incidente - è stato portato in un centro di prima accoglienza. L'accusa nei loro confronti è quella di omicidio volontario in concorso. Ma le indagini della Squadra Mobile non sono ancora terminate. Non è esclusa, infatti, la presenza di una quarta persona a bordo dell'auto-killer. La notizia dell'arresto arriva in mattinata, confermata in pochi minuti dal ministro dell'Interno Angelino Alfano che, ringraziando le forze dell'ordine, chiarisce fin da subito che alla guida dell'auto "sembra ci fosse" il minorenne. Informazione confermata poi nel pomeriggio dal capo della Squadra Mobile, Luigi Silipo, durante un'affollatissima conferenza stampa in cui ripercorre l'intera vicenda, ribadendo che i due si sono avvalsi della facoltà di non rispondere davanti ai pm. Contrastanti le reazioni da parte della famiglia della filippina uccisa, con il fratello che già in mattinata aveva cercato di avvicinarsi al campo della Monachina per spiegare ai familiari dei ragazzi di "non provare odio". "Siamo pronti al perdono - ha spiegato -. Il dolore c'è ma poi passerà con l'aiuto del Signore". La cognata della vittima, invece, chiede che i responsabili dell'incidente non vengano rilasciati "altrimenti lo rifaranno". Al campo sull'Aurelia, invece, la sorella dei due arrestati chiede più volte perdono. "I miei fratelli hanno sbagliato ed ora è giusto che pagino", dice con le lacrime agli occhi. Il sindaco della Capitale, Ignazio Marino, ribadisce che "chi vive al di fuori della legge non può trovare spazio nella nostra città e nel nostro Paese", confermando che il Comune si costituirà parte civile nel processo. Immancabile monta la polemica politica, con il vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, che chiede "un processo per direttissima" e poi "si getti via la chiave, com'è giusto che sia". Dello stesso tenore le dichiarazioni del collega e leader della Lega Nord, Matteo Salvini. "Galera per loro, e per i Campi Rom...ruspa", scrive su Facebook. Sabato, intanto, si celebreranno i funerali di Cory, come la chiamavano gli amici. Si terranno a pochi passi da dove mercoledì la folle corsa di un'auto in fuga dalla polizia ha messo fine alla sua giovane vita. Giustizia: Toto Cuffaro; su di me calunnie, lasciatemi finire di scontare pena in pace Adnkronos, 2 giugno 2015 "Trovo meschino e calunnioso quanto riportato su una persona che, rispettosa della giustizia, sta scontando la sua pena e sta vivendo all'interno di un carcere, privato della propria libertà. Mi rivolgerò all'autorità giudiziaria". È quanto scrive in una lettera, dal carcere di Rebibbia, l'ex Presidente della Regione siciliana, Salvatore Cuffaro che annuncia una querela nei confronti dei giornali che hanno scritto delle visite cosiddette sospette e dei presunti favori in carcere nei confronti dell'ex Governatore, che sta scontando una pena a 7 anni di carcere per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. Ci sarebbero diversi indagati, tra cui il sottosegretario Simona, Vicari dopo le visite in carcere. "Mi rivolgerò all'autorità giudiziaria per fare valere le mie ragioni e ho chiesto all'amministrazione del carcere di Rebibbia di valutare l'opportunità di fare altrettanto a tutela dell'immagine dell'istituito di pena e dell'operato dei suoi funzionari e agenti", scrive ancora Cuffaro. "Sin dal primo giorno in cui mi presentai spontaneamente e per tutti i 1.620 giorni di detenzione non ho mai ricevuto né tanto meno chiesto favoritismi - scrive Cuffaro in una lettera affidata al suo legale, l'avvocato Maria Brucale - vivo in una cella da quattro con altri detenuti dove abbiamo circa 2,70 metri calpestabili a testa e ho la possibilità di fare soltanto due telefonate al mese di 10 minuti ciascuna e solo quattro ore di colloquio mensili. Nonostante ciò, non mi sono mai lamentato e ho sempre vissuto la vita detentiva adeguandomi a ciò che mi veniva imposto". E ricorda: "Non mi è stato concesso neppure un permesso di 24 ore per far visita a mia madre malata che ha 92 anni". E sulle visite dei parlamentari in carcere: "I parlamentari e le persone a loro seguito che fanno le visite nelle carceri sono sempre accompagnati da un funzionario dell'amministrazione (vice direttore) e dagli agenti di polizia penitenziaria; quando parlano con i detenuti gli agenti e il funzionario sono presenti e ascoltano la conversazione, ed intervengono interrompendo se si parla di argomenti non attinenti al carcere. Tutto ciò - precisa Cuffaro - è avvenuto in maniera più precisa e rigorosa nei miei confronti. È vero, ho ricevuto le visite di moltissimi parlamentari di quasi tutti i partiti, così come ho scritto nei miei libri, sono state solo e sempre brevi visite, dall'esclusivo ma pregnante significato e valore umano". "Quando si è nella sofferenza - scrive Cuffaro - ogni segno di umana sensibilità è sacro. Non ho mai parlato con nessuno della tutela del mio patrimonio, non avevo e non ho motivo per farlo. Quello che ho è frutto del mio lavoro e di quello di mia moglie, è tutto documentabile, non ho nulla da nascondere e meno che mai ho cose nascoste". E conclude: "Essendomi stato tolto da oltre un anno il vitalizio, quello che ho lo sta usando la mia famiglia per vivere e pagare 500 mila euro in parte per risarcire la regione siciliana. Hanno scritto cose non vere, hanno speculato sul senso di umanità e hanno calpestato la mia dignità". "Chiedo soltanto di lasciarmi finire di scontare la mia pena in pace e spero si ponga fine a questa continua gogna mediatica", si sfoga. Domiciliari negati, nell'istanza di sospensione il rigetto va motivato di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2015 Corte di cassazione - I sezione penale - Sentenza numero 23443/2015. Il giudice che rigetta una richiesta di sospensione dell'esecuzione della pena per grave infermità, deve dare conto della scelta con una motivazione compiuta e non generica che consenta la verifica dei passaggi logici della scelta effettuata. Questa la massima che si può trarre dalla sentenza 23443 del 1° giugno 2015 della Corte di cassazione. La vicenda riguarda un detenuto - fine pena previsto nel 2019 - che nell'aprile 2014 chiede i domiciliari per ragione di salute in quanto nel 2010 aveva subito un doppio trapianto di cornea a cui "era seguita la perdita di funzionalità dell'occhio sinistro, a causa delle cure inadeguate nel regime detentivo". Il tribunale di sorveglianza di Catania, nel giugno 2014, rigettava l'istanza. Ma per la Corte di cassazione non in modo corretto. Il giudice di merito, infatti, per i giudici di legittimità avrebbe dovuto "operare un bilanciamento di interessi tra le esigenze di certezza e indefettibilità della pena, da una parte, e la salvaguardia del diritto alla salute e a un'esecuzione penale rispettosa dei criteri di umanità, dall'altra, al fine di individuare la situazione cui dare la prevalenza". Nel caso in oggetto, la decisione di rigetto risultava troppo generica non riportando né la patologia subita dal detenuto né facendo riferimento concreto al contenuto della relazione sanitaria - manca anche la data - o al contenuto delle consulenza di parte. Da qui la decisione di annullare l'ordinanza del tribunale di sorveglianza disponendo un nuovo esame. Falso in bilancio, salve le valutazioni per i procedimenti in corso di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2015 L'entrata in vigore, dal 14 giugno prossimo, delle nuove false comunicazioni social i (a seguito della pubblicazione sulla "Gazzetta Ufficiale" 124 del 30 maggio della legge 27 maggio 2015, n. 69, la cosiddetta legge anti corruzione) propone il problema dell'eventuale applicazione del favor rei per i casi di modifiche delle condotte più favorevoli rispetto a quelle vigenti. Poiché l'articolo 2 del Codice penale prevede che nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali, potrebbe in astratto verificarsi che le nuove modifiche siano tali da ritenere abrogate le precedenti previsioni penali, con la conseguenza che tutte le violazioni commesse in passato non sarebbero più perseguibili. Infatti, in base al comma 3 della stessa disposizione, se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo. Con la sentenza 25887 del 16 giugno 2003 le Sezioni unite hanno affrontato le implicazioni della successione nel tempo delle modifiche sul falso in bilancio, proprio come potrebbe verificarsi ora. Nello specifico, un contribuente condannato per falso in bilancio ricorreva deducendo che, a seguito dell'entrata in vigore della nuova disciplina sui reati societari (al tempo Dlgs 61/2002) nel fatto addebitatogli non erano più ravvisabili gli elementi previsti dalle nuove fattispecie di false comunicazioni e che, pertanto, avrebbe dovuto pronunciarsi un proscioglimento non essendo più il fatto previsto dalla legge come reato. Nella circostanza le Sezioni unite hanno chiarito il criterio da seguire per la soluzione delle questioni di successione di leggi penali nel tempo. Perché un fatto rimanga punibile occorre non solo che lo stesso sia tale in base alla nuova legge ma anche che la nuova fattispecie costituisca reato già in base alla legge precedente (altrimenti, si avrebbe un'applicazione retroattiva della nuova legge, in contrasto, oltre che con l'articolo 2, comma 1 del Codice penale, anche con l'articolo 25, comma 2 della Costituzione). In sostanza, ai fini dell'operatività del comma 3 dell'articolo 2 del Codice penale, ovvero affinché non vi sia una totale abolizione del reato previsto dalla disposizione formalmente sostituita (oppure abrogata con la contestuale introduzione di una nuova disposizione collegata alla prima) è necessario che la fattispecie prevista dalla legge successiva sia punibile anche in base alla legge precedente, rientri cioè nell'ambito della previsione di questa. Nel caso delle norme in vigore dal 14 giugno, si è in presenza di un generale inasprimento delle condotte (che quindi non possono avere effetto retroattivo), ma per alcuni aspetti si verifica un'abolizione parziale pro reo, in quanto sono ipotizzabili alcune condotte che, sanzionabili in passato, ora non sono più penalmente perseguibili. Ne consegue che questi fatti - non essendo più punibili per la legge posteriore - restano assoggettati alla regola del favor rei e quindi eventuali procedimenti pendenti dovrebbero concludersi con la formula assolutoria perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Da un confronto tra le fattispecie penalmente rilevanti, prima e dopo le modifiche normative, emerge che nella nuova versione sono escluse le valutazioni. Mentre in passato infatti la condotta era caratterizzata dall'esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero "ancorché oggetto di valutazioni", in futuro la tutela penale riguarderà esclusivamente l'esposizione di fatti materiali "rilevanti" non rispondenti al vero. E ancora, per quanto concerne la condotta omissiva, il delitto vigente fino al 14 giugno fa riferimento all'omissione di "informazioni" la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in futuro invece la rilevanza penale è affidata all'omissione di fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge. Emerge quindi che eventuali false rappresentazioni connesse alle valutazioni o ancora omissione di informazioni (differenti da fatti materiali) non sono più perseguibili in futuro. Analogo beneficio potrebbe trarsi dalla norma sulla particolare tenuità. E infatti, prima delle modifiche, la tenuità doveva essere valutata alla luce dei principi di carattere generale di questo istituto ex articolo 131 bis del Codice penale. Ora, invece, il nuovo articolo 2621 ter prevede espressamente che il giudice debba valutare prevalentemente a fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto l'entità del danno cagionato alla società, ai soci o a i creditori. Durata irragionevole, nei giudizi sullo status il limite scende di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2015 Corte di Cassazione - Sezione VI civile - Sentenza 20 gennaio 2015 n. 909. Ai fini dell'equa riparazione per durata irragionevole, il giudizio concernente lo status della persona è soggetto ad un parametro temporale ridotto in quanto il procedimento incide sul diritto al rispetto della vita privata e familiare. La durata ragionevole per tali procedimenti è di 2 anni e 7 mesi e il danno liquidato non può essere inferiore a 1000 euro per ogni anno di ritardo. Lo ha affermato la Cassazione con la sentenza 909/2015. Il caso - La vicenda che ha dato l'occasione ai giudici di fornire queste precisazioni trae origine da un giudizio civile per il riconoscimento dello status di rifugiato, instaurato presso il Tribunale di Roma e conclusosi dopo ben 4 anni e 4 mesi. I legali del cittadino straniero avevano chiesto così alla Corte d'appello competente il giusto risarcimento per la durata irragionevole del procedimento. I giudici di merito avevano valutato in 3 anni la durata ragionevole del giudizio e, dunque, per l'eccedenza di 1 anno e 4 mesi, avevano liquidato un danno non patrimoniale pari a 1000 euro, applicando il criterio di liquidazione secondo cui per ogni anno sono previsti 750 euro. La ragionevole durata nei giudizi concernenti lo status della persona - I legali del rifugiato non concordavano con le valutazioni fatte dalla Corte d'appello e chiedevano così ai giudici di legittimità di pronunciarsi in merito all'esatta individuazione del parametro temporale per considerare ragionevole la durata del procedimento relativo allo status di persona, nonché dei criteri di liquidazione del danno. E la Cassazione accoglie le tesi dei ricorrenti su entrambi i fronti. In primo luogo, per quel che concerne l'individuazione della durata ragionevole del processo con riguardo ai casi relativi allo status di persona, i giudici di legittimità richiamando un precedente della Corte europea di diritti dell'Uomo riguardante proprio il nostro Stato (caso Laino c/o Italia) affermano che la delicatezza della materia richiede "un particolare grado di diligenza ed efficienza in ossequio ai principi convenzionali del c.d. speedy trial, con riduzione del parametro di durata ragionevole del processo", che può individuarsi in 2 anni e 7 mesi. In secondo luogo, per quel che concerne la quantificazione del danno da irragionevole durata del giudizio, la Cassazione ricorda che il giudice può sì discostarsi dai parametri indicati dalla Corte di Strasburgo e liquidare somme inferiori, purché pertinenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese; ma tali importi non possono essere irragionevoli, soprattutto quando si è in presenza di interessi in gioco particolarmente rilevanti, come appunto quelli relativi allo status di persona. Di conseguenza, i giudici ritengono più adeguato incrementare l'ammontare del danno riconoscendo 1000 euro per ogni anno dopo il limite dei 2 anni e 7 mesi. Impugnazione, termini agganciati alla prima notifica anche se perfezionata per seconda Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione VI civile - Sentenza 1° giugno 2015 n. 11333. Nel caso in cui la notifica della sentenza sia fatta al domicilio irritualmente eletto dal difensore operante fuori dal circondario e, in seguito, anche presso la cancelleria dell'autorità giudiziaria adita, ed entrambe si perfezionino, il termine breve per l'impugnazione decorre dalla prima delle due notifiche effettuate dal notificante, anche se dal punto di vista del destinatario essa si è perfezionata per seconda. Lo ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza 11333/2015 affermando un principio di diritto ed accogliendo il ricorso di Gse (Gestore dei servizi energetici). Il caso - La vicenda riguarda una richiesta di risarcimento danni da parte di un consumatore calabrese a seguito di una black out di due giorni. Il Giudice di pace di Chiaravalle aveva rigettato la domanda nei confronti di Enel distribuzione ma l'aveva accolta nei confronti del Gestore di rete. Proposto appello, il tribunale di Catanzaro l'aveva giudicato tardivo rispetto alla notificazione della sentenza effettuata presso la cancelleria del giudice di pace, in applicazione dell'articolo 82 Rd 37/1934, per avere nel giudizio di primo grado i difensori eletto domicilio a Catanzaro e non nel comune sede del giudice di Pace. Il tribunale, infatti, aveva ritenuto che "altra notificazione - eseguita presso quel domicilio e perfezionatasi per il notificante prima di quella avvenuta presso la cancelleria e per la destinataria invece dopo il momento di perfezionamento della stessa - fosse stata nulla e, dunque, inidonea a far decorrete il termine breve dell'appello sì da potersi considerare tempestivo l'appello con riferimento ad essa". La motivazione - Una valutazione errata come chiariscono i giudici di Piazza Cavour. Infatti spiega la sentenza: "In tema di notificazione della sentenza ai fini del decorso del termine breve di impugnazione, quando il difensore agente al di fuori del circondario di iscrizione, avendo eletto domicilio in un comune diverso da quello sede dell'ufficio giudiziario adito, si debba considerare ex lege domiciliato presso la cancelleria ai sensi dell'art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, si deve ritenere che tale domiciliazione, essendo prevista nell'interesse della controparte, comporti a carico di quest'ultima non già l'obbligo, ma solo la facoltà di notificare presso la cancelleria, potendo a sua scelta anche notificare presso il domicilio (sebbene irritualmente) eletto". Non essendovi un obbligo, "ne consegue che, qualora detta parte eserciti quest'ultima scelta con l'attivazione del procedimento notificatorio presso il domicilio irritualmente eletto, si deve considerare che abbia rinunciato ad avvalersi della possibilità di notificazione presso la cancelleria, potendo tale possibilità recuperarsi solo se il procedimento notificatorio così attivato non risulti perfezionato nei confronti del destinatario". Da tanto, dunque, deriva che, "se la notificazione della sentenza sia stata eseguita dal punto di vista del notificante presso il domicilio irritualmente eletto e solo in un momento successivo (e, dunque, non coevamente, cioè con attività di richiesta risultante unico actu, in modo che il destinatario possa percepire tale dato) sempre dal punto di vista del notificante, presso la cancelleria ed entrambe le notifiche si perfezionino dal punto di vista del destinatario, la notifica idonea a far decorrere il termine breve è solo la prima, ancorché nei confronti del destinatario si sia perfezionata dopo l'altra, dato che l'attività notificatoria a quest'ultima relativa è stata compiuta senza che ve ne fosse la facoltà, che era stata per fatto concludente rinunciata". Il creditore può ottenere l'autorizzazione per la verifica sulle banche dati del debitore di Christian Faggella Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2015 I poteri di indagine telematica attribuiti all'ufficiale giudiziario nell'esecuzione a carico del debitore (articolo 19 del Dl 132/2014 convertito nella legge 162/2014) denotano un livello apprezzabile di consapevolezza sulla necessità di dare immediata certezza su dove promuovere l'esecuzione e sulla capienza del debitore. La scelta di demandare all'ufficiale giudiziario (su richiesta del creditore e previa autorizzazione del Tribunale) la facoltà di effettuare una vera investigazione informatica mediante accesso alle banche dati pubbliche e/o accessibili alla Pa risponde alla ratio di attribuire un potere ritenuto particolarmente invasivo a un apparato statale anziché al privato. Su questa scelta si può discutere, mentre sembrano oggettivi gli spunti di riflessione sui pro e i contro di questa previsione. Tra i vantaggi quello principale è sicuramente la funzione di supporto al creditore nell'assumere una decisione fondata e consapevole se, dove e su quali beni promuovere l'esecuzione. In teoria l'applicazione puntuale del sistema di investigazione statale prevista dalla norma dovrebbe garantire una benefica (per il creditore) contrazione di tempi/costi e l'assunzione di decisioni mirate (anche a vantaggio del debitore nullatenente). Le controindicazioni paiono però nettamente maggiori dei vantaggi e tali da comportarne la sostanziale disapplicazione. Da un lato infatti il sistema non risulta funzionale alla mole di esecuzioni promosse nei tribunali. Secondo il legislatore, il creditore dovrebbe per ciascuna pratica presentare istanza al tribunale che, a sua volta, dovrà rilasciare autorizzazione in carta bollata. Dall'altro lato queste previsioni non tengono conto del fatto che nella prassi il creditore non attende l'avvio dell'esecuzione per attivarsi nella verifica sulla consistenza patrimoniale del debitore. Lo stesso legislatore è consapevole di come la figura dell'ufficiale giudiziario dotato di sistemi informativi e infrastrutture telematiche idonee sia una chimera, viste le carenze strutturali degli apparati della giustizia, e ciò vale anche per le strutture degli uffici che dovrebbero fornire questo servizio di intelligence. In questo caso il Governo ha facoltizzato al "fai da te" il creditore, che potrà venire autorizzato ad accedere direttamente alle banche pubbliche. Ciò apre la strada ad una interessante sinergia con gli info provider privati, che potrebbero sopperire al gap della Pa efficientando un sistema che, altrimenti, appare destinato a restare lettera morta. Lettere: diritto di lesa trattativa di Giovanni Fiandaca (Ordinario di Diritto penale all'Università di Palermo) Il Foglio, 2 giugno 2015 I dubbi di un giurista progressista di fronte alla foga dell'ex procuratore Caselli: è ancora consentito ragionare (criticamente) a partire dal processo a stato&mafia? Non so se devo ringraziare Gian Carlo Caselli per l'attenzione che mi ha dedicato sul Fatto di venerdì scorso, commentando un mio precedente articolo (pubblicato sul Foglio di due giorni prima) a proposito della bocciatura da parte del Tar Lazio della nomina del nuovo procuratore capo di Palermo. Come ho infatti sperimentato anche in passato, il suo stile intellettuale di dogmatico possessore della verità e il suo mai dismesso atteggiamento di soldato sabaudo in combattimento permanente effettivo, impegnato in continue guerre sante sino al punto di perdere la lucidità necessaria a comprendere quel che realmente pensano quelli che non la pensano come lui, non facilitano certo il confronto reciproco. Forse, non potrebbe essere diversamente. La mia mente è abituata a coltivare maggiormente l'analisi critica, senza utilizzare per amor di tesi giochini argomentativi fondati sulla manipolazione interpretativa delle idee altrui. Ciononostante, confesso che continuo a stimare Caselli per il notevole contributo da lui fornito alla lotta alla mafia e aggiungerei - se lui me lo permette - che nei suoi confronti provo in qualche modo e misura anche un sentimento di amicizia. E lo provo pur ricordando che, già una ventina d'anni addietro, andai incontro alle sue risentite reprimende perché ebbi l'estremo ardire - come relatore a un convegno nazionale sulle esigenze di riforma della legislazione antimafia - di prospettare l'ipotesi che fosse opportuno definire meglio per legge i presupposti dell'indeterminato concorso esterno. Scandalo, apriti cielo: come si permetteva uno studioso accademico di avanzare ipotesi che rischiavano di delegittimare le indagini e i processi per concorso esterno che in quel periodo la procura di Palermo gestiva proprio sotto la guida caselliana? L'abitudine di Caselli di censurare l'altrui libertà di pensiero (e anche scientifica!) in nome di quelle che egli ritiene le superiori esigenze contingenti della macchina repressiva, e in nome della sacrosanta necessità di evitare qualsiasi critica (a suo giudizio) oggettivamente delegittimante l'azione giudiziaria, è dunque risalente e consolidata. Ciò a insistita, partigiana e quasi ossessiva difesa delle inchieste giudiziarie gestite o dirette non solo da lui, ma anche da altri magistrati d'accusa che hanno collaborato con lui o che egli in qualche modo considera suoi eredi spirituali o seguaci ideologici. In questo senso, Caselli potrebbe essere paragonato a una sorta di barone universitario che difende ai concorsi i propri allievi diretti o indiretti. Ma una simile preoccupazione di parte, che ha una lunga tradizione nella vita accademica, può essere automaticamente trasferita all'universo magistratuale? Come che sia, sta di fatto che l'obiettivo non tanto riposto dell'articolo caselliano critico nei miei confronti risulta essere -ancora una volta - quello di sostenere la superiorità del candidato alla direzione della procura palermitana da lui prediletto (cioè Guido Lo Forte, attuale procuratore capo a Messina ed ex procuratore aggiunto filocaselliano a Palermo) ma, ciononostante, posposto dal Csm al vincitore Francesco Lo Voi. E la prova di questa contingente preoccupazione strategica è data dal fatto che il Nostro ha dichiarato piena adesione a duella parte del mio articolo in cui affermo che l'organo di autogoverno dei giudici, nel preferire il meno titolato Lo Voi ai due più titolati concorrenti Lo Forte e Lari (quest'ultimo procuratore a Caltanissetta ma estraneo al cerchio magico caselliano), avrebbe violato i suoi consueti canoni di giudizio attitudinale. Fin qui, ammette esplicitamente Caselli, sono del tutto d'accordo con Fiandaca. In quale parte il mio argomentare invece non gli è andato a genio, sino al punto di falsarne spudoratamente il senso (ma è compatibile una così accentuata tendenza manipolatrice con quel minimo di obiettività che chi è stato per decenni magistrato, sia pure del pubblico ministero, dovrebbe essere deontologicamente educato a mantenere?). Non gli è andata a genio, e non a caso, quella parte del mio ragionamento in cui poteva riaffiorare quell'atteggiamento critico da me più volte manifestato rispetto alle modalità di conduzione del controverso processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia. Peraltro questo mio atteggiamento critico, lungi dall'essere isolato, è - com'è noto - condiviso da molti esperti (inclusi non pochi magistrati) e osservatori esterni (tra i quali giornalisti, anche stranieri, di indiscussa fama). E qual è il paradosso, qual è la contraddizione che finisce col colorare di opportunismo cangiante le stesse prese di posizione caselliane? È stato, in precedenza, Caselli in persona a scrivere che quella sulla trattativa è "un'inchiesta molto difficile e tormentata, della quale è legittimo ragionare in termini anche piuttosto critici" (cito tra virgolette dall'articolo di Gian Carlo Caselli intitolato "Tiro all'Ingroia sport nazionale", pubblicato sul Fatto del 15 giugno 2013). A distanza di due anni, il Nostro ha finito col cambiare opinione per polemizzare con Fiandaca? Anche per il fatto che anch'io (come lui) sono stato componente del Csm, Caselli non può certo impartirmi insegnamenti sulle competenze di quest'organo. So bene infatti che l'organo di autogoverno non può entrare nel merito dei processi in corso, come quello che si sta svolgendo a Palermo sulla cosiddetta Trattativa, per sindacarne o orientarne l'andamento sotto il profilo giuridico e processuale. Sicché, quando io ho scritto che il Csm avrebbe dovuto in teoria avere da tempo il coraggio di fare un processo al processo sulla Trattativa, doveva risultare abbastanza chiaro per un lettore in buona fede e minimamente avveduto che si trattava di un'espressione da intendere in senso non letterale e compatibile con le attribuzioni specifiche del Csm. Come ho più volte spiegato, il tema della trattativa non mi ha mai interessato come evento storico-politico o come evento giudiziario considerati in se stessi: piuttosto, esso funge per me da laboratorio di riflessione che esemplifica con particolare evidenza fenomeni e tendenze giudiziali di portata più ampia, e della cui legittimità alla stregua dei princìpi di fondo della giustizia penale, della deontologia professionale del magistrato e, più in generale, del principio della divisione dei poteri tipico dello stato di diritto è più che legittimo dubitare. È in questo ampio e articolato quadro che ritengo che non sarebbero affatto mancati i presupposti per interventi da parte del Csm (a cominciare da quello precedente a questo) volti a verificare le effettive competenze professionali o la correttezza deontologica o la compatibilità con i princìpi costituzionali di non pochi comportamenti, soprattutto, extraprocessuali di alcune ben note figure di magistrati coinvolti nella gestione ed esasperata strumentalizzazione politico-mediatica di un processo che, come quello sulla Trattativa, mai fu forse così simile a un lunghissimo romanzone d'appendice a puntate o a un'interminabile telenovela popolare. Guai, dunque, a farlo davvero finire! Ma, al di là di questa iper-mediatizzazione tradottasi anche in parallele ricostruzioni cinematografiche e rappresentazioni teatrali prospettanti come vera quella Trattativa ancora sub indice, tra i comportamenti magistratuali meno ortodossi basti ricordare le continue esternazioni televisive, i quasi giornalieri interventi giornalistici e le ripetute orazioni politiche di un notissimo procuratore aggiunto (già proteso verso l'impegno politico diretto!) nei congressi di partito o in altre pubbliche adunanze. Tutti comportamenti extragiudiziari legittimi e, come tali, insindacabili da parte di un Csm rispettoso della libertà di pensiero e di espressione degli stessi magistrati? Non scherziamo con le cose serie. Circa vent'anni fa, Gaetano Silvestri - illustre costituzionalista insospettabile di preconcetta sindrome anti-giudici, ex componente del Csm e oggi presidente emerito della Corte costituzionale - in un libro dedicato ai rapporti tra giurisdizione e ordinamento costituzionale osservava che lo straripamento politico-mediatico dei magistrati, quale ad esempio si manifestava nelle già frequenti esternazioni su indagini e processi in corso o in critiche pubbliche rivolte a partiti o uomini politici, avesse ormai raggiunto (si noti: si era all'anno 1997!) proporzioni tali da provocare "una vera e propria emergenza costituzionale". Cosa si è fatto in quest'ultimo ventennio per arginare un'emergenza che, al contrario, è andata sempre più aggravandosi anche nelle forme di un esasperato populismo politico-giudiziario? È probabile che un magistrato d'impronta pubblicamente combattente come Caselli, e tuttora combattente a dispetto del pensionamento, continui a essere portatore di un'ideologia di ruolo che lo induce a dissentire da un drammatico grido d'allarme come quello profeticamente lanciato dal giurista (anch'egli democratico e di sinistra) Gaetano Silvestri. Ma, come Caselli dovrebbe una buona volta riconoscere, si può essere e rimanere giudici o giuristi progressisti senza pensarla necessariamente allo steso modo: senza per questo farsi guerre d'aggressione e di difesa, o essere inquadrati per dogma di fede o decreto di Dio tra gli amici o i nemici della verità e del bene comune. E sarebbe bello poter continuare a ragionare e anche polemizzare, senza che l'interlocutore critico si chieda ossessivamente a quale dei candidati in lizza per un posto direttivo presente o futuro un certo tipo di ragionamento possa giovare. Ultima, forse non superflua precisazione: Lo Voi, Lo Forte e Lari sono tutti magistrati d'accusa eccellenti anche se con caratteristiche diverse, e tutti idonei a dirigere la procura palermitana. Prescegliere l'uno o l'altro può essere, al limite, questione di gusti. I veri problemi sul tappeto sono altri e riguardano il modo d'atteggiarsi, oggi, del rapporto tra giurisdizione e sistema democratico. Caro Gian Carlo Caselli, ne vogliamo discutere seriamente e con atteggiamento non troppo prevenuto? Milano: tossicodipendente dopo 18 anni in cella, è "dipendenza psichica", mai superata? Corriere della Sera, 2 giugno 2015 Affido terapeutico. Dal 1997 il trafficante non era mai uscito un giorno dal carcere. Il pg della Cassazione: "Da capire se si tratti di dipendenza psichica, mai superata". Dalle 9 alle 17, dal lunedì al venerdì, il narcotrafficante di ‘ndrangheta, dopo 18 anni ininterrotti di carcere su quasi 27 di pena, fa "lavori socialmente utili allo sportello sociale della Croce Rossa", poi "fa rientro nell'abitazione" della compagna nell'hinterland, e si sottopone a "colloqui psicosociali e controlli sanitari": è il suo programma di "affidamento terapeutico", misura alternativa al carcere concessagli - adesso nel 2015 - in quanto "certificato tossicodipendente" alla cocaina nel 2012. Anche se dal 1997 non è mai uscito un giorno dal carcere. Al punto che ora la Procura Generale ricorre in Cassazione contro l'affidamento, chiedendo di verificare che "lo stato di tossicodipendenza non sia preordinato al conseguimento del beneficio". Pur vicino come data, il caso è diverso da quello recente di Giulio Lampada, il boss di ‘ndrangheta che il Tribunale del Riesame ha appena dichiarato "incompatibile" con qualunque tipo di luogo detentivo (carcere, ospedale o comunità protetta), disponendo dunque che sconti 14 anni e mezzo ai domiciliari nella sua villa. Assolto dall'associazione mafiosa, è in un contesto di ‘ndrangheta che Antonio Bruzzaniti, 59 anni, l'8 maggio 1997 comincia a scontare i definitivi 25 anni e 10 mesi di condanna per traffico di eroina in concorso con turchi. Da allora non è mai uscito di prigione, perché i permessi-premio gli sono preclusi dal tipo di reato e una richiesta di detenzione domiciliare è respinta nel 2007. Il suo iniziale "fine-pena 2023" si è però abbreviato a "fine 2017" perché 1 anno e 4 mesi sono stati cancellati dall'indulto del 2006, mentre oltre 4 anni (per l'esattezza 1.440 giorni) gli sono stati abbuonati in virtù dell'ordinario istituto della "liberazione anticipata" (45 giorni guadagnati ogni 180 espiati). Tuttavia Bruzzaniti lascia il carcere di Bollate pochi giorni fa, anziché a fine 2017, perché il Tribunale di Sorveglianza (dopo un primo no del magistrato Beatrice Crosti il 4 marzo 2013), gli concede l'"affidamento terapeutico", previsto dalla legge se a dover scontare un residuo di pena sotto i 6 anni (o sotto i 4 anni nel caso siano presenti reati ostativi) è un detenuto tossicodipendente. E il nodo, per Bruzzaniti che ha da scontare ancora 2 anni e mezzo, sta qui: il ricorso del pg Laura Gay rileva come "l'equipe del carcere il 2 aprile 2015 per la prima volta" abbia "evidenziato la problematica tossicomanica" del detenuto (entrato in carcere 41enne nel 1997) in termini di "uso di cocaina fin dalla giovane età, con conseguente avvicinamento nel mondo della droga"; e come "il 24 aprile 2015 la relazione della Asl di Milano presso il carcere", abbia "attestato la presenza del condannato a Bollate dal 5 novembre 2011 (proveniente da Voghera) e la sua dichiarazione di tossicodipendenza da cocaina di quel periodo, con conseguente presa in carico da parte del Sert", alla quale seguì "nel 2012 la certificata tossicodipendenza del condannato". Di essa il pg ravvisa "la singolarità", visto che "parliamo di soggetto detenuto da 18 anni, tossicodipendente dichiarato nel 2012. Non è dato capire, né il Tribunale di Sorveglianza" (nell'ordinanza redatta dalle giudici Crosti e Marina Corti) "ha approfondito e motivato sul punto, se si tratti di dipendenza fisica (e ciò significherebbe assunzione di cocaina durante la detenzione) o di dipendenza psichica, non superata in tutti questi 18 anni di detenzione, esistente quindi fin dall'ingresso in carcere". Chi lavora tutti i giorni dentro il carcere propone un'altra lettura. A fare la differenza, infatti, sarebbe la qualità dell'assistenza, cioè la (rara) presenza o meno nelle carceri di stabili servizi specializzati, capaci di riconoscere la condizione di tossicodipendenza, spesso taciuta altrove da detenuti ai quali in carceri senza servizi potrebbe arrecare più problemi che benefici. Bollate, come altre carceri a Milano, gode invece di assistenza e di personale stabili dell'Asl, che in media in un anno tratta 3.000 persone, e altre 600 ne contatta direttamente in Tribunale alle "direttissime". È questo ente pubblico ad attestare casi (come parrebbe quello in questione) di detenuti la cui struttura della personalità e le cui esperienze passate appaiono tali da lasciar prevedere con ragionevole certezza che, una volta fuori cella e senza rete terapeutica, tornerebbero a sviluppare una dipendenza cronica e recidivante. Bollate (Mi): con Rosie e Bible dietro le sbarre per un diploma da dog-sitter di Antonella Mariotti La Stampa, 2 giugno 2015 Nel carcere di Bollate i detenuti seguono un corso speciale: "Così speriamo di rifarci una vita quando usciremo". "Ho perso qualcosa che non ho mai avuto". Vito Catorre ha 51 anni e nel carcere di Bollate è entrato già da un po'. Ricorda: "Fuori avevo dimestichezza con gli animali. Lo sai che addestravo le oche? A me gli animali piacciono e un giorno, fuori di qui, vivrò in campagna con tanti animali". Ore 13,05: inizia un po' in ritardo la lezione del corso da dog sitter che fa parte del progetto "Cani dentro e fuori". Bible, con i suoi bigodini che tengono in ordine il pelo, entra deciso e allegro insieme con Rosie. Lui è un barboncino bianco di sei anni, abituato ai comandi e a rispondere a un addestratore. Lei è un levriero Greyhound, "salvata" dalle corse inglesi, usata più come fattrice per cuccioli che come corridore. È timida e si guarda intorno spaurita. Mentre si attraversa il corridoio verso la sala predisposta per le lezioni, un detenuto si ferma per accarezzare Bible: "Sai che sono 10 anni che non tocco un cane?". Si piega, quasi si inginocchia e Bible risponde come fa sempre con tutti. Fa le feste e si "cappotta" a pancia all'aria. Quanta pet therapy può servire per rimettere insieme una vita in frantumi? A Bollate ci sono stati anche i corsi per gli animali che curano. E alcuni studenti, che ogni giovedì incontrano veterinari, istruttori ed educatori per diventare dog sitter diplomati, hanno seguito anche quel tipo di lezioni. Tra gli studenti c'è Otis Opoku Ackah. Ha 34 anni ed è rinchiuso qui dal 2007. Bible quasi scompare tra le sue braccia: "Io, in Ghana, avevo tanti animali. Due cani, un gatto, le capre. Ora sono contento di avere di nuovo degli animali intorno. Cosa penso di fare dopo? Magari posso imparare così bene il dog sitting che potrò insegnarlo". Intanto Francesca Pirrone (veterinaria all'Università di Milano) e Moreno Sartori (educatore cinofilo) hanno fatto alcune riprese nel giardino della casa di reclusione: faranno parte, insieme con i video delle lezioni, di una ricerca universitaria. Ora, nel quarto reparto della sezione maschile, l'aula è pronta per i 18 studenti. Rosie si accomoda sul cuscino e con Bible, Celestino Marini, istruttore, mostra alla classe come si insegna il "seduto". Bible è abituato. Risponde ai comandi e poi gira tra le sedie e i banchi a ringraziare. L'attenzione si concentra quindi su Rosie, che sembra triste. La veterinaria spiega: "Ha sempre vissuto in una gabbia a fare cuccioli, tanto che ha problemi alle zampe". Cala subito un silenzio irreale. La lezione continua. Sono previste quattro ore ogni giovedì, due ore di pratica e due di teoria, fino a novembre. L'obiettivo è il primo "Diploma da dog sitter" d'Italia approvato dallo Csen, il Centro sportivo educativo nazionale del Coni. "Io ce li avevo i cani a casa, ma erano cani diversi, a volte ero a disagio con loro...": quando parla, a Fabrizio Fadda, 29 anni, vengono in mente animali che fanno paura. E aggiunge: "Non pensavo mi avrebbero preso. Ho fatto domanda - sorride - e ora sono qui. Sono contento. Sono sposato, ho un figlio e magari, fuori, con quel diploma troverò un lavoro". Durante la lezione entra in classe Claudio, lo stalliere di Bollate, perché in questo carcere si può anche imparare ad avere cura dei cavalli. "Qui non si capisce mai chi aiuta chi", sorride Nicolò Vergagni, etologo e biologo, con una faccia che sembra uscita da un seminario e non da una cella: "Questi animali - dice -, una volta alla settimana, riescono a togliere la sofferenza che c'è qui dentro". Lecce: laboratorio teatrale "Io ci provo", in scena i detenuti di Borgo San Nicola di Elena Carbotti ilpaesenuovo.it, 2 giugno 2015 Si chiuderà con la messa in scena di "Happy Birthday Barbablù", spettacolo per la regia di Paola Leone, il laboratorio teatrale rivolto ai detenuti della sezione maschile della "Casa circondariale Borgo San Nicola" di Lecce "Io ci provo". Dopo una serie di appuntamenti sia dentro che fuori il carcere, il laboratorio si conclude con il primo studio di un lavoro che continuerà anche dopo queste prime date. Happy Birthday Barbablù è un tentativo di legare la fiaba alla vita vera; è un lavoro che parte dai sette vizi capitali per sfiorare, rivedere e reinterpretare la fiaba del temibile Barabablù. Lo spettacolo andrà in scena mercoledì 3 giugno solo per i detenuti e per gli studenti e le studentesse delle scuole superiori. Giovedì 4 e venerdì 5 le due "repliche" saranno riservate al pubblico (che ha prenotato nelle scorse settimane) e alla stampa. In particolare, per la prima volta, nell'ultima data la Casa Circondariale di Lecce che sostiene il progetto con tutte le sue forze, aprirà le porte agli ospiti esterni anche di sera. Venerdì il sipario si aprirà infatti alle 20 per un orario davvero inconsueto per un carcere. Il progetto di Factory Compagnia Transadriatica, sostenuto dalla Chiesa Valdese e patrocinato da Regione Puglia, Provincia di Lecce, Comune di Lecce e Teatro Pubblico Pugliese, è ormai un appuntamento atteso in città. Da quattro anni, il laboratorio teatrale cerca di pensare e praticare il carcere non come luogo di esclusione e marginalizzazione di problemi, ma come spazio in cui è possibile ridefinire forme. Io ci Provo è una modalità di agire l'arte, è uno stare dentro le cose in un certo modo, non è solo un'attività didattica o di recupero come molti pensano. Io ci Provo è un altro modo di immaginare il mondo e concretizzarlo nella pratica di vita. Il progetto teatrale guarda verso quello che viene considerato un problema, come una risorsa inespressa, nascosta, risorse indispensabili per migliorare la comunità. La pratica del teatro come pratica di vita mai incontrata prima, che rende visibile l'invisibile. Molti sono i successi avuti in questi ultimi anni anche grazie alla presenza del progetto nella candidatura di Lecce Capitale Europa della Cultura 2019. "Ogni anno Io ci Provo aggiunge qualcosa al suo percorso e ci fa entrare in un mondo che va oltre l'immaginabile, - sottolinea Paola Leone - Nessuno di noi si sarebbe aspettato il grande successo del lavoro che la nostra compagnia di detenuti ha portato avanti attraverso incontri teatrali nelle scuole superiori. Ancora meno ci saremmo aspettati di poter avviare la sperimentazione di una drammaturgia collettiva. La drammaturgia dello spettacolo - prosegue la regista, è stata affidata al pubblico stesso, alle persone comuni, veri protagonisti del mondo contemporaneo, attraverso un contest chiamato Noi ci Proviamo che invitata tutti a scrivere sui sette vizi capitali. Questo lavoro darà alla luce una pubblicazione integrale di tutti i testi arrivati e del testo finale dello spettacolo. Al contest hanno partecipato più di 50 persone da tutta Italia". Il progetto Io ci provo, iniziato nel 2005 con i detenuti del carcere di Taranto, negli anni è cresciuto, si è sviluppato e trasformato, fino ad acquisire una maggiore chiarezza rispetto agli obiettivi da perseguire e una maggiore consapevolezza delle potenzialità del teatro all'interno del carcere. Oggi il progetto presente dal 2011 nel carcere di Lecce mira alla valorizzazione del rapporto tra individuo e gruppo, al recupero della relazione e delle relazioni, al superamento della polarità sempre più accentuata tra individuo e collettività, alla promozione del teatro come forma artistica e culturale capace di realizzare la sua vocazione storica di luogo di costruzione e formazione di una cittadinanza attiva, capace di includere, promuovere e valorizzare le differenze. Trani: amichevole di calcio tra detenuti e rappresentanza dell'Oratorio Anspi Carica traniviva.it, 2 giugno 2015 Giovedì 4 giugno, a Trani, presso la Casa Circondariale di Trani, alle ore 15.00, si disputerà una singolare partita di calcio tra una selezione di detenuti della "sezione Italia" e rappresentati dell'Oratorio Circolo Anspi Carica operante presso la Parrocchia Spirito Santo di Trani dal 1988. L'amichevole tra i detenuti e i giovani dell'oratorio è organizzata in occasione dell'inaugurazione del nuovo campetto da calcio, voluto dall'Amministrazione Penitenziaria, al fine di migliorare il benessere della popolazione detenuta. Sarà un'occasione importante per creare un ponte d'amicizia e di dialogo con i detenuti, in vista di un reinserimento nel contesto sociale. L'oratorio ha proprio l'obiettivo di "creare ponti" di solidarietà, di condivisione, di amicizia, attraverso molteplici forme e linguaggi come lo sport sano e corretto. "Siamo incoraggiati - afferma il presidente dell'Oratorio Anspi Carica don Mimmo Gramegna - dalle parole di Papa Francesco ai detenuti di Poggioreale nello scorso marzo: ‘Ci sono alcune esperienze buone e significative di inserimento. Bisogna lavorare su questo, sviluppare queste esperienze positive, che fanno crescere un atteggiamento diverso nella comunità civile e anche nella comunità della Chiesa. Alla base di questo impegno c'è la convinzione che l'amore può sempre trasformare la persona umana. E allora un luogo di emarginazione, come può essere il carcere in senso negativo, può diventare un luogo di inclusione e di stimolo per tutta la società, perché sia più giusta, più attenta alle personè. Ringrazio il Cappellano, Don Raffaele Sarno, per aver pensato all'Oratorio Carica Spirito Santo, per realizzare l'evento". Le donne migranti che pagano con la violenza il bene della libertà di Patrizia Caiffa agensir.it, 2 giugno 2015 Nel deserto africano o nelle carceri libiche, la maggioranza delle donne che viaggiano sole, o con mariti fragili non in grado di proteggerle, subiscono molestie e violenze sessuali. Moltissime le gravidanze indesiderate. Anche i minori non accompagnati, gli adolescenti maschi, subiscono violenze. Testimonianze sconvolgenti. Eppure, non tornerebbero indietro Sono tantissime le donne che arrivano incinte sulle coste italiane dopo aver fatto il viaggio sui barconi rischiando la vita. Se sono sole, senza un marito o un compagno, tra gli operatori impegnati nei soccorsi scende il gelo. C'è una sola domanda diretta che non possono mai fare: "Sei stata vittima di violenza?". Purtroppo, però, con il tempo, e con l'assistenza di psicologi e mediatori culturali, le storie drammatiche escono fuori. Nel deserto africano o nelle carceri libiche, la maggioranza delle donne che viaggiano sole, o con mariti fragili non in grado di proteggerle, subiscono molestie e violenze sessuali. E non solo le donne. Anche i minori non accompagnati, gli adolescenti maschi. Nel 2014 ne sono arrivati ben 12mila. Chi esercita il potere durante i "viaggi della speranza", trafficante o "smuggler" che sia (la distinzione è tra chi usa la coercizione nella tratta di esseri umani o coloro ai quali i migranti si affidano in maniera consapevole), abusa della propria supremazia sui più deboli. Per non parlare delle forze di polizia nei centri di detenzione libici dove vengono rinchiusi gli immigrati irregolari. Gli uomini vengono picchiati e torturati. Le donne subiscono violenze. Unica, flebile, possibilità di sfuggire a questo tragico destino è riuscire ad organizzare forme di protezione, quando partono con i mariti o con una piccola comunità. Testimoni e protagonisti dell'orrore. Un recente rapporto di Amnesty International denuncia gli abusi nei centri libici. "Ci picchiavano con i tubi di gomma, non risparmiavano neanche le donne incinte - racconta una testimone. Di notte entravano nelle nostre stanze e cercavano di dormire con noi. Alcune di noi sono state stuprate e una è rimasta incinta. Ecco perché ho deciso di partire per l'Europa: ho sofferto troppo in prigione". In altri casi le donne vengono rapite da trafficanti e bande criminali. Chi non è in grado di pagare il riscatto viene obbligato a fare sesso in cambio del rilascio o del permesso di proseguire. "Il trafficante aveva tre donne eritree - dice una testimone -. Le ha violentate, loro piangevano. È successo almeno due volte". Una donna nigeriana ha raccontato di essere stata vittima di uno stupro di gruppo da parte di 11 uomini appartenenti ad un gruppo armato appena arrivata nella città di Sabha: "Ci hanno portato fuori città, nel deserto. Hanno legato mio marito ad un palo per le mani e le caviglie e mi hanno stuprato davanti ai suoi occhi". Anche Tareke Brhane, eritreo, presidente del Comitato 3 ottobre, quando descrive i suoi cinque terribili anni di viaggio tra carcere, deserto e mare ricorda che "le donne erano tutte stuprate davanti ai nostri occhi, anche le mamme e sorelle". Si sa di ragazze eritree che prima di partire, vagamente informate dei rischi del viaggio, sono costrette ad assumere contraccettivi per evitare gravidanze indesiderate. Anche se in realtà, da indagini realizzate tra i profughi, nessuno avrebbe mai immaginato che il viaggio sarebbe stato così duro. Eppure la percentuale di chi non tornerebbe indietro è altissima: la situazione di partenza nel Paese da cui partono spesso è ancora peggiore. Aumenta il clima di violenza. "Negli ultimi tempi dai racconti degli uomini emerge un aumento esponenziale del clima di violenza", spiega Alessandra Diodati, direttore sanitario dei progetti di assistenza migranti della Croce rossa italiana: "I migranti vengono spinti a salire sui barconi sotto la minaccia delle pistole, anche con il mare grosso, con le onde forza 8. Botte e torture agli uomini, violenze sessuali sulle donne". Al momento dello sbarco le donne incinte vengono prese in carico dal sistema di accoglienza ed inizia un percorso delicatissimo. "Importante è creare un clima di fiducia e rispetto profondo, in modo tale che le donne siano libere sulle decisioni da prendere - precisa Diodati. Il punto critico sono i servizi sanitari: abbiamo delle eccellenze, come il San Camillo di Roma, con psicologhe preparate che seguono queste donne. Ma a volte nei piccoli centri non c'è una mediazione culturale in grado di garantire certi standard di assistenza". Se la donna denuncia di essere stata trafficata e di aver subito violenza allora ha diritto alla protezione internazionale. "Ma dovrà rivivere il dramma raccontando tutto davanti alla Commissione territoriale, alla polizia, eccetera". In alcuni Cara (Centri per l'accoglienza dei richiedenti asilo) le donne in gravidanza partecipano anche a corsi di preparazione al parto insieme alle italiane, oppure usufruiscono di kit di materiali per mamma e bambino. Sono comunque situazioni difficili, e l'aiuto all'inserimento sociale e all'integrazione dipende molto dalla qualità dell'accompagnamento personalizzato che ricevono. Ciò che rimarrà per sempre, saranno le ferite invisibili, profonde, nell'anima. Le politiche comunitarie sui flussi migratori, breve storia della "guerra giusta" di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 2 giugno 2015 Le politiche comunitarie sui flussi migratori nel Mediterraneo assumono il volto di un'operazione militare paradossalmente giustificata da motivi etico-morali. Ma "chi dice umanità cerca di ingannarti", diceva già Carl Schmitt nel 1927. Le decisioni comunitarie sulla gestione dei flussi migratori e il contrasto ai trafficanti sembrano sempre più divenire il pretesto per una ennesima operazione bellica in Libia, quasi a voler completare con la sempreverde motivazione umanitaria il lavoro lasciato a metà con l'eliminazione di Gheddafi. L'idea della guerra agli scafisti, però, se comporta non pochi problemi di tattica militare, quali il rischio drammatico della perdita di civili, in particolare dei migranti stessi, offre anche una possibile motivazione a livello di Consiglio di Sicurezza Onu che tenga conto dell'attuale diritto internazionale. Infatti, in questo caso, saremmo di fronte ad un'azione contro dei "nemici del genere umano", e dunque la casistica rientrerebbe felicemente nell'ambito della "guerra giusta", come nel caso dei pirati somali. Questo formalismo giuridico, oramai acquisito dai tempi della guerra in ex Jugoslavia, ha una storia che va brevemente riassunta, per capire quanto violenta sia stata la torsione esercitata dagli interessi forti sul diritto internazionale dei diritti umani, tale da giustificare con esso vere e proprie azioni militari. La "guerra giusta" era in origine di carattere religioso, dunque risale ai tempi precedenti la Pace di Vestfalia quando imperava lo jus gentium medievale e la concezione universalistica del potere teocratico-imperiale. Dopo la fine della Guerra dei trent'anni si era affermato invece lo Stato moderno europeo, sovrano sia all'interno del proprio territorio, sia verso l'esterno, affrancato dall'autorità del pontefice romano e dunque estraneo alla dottrina medievale del bellum justum, la guerra giusta. A questo principio si sostituiva il riferimento all'eguale sovranità degli Stati attraverso il formalismo giuridico dello justus hostis, il nemico giusto, principio che attribuiva legittimità formale ad ogni guerra interstatale condotta da sovrani europei, riconosciuti titolari di eguali diritti, incluso il diritto di fare guerra. Secondo Carl Schmitt questo passaggio aveva introdotto, tra l'altro, una netta distinzione fra il "nemico formalmente giusto", altri stati, e il nemico "criminale", ribelli o pirati. In questo modo il nemico "ingiusto" era passibile di sanzioni punitive di carattere penale, quando non della tortura e dell'uccisione sommaria. Dopo qualche secolo, in opposizione a tutto questo, l'affermarsi della concezione universalista promossa dagli Stati Uniti dopo il primo conflitto mondiale - la loro entrata in guerra contro la Germania nel 1917 con la motivazione che questa fosse "nemica dell'umanità" - rilancia una nozione nella quale risuonano decise implicazioni etico-morali che, dunque, si sostituiscono al concetto giuridico di justus hostis per tornare a quello di guerra giusta, seppur secolarizzato. E qui arriviamo alla situazione odierna: wer Menschheit sagt, will betrügen: chi dice umanità cerca di ingannarti, dice Schmitt già nel 1927 per esprimere il concetto che, se uno Stato, o un insieme di Stati, combattono il loro nemico in nome dell'umanità, la guerra che conducono non è automaticamente una guerra dell'umanità, anzi, cercano semplicemente di impadronirsi di un concetto universale per potersi identificare con esso a spese del nemico. Ma c'è di più: utilizzare questo concetto nel corso di una guerra significa tentare di negare al nemico ogni qualità umana, dichiararlo hors-la-loi e hors-l'humanité, in modo da poter usare nei suoi confronti metodi non convenzionali. In questo senso, dice ancora Schmitt, il termine "umanità" con il suo aggettivo "umanitario" diventa particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche. E dunque, conseguentemente, la guerra che si profila all'orizzonte non sarà soltanto una guerra "giusta" perché umanitaria, ma assumerà la forma di una permanente azione di polizia internazionale che userà legittimamente le armi contro i "nemici dell'umanità", nel nostro caso i trafficanti di esseri umani, paragonati più volte ai pirati ed ai negrieri, senza tenere conto della grande distinzione tra chi trafficava schiavi, cioè gente che non voleva essere espiantata dal suo territorio, e chi invece traffica quanti cercano un destino migliore spinti da ciò che si lasciano alle spalle. Nella premessa all'edizione italiana di una raccolta di suoi saggi, Le categorie del politico, del 1971, Schmitt si esprime in termini ancora più espliciti: "Oggi l'umanità è intesa come una società unitaria, sostanzialmente già pacificata; al posto della politica mondiale dovrebbe quindi instaurarsi una polizia mondiale. A me sembra che il mondo di oggi e l'umanità moderna siano assai lontani dall'unità politica. La polizia non è qualcosa di apolitico. La politica mondiale è una politica molto intensiva, risultante da una volontà di pan-interventismo; essa è soltanto un tipo particolare di politica e non certo la più attraente: è, cioè, la politica della guerra civile mondiale". Ecco come l'individuazione dei trafficanti come nemici dell'umanità giustificherà una ennesima azione bellica, naturalmente non risolutiva, ma che permetterà, nelle intenzioni della politica dell'azione umanitario-bellica, di ristabilire il controllo sul territorio libico, anche per impedire che le nostre coste vengano invase dai migranti e dunque fermarli sulla sponda sud del Mediterraneo che così si allargherà sempre più per contenere i morti che questa binomio di mancata accoglienza e azione militare inevitabilmente produrrà. Fondazione Moressa: stranieri ai margini della città, Venezia al settimo posto in Italia di Gianluca Codognato La Nuova Venezia, 2 giugno 2015 Secondo la Fondazione Moressa a penalizzarci sono l'eccessiva differenza di reddito tra migranti e italiani e la percentuale di detenuti di altri Paesi (62 su cento). Forti squilibri nel quartiere Piave. Venezia a rischio banlieue, l'area periferica dei grandi agglomerati urbani che in Francia è sinonimo di scontro sociali? Per certi versi sì, se non si riuscirà a gestire il fenomeno immigrazione con lungimiranza e intelligenza. La nostra città, che conta su oltre 31mila residenti stranieri (il 12% della popolazione, fra cui 16,8% moldavi, il 15,3% bangladeshi e il 12,9% romeni), deve scongiurare la ghettizzazione, già avviata in certi quartieri come via Piave e zone limitrofe e utilizzare il giusto mix di repressione ed inclusione sociale. Secondo una recente indagine della Fondazione Leone Moressa, infatti, nella classifica dei capoluoghi italiani nei quali la marginalizzazione dell'immigrato è più presente, Venezia è settima, posizione non lusinghiera, frutto soprattutto di due fattori: la differenza fra l'Irpef versata dagli italiani e quella versata da stranieri, che è superiore ai 2.300 euro e denota l'eccessiva differenza di reddito fra immigrati e italiani. E la percentuale dei detenuti stranieri fra i totali, che è del 62%, inferiore solo a Roma e Trento. Non risulta particolarmente positivo neppure il numero di persone con la cittadinanza italiana, 17 ogni mille stranieri. Eppure, nel nostro territorio la spesa riservata a immigrati e nomadi è inferiore solamente a quella investita nella capitale, anche se, sfatando un luogo comune che vede gli stranieri in testa alla spesa per i servizi sociali, per immigrati e rom si utilizza in realtà una somma di poco superiore ai 4milioni e 700 mila euro (nel Veneziano), cioè il 3,5% dei circa 135milioni e 200mila euro riservati in generale al sociale. L'indagine della Fondazione si concentra anzitutto su quattro componenti: l'inclusione sociale, l'integrazione economica, la criminalità e la spesa pubblica. Partiamo dall'inclusione. Venezia può contare su un dato confortante: la percentuale di donne straniere è elevata (54,4%). Di contro, pochi immigrati residenti nel nostro territorio hanno la cittadinanza italiana e questo è un problema. L'integrazione economica considera il tasso di disoccupazione degli immigrati, che non è elevato: l'11,9%. Più preoccupante la differenza fra la media dell'Irpef versata dagli italiani rispetto a quella degli stranieri: 2.353 euro. La criminalità è presente, non c'è dubbio. Tanto che ogni cento detenuti nelle carceri veneziane, 62 sono stranieri e su 100 reati 40 sono commessi da immigrati. Alla fine, a Venezia il rischio banlieue è forte. "La nostra indagine", spiegano i ricercatori della Fondazione Leone Moressa, "misura il rischio di marginalizzazione degli immigrati nelle città italiane. Mettendo in relazione la condizione socio economica della popolazione straniera con i tassi di criminalità e con gli investimenti pubblici per l'integrazione, è possibile valutare quanto nelle nostre città sia alto il rischio di marginalizzazione e, di conseguenza, di disagio e devianza: laddove le condizioni socio-economiche degli immigrati sono più precarie, si accentuano i conflitti sociali dando vita a "quartieri ghetto", fortemente a rischio. In particolare le città del Nord mostrano gli squilibri più forti tra italiani e stranieri sotto questi punti di vista. Per quanto riguarda, infine, la città di Venezia, il capoluogo veneto rientra fra i 30 comuni capoluogo di provincia più a rischio. Una situazione dovuta principalmente al differenziale di imposta Irpef versata e alla forte presenza di detenuti stranieri nelle carceri". Australia: quando investire in istruzione e lavoro invece che nelle prigioni conviene di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 giugno 2015 Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, è oggi in Australia per chiedere al governo di assumere una decisa iniziativa per porre fine alla sproporzionata presenza di minorenni aborigeni e dell'isola di Torres Strait nelle carceri del paese. La popolazione carceraria dei minorenni nativi, anche di 10 anni di età in contrasto con gli standard internazionali, è 24 volte superiore a quella dei minori di 18 anni non indigeni. Fuori dal carcere i minorenni nativi costituiscono meno del 6 per cento della popolazione australiana nella fascia di età tra 10 e 17 anni. Dentro il carcere, la percentuale sale al 58 per cento, la più alta degli ultimi 20 anni. Il governo australiano ha il dovere di garantire la sicurezza a tutti, ma l'idea che la soluzione preferita possa essere quella di sbattere in carcere dei ragazzini è aberrante. Anche perché ci sono delle alternative. Nello stato australiano del Nuovo Galles del Sud sta avendo successo un progetto chiamato "Just reinvest", un'attualizzazione di una tradizione aborigena denominata Maranguka. L'obiettivo è di ridurre i tassi di incarceramento dei minorenni, investendo gli stanziamenti destinati alle prigioni in stanziamenti per le comunità, attraverso l'individuazione delle cause profonde della criminalità, l'identificazione dei punti deboli della catena del crimine, la costruzione di percorsi educativi insieme alle comunità e alle autorità locali e l'aumento del reddito per le famiglie più povere. In "Just reinvest" sono coinvolti tutti: la polizia del Nuovo Galles del Sud, l'Istituto federale e quello statale di statistica, i servizi per la salute, l'alloggio, l'istruzione e l'impiego, le istituzioni competenti sulle questioni aborigene, associazioni locali ed enti benèfici. Non si tratta di sprecare denaro, ma di cambiargli destinazione: ogni anno di carcere per un minorenne costa allo stato circa 440.000 dollari. Potrebbero essere investiti in istruzione e lavoro. Un'utopia? In Texas, Usa, tra il 2007 e il 2012 un progetto analogo ha ridotto di 2.800 persone la popolazione carceraria inferiore ai 18 anni di età, determinando la chiusura di otto carceri minorili. In quel periodo, i tassi di criminalità sono risultati i più bassi dal 1974. Gli esempi del Texas e del Nuovo Galles del Sud dimostrano che investire in diritti anziché in politiche repressive costa di meno e può dare, nel lungo periodo, migliori risultati in termini di sicurezza. Israele: fino a 10 anni di carcere per i palestinesi che lanciano pietre a soldati e coloni di Michele Giorgio Il Manifesto, 2 giugno 2015 Il governo Netanyahu ha approvato la proposta della ministra della giustizia Ayelet Shaked di inasprire la pena per chi scaglia sassi anche se non può essere provata l'intenzione di provocare danni alle auto in transito e alle persone. Il ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ieri a Gaza: situazione esplosiva. Sono state immediate le proteste palestinesi per le prime due proposte della nuova ministra israeliana della giustizia, l'ultranazionalista Ayelet Shaked, in discussione in questi giorni alla Knesset. La prima riguarda l'inasprimento delle pene per chi lancia pietre contro soldati israeliani e auto di coloni ebrei, la seconda è volta a proibire l'uso dei telefoni cellulari ai detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. "Ridicole, senza senso, inaccettabili", le definisce così Jawad Boulos, avvocato del Club dei Prigionieri Palestinesi. "Da sempre - spiegava ieri ai giornalisti - i telefonini sono proibiti in prigione. Questa misura perciò è volta solo a soddisfare il desiderio di pugno di ferro della destra israeliana". L'uso del cellulare da parte dei detenuti politici palestinesi è finito al centro dell'attenzione dopo che un noto comandante militare di Hamas, Abdallah Barghouti, condannato a vari ergastoli, grazie a un telefonino introdotto nella sua prigione, ha rilasciato un'intervista alla radio del movimento islamico. Barghouti è stato poi messo in isolamento e ha iniziato lo sciopero della fame in segno di protesta. Dove la ministra Shaked ha mostrato appieno il suo approccio muscolare è sulla questione delle pene più severe per chi lancia pietre contro i militari e i veicoli israeliani. Domenica il governo Netanyahu ha approvato la proposta della ministra della giustizia di portare fino a 10 anni di carcere la pena per chi scaglia sassi - i palestinesi - anche se non può essere provata l'intenzione di provocare danni alle auto in transito e alle persone. "La nuova proposta sul lancio delle pietre mira a modificare il concetto del reato: non saranno più i giudici a stabilire l'intenzionalità del sospetto ma si darà per assodato il proposito di fare del male a priori", ha spiegato l'avvocato Boulos ricordando che già oggi il lancio di pietre durante le manifestazioni è punito con una pena tra i tre e gli otto mesi. L'inasprimento appena deciso, in attesa dell'approvazione della Knesset, tuttavia non è una iniziativa originale di Shaked, perché già nella passata legislatura la ministra centrista Tzipi Livni, considerata una pacifista dai governi occidentali, aveva proposto addirittura 20 anni di carcere, se provata l'intenzione di causare danno da parte dell'imputato. Intanto ieri Gaza è tornata in primo piano e non solo per il fermo in mare e la successiva detenzione di cinque pescatori palestinesi da parte di una motovedetta israeliana. Al termine della sua visita a questa piccola parte del territorio palestinese - durante la quale non ha incontrato rappresentanti di Hamas - il ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha detto di aver trovato una situazione esplosiva, che va affrontata anche con aiuti economici ed investimenti e, quindi, con la piena riapertura dei valichi di confine. Capo della diplomazia del più stretto alleato europeo di Israele, Steinmeier ha evitato qualsiasi critica a Tel Aviv per le distruzioni causate dai suoi bombardamenti la scorsa estate su Gaza. Accompagnato da funzionari dell'Unrwa, l'agenzia delle Nazioni Unite che assiste i profughi palestinesi, il ministro degli esteri è entrato a Shajayea una delle zone più devastate dagli attacchi aerei e di artiglieria. Quindi ha visitato una scuola dell'Unrwa e, infine, è andato al porto di Gaza. Secondo alcune voci, Steinmeier potrebbe essere stato latore di un messaggio relativo a un eventuale scambio di prigionieri. Hamas detiene i resti di due militari israeliani. Stati Uniti: bocciata la proroga del Patriot-Act, svolta garantista o anti-governo? di Andrea Lavazza Avvenire, 2 giugno 2015 È uno dei trade-off (gli "scambi" mai alla pari) tipici delle democrazie. Se si vuole più sicurezza garantita dallo Stato, i cittadini avranno meno libertà personale e privacy. Quando si pretende poca invasività nelle proprie vita da parte degli apparati pubblici, saremo maggiormente esposti alle minacce dei criminali o dei terroristi. Non si è trovata finora una via d'uscita dal dilemma: se sale un bene prezioso - la sicurezza, ne diminuisce un altro, ugualmente apprezzato, cioè tutte quelle libertà legate al movimento e alla riservatezza. In un'epoca di terrorismo di massa, il trade-off si fa più spinoso. All'inizio sembra ovvio chiedere più tutela dalle minacce fisiche (essere vivi è la prima condizione per godere di tutti i beni politici). Ma nel momento in cui si capisce che il pericolo è circoscritto o non immediato e che qualcuno, pur al fine di proteggerci, ci intercetta costantemente a nostra insaputa, allora il pendolo torna a oscillare dalla parte opposta. E si chiedono garanzie per gli individui rispetto alle intrusioni dello Stato. Dopo l'11 settembre, gli Stati Uniti avevano optato decisamente per la prima opzione. Il Patriot Act di Bush era una legge che dava molta discrezionalità di azione alle Agenzie incaricate di prevenire gli attacchi esterni e interni. I risultati sono stati buoni (anche se non vi è controprova) e il "patriottismo" dell'America, pur sede eletta delle libertà civili e dell'individualismo, ha retto alle critiche di chi, con spirito più europeo, chiedeva un maggiore bilanciamento di diritti. Voci che sono però cresciute dopo lo scandalo Nsa (rivelato dalla talpa Snowden), ovvero il controllo a tappeto delle comunicazioni di un numero altissimo di cittadini statunitensi e di personalità estere, oltre che di sospettati su cui gravano indizi. Ma al Senato, l'altro giorno, si è consumato uno strappo significativo, seppure certo non definitivo. È stata bocciata la proroga proprio del Patriot Act. Come conseguenza, per avere dati sensibili di telefonia e Internet, la Nsa (ma anche l'Fbi) dovrà aspettare il varo definitivo della nuova legge, più garantista. Artefice della svolta Rand Paul, candidato alla Casa Bianca e paladino del ruolo minimo dello Stato nelle esistenze dei singoli. Rispetto al Partito repubblicano classico, orientato a "legge e ordine", è uno spostamento culturale che peserà anche in vista delle elezioni del 2016. Il centro-destra Usa non sarà tanto garantista quanto più individualista. Un dato da tenere a mente anche per noi europei. Ucraina: il caso dei 17mila "detenuti-ostaggio" nelle carceri delle terre contese di Antonio Bonanata Il Messaggero, 2 giugno 2015 Fra le tante conseguenze prodotte dalla guerra civile in Ucraina, che da più di un anno si combatte tra autorità governative e separatisti filorussi, c'è la sorte di quasi 20mila prigionieri rinchiusi nelle carceri dei territori contesi, ora auto-proclamatisi Repubbliche popolari. Stiamo parlando delle province che fanno capo a Donetsk e Luhansk, i due centri nevralgici di una vasta area, che occupa tutta la parte orientale del paese, e che dalla cacciata dell'ex presidente Vikctor Yanukovich ha conosciuto un succedersi di sconfinamenti da parte dell'esercito russo e di vittorie militari dei ribelli che hanno voltato le spalle a Kiev. Ed è proprio nelle 28 carceri di questi territori che tanti detenuti (si parla di 17mila persone), alcuni in attesa di giudizio, sono stati colti alla sprovvista dalla guerra, quasi abbandonati a loro stessi, in una sorta di limbo giuridico: ne ha parlato un reportage ripreso dal Guardian, inizialmente pubblicato in russo sul sito MediaZona. Coloro che non sono tecnicamente né colpevoli né innocenti ora si vedono costretti ad attendere tempi più tranquilli per una migliore definizione del proprio status. Nel frattempo, gli istituti penitenziari in cui sono rinchiusi, come la Colonia penale 57 di Michurino, nella Repubblica popolare di Donetsk, sono stati pesantemente bombardati e alcuni carcerati hanno addirittura perso la vita. "Ci hanno sbattuto in prigione e siamo piombati in una sorta di trincea" racconta uno dei detenuti. L'estate scorsa un attacco missilistico ha distrutto due blocchi della prigione, uccidendo sei persone e una guardia; per mesi, fino a poco tempo fa, nella prigione è mancata l'elettricità e l'acqua corrente; il cibo veniva portato dai parenti, gli unici a ricordarsi ancora di loro e ad occuparsene. Ogni contatto con la capitale si è interrotto da quando i separatisti hanno preso il potere: le autorità ritengono che coloro la cui pena sarebbe terminata entro l'estate del 2014 sono riusciti ad uscire (nonostante il conflitto fosse iniziato in primavera); gli altri sono stati trattenuti. "Saremmo dovuti passare dalla parte dei separatisti - spiega un altro prigioniero - ma non molti la pensano così. Per quanto ne sappiamo, la metà di quelli che l'hanno fatto sono morti, gli altri sono tornati indietro". L'aspetto più drammatico dell'intera faccenda riguarda quanti sono riusciti a uscire di prigione a conflitto armato in corso ma ora non hanno i documenti necessari per rifarsi una vita in Ucraina, dovendo fronteggiare svariate difficoltà. Fin quando la guerra durerà, spiegano le autorità di Kiev, non ci sono strumenti legali per risolvere lo status giuridico di questi detenuti. "Le uniche fonti di informazione sulle condizioni nelle carceri dell'est - dice un parlamentare ucraino, membro della Commissione sui diritti umani - sono le organizzazioni internazionali e i volontari". Una delle soluzioni al vaglio del governo è un'amnistia, che darebbe alle amministrazioni carcerarie la facoltà di liberare i prigionieri. Intanto, oltre le sbarre, la guerra continua.