Omicidio stradale e l'illusione che il carcere sia la medicina per ogni male Il Mattino di Padova, 29 giugno 2015 Sono tempi difficili, per chi vuole ragionare sul senso che dovrebbero avere le pene, perché l'illusione che il carcere sia la medicina per ogni male è sempre più diffusa. E così, il Parlamento sta discutendo dell'introduzione del reato di omicidio stradale, prevedendo pene enormi: carcere e solo carcere. Riportiamo allora le testimonianze di due detenuti, che ricordano quanto poco serve il carcere a far diventare migliori le persone, e aggiungiamo una piccola riflessione: in questi giorni, la soap opera di Rai Tre "Un posto al sole" racconta proprio di un giovanissimo ragazzo che alla guida di un'auto travolge un passante e fugge. Ecco, sarebbe bello se tante famiglie italiane, invece di immaginare sempre di avere un figlio vittima di un terribile incidente stradale, provassero a mettersi anche in altri panni, quelli di una famiglia perbene dove un figlio compie un gesto orribile e, preso dal terrore, non si ferma neppure a soccorrere la sua vittima. Prima di pensare ad aumentare le pene, facciamo sempre allora questa piccola operazione, di immaginare di "stare dall'altra parte", e se ci aiuta a farlo una soap opera, va bene anche quella. La madre di tutte le bugie: più carcere meno incidenti stradali "Con il passare degli anni in carcere il tempo ti fa dimenticare la libertà, ma non certo le persone che ami. E oggi ho pensato a mio fratello morto in un incidente stradale tanti anni fa investito da una macchina passata con il rosso". (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com) Avevo un fratello che si chiamava Italo. Molto più giovane di me. Gli volevo molto bene perché era quello che non ero riuscito a essere io. Non era per nulla d'accordo sulle scelte di vita che avevo fatto. E non perdeva mai l'occasione per dirmelo. Da me non accettava mai soldi o regali. Era tesserato nel partito di Rifondazione Comunista e s'era iscritto alla facoltà di giurisprudenza nell'Università di Pisa. Era, come si dice spesso in questi casi, un bravo ragazzo, tutto casa, partito, e università. Aveva tanti sogni, soprattutto voleva lottare per una società e un mondo migliore. In quegli anni anch'io li avevo, ma lui, a differenza mia, li voleva raggiungere senza infrangere la legge. Purtroppo i suoi sogni si sono infranti una mattina quando insieme alla sua moto è stato investito da una macchina passata con il rosso. E lui nonostante avesse il casco ha sbattuto con la testa sull'asfalto ed è morto sul colpo. Aveva appena ventidue anni. Non vi nascondo che in quel periodo ho desiderato ammazzare chi aveva ucciso mio fratello (e in quegli anni ero anche capace di farlo) ma incredibilmente non ho mai desiderato per lui la galera. Forse perché il senso di giustizia dei cattivi è diverso da quello dei buoni ed io in quegli anni ero molto cattivo o forse semplicemente perché ero già stato in prigione e mi ero subito accorto che il carcere non era la medicina ma era piuttosto la malattia. In questi giorni ho letto che al Senato della Repubblica è passato il disegno di legge che introduce nel nostro Codice penale il delitto di omicidio stradale che può essere punito da otto a dodici anni e in alcuni casi la pena può arrivare fino a diciotto anni di carcere. Adesso provo rabbia e indignazione per quei senatori che hanno approvato questo disegno di legge esclusivamente per il loro elettorato e per cercare consenso politico, dato che credo che sappiano benissimo che aumentando le pene non diminuiranno certo i morti per incidenti stradali. Ci hanno già provato molti paesi ad aumentare le pene per far diminuire i reati, ma si sono accorti che il carcere è criminogeno e produce solo criminali per il futuro. E già da molti anni io mi sono accorto che nelle nostre patrie galere i delinquenti, come me, stanno scomparendo perché trovo solo tossicodipendenti, poveracci, emarginati con problematiche mentali e sociali. Ebbene se questa legge sarà approvata, troverò anche ragazzi, giovani padri di famiglia, anziani, operai che arriveranno in carcere non per scelta di vita, ma per omicidio stradale colposo. Sì è giusto punire chi causa la morte di una persona in un incidente stradale, ma perché non farlo in maniera intelligente e utile per la società e per le vittime? Perché condannare una persona a stare chiusa in una cella a fare nulla per anni e anni e non condannarla piuttosto a lavori utili alla società o a un servizio nel locale Pronto Soccorso per fargli vedere con i loro occhi la sofferenza che causano gli incidenti stradali? Credo che in questo modo sarebbero puniti molto di più e si renderebbero conto del male che hanno fatto. Probabilmente a molti di loro gli farebbe uscire il senso di colpa e non si sentirebbero vittime, come accade spesso quando uno si trova in carcere. La verità purtroppo è che la maggioranza della società chiede giustizia, ma vuole soprattutto vendetta, e i politici lo sanno e stanno approvando questa cattiva, inutile legge. Carmelo Musumeci Più cattivi o migliori? In questi giorni mi chiedo se le Istituzioni, ma anche la società vogliano i detenuti più cattivi o migliori di come erano il giorno che hanno oltrepassato questi imperiosi muri che circondano un secondo mondo. Io vivo in questo "secondo mondo", un mondo dove tutto gira a rovescio. Non ha un senso logico, o meglio non ha il senso che dovrebbe avere. Proprio in questo momento pensavo di essere fortunato, pur essendo in carcere, e non solo perché oggi per la prima volta mi vengono concessi degli strumenti che mi permettono di vedermi e pensarmi in maniera diversa, ma sono anche fortunato ad avere la forza di non mollare, anche difronte alla illogicità di questo mondo in cui oggi sono costretto a vivere. Mi guardo attorno e vedo situazioni prive di senso. Persone buttate su un furgone blindato per essere trasferite in altre carceri e costrette così ad abbandonare la speranza nata nell'ultimo periodo di detenzione di fare altro nella loro vita, uomini malati di tumore che aspettano chissà cosa, giovani ragazzi tossicodipendenti attaccati disperatamente a un bicchierino di plastica dietro alle sbarre della loro vita per aspettare l'infermiere che versa poche gocce di evasione. Vedo un giovane di 25 anni sordomuto che non può neanche comunicare con quel mezzo che a me oggi salva la vita, la scrittura! Proprio non riesco a capire, non riesco a dare un senso logico, tutto gira al contrario e tutto questo mi sembra una perversione. È la cattiva cultura che è radicata nel sistema penitenziario italiano che va estirpata e rivoluzionata. Ci vuole una svolta a quella mentalità che vede una pena sempre e solo retributiva, rispondere al male con altrettanto male, e non mi riferisco solo agli anni da scontare, ma anche a tutte quelle situazioni assurde che vedi in un carcere. Sono 18 anni che giro le carceri italiane, e non mi ero mai soffermato a guardare da cosa realmente ero circondato. Tutto mi appariva normale: come sempre c'era almeno un disabile, c'era il ragazzo pazzo, trasferimenti giornalieri, terapie di cui poter usufruire gratis, l'unico costo era sulla propria pelle, ma poco importa… tutto era normale, era la mia quotidianità visiva, era sempre stato tutto sotto ai miei occhi, ma essenzialmente poco mi importava, perché quella era la mia vita. Ora che ho la capacità di fermarmi e guardare con scrupolosa attenzione, mi chiedo che cosa si voglia da noi prigionieri. I nostri Padri costituenti erano uomini che avevano provato il carcere, ed è per questo che oggi ritroviamo nella Costituzione un articolo dove è spiegato con precisione il senso che dovrebbe avere una pena (art. 27), ma pochi vogliono cogliere il significato di quelle parole. Le persone che potrebbero aiutare a cambiare, che potrebbero aiutare a dare un senso a questo mondo, cosa fanno? Propongono sempre più leggi punitive aumentando le pene, solo per avere un consenso da parte degli elettori. Cavalcano i sentimenti di dolore che una vittima di reato prova, senza pensare che anche a loro può capitare che un proprio figlio potrebbe finire nel mio mondo. Mi riferisco alla proposta di legge contro gli incidenti stradali che prevede pene fino a 18 anni di carcere. Una "punizione" ci vuole, se no non avremmo più freni, ma chiedetevi se sia la strada giusta da perseguire, chiedetevi se non sarebbe più rieducativa una pena riflessiva, provate a mettervi nei panni di quel ragazzino che per quella voglia stupida di trasgressione cerca di superare i limiti consentiti, e infine riflettete, fermatevi a pensare su cosa veramente serve a quel ragazzo, vivere "nel mio mondo", il carcere, senza nessuna possibilità di pensare o accompagnarlo in un percorso di riflessione, di revisione del gesto commesso? Sono convinto che nessuno avrà il coraggio di rispondere alle mie domande, ma le porrò sempre per cercare di capire, per cercare di darmi gli stimoli che mi servono quotidianamente per proseguire il mio percorso, e questo articolo è l'ennesima riflessione personale che vi dono. Perché quando scriviamo doniamo sempre qualcosa al lettore, anche solo per quei pochi minuti che avete dedicato a leggere le mie righe, se poi riuscite a rifletterci sopra, anche in maniera critica, vuol dire che la comunicazione prende corpo. Noi siamo in grado di comunicare, siamo in grado di riflettere, dateci solo gli strumenti di cui necessitiamo, ovviamente se ci volete migliori, invece se ci volete peggiori, siete sulla strada giusta! Lorenzo Sciacca Giustizia: reato di tortura, si o no? un poliziotto e un radicale si affrontano "a duello" di Enrico Novi Il Garantista, 29 giugno 2015 Gianni Tonelli (Sap) e Sergio D'Elia (Pr), in disaccordo su tutto, trovano un punto comune: lo Stato si è chiamato fuori. Bisognerebbe intanto abolire il 41 bis, perché è tortura. Potenza dei media. E di alcuni leader che li usano in modo spregiudicato. È stato sufficiente Matteo Salvini che ha chiarito La faccenda con il suo solito aplomb ("se un delinquente cade mentre è fermato e si sbuccia un ginocchio, cazzi suoi") e improvvisamente il Paese si è accorto del reato dì tortura. O, più precisamente, del fatto che anche in Italia sta per essere introdotto. Poi certo, venerdì si è celebrata la "Giornata internazionale per le vittime di tortura" e il tema ha scalato la gerarchia delle notizie. Il punto però è che non sono ancora particolarmente chiari all'opinione pubblica i connotati del provvedimento all'esame del Senato. Non tutti sanno che anche questa "svolta" della nostra legislazione penale è dovuta soprattutto a sentenze della Corte europea dei Diritti dell'uomo, in particolare alla pronuncia "Cestaro", dal cognome di una vittima del pestaggio alla Diaz. I giudici di Strasburgo hanno condannato l'Italia a risarcire il ricorrente e hanno rilevato l'assenza nel nostro ordinamento di una fattispecie penale in grado dì sanzionare fatti come quelli del G8. Vuoto grave, che sta per essere colmato. Ma che incrocia anche la netta contrarietà di gran parte delle forze dell'ordine. E stato in particolare il Sap, Sindacato autonomo di polizia guidato da Gianni Tonelli, a schierarsi contro il testo in via di approvazione, secondo gli agenti ispirato ideologicamente dall'odio contro le divise. Proprio Tonelli è uno dei due protagonisti del forum svolto nella redazione del Garantista. Di fronte a lui, con l'arbitraggio "discreto" del direttore Piero San sonetti, il rappresentante di una corrente di pensiero perfettamente contraria: Sergio D'Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino e dirigente di Radicali italiani. Qui di seguito l'intero rcport della discussione. Che è tra l'altro anche un'opportunità per il Sap di chiarire le proprie posizioni, al centro di polemiche dopo che nei giorni scorsi il sindacato degli agenti ha espresso il proprio no alla legge sulla tortura con una serie di manifestazioni. SERGIO D'ELIA. Quello che papa Francesco è riuscito a fare in giro di poche settimane, introducendo il reato di tortura nello Stato di Città del Vaticano, non è riuscito all'Italia in tutti questi anni trascorsi da quando ha ratificato la Convenzione Onu. Parliamo di un quarto di secolo. PIERO SANSONETTI. Ecco, il Sap però sostiene che definire un nuovo, specifico reato di tortura non serve. GIANNI TONELLI: Papa Francesco ben venga: il nuovo ordinamento del Vaticano non ha determinato assolutamente il pasticcio che c'è stato in Italia. Peraltro uno dei problemi, nel nostro caso, e il rischio che un ddl come quello in arrivo dal Senato si presti a interpretazioni "estreme" da parte della magistratura. Vorrei dire questo: la nostra non è una posizione corporativa o di autotutela. Noi siamo quelli che hanno distribuito videocamere sotto forma di "spy-pen" agli agenti e abbiamo poi convinto il governo a fornire a tutti i reparti mobili e volanti questo tipo di apparecchiature in ambienti polizia. Siamo pronti a farci passare ai raggi X. Vogliamo assumerci tutte le responsabilità possibili. Ma non ipotesi paradossali contenute nel disegno di legge, come il configurarsi del reato di tortura in cui una persona dichiara che un poliziotto gli ha inflitto una sofferenza psicologica. Come si fa a provarla? O meglio, come sarà possibile dimostrare che non c'è stata una violenza psicologica? Come faranno gli agenti a dimostrare la propria innocenza? PIERO SANSONETTI: Ma voi del Sap siete contrari in toto all'introduzione del reato o contestate in modo specifico il testo approvato alla Camera? GIANNI TONELLI: La nostra contestazione è rivolta al merito del testo che Montecitorio ha ora affidato all'altro ramo del Parlamento. Noi siamo perché si preveda una sanzione rigida dei reati di tortura, qui invece c'è una sanzione ideologica contro le forze dell'ordine. SERGIO D'ELIA. E invece a mio giudizio questo testo non soddisfa per una ragione completamente diversa: non è la fattispecie descritta, in modo perfetto, nelle Convezioni Onu ed europea contro la tortura. Lì non si configura un reato comune, ma tipico e specifico che attiene a un determinato comportamento. Sono d'accordo sul fatto che vanno perseguiti i comportamenti e non le categorie. Ma qui si profila, nel testo parlamentare, un tipico reato comune. Certo, ci sono aggravanti per chi in veste di pubblico ufficiale compie alcuni atti. Ma resta non tipizzato il comportamento caratteristico di un pubblico ufficiale, che sia agente penitenziario o militare, né quello di altre figure, come i medici spesso chiamati a intervenire in situazioni un po' al limite. Nel ddl il reato di tortura può configurarsi anche in ambiente familiare, o in un contesto mafioso, bimbo in acido. GIANNI TONELLI. Su questo la contrapposizione è netta. Il tratto ideologico anti-polizia c'è ed è in come viene concepita la sanzione del comportamento del pubblico ufficiale. La Convenzione Onu mira alla tutela della dignità umana e a preservare l'essere umano da sevizie. E allora cosa c'è di più attinente a queste esigenze di tutela, rispetto al caso del mafioso che strappa le unghie? Perché questi comportamenti non sono previsti nel ddl? Se io arrivo sul posto dove è appena stata rapita una bimba, e dico a uno dei probabili sequestratori che la famiglia è riuscita a bloccare "se non mi dici dov'è la bambina ti do un cazzotto", questo può configurare il reato di tortura, se poi il soggetto dichiara che gli ho procurato un'acuita sofferenza psicologica... I comportamenti assimilabili a tortura vanno sanzionati indipendentemente da chi li mette in atto. SERGIO D'ELIA. Se ho ben capito dunque questa fattispecie di reato comune non vi va bene perché la polizia è esplicitamente inserita tra le categorie passibili di sanzione. Ma nel testo anche il cittadino comune può essere un criminale. E questo non va bene a me: non si può commisurare il reato di tortura a cittadini comuni anziché a chi ha altri in custodia. L'articolo 1 della Convenzione Onu parla di "qualsiasi atto mediante il quale sono inflitte dolore, sofferenze fisiche o nrentali, per ottenere una confessione da una persona, o, al fine di punirla o di intimorirla, fare pressione su di lei o su una terza persona". Bene: queste due ipotesi, intimorire e punire, sono alla base della sentenza Cestaro sul caso dell'ex Caserma Diaz. Invece il testo del Senato propone l'ipotesi generica "infliggere una punizione o vincere una resistenza". Non va bene perché nel dettato Onu la "punizione" sanzionabile è quella di chi in pratica dice "punisco te perché ti ho presso, ma lo faccio per punire un terzo che non sono riuscito a prendere". E appunto l'intervento violento su chi dormiva alla Diaz costituiva una rivalsa sui black bloc, che però non erano lì GIANNI TONELLI. So bene che secondo molti servirebbe una legge per punire in furturo comportamenti come quelli della Diaz. Lì però è intervenuta la prescrizione. Non serve allora un tipo di reato nuovo, ma un termine differente di prescrizione per quelli contestati agli imputati del processo Diaz. E comunque, io insisto sulla parte in cui si definisce la "acuta sofferenza psicologica": non ci sarebbe lo strumento per misurarla. Se uno dice di essere stato picchiato, lo si può sottoporre a uno specifico esame clinico. Con la "sofferenza psicologica" questo non è possibile. D'altra parte, per tornare all'enunciato della Convenzione Onu citato da Sergio D'Elia, dico che se servono ulteriori norme, facciamole. Ma dire che con il nostro ordinamento attuale non sarebbe possibile perseguire comportamenti riconducibili alla tortura è falso. Faccio l'elenco: sequestro di persona, lesioni, violenza privata, abuso in atti d'ufficio: ce n'è abbastanza per passare una vita in galera... Con il dispositivo all'esame del Senato si può obiettare a un agente che ha fatto uso legittimo delle armi che non si trattava di mezzi di coazione fisica e che quindi si ricade nel reato di tortura. Se al posto dell'agente c'è un civile, quest'ultimo se la cava con la lesione dolosa. Dov'è il principio di uguaglianza sancito in Costituzione? SERGIO D'ELIA. In tutti gli ordinamenti nazionali che lo hanno configurato, il reato di tortura è tipico dell'autorità pubblica. Si può essere d'accordo o no ma il diritto interno degli Stati questo dice. È notizia di pochi giorni fa che gli Stati Uniti hanno previsto il reato di tortura anche per il water-boarding, l'annegamento che provoca asfissia, praticato da pubblici ufficiali... Ma io credo che il punto più critico del disegno di legge ora all'esame di Palazzo Madama sia un altro: l'indicazione dei casi di violenza o minaccia, ma non si parla di "privazioni". E qui si apre il capitolo di quello che lo Stato fa nei confronti dei detenuti sottoposti all'articolo 4 bis, cioè all'ergastolo ostativo. Tale norma individua dei condannati all'ergastolo che non possono aspirare ad alcun beneficio, a meno che non collaborino con la giustizia. Il 41 bis, il carcere duro, fa la stessa cosa: esci dal 41 bis se diventi collaboratore di giustizia. Nella Convenzione Onu si parla di sofferenze fisiche o anche mentali, inflitte a una persona in modo da punirla por atti compiuti da altri. È proprio il caso dei "41 bis" comminati non agli autori della Strage dì Capaci e neppure agli appartenenti alla stessa banda, ma a malavitosi completamente estranei a quegli atti. Li si è puniti, appunto, per reati commessi da altri. Sono stato a Pianosa due anni. E lì ho visto ì familiari dei mafiosi accusati per la strage di Capaci portati in ciabatte, col pigiama addosso, sottoposti a finte fucilazioni, a docce gelate, costretti ad andare di corsa attorno al cortile senza fermarsi mai. Cose che questa legge non punisce. GIANNI TONELLI. Se accadono, cose del genere vanno sanzionate. Ma non si può consentire nemmeno che le si racconti anche quando non sono mai accadute. Credo sia singolare che noi, come operatori di polizia chiediamo le "spy-cam" per tutelarci. Vuol dire che qualcosa non funziona e che c'è una sensibilità che porta ad un'ostilità ideologica contro le forze di polizia. È vero, ci sono comportamenti che resterebbero fuori, dalla legge, come il water-boarding: la tortura dell'acqua è una delle peggiori. Ma in questa norma c'è un eccesso di indeterminatezza. E ripeto: il problema riguarda soprattutto il passaggio sulle "acute sofferenze psicologiche", Tutti i giorni c'è chi prende l'ansiolitico perché è stato richiamato dal superiore. Se però noi diamo la possibilità a qualsiasi delinquente di dire che appena vede una divisa gli viene l'ansia. SERGIO D'ELIA. Credo però che quella parte del testo sia applicabile a casi limite. Non è che uno può avvalersi di questa legge per accusare il magistrato e dirò che gli ha fatto pressioni psicologiche, o ai carabinieri che gli dicono "se non parli stai qui chissà quanto. D'altronde è giusto proporre il reato di tortura anche rispetto ad azioni sulla psiche di una persona: c'è un nesso strettissimo tra quello che accade alla mente di un individuo e gli effetti sulla sua salute. A proposito della misurabilità di queste sofferenze, va detto che non è che se non sono psicologiche non sono reali. Quando Enzo Tortora viene messo in catene davanti alla stampa e viene portato in carcere, questo semplice fatto, lui disse, gli procurò un effetto di "una bomba scoppiata dentro". GIANNI TONELLI. L'ingiusta detenzione non è un fatto da poco, può oggettivamente determinare sofferenza psicologica. SERGIO D'ELIA. Le condizioni di detenzione in alcuni casi sono strettamente configurabili come tortura, e qui non c'è un agente di polizia che la provoca. Sa qual è una cosa ricorrente con il 41bis? Il suicidio degli agenti penitenziari. Non si suicidano solo quelli in isolamento ma anche gli operatori che vedono le condizioni di detenzione come di tortura verso loro stessi. Tra i detenuti al 41bis c'è un'alta incidenza del cancro. E, cosa che fa impressione, del distacco della retina. Ti ho torturato tenendoti in una cella di pochi metri quadri o in un cortile comunque limitato, e così la visione a distanza si perde, perché non è più utilizzata. C'è o non c'è tortura? Di sicuro c'è un trattamento inumano e degradante, che comunque non è da Stato di diritto. Io ho simpatia per voi agenti perché so bene in che condizioni lavorate, a che pressioni siete sottoposti quando vi dovete confrontare con il pericolo. Io non condivido questa legge perché è umiliante innanzitutto nei confronti della polizia. Venite equiparati a un mafioso. Io avrei fatto una battaglia, al vostro posto, del tipo: per piacere, fate una legge sul reato di tortura commesso dai mafiosi che non accosti noi a loro, se deve esserci un reato di tortura contestabile agli agenti che sia isolato dal resto... Poi però va detto che in questa legge manca una cosa importante: la possibilità di identificazione degli agenti, soprattutto quando si è in funzioni di ordine pubblico. GIANNI TONELLI. Parto dalla questione del 41bis. In Italia è difficile liberarsi da pregiudizi e stereotipi. Se ipotizzi l'abolizione del 41bis sei tacciato di voler fare la "trattativa". Andrebbe tenuto presente che oggi non c'è una situazione di anni Novanta, ci deve essere un ripensamento sui metodi di separazione dall'ambiente esterno più rispettoso della dignità umana. Ma mi pare che la società non sia pronta a questo tipo di salto, e prima che normativo il problema è culturale. Sugli identificativi: invece dico: noi siamo per la verità e i raggi X. Nessun gesto fuori dalle regole deve essere lasciato correre. Ma con una "spy-cam" sì certificano tutte le responsabilità possibili di un agente. Un attivista come Casarini invece non vuole prendersi le proprie responsabilità, vuole i codici sui caschi degli agenti perché il giorno dopo può presentare denunce false. PIERO SANSONETTI. Perché non accoppiare numeri e telecamerine? Se vengo picchiato da un poliziotto su 60, come faccio a individuare quello che mi ha pestato? GIANNI TONELLI. Vorrei garantire i colleghi dal rischio delle false denunce. Ma una soluzione per il problema posto si può trovare. Giustizia: patrocinio gratuito, lo Stato (non) paga di Isidoro Trovato Corriere Economia, 29 giugno 2015 Gli avvocati protestano: parcelle basse e saldi troppo lenti. Limiti di reddito differenti tra processo civile e penale. La questione è delicata. Si tratta di professionalità, di tutela del diritto e di legittime aspettative retributive. 11 tutto sintetizzato nel tema del gratuito patrocinio degli avvocati. Un istituto che rischia di ricadere sulla spalle (e nelle tasche) degli avvocati a causa dell'ampliamento della platea e dei ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione. "Tra i nodi irrisolti di questo governo ce il rafforzamento del patrocinio a carico dello Stato per un'efficace tutela dei ceti più deboli, soprattutto in un Paese ancora sotto gli effetti di una lunga crisi economica - afferma Mirella Casiello, presidente dell'Oua, l'Organismo unitario dell'avvocatura". In Italia, abbiamo assistito a un paradosso: in questi anni si è impoverita la classe media, è aumentata la fascia di sofferenza, e, quindi, il numero degli aventi diritto al patrocinio a spese dello Stato. Si tratta di una platea cresciuta fino a diventare un quarto della popolazione, ma non sono aumentate proporzionalmente le risorse previste per questo servizio. Siamo il Paese che meno spende in Europa, perché si scarica tutto sugli "avvocati, con parcelle misere, circa 600 euro per una causa che dura anni, oltre tutto pagale con ritardi vergognosi". Nell'immaginario collettivo il diritto al gratuito patrocinio spetta solo a poche persone che vivono in condizioni di emarginazione e non fanno parte della società civile. In realtà esiste un letto reddituale per accedervi ed è pari a 11.369 euro nel processo civile, mentre in quello penale il limite va maggiorato di 1.032 euro per ogni familiare a carico. E allora tornano utili alcuni dati: vista la piaga dell'evasione il reddito medio degli italiani nel 2013 è stato di quasi 20 mila euro, ma ci sono 14 milioni di contribuenti che percepiscono meno di 10 mila euro all'anno e quindi un quarto della popolazione potrebbe avere diritto al gratuito patrocinio civile. A ciò si aggiunge il picco negativo nelle regioni del Sud dove il reddito medio ammonta a circa 14mila euro annui. Questo significa che ogni appartenente a nuclei familiari con più di 3 congiunti a carico ha di media superalo la soglia di accessibilità alla difesa gratuita penale. "Di fatto nel nostro Paese la giustizia è sempre di più una roba per ricchi - continua il presidente dell'Oua - e l'assistenza per i più poveri è ormai a spese dell'avvocato, non dello Stato. In questo, senso salutiamo con favore la presentazione da parte di alcuni deputali, prima firmataria Anna Rossomando, di mia proposta di legge per trovare soluzioni ad alcuni di questi problemi e cercando di ridurre almeno l'esposizione economica dei professionisti attraverso forme di credito di imposta. Quindi rivolgiamo un appello al ministro Andrea Oliando: è necessario estendere il patrocinio anche per i nuovi istituii previsti nel processo civile, come la negoziazione assistita. Per due ragioni: per equità, ma anche per implementare i nuovi sistemi di risoluzione delle controversie". Concetto ribadito con maggiore forza con dati alla mano. "Se a tutti coloro che non hanno i mezzi reddituali utili a consentire l'accesso ad mia difesa a proprio carico - spiega Roberto Vigani, coordinatore della commissione Oua sul patrocinio a spese dello stato - è garantito il patrocinio gratuito, ossia la difesa senza spese a loro carico, si deve sapere a ciliare lettere che lo Stato per assicurare l'effettività - di quest'ultimo non fa nulla, o quasi. La presenza di uno stuolo di avvocati non significa necessariamente che a tutti è concessa una vera ed uguale capacità di difendersi". Giustizia: decreti e riforme, tour de force alle Camere di Roberto Turno Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2015 Dieci riforme in cerca d'autore, dieci leggi sui carboni ardenti. A quasi 500 giorni dalla conquista di palazzo Chigi, per Matteo Renzi e il suo governo iniziano le nuove curve pericolose. Incassato col record di 38 fiducie (quasi 2,5 al mese) il secondo (ma non ultimo) sì al Senato per la "buona scuola", il premier ex sindaco sta preparando in queste ore la battaglia d'estate. Perfino ipotizzando di tenere inchiodati in agosto ai loro banchi deputati e senatori. Perché le sfide che attendono il Governo in queste settimane sono davvero tante. Forse troppe. E comunque talmente urgenti per un premier che continua ad andare di corsa e a suon di tweet, che non c'è più tempo da perdere. Anche se poi Renzi ha dovuto incassare in questi mesi ripetuti rallentamenti al suo cronoprogramma e ha già messo in preventivo che altri rallentamenti dovrà subire. Ma l'estate il governo cercherà di giocarsela per intero in Parlamento: "Non ci fermeremo", giurano i renziani più ortodossi del cerchio stretto del premier. Benvenuti nella fabbrica delle leggi. Benvenuti sulla giostra di un Parlamento che si prepara ad affrontare almeno 5-6 settimane di fatiche extra e di voti all'ultimo emendamento. Perché luglio e un pezzo d'agosto, ormai è sicuro, regaleranno sorprese e agguati ad ogni angolo di ogni comma di ogni legge da fare. A cominciare da quelle riforme che per Renzi e i suoi rappresentano il cuore del programma, le promesse ora tutte da mantenere. La scuola, che avrà il sì finale della Camera solo dopo mercoledì 7 luglio. E poi: la riforma della Rai, ancora ai blocchi in commissione al Senato; la riforma della burocrazia, slittata già di altri 20 giorni alla Camera e che comunque tornerà al Senato; la legge annuale sulla concorrenza, che sempre alla Camera approderà in aula soltanto in autunno e poi farà navetta verso palazzo Madama. Così come la riforma del processo civile. Senza dimenticare i quattro decreti legge in vigore - col carico da novanta di quelli su pensioni, enti locali, diritto fallimentare - che inevitabilmente sottrarranno spazio e tempi vitali alle leggi ordinarie in lista d'attesa. Per non dire della sfida numero uno, la madre di tutte le leggi per il Governo, quella riforma costituzionale che cancella l'attuale Senato, dà l'addio al bicameralismo perfetto e supera il federalismo fallimentare di un decennio: deve fare ancora due passaggi parlamentari e anche questa settimana non è all'ordine del giorno della commissione Affari costituzionali del Senato. Proprio mentre Renzi vorrebbe farla uscire dal limbo della Camera alta entro l'estate, ottenere in autunno il sì finale di Montecitorio e puntare diritto al referendum nella primavera 2016 con la nuova ondata di elezioni regionali e amministrative. Una sfida tutta da vincere. Che è al centro di una ricerca di compromesso anche con una minoranza dem sempre recalcitrante. È tremendamente complicato, e denso di trabocchetti, il cammino delle leggi che Renzi vorrebbe mettere in vetrina in tempi stretti e mettersi al petto come tante medagliette al valore del suo governo. Come del resto può dire di essere riuscito a fare col Jobs Act, che attende altri pezzi di puzzle applicativi. Nel segno del più classico degli ingorghi parlamentari, come il traffico in centro all'ora di punta. Dove sarà difficile far coincidere percorsi e tempi parlamentari, tanto più in tempi rapidi. Anche perché sullo sfondo, ma non troppo, si agitano altri fantasmi per la maggioranza: la tenuta sul "pacchetto giustizia", a partire dalla prescrizione dei reati. O il conflitto d'interessi. Materia incandescente. Così come le unioni civili (al Senato), che il socio dell'Ncd non digerisce affatto. Insomma, allacciamo le cinture e vediamo l'effetto che farà il prossimo giro di giostra parlamentare. E quanto tempo ci vorrà ancora per tutte le leggi nei cassetti. Quella sulla riforma della Pa, ad esempio, già veleggia verso i 500 giorni di navigazione parlamentare. Chissà di quanti altri avrà bisogno prima di approdare alla nobiltà della Gazzetta Ufficiale. Giustizia: reato di diffamazione, la tutela dimezzata se la lite è temeraria di Caterina Malavenda (Avvocato esperto in diritto dell'informazione) Corriere della Sera, 29 giugno 2015 Niente più carcere, dunque, per chi diffama o ingiuria, ma multe piuttosto salate, applicando il principio che chi sbaglia paga e se sbaglia consapevolmente paga di più. In una società nella quale oramai quasi tutto si misura in denaro, è comprensibile che il Parlamento, dovendo eliminare la pena detentiva, abbia incrementato quella pecuniaria. Ed è anche ragionevole immaginare che chi subisce un'offesa sia piuttosto indifferente alla sanzione penale che viene inflitta al responsabile, essendo piuttosto e giustamente sensibile al risarcimento che, se non cancella il patimento, certo lo attenua, in misura proporzionale al danno liquidato. Danno il cui ammontare è un vero rebus, in difetto di tabelle e punti e con l'introduzione di criteri assai aleatori: il giudice deve tener conto, infatti, della diffusione e della rilevanza del mezzo di informazione. Ed è anche ragionevole immaginare che chi subisce un'offesa sia piuttosto indifferente alla sanzione penale che viene inflitta al responsabile, essendo piuttosto e giustamente sensibile al risarcimento che, se non cancella il patimento, certo lo attenua, in misura proporzionale al danno liquidato. Danno il cui ammontare è un vero rebus, in difetto di tabelle e punti e con l'introduzione di criteri assai aleatori: il giudice deve tener conto, infatti, della diffusione e della rilevanza del mezzo di informazione, oltre che della gravità dell'offesa e dell'effetto riparatorio della rettifica. E sempre in termini monetari è misurata anche la violazione dell'obbligo di pubblicarla, che comporta per il direttore una non simbolica sanzione amministrativa da 8 a 16 mila euro. Bene, a questo punto verrebbe spontaneo immaginare che, a far da contraltare a cotanta legittima severità, si siano previste sanzioni economiche altrettanto incisive, anche a carico di chi fa querele o cause civili temerarie ed a favore di chi le subisce e, invece, no. Il ragionamento può sembrare complesso, ma non lo è: il giornalista, di solito, viene assolto perché il fatto non costituisce reato, avendo agito nell'ambito del diritto di cronaca o di critica. Ecco, il danno da querela temeraria è risarcibile solo a favore di chi venga assolto per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste. Sarebbe bastata una modifica ma, pur di escludere i giornalisti dal novero dei risarcibili, si è previsto, è vero, il pagamento di una ulteriore somma, ma alla cassa delle ammende, cioè allo Stato. La maggioranza si è persino divisa sull'emendamento, poi approvato, che ha implementato l'efficacia della norma sul danno da lite temeraria, che potrà ora essere liquidato con maggiore facilità e, soprattutto, tenendo presente, in particolare, l'ammontare del risarcimento preteso da chi ha agito, senza averne motivo. Un rischio davvero elevato per chi spara richieste milionarie: l'incomprensibile astensione di alcuni non lo ha bloccato alla Camera ma, se si ripetesse al Senato, potrebbe compromettere l'ulteriore iter dell'intera legge, un problema per chi la vuole a tutti i costi ed un sollievo per tutti gli altri. La scarsa deterrenza delle conseguenze patrimoniali per chi agisce a puro scopo intimidatorio può sembrare una questione secondaria, tutta interna ad una categoria che pretende privilegi e non vuol pagare per i suoi errori, eppure non è sfuggito al relatore Walter Verini che, se un giornalista viene intimidito da una lite temeraria, si colpisce anche la libertà di informazione. E a chi si è trovato l'ufficiale giudiziario sulla porta di casa, a rispondere di debiti non solo suoi, abbandonato da un editore fallito o che un editore che lo difendesse in giudizio e pagasse per lui non lo ha mai avuto, quella libertà deve sembrare assai lontana, quasi una chimera. Si è tentato, onore al merito, di ovviare con un emendamento che inserisce, fra i crediti privilegiati sui beni mobili dell'editore, quello che vantano giornalisti e direttori che abbiano pagato il danno da diffamazione al suo posto. Se l'editore è fallito o è insolvente, però, non ci saranno beni mobili da aggredire e se, al contrario, vi fosse spazio per farlo, come potrà tornare in redazione il fedifrago che avrà osato pretendere, magari rivolgendosi al giudice, il saldo del dovuto? Giustizia: il processo digitale dopo un anno non rinuncia alla carta di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2015 È un compleanno con cadeaux quello che il processo civile telematico, che ha debuttato nei tribunali il 30 giugno 2014,si prepara a festeggiare. A cominciare dalle nuove risorse in arrivo: 45 milioni per quest'anno, 3 per l'anno prossimo, 2 per il 2017 e 1 milione a partire dal 2018. Non è, però, l'unica novità contenuta nel decreto legge approvato martedì scorso dal Consiglio dei ministri. Il provvedimento prevede anche la possibilità del deposito dell'atto introduttivo o del primo atto difensivo in formato digitale, così da avere regole più uniformi in una situazione che ciascun ufficio giudiziario interpretava con discrezione. Inoltre, si conferisce alla difesa o ai suoi consulenti il potere di certificare la conformità della copia informatica di un atto nato in modalità analogica. Si tratta di correttivi che dovrebbero permettere al processo telematico, che da domani entrerà a regime anche nelle Corti di appello, di viaggiare ancora più spedito. I numeri presentati dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a New York nei giorni scorsi durante il road show per illustrare agli imprenditori statunitensi le riforme del processo civile, parlano di una crescita del processo informatizzato, che negli ultimi dodici mesi ha ricevuto 13,7 milioni di comunicazioni digitali. Sul fronte degli avvocati e degli altri professionisti legali si tratta di un aumento continuo almeno per quanto riguarda questa prima parte dell'anno, mentre nel 2014 l'andamento è stato più oscillante, con una depressione fisiologica della linea in corrispondenza di agosto, quando l'attività degli studi e dei tribunali risulta fortemente ridotta per via delle ferie. In ogni caso, dai 64mila provvedimenti digitali depositati a giugno 2014 si è arrivati ai 577mila del mese scorso. Un incremento rilevante - anche se va considerato che si partiva da zero - che può essere ulteriormente differenziato in atti endo-procedimentali, che hanno fatto registrare un +492%, e atti introduttivi, forti di un aumento dell'800 per cento. Discorso analogo per quanto riguarda i documenti depositati dai magistrati, per quanto la crescita sia più altalenante anche con riferimento a questi primi cinque mesi dell'anno. In questo caso gli incrementi sono meno eclatanti, da una parte perché i numeri sono più bassi dato che le toghe gestiscono in via digitale un numero minore di atti rispetto alla difesa, dall'altro perché già al momento del debutto del processo telematico una parte della magistratura i aveva iniziato a lavorare in modalità informatica. Infatti, a giugno 2014 gli atti creati in formato digitale dai magistrati erano quasi 117mila, saliti a 323mila a maggio scorso. Tutto questo si è tradotto in un taglio dei tempi. Secondo un monitoraggio realizzato dalla Giustizia in cinque distretti - Ancona, Catania, Milano, Napoli e Roma - a febbraio scorso il tempo per emettere un decreto ingiuntivo telematico si era ridotto, rispetto alla tempistica del processo analogico, anche della metà. È il caso di Milano e Roma, dove si è passati da circa 40 a una ventina di giorni. Rapidità che, insieme agli altri vantaggi del processo telematico (meno uso di carta, di spese di notifica e di altri adempimenti) dovrebbe - secondo il ministero - portare a un risparmio di 48 milioni di euro. Tutto bene, dunque? Non proprio. I progressi indubbiamente ci sono, ma c'è ancora parecchia strada da fare. Per Carla Secchieri, componente del Consiglio nazionale forense, una forte criticità è data dal fatto che si facciano pagare alla difesa, con la dichiarazione di inammissibilità degli atti, la violazione di norme squisitamente tecniche, spesso applicate in modo diverso da tribunale a tribunale. "Il recente decreto legge - afferma - corre in parte ai ripari. È pur vero che le criticità emergono con la pratica. Fondamentale, anche per il futuro, è essere tempestivi con gli interventi correttivi". Secondo Renzo Menoni, presidente dell'Unione camere civili, il vero problema è che continua a persistere il doppio canale carta-digitale. "In molti tribunali - commenta - i processi continuano a essere verbalizzati manualmente. E poi c'è il problema della formazione, in particolare del personale di cancelleria. È, però, importante che un anno fa si sia partiti e che si sia previsto presso il ministero un tavolo permanente per aggiustare il tiro". Sulla formazione punta il dito anche l'Aiga, l'associazione dei giovani avvocati. "La giustizia telematica - afferma la presidente Nicoletta Giorgi - ha bisogno di risorse e formazione. Le prime sono arrivate con il recente decreto legge. Ora aspettiamo il resto. Anche perché se il processo digitale non viene applicato correttamente, invece di procedure più rapide, si rischia di ottenere l'effetto contrario". È quanto accade per alcuni adempimenti. Secondo un monitoraggio effettuato dall'Aiga a marzo scorso, i tempi per la verbalizzazione in udienza sono - secondo il 34% degli intervistati (ha invece detto il contrario il 27%) - aumentati dopo l'introduzione del sistema telematico. Giustizia: imprese e legalità, il dialogo prezioso tra Stato e Associazioni di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2015 Cittadini o imprenditori che si ribellano alle estorsioni, che denunciano pressioni corruttive, che chiedono sostegno dallo Stato. Difficile dire quanti siano ed è certo che i giornali selezionano i casi più importanti, in qualche modo esemplari magari perché hanno originato azioni repressive di un certo rilievo. Dietro o accanto a questi episodi, c'è quasi sempre il lavorio silenzioso di enti e associazioni rappresentativi di categorie o settori produttivi, silenziosamente impegnati a dare corpo a un'idea diversa di economia e di mercato, operando sul doppio fronte della cultura degli iscritti e della semiparalizzata macchina burocratica. Il primo fronte richiede di rilanciare in modo credibile, concetti e termini ormai rituali - "etica", "deontologia", "responsabilità", "merito", "concorrenza" - risvegliandone il senso negli statuti, nei codici etici, nei bilanci sociali. Parole che ciascun associato condivide e si impegna a praticare, a fronte di sanzioni che verranno applicate dagli organi deputati. Presso le istituzioni - il secondo fronte - le Associazioni, rese credibili da una palese coerenza tra parole e fatti, devono sostenere le ragioni dei loro rappresentati, facendo anche loro da scudo nei passaggi più delicati o rischiosi (ad esempio una denuncia penale). Compiti irti di difficoltà. Tanto che ancora oggi, mentre i problemi incalzano e si affastellano, associazioni anche importanti faticano a chiarire efficacemente ai loro iscritti quali siano i comportamenti virtuosi e quali le scelte border line, riprovevoli o inopportune; così come rimane arduo scalfire le resistenze a una modernizzazione delle regole interne, necessaria per isolare quanti galleggiano sfidando l'etica e, in particolare, i principi di sana concorrenza, mettendo così in difficoltà i colleghi che vi si attengono, in una paradossale asimmetria che costa quote di mercato e fatturato proprio a coloro che dovrebbero essere premiati. Quanto alle istituzioni, la loro sordità è stata saggiata sui meccanismi (inceppati) di selezione delle white list, sulle mancate semplificazioni, le dilazioni dei pagamenti, gli appalti vinti senza merito, l'applicazione tardiva di norme a loro volta in ritardo. Sarà interessante, tanto per richiamare un esempio recente, osservare come opererà il ministero dell'Interno dopo la richiesta di Federbeton (la Federazione della filiera di cemento e calcestruzzo) di "intensificare i controlli sul territorio in particolare nel settore della produzione del calcestruzzo, caratterizzato da una struttura frammentata di piccoli impianti". Da parte nostra - ha scritto a fine marzo Federbeton ad Alfano - "con il varo del codice etico e la promozione dell'Osservatorio del calcestruzzo presso il ministero delle Infrastrutture, abbiamo voluto concretamente marcare una netta distinzione tra chi è portatore di valori etici sul mercato e chi invece opera senza scrupoli o addirittura illegalmente". Due mesi dopo, il Viminale ha risposto ricordando i già avviati progetti SicurNet 1 e 2, per migliorare "in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia la sicurezza delle opere e, al tempo stesso, fronteggiare eventuali fenomeni di infiltrazioni criminali nel settore delle materie prime" (cioè delle cave). E impegnandosi a diramare "un ulteriore atto di indirizzo ai Prefetti al fine di rafforzare il sistema di controllo sulle imprese operanti nella filiera del cemento". Cosa accadrà, nei fatti? In che conto sarà tenuta la pro-attività delle migliori imprese del settore? Saranno rafforzati gli organici di polizia e prefetture per monitorare un comparto ad alto rischio, come chiesto dagli stessi operatori? O nulla accadrà fino alla prossima retata, magari su fatti di cinque anni fa? Lavoro ingrato, ma indispensabile, quello delle Associazioni. E da rivalutare nella considerazione, perché non è casuale che la riscossa siciliana del 2007 sia iniziata dal riconoscimento reciproco tra istituzioni e associazioni assai diverse tra loro (Confindustria, Addiopizzo). Sarebbe oggi un gran bene che quella fitta e robusta rete "brevettata" otto anni fa, venisse rammendata ed estesa per raccogliere sussidiarietà, informazioni, idee e suggerimenti, indispensabili a cambiare passo. Lealtà e correttezza nel rapporto coi testi, un galateo per i difensori di Adelaide Caravaglios Italia Oggi, 29 giugno 2015 Le sezioni unite della Cassazione mettono nero su bianco le regole. Sospensione di quattro mesi dall'esercizio della professione forense all'avvocato che viola i doveri di segretezza e riservatezza; lealtà e correttezza con riguardo ai rapporti con i testi, nonché probità, dignità e decoro nel comportamento. Sono le regole del "galateo" dell'avvocato difensore messe nero su bianco dalla Cassazione nella sentenza 12183/2015. A parere delle Sezioni Unite "mentre è consentito al difensore, ai sensi dell'art. 38 del rdl n. 1578 del 1933, come integrato dal codice deontologico approvato dal consiglio nazionale forense il 14 aprile 1997, di rivolgere alla controparte l'intimazione a tenere particolari adempimenti sotto comminatoria di azioni, denunce o altre sanzioni purché non sproporzionate o vessatorie, analoghi comportamenti non possono essere tenuti con i testimoni". Nel caso di specie, più precisamente, al legale veniva contestata, tra gli altri motivi di censura, anche la violazione dei doveri di lealtà e correttezza con particolare riguardo al rapporto con alcuni testimoni, indotti a riferire delle asserite irregolarità nella contabilità della farmacia, del cui titolare inizialmente era stato difensore per delle cause di lavoro, successivamente, era diventato invece consulente della di lui moglie, curandone la separazione e ciò in spregio a quanto prescritto dall'art. 51 del codice deontologico, che prevede un termine biennale dalla cessazione del rapporto professionale per poter assumere l'incarico contro un ex cliente. Spiegano all'uopo gli ermellini: quanto alla violazione dell'art. 52, si tratta di una norma che "vieta all'avvocato di intrattenersi con i testimoni sulle circostanze oggetto del procedimento con forzature o suggestioni dirette a conseguire disposizioni compiacenti, a tutela della corretta amministrazione della giustizia, che potrebbe essere messa in pericolo da avvertimenti e pressioni"; quanto a quella dell'art. 51, non va distinto "lo stato del processo", il che significa che la pendenza solo formale dello stesso, lamentata in sede di ricorso, non avrebbe fatto "venir comunque meno il rapporto di mandato ed il conseguente obbligo derivante". Hanno quindi rigettato il ricorso e confermato la sanzione già inflitta. Campania: inferno Opg, la chiusura è ancora un miraggio di Iolanda Chiucchiolo Cronache di Napoli, 29 giugno 2015 Entro fine marzo gli Ospedali psichiatrici giudiziari avrebbero dovuto essere dismessi, a rilento i trasferimenti. La battaglia del Radicali Lensi: è il caos, chiediamo il commissariamento della Regione. Sono trascorsi già tre mesi dal giorno X. Il 31 marzo 2015 era prevista la chiusura definitiva degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Nonostante il Governo non abbia varato una nuova proroga, la situazione effettiva non è cambiala di molto quasi in nessun Opg che continuano ad ospitare gli internati. Entro quella data avrebbero dovuto essere in parte dimissionali, mentre per i pazienti ritenuti "non dimissibili" era previsto il trasferimento alle nuove Residenze per l'esecuzione dì misure di sicurezza detentive (Rems). L'obiettivo di queste strutture è quello di avviare un'azione di recupero. La paura, denunciata in tempi non sospetti, è che sì trasformino in tanti piccoli Opg. Infatti nello scorso mese di marzo, dopo le ispezioni in alcuni Opg. Rita Bernardini. Segretaria di Radicali Italiani, ha denunciato il ricorso a soluzioni temporanee. L'unica novità è che gli ingressi all'interno degli Ospedali psichiatrici è bloccalo, ma sul futuro degli internali regna il caos: "Le entrate sono state bloccale perché ci sono sezioni psichiatriche nelle carceri, ma per il momento sono state realizzate solo strutture provvisorie all'interno delle quali accogliere gli internali che escono dagli Opg - ha dichiarato Maurizio Lensi membro del comitato nazionale dei Radicali Italiani -. Esiste solo la Rems di Castiglione delie Stiviere. Per il resto è il caos, la chiusura degli Opg è diventata quasi un incubo. Attendiamo qualche settimana per vedere elementi significativi, altrimenti chiediamo che si proceda con Il commissariamento ad acta, in sostituzione della Regione, come previsto dalla legge 81, perché fino ad oggi non hanno fatto niente. Ogni giorno che passa dal 31 marzo è una violazione di legge dello Stato e che prevede anche una sanzione, è ora di darsi una mossa". Prendiamo ad esempio il caso dall'Opg di Aversa. Dal primo aprile ad oggi sono state trasferite 20-30 persone, ma ciò non vuol dire che la struttura sia chiusa. Anzi, c'è almeno un'altra sessantina di internati in attesa di essere dimessi. In provincia di Caserta esistono due strutture provvisorie per accogliere loro e pazienti provenienti da altre regioni, mentre una delle Rems previste è in corso di realizzazione. Situazione non tanto diversa a Napoli dove il trasferimento è iniziato lentamente. Per questo anche la Regione Campania, come le altre giudicale inadempienti, rischia il commissariamento per non aver rispettato il cronoprogramma concordalo per la realizzazione delle strutture destinate a ospitare i pazienti dimessi. Lo ha confermato anche il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo, presidente dell'Organismo di Coordinamento del processo di superamento degli Opg: "I ministeri competenti, della Salute e della Giustizia, stanno valutando se intervenire con il commissariamento, strumento previsto dalla legge". Si tratterebbe di un unico commissario nazionale per le Regioni ritenute in difetto. A più di due mesi dalla decisione del governo di chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari, secondo i dati forniti dal ministero della Salute, ci sono ancora almeno 300 persone che restano rinchiuse nei 5 Opg superstiti sul territorio nazionale: Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto, Montelupo Fiorentino e Reggio Emilia. Altre 225 persone sì trovano nella Rems di Castiglione delle Stiviere (struttura quest'ultima convertita da Opg a gestione sanitaria in Rems. con 160 posti letto, tanto che la Regione ha comunicato che non accetterà ulteriori pazienti), mentre nelle 8 Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) sinora attivate nelle altre regioni ci sono meno di 100 persone in totale. Velletri (Rm): Sippe; detenuto trovato privo di sensi, salvato dalla Polizia penitenziaria ilcaffe.tv, 29 giugno 2015 Il Sippe (Sindacato Polizia Penitenziaria) ancora una volta si congratula con il personale di Polizia Penitenziaria e con l'Equipe Medica del carcere di Velletri per avere dimostrato grande professionalità e rapidità d'intervento. Nella tarda mattinata di Domenica 28.06.2015 un detenuto di origine Italiana sui 55 anni è stato trovato accasciato privo di sensi nel bagno della propria cella, (sospetto infarto con ischemia celebrale) grazie alla rapidità dell'agente della sezione che ha subito allertato l'Equipe medica che a sua volta ha immediatamente attivato tutti i protocolli di pronto soccorso chiedendo anche l'ausilio di una ambulanza che è giunta sul posto in tempi rapidissimi, si è potuto evitare il peggio. Il detenuto è stato successivamente portato in ospedale a Velletri per gli ulteriori accertamenti. Noi come sindacato Sippe - commenta Ciro Borreli sindacalista di Velletri - abbiamo sempre denunciato alle Autorità competenti la gravissima carenza di personale di Polizia Penitenziaria che attualmente soffre di 51 unità in meno dall' organico previsto, per questo motivo chiediamo al governo di prendere atto della situazione affinché si possa ristabilire un equilibrio di gestione. Avellino: Fp-Cgil; carcere di Ariano irpino, estate al collasso per detenuti e agenti di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 29 giugno 2015 La struttura cade a pezzi all'esterno e la carenza di personale si fa sempre più pesante Dopo il sopralluogo nelle case circondariali il coordinatore nazionale della funzione pubblica Cgil polizia penitenziaria ha inviato una nota al capo del dipartimento amministrazione penitenziaria. Prestini che ha partecipato alle visite ispettive insieme al segretario generale della Fp-Cgil di Avellino e ai delegati dei due istituti, nel resoconto mette in evidenza il problema della carenza di personale dovuta al mancato adeguamento delle piante organiche che avrebbe dovuto seguire all'apertura di nuovi padiglioni. A Bellizzi sono stati registrati lievi miglioramenti rispetto al sovraffollamento. Ci sono 630 detenuti rispetto ad una capienza di 504. Questo causa un aggravio di lavoro. "Oltremodo preoccupante" - si legge nella nota inviata al capo del dipartimento - "la situazione nel carcere di Ariano". A maggio dello scorso anno è stato aperto un nuovo padiglione che può arrivare ad una capienza di 200 detenuti. Inspiegabilmente - fa sapere Prestini - l'amministrazione ha deciso di non modificare la pianta organica dell'istituto e non ha inviato personale con la mobilità nazionale dello scorso anno. Il personale di polizia è stato perciò costretto a coprire ulteriori 24 posti di servizio. La situazione viene definita drammatica e si fa notare che rispetto al 2014 ci sono 100 detenuti in più. La richiesta è di approfittare della mobilità del personale che arriverà dopo il corso per allievi agenti e permetterà di incrementare l'organico. Intanto l'Osapp chiede al direttore del carcere del Tricolle che vengano subito convocate le sigle sindacali per ritoccare il piano ferie estivo. In mancanza di risposte concrete l'organizzazione sindacale autonoma è pronta a ricorrere ad ogni forma di protesta. Roma: dall'Associazione "Semi di libertà" nasce un birricifio, per il futuro dei detenuti lineadiretta24.it, 29 giugno 2015 Paolo Strano, insieme ad altri tre colleghi fisioterapisti, Silvia Guelfi, Adriano Boccanera e Claudio Rosati, hanno fondato, nel gennaio 2013, l'Associazione Semi di Libertà. Questa Onlus nasce da un'esperienza professionale che i quattro soci hanno avuto nel carcere di Regina Coeli e volta a contrastare, nei limiti del possibile, le condizioni disumane a cui sono sottoposti i detenuti del carcere romano. "Una cella di meno 3 mq per muoversi. Queste sono le condizioni in cui versano i detenuti di Regina Coeli che, una volta scontata la pena, escono in condizioni peggiori rispetto a quando sono entrati in carcere. La nostra Onlus si pone come obiettivo primario quello di rompere il circolo delle recidive", spiega il presidente di Semi di Libertà Paolo Strano a Lineadiretta24 nell'ambito della partecipazione della sua associazione alla Festa della Solidarietà. "Il progetto Semi di Libertà è nato per impegnare i detenuti, scelti in base al tempo che gli manca per scontare la pena e alla buona condotta osservata in carcere, in un percorso formativo socialmente utile che gli possa insegnare un mestiere ma che, soprattutto, li renda in grado di adeguarsi nuovamente alla vita nella società. Non abbiamo pregiudizi, rispetto al tipo di reato che i detenuti hanno commesso, per inserirli nel programma, eccetto che per i pedofili, visto quello che andranno a fare", prosegue Paolo Strano, che ci racconta nel dettaglio su cosa si basa questo progetto. "Dal marzo 2014 Semi di Libertà gestisce un progetto cofinanziato dal Ministero della Giustizia e da quello dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, che prevede la realizzazione di un Birrificio Artigianale utilizzando esclusivamente materie prime del territorio, dalla semina al bicchiere". E perché proprio la birra? "Perché si tratta di un mercato che, in questi ultimi anni, sta mostrando un elevato trend di crescita: dal 2012 al 2015 il numero dei birrifici artigianali in Italia si è triplicato. Inoltre rappresenta uno strumento potente dal punto di vista comunicativo, soprattutto per i giovani e per il forte appeal che ha su di loro questo prodotto. Il nostro obiettivo è quello di dare vita a un'intera filiera artigianale, usufruendo anche dei proventi derivanti dai beni confiscati alla mafia". Quali opportunità hanno questi detenuti una volta terminato il corso? "Li stiamo mettendo in contatto con molti birrifici i quali, una volta superati i preconcetti abbinabili alla persona del detenuto, stanno dimostrando molto interesse nei loro confronti. I ragazzi inoltre dovranno terminare di scontare la loro pena; noi assolutamente vogliamo che questo avvenga ma cerchiamo anche di far proseguire il loro percorso di formazione e integrazione una volta terminato il corso. Ma non è finita qui. "La particolarità e la completezza di questo progetto derivano da altro elemento, ovvero la connessione tra produzione di birra artigianale e tutoraggio nei confronti degli studenti disabili e autistici dell'Istituto Agrario Sereni, dove si svolgono questi corsi. Un'interconnessione di esperienze diverse ma, allo stesso tempo, rigeneranti per queste persone a cui, in linea con lo spirito della Solidarietà, leitmotiv di queste giornate e del quotidiano operato di onlus come Semi di Libertà, non può e non deve essere negata una seconda chance". Portare avanti un progetto così ampio, articolato, in un periodo in cui l'operato delle cooperative sociali sente addosso il flagello di Mafia Capitale, rappresenta una grande sfida per il giovane Birrificio Vale La Pena, fondato da Semi di Libertà proprio in seguito a questo progetto. "Mafia Capitale è stato sicuramente qualcosa che ha prodotto nei nostri animi un forte scoramento iniziale. Ora però, noi che crediamo fermamente nel lavorare per fare del bene, stiamo reagendo e vediamo in questo buio periodo storico un punto di svolta per obbligare le Istituzioni a controllare di più le risorse: cosa che stanno facendo a tutti gli effetti". In bocca a lupo a Paolo, Silvia, Adriano e a Claudio per il proseguimento di questo progetto, ma soprattutto ai ragazzi, che ce la metteranno tutta per sfruttare al massimo questa possibilità di riscatto sociale. Teramo: carcere di Castrogno, un aiuto ai genitori detenuti di Gabriella Sacchetti Il Centro, 29 giugno 2015 Il "Progetto Genitorialità" che da diversi anni viene effettuato presso la Casa Circondariale di Teramo si propone di rompere le modalità e stili comportamentali che vengono osservati e documentati rispetto a storie che tendono a riproporsi nei cambi generazionali. L'istituto di Teramo ha anche un discreto bacino di ospiti del territorio e fin dall'attivazione del primo percorso progettuale è emerso che vi sono stati dei gruppi sociali che hanno visto ripercorrere gli stessi stili comportamentali dei genitori. Persone che conoscevano l'istituto penitenziario perché venuti da piccoli in carcere o con le genitrici o a far colloqui, attualmente sono da maggiorenni a scontare delle pene a loro volta. Dalla relazione genitoriale e dalle persone adulte di riferimento i bambini apprendono uno stile comportamentale, è importantissimo che i genitori che vivono un'esperienza detentiva possano elaborare quella la loro storia di vita per poter trasmettere e recuperare relazioni sane con i propri figli. Si intende utilizzare questa nuova opportunità progettuale per offrire condizioni che inducano i detenuti e le detenute ad una maggiore consapevolezza del proprio vissuto per affrontare eventuali processi di cambiamento rispetto a se stessi e alle proprie condizioni di vita. Gli obiettivi, del progetto, sono diretti a supportare le madri e i padri detenuti nel rapporto quotidiano con i figli anche al fine di sviluppare un congruo senso di responsabilità nel ruolo genitoriale svolto all'interno di un'istituzione chiusa, potendo far emergere il loro vissuto di figli, e osservando come si propongono in qualità di genitori. Attraverso il progetto genitorialità ci si propone di sviluppare percorsi individualizzati per detenute/i che contemplino colloqui psico-educazionali; costruzione di progetti personalizzati e organizzazione di équipe; confronto tra pari sulla genitorialità con attività dedicate all'interno dell'istituto; incrementare le occasioni per facilitare la relazione genitoriale in un contesto accogliente (esempio: affiancare i genitori nella fruizione di benefici dedicati; migliorare o creare spazi esterni ed interni dove stare o incontrare i figli; partecipare ad eventi esterni rivolti alle famiglie insieme ai figli). Il percorso prevede inoltre incontri di gruppi tra detenuti e altre figure professionali, con l'utilizzo del metodo "bio-sistemico" centrato sull'ascolto e sulla elaborazione delle emozioni provocate emerse nell'affronto di tematiche legate all'affettività. Teramo: madre e figlio in carcere "il coraggio di ricominciare" di Fiorella Rapposelli Il Centro, 29 giugno 2015 Il racconto di una detenuta diventata mamma a 13 anni: "Grazie a lui mi sto riprendendo la mia vita, insieme possiamo ricostruire il nostro futuro". Parlare del mio passato mi riporta indietro a ricordi dolorosi che nella mia vita hanno lasciato cicatrici mai rimarginate. Sono nata in una famiglia per bene, per chi giudica dall'esterno, in realtà l'unica cosa bella e magica in quella famiglia era mia madre che è volata in cielo quando aveva appena 32 anni, ed io quasi 9. Non si può capire cosa vuol dire nascere e crescere in un inferno, se non lo si vive sulla propria pelle. Il padrone di quel girone infernale era mio padre. Botte…calci… pugni… le ho cominciate a prendere quando avevo 4 anni. Come si può sopportare un dolore simile? Si può essere più forti del buio? Avevo solo 7 anni. Imparai a convivere con il dolore, la rabbia, la disperazione, la morte nel cuore, tenendomi tutto chiuso dentro l'anima. A undici anni scappai di casa e andai a vivere in casa di quello che era stato sempre il mio ragazzo dalle elementari. La sua famiglia divenne la mia, vissi anni da favola, lui mi chiamava la "sua piccola principessa", aveva solo un anno più di me. Dopo due anni magici, a tredici anni mi accorsi di avere un'altra vita dentro di me. Io bambina, anche se non lo ero mai stata, ero diventata improvvisamente donna e mamma. Nel frattempo Pino cominciava a fare uso di droga, la mia favola si stava trasformando in incubo. Intanto nacque il mio piccolo. Pino non voleva saperne di allontanarsi dalla droga così lo lasciai, ma non lo allontanai mai dal mio cuore, perché gli volevo bene. Andai via con mio figlio, consapevole di dovere essere per lui madre, padre, sorella, amica, ma crescere un figlio a quell'età è difficile, così per guadagnare soldi cominciai a spacciare e anch'io mi trovai nel tunnel della droga. Seguì il calvario della tossicodipendenza, entravo e uscivo dalla galera, cercavo nel frattempo di aiutare Pino, ma anche lui entrava e usciva dalla galera. Nostro figlio Gianluca cresceva, ma per i miei errori era maturato in fretta. Poi Pino morì a 38 anni, la vita per me era finita, volevo morire anch'io, anche perché mio figlio non era rimasto immune dalla droga. Per me fu un trauma, ma come potevo colpevolizzarlo visto che ero stata uno schifo di madre. In quel periodo era lui che mi incoraggiava, che mi proteggeva, ma presto conobbe anche lui la galera. Abbiamo affrontato tante difficoltà insieme e quando lui entrò in carcere nel 2009 aveva finalmente smesso di drogarsi. Io entrai nel 2010, ancora sotto metadone, decisi di impegnarmi perché non potevo deludere il mio piccolo grande uomo, l'unico che mi aveva dato la forza di vivere. Ora ci troviamo insieme a Castrogno e se guardo indietro mi rendo conto dell'abisso in cui ero precipitata e dal quale mi ha tirata fuori mio figlio. Ho passato tante carcerazioni, ma questa volta mi rendevo conto che dovevo andare avanti, non bastava solo smettere la droga, ma dovevo costruire un futuro migliore per me e per mio figlio. Con l'aiuto degli operatori ho iniziato a guardarmi dentro, ho ascoltato, cercato aiuto in tutti i modi e tutti, a loro modo, mi hanno teso una mano. Anche un delinquente se vuole può cambiare, la forza d'animo, la volontà e l'amore per un figlio fanno tanto. Mi è stata data l'opportunità di lavorare, ho continuato a collaborare con gli operatori a dimostrare la volontà di cambiare, ciò mi ha portato anche ad avere i primi permessi. Un giorno sono stata incuriosita dal progetto "genitorialità" propostomi da Matteo, il sociologo. Mi sembrava una buona opportunità per capire il mio ruolo di madre. Ho riacquistato fiducia nelle mie capacità, lasciandomi guidare da lui e dagli altri operatori. Il primo traguardo è stato ottenere permessi insieme a mio figlio, in cui è stato bello guardarlo negli occhi, riallacciare un rapporto autentico, chiedergli perdono, fare un reso conto della nostra vita, degli errori, condividere la voglia di ricostruire il nostro futuro insieme. Oggi che ho raggiunto anche un altro traguardo importante, l'art.21, e che attraverso il progetto genitorialità ho capito quanto sia stata inutile la mia vita, posso affermare che il gioco non vale la candela. Niente può giustificare il non vedere crescere il proprio figlio, e vivere nell'illegalità, anche se ti porta a guadagni facili, è l'annientamento della propria vita. Non c'è paragone col vivere quotidianamente di piccole cose, sane, orgogliosi di essere protagonisti della propria vita. Grazie a tutta l'area trattamentale di Castrogno per avermi aiutato a riprendermi la vita. Mi addormenterò sognando di svegliarmi finalmente un giorno accanto all'unico grande amore della mia vita: mio figlio Gianluca. Firenze: teatro-carcere, domani la Compagnia di Sollicciano sul palco di Paola Barile agenziaimpress.it, 29 giugno 2015 Sono i detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano gli attori che portano in scena, martedì 30 giugno con replica l'1 luglio (inizio dello spettacolo 20.45, arrivo del pubblico entro le 20), la riscrittura dell'opera del francese Alfred Jarry "Ubu Roi". Con la regia di Elisa Taddei di Krill Teatro, la Compagnia di Sollicciano racconta la storia della conquista del trono di Polonia da parte di Padre e Madre Ubu attraverso uno spettacolo che è il caposaldo del teatro dell'assurdo. Detenuti attori Il progetto "Teatro a Sollicciano", che ha il sostegno della Fondazione Carlo Marchi e della Regione Toscana, vede la partecipazione degli studenti del Liceo Artistico di Porta Romana di Firenze. Nato nel 2004, il progetto è stato accolto dalla Direzione del Carcere di Firenze e approvato dal Coordinamento Teatro e Carcere promosso dalla Regione Toscana e finora, ogni anno, è stato realizzato un nuovo spettacolo, quindici fino ad oggi. Gli spettacoli sono il risultato di percorsi di lavoro della durata di un anno e hanno coinvolto finora oltre 250 detenuti tra attori, scenografi, assistenti al suono e alle luci. Ferrara: il teatro in carcere per dare una nuova vita a chi è finito in cella La Nuova Ferrara, 29 giugno 2015 A Ferrara i detenuti attori portano in scena uno spettacolo tratto dalla Gerusalemme Liberata. Oggi, nella Casa Circondariale di Ferrara, nell'ambito del progetto del Coordinamento Regionale Teatro-Carcere, con il patrocinio del Comune di Ferrara, della Regione Emilia-Romagna e l'ASP Ferrara, il Teatro Nucleo presenta "Me che libero nacqui al carcer danno", spettacolo tratto dalla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, con gli attori detenuti nella Casa Circondariale di Ferrara per la regia di Horacio Czertok in collaborazione con Andrea Amaducci. Il titolo dello spettacolo prende le mosse da uno scritto teatrale di Goethe su Torquato Tasso e racchiude già in sè il germe delle profonde opposizioni su cui si fonda tutta la Gerusalemme Liberata, in particolare l'episodio del Combattimento di Tancredi e Clorinda, messo in musica da Claudio Monteverdi nel 1624 come madrigale rappresentativo e sul quale si concentra anche lo spettacolo me che libero nacqui al carcer danno. Come le parole del Tasso, così la musica di Monteverdi ci portano dritti al cuore della tragedia umana e alla sua inesplicabilità. Per millenni l'uomo ha combattuto e continua a combattere, a offendere ciò che più gli è caro, la vita stessa; come afferma Horacio Czertok, regista dello spettacolo, si combatte "senza requie né respiro contro un altro che ci appare un nemico mortale", per scoprire infine che "la vittoria era anche, esattamente, una sconfitta" e che - scrive Oscar Wilde - "uccidiamo quello che amiamo". Ma emerge con la poesia, la musica, il canto e - in una sola parola - con il teatro, il bisogno benefico di raccontare questa lotta con tutti i mezzi possibili. Questa è la sfida raccolta dai detenuti attori del progetto di Teatro-Carcere. Non negare la lotta, il conflitto - brutale e cieco come quello di Tancredi - ma attraversarli e trasformarli per chi vorrà vedere, ascoltare, considerare anche questi aspetti dell'umano. Lo spettacolo di domani a Ferrara fa parte di una serie di appuntamenti che hanno visto in scena i detenuti degli istituti di pena di Bologna, Castelfranco Emilia, Ferrara, Forlì, Parma, Reggio Emilia, con sei spettacoli ispirati alla Gerusalemme Liberata realizzati dalle compagnie teatrali che fanno parte dell'Associazione Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna. L'Associazione ha tra i suoi principali scopi quello di sviluppare progetti e proporre esperienze volti al recupero e al reinserimento sociale delle persone detenute. E gli spettacoli rappresentano l'esito finale di un progetto biennale che ha visto tutti i registi del coordinamento impegnati in percorsi diversi a partire dal poema del Tasso. Larino (Cb): detenuti chef e camerieri per la terza edizione della Cena di Solidarietà primonumero.it, 29 giugno 2015 La terza edizione della Cena di Solidarietà, organizzata da carcere con il sostegno del ministero della Giustizia e dalla Iktus Onlus, è un successo di presenze: trecento invitati che degustano i piatti preparati dai detenuti con l'aiuto della scuola Alberghiera di Termoli. Volti, storie e incroci di esperienze nel cortile interno del penitenziario di Larino, dove i reclusi sperimentano il sapore della libertà e gli ospiti hanno l'opportunità di abbattere luoghi comuni e pregiudizi. Volti emozionati, sorridenti. È la loro serata, e sono determinati a renderla un successo. Alle spalle storie drammatiche. Pene da scontare che sembrano infinite: "Io devo stare qua ancora dieci anni". Dieci? "Io quindici, pensa". Arrivano da Napoli e dalla Campania, prevalentemente. Ma anche dalla Puglia e da molte altre zone del centro sud Italia. Età diverse, reati diversi (i più comuni qua dentro sono traffico di droga e rapina, generalmente a mano armata), stesso sguardo che in questo spazio ristretto ma senza sbarre e senza tetto, un fazzoletto di mondo sotto le stelle di giugno, assapora la libertà. Sono 150 i detenuti rinchiusi nella casa circondariale di Larino. Una trentina quelli coinvolti nel progetto della cena di solidarietà, che la sera di venerdì 26 giugno fa il botto, letteralmente. Gli invitati dovevano essere duecento, ma le prenotazioni sono state talmente numerose che alla fine si è deciso di arrivare a trecento. Le tavolate imbandite sono al gran completo, sistemate nel cortile interno del penitenziario. Hanno cucinato loro, aiutati dai docenti dell'Istituto Alberghiero, la scuola con la quale alcuni di loro hanno già preso un diploma e molti altri ci stanno provando. Menù a base di pesce con antipasti, due primi, secondo e dolci di pasticceria: una cena impegnativa, curata, che gli invitati gradiscono, serviti da ragazzi e uomini vestiti di bianco che per una volta sperimentano il sapore della libertà e il gusto del lavoro. Rapidi, efficienti, i detenuti si muovo agili tra i tavoli, portano le caraffe di vino, le diverse portate che si alternano fino a notte, tra momenti di testimonianza e balli caraibici delle ragazze della scuola "Saborinquen". Perché in questa carcere, quello che loro definiscono "un paradiso", facendo il paragone con altri istituti penitenziari dove sono stati, da Poggio reale a Regina Coeli, da Vasto a Lanciano, si organizzano perfino corsi di ballo. E poi restauro e realizzazione di mobili (sanno fare lo shabby, il decapaggio), laboratori di riciclo di carta (i menù sulla tavola sono deliziosi e li hanno fatti loro), artigianato (il veliero di stecchini che è il primo premio della lotteria porta la loro firma). L'anima di questa vivacità, che si basa sulla passione di giovani professionisti tra psicologhe, sociologhe e filosofi, e sulla disponibilità di sacerdoti come don Marco, instancabili, è una donna. Rosa La Ginestra (qui l'intervista di Primonumero.it), la direttrice che da 25 anni gestisce la casa circondariale di Monte Arcano, non ha mai cambiato idea sul metodo che vige qua dentro. E anzi, nel corso del tempo è riuscita con grande pazienza e un coraggio non comune a moltiplicare i collegamenti tra le celle protette dalle sbarre e il mondo esterno, con una convinzione tenace nella funzione riabilitativa del carcere. La scuola è fondamentale sotto questo aspetto, e l'Alberghiero Federico di Svevia, con la sua applicazione pratica e l'insegnamento di un lavoro - che sia lo chef, il pizzaiolo, il pasticcere, il cameriere - si è rivelata la scelta più azzeccata. La terza edizione della Cena di Solidarietà, organizzata da carcere con il sostegno del ministero della Giustizia e dalla Iktus Onlus di don Benito Giorgetta, è un successo di presenze e di emozioni. Non soltanto quelle dei detenuti, che assaggiano la normalità sotto lo sguardo complice e benevolo degli agenti coordinati da Nik De Michele, ma anche quelle degli invitati. Che hanno, per una sera, la possibilità di ascoltare storie diverse e toccanti dalla voce di questi uomini più o meno giovani che hanno infranto le regole sociali, di riflettere senza pregiudizi sull'errore e sulla funzione della condanna, e l'opportunità di cambiare idea sul luogo comune della "punizione necessaria". Civitavecchia: quadrangolare calcio "Memorial Giuseppe Passerini" ai Freedom For Guys Ristretti Orizzonti, 29 giugno 2015 Si è concluso in settimana presso la Casa di Reclusione di Civitavecchia il 1° Memorial Giuseppe Passerini, quadrangolare di calcio a 5 tra una squadra della Polizia Penitenziaria (Polpen), la prima squadra dell'Asd Trinità e due squadre di detenuti (Freedom For Guys e Quelli del Castello). La Finalità della manifestazione è stata quella ricordare l'Appuntato G. Passerini, agente di custodia scomparso il 2 gennaio 1974 (a cui è intitolato il Penitenziario) mentre tentava di sventare un'evasione. Il torneo organizzato dall'area trattamentale di Casa di Reclusione in collaborazione con l'Asd Trinità e il benestare della direzione, si è concluso con la finalissima tra la Asd. Trinità e i Freedom for Guys classificate rispettivamente secondi e primi. Medaglia di bronzo per la Polizia Penitenziaria. Al termine della partita è stato offerto un omaggio floreale alla famiglia Passerini seguito da un caloroso applauso. Passando alle singole premiazioni Florin e Cavallo dei Freedom sono risultati miglior marcatore e miglior portiere. Miglior giocatore Fair Play è risultato Pasquale Olivieri della Polizia Penitenziaria mentre miglior allenatore Alessia Giuliani educatrice dell'area trattamentale in altre vesti per l'occasione. Hanno premiato gli atleti: la direttrice Dott.sa Patrizia Bravetti, il Comandante Carlo Giordano, il personale in quiescenza Comandante Giuseppe Monni e l'ispettore Paolo Santini, le psicologhe Rita Bassetto e Loredana Cavalieri. Infine un ringraziamento per l'arbitraggio impeccabile a Mariano Pieretti della Polizia Penitenziaria. La manifestazione si è conclusa con un buffet offerto dagli ospiti dell'istituto che hanno tenuto a sottolineare la gratitudine e l'importanza che ha avuto questo evento per ognuno di loro. (Comunicato Staff Asd Trinità). Immigrazione: i punti deboli del piano europeo di Sergio Briguglio (lavoce.info) Il Messaggero, 29 giugno 2015 A metà maggio, in una comunicazione al Consiglio e al Parlamento Ue, la Commissione ha proposto l'istituzione di un meccanismo di redistribuzione automatica dei richiedenti asilo tra gli Stati membri, in deroga al regolamento Dublino 3, secondo percentuali determinate in base alle dimensioni e alla situazione economica di ciascuno Stato e al carico già sopportato in materia di richiedenti asilo. In base alla situazione attuale, all'Italia spetterebbe una frazione del numero di richiedenti asilo pari all'11,8 per cento (contro il 14,2 per cento della Francia e il 18,4 per cento della Germania). La proposta della Commissione, se venisse approvata in modo da garantire una redistribuzione automatica e immediata dei profughi e delle relative domande di asilo, farebbe venir meno da un lato l'iniquità insita nel regolamento Dublino 3 e, dall'altro, renderebbe superfluo l'atteggiamento dell'amministrazione italiana. Inoltre, se nell'assegnazione individuale di ciascuno dei richiedenti asilo si tenesse conto (sia pure in modo non vincolante) delle preferenze dell'interessato, potrebbe ridursi di molto la volontà di elusione dei controlli da parte dei profughi. Non è detto, invece, che, nel breve periodo, una soluzione di questo genere alleggerisca il carico che effettivamente grava sull'Italia. Mentre, infatti, la vulgata messa in giro da una parte dei politici italiani tende ad accreditare l'immagine di un paese - il nostro - martire del suo stesso spirito umanitario, le cifre descrivono una realtà un po' diversa. Valga per tutti il confronto tra Italia, Germania e Francia. Ecco i dati: - stranieri presenti alla fine del 2013 quali beneficiari di protezione internazionale: Italia, 78.061 (8 per cento del totale censito nell'Unione); Germania, 187.567 (19,1 per cento); Francia, 232.487 (23,7 per cento); - richieste di asilo ricevute nel 2014: Italia, 64.625 (10,3 per cento del totale Ue); Germania, 202.645 (32,4 per cento); Francia, 62.735 (10 per cento). L'Italia non raggiunge, né quanto a stock né quanto a flusso, la percentuale che la proposta della Commissione le attribuisce. La Germania, per parte sua, trarrebbe vantaggio da quella proposta. La Francia, invece, sarebbe chiamata a un maggior onere rispetto al flusso di nuove domande ma, sul lungo periodo, vedrebbe ridursi sensibilmente lo squilibrio relativo allo stock di beneficiari di protezione. A una conclusione diversa si arriverebbe se l'Italia non avesse messo in atto un meccanismo elusivo reso probabilmente necessario dalla situazione di emergenza. Se, infatti, dei 170mila stranieri sbarcati sulle coste italiane nel 2014 la maggior parte avesse depositato impronte e richiesta di asilo in Italia, il nostro paese avrebbe registrato una percentuale di domande vicina al 27 per cento del totale Ue e la proposta della Commissione rappresenterebbe un effettivo alleggerimento dell'onere italiano. In altri termini: quella proposta darebbe una base legale (quasi completa) al meccanismo redistributivo che il nostro governo ha realizzato. Vi sono punti deboli nella proposta della Commissione? Ne vedo due. Il primo è che lascia inalterato il fatto che ciascuno Stato membro può comunque ridurre i propri oneri applicando restrittivamente i criteri in base ai quali riconoscere il diritto alla protezione. Sarebbe opportuno, allora, che l'esame delle domande fosse comunque gestito da organismi espressione della Ue e non del singolo Stato membro, fermo restando il diritto del singolo Stato di adottare misure di protezione nazionale più generose. Se il numero di richieste di asilo arrivasse, poi, a livelli tali da essere percepito come una minaccia intollerabile per il sistema di welfa-re della Ue, sarebbe molto più onesto ammettere che l'Unione Europea non è moralmente matura per riconoscere il diritto alla protezione sussidiaria (senza la possibilità di porre un limite numerico al numero, grande, dei beneficiari). Si potrebbe ripiegare sulla concessione di una protezione temporanea a un numero predefinito di profughi, limitando il riconoscimento del diritto alla protezione ai soli rifugiati (ossia, a quanti siano personalmente perseguitati). Il secondo punto debole è legato al fatto che la distribuzione tra Stati membri sarebbe decisa in base a una mediazione tra burocrazie e difficilmente una decisione di questo genere risulterebbe economicamente efficiente e oggetto di aggiustamenti opportunamente rapidi. L'alternativa potrebbe consistere nel lasciare la decisione sullo Stato in cui chiedere o godere del diritto d'asilo agli interessati (scommettendo sulla loro razionalità), ripartendo però tra tutti gli Stati membri i costi dell'assistenza da accordare, fino a raggiungimento dell'autosufficienza economica, a ciascuno straniero. Droghe: Della Vedova "marijuana legale come il tabacco, legge per stroncare lo spaccio" di Maurizio Cerruti Il Gazzettino, 29 giugno 2015 Nei prossimi giorni sarà presentato il testo finale della proposta di legge per la legalizzazione della cannabis. Poi partirà la raccolta di firme alla Camera e al Senato - l'obiettivo è di raddoppiare il centinaio di parlamentari che hanno già dato la loro adesione - in vista della calendarizzazione parlamentare del testo. Il promotore della nuova legge, il senatore Benedetto Della Vedova - 53 anni di Sondrio, liberale, ex presidente dei Radicali, attuale sottosegretario agli Esteri - partecipa oggi a Padova ad un dibattito pubblico su rischi e opportunità della liberalizzazione (Sala Polivalente di via Valeri alle 17) con il magistrato Sergio Dini e il medico Jacopo Baccarin specialista della materia. Senatore, per molti sarà la legge dello "spinello libero". "Io invece parto da una considerazione: i fatti dimostrano che il proibizionismo della marijuana è costosissimo e inefficace. È a vantaggio solo dei narcotrafficanti". In che senso? "Piaccia o no c'è un mercato di massa di milioni di consumatori e noi lo consegniamo alla criminalità che si arricchisce mentre lo Stato spende per la repressione - più poliziotti, tribunali, carceri - ma è una battaglia persa". Non pensa che trattare la marijuana come il tabacco sia un "salto" eccessivo? "Lo affermano voci autorevoli come il professor Veronesi. Certo, c'è chi la pensa diversamente. Ma sono convinto che la legalizzazione ormai non sia un problema di "se" ma di "quando", come per le coppie di fatto o i matrimoni gay". Cosa glielo fa pensare? "L'anno prossimo in California, il primo Stato Usa che consentì la marijuana terapeutica, si terrà un referendum per la legalizzazione. Se vince il sì, negli Stati Uniti si metterà in moto un meccanismo inarrestabile. Cito gli Usa non perché penso che dobbiamo copiarli, ma perché nella guerra alla droga almeno da 30 anni abbiamo seguito il loro esempio". La proposta prevede negozi - c'è chi già le chiama fumerie - specializzati in cannabis. Perché? "Proprio per limitare l'ingresso ai soli maggiorenni e tenere sotto controllo il mercato al dettaglio, evitando che in tabaccherie o supermercati si vendano birre e cannabis assieme. È il modello del Colorado dove secondo dati ufficiali la legalizzazione ha attivato un'economia da 700 milioni di dollari tra marijuana medica e ricreativa, con introiti fiscali per 76 milioni senza contare l'indotto". Cannabis come il tabacco? O come l'alcol? Pensiamo ad esempio a chi guida. "Il testo che porteremo in Parlamento prevede regole severe, dall'accesso ai minori alla guida. Sappiamo bene cosa significa il consumo di alcol: migliaia di morti in incidenti, violenze domestiche, costi sanitari altissimi. Nessuno però pensa di proibire l'alcol, una droga legale". Si potrà coltivare e tenere con sé, non fumare al parco o in ufficio Questi, in sintesi, alcuni passaggi chiave della proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis, promossa dal sen. Benedetto Della Vedova, che ha già avuto l'appoggio di oltre cento parlamentari di tutti gli orientamenti politici. 1) Potranno coltivare per sé, fino a 5 piante di cannabis, le persone maggiorenni. Possibili anche associazioni come i "cannabis social club" spagnoli. 2) I maggiorenni potranno detenere fino a 5 grammi in generale, o fino a 15 grammi nel proprio domicilio. 3) Un Monopolio di Stato analogo a quello dei tabacchi darà le autorizzazioni alle coltivazioni e vigilerà sulla preparazione dei prodotti derivati, sulla vendita e sugli aspetti fiscali. 4) Sarà permessa la cessione gratuita tra maggiorenni, o tra minorenni, di una modica quantità (fino a 5 grammi). Lo spaccio resterà punito come reato. 5) Sarà autorizzata anche la coltivazione personale per necessità terapeutiche proprie o di parenti. 6) Fumare i derivati della cannabis sarà vietato in luoghi pubblici o aperti al pubblico, e sul posto di lavoro. 7) I proventi delle sanzioni saranno destinati ad interventi educativi, preventivi e riabilitativi. Il 5% del totale dei proventi della legalizzazione finanzieranno il Fondo nazionale antidroga. Guinea Equatoriale: in arresto un altro cittadino italiano, ancora ignote le accuse di Andrea Spinelli crimeblog.it, 29 giugno 2015 Daniel Candio, 24 anni di Roma, è agli arresti nel carcere di Bata da giovedì scorso. Ancora ignote le accuse. Continuano gli arresti di cittadini italiani in Guinea Equatoriale: Daniel Candio, un giovane di 24 anni di Roma, dipendente di un'azienda che si chiama General Work, è stato arrestato giovedì mattina e si trova detenuto senza accuse nel carcere di Bata, dove da due anni e mezzo vive Roberto Berardi e dove si trovano anche Fabio e Filippo Galassi. Mercoledì sera Tvge, la televisione di Stato di proprietà del vicepresidente Teodorin Obiang, ha mandato in onda un servizio fortemente diffamatorio su Fabio Galassi, detenuto dal 21 marzo scorso a Bata ad oggi senza che gli siano state formulate accuse formali. Il 21 marzo anche il figlio di Galassi, Filippo, era stato arrestato e poi, dal 23, mandato ai domiciliari: a livello informale i due sono accusati di aver "tentato la fuga" all'alba con due trolley carichi di soldi e documenti, mai trovati nè mai mostrati ancora dagli inquirenti (che non si fanno scrupolo, di solito, a consegnare alla propaganda immagini e carte processuali). L'assenza di tali immagini, fotografie, documenti è in parte la dimostrazione del tentativo diffamatorio della magistratura nguemista, che dopo la messa in onda del servizio ha avviato una vera e propria stretta sui due Galassi: la polizia è stata mandata a prendere il figlio Filippo a casa, dove era detenuto in regime di arresti domiciliari, accusandolo di aver tentato un evasione e traducendolo nuovamente in carcere a Bata Central. Con lui c'era anche un suo amico, Daniel Candio, 24 anni di Roma, operaio in General Work, la stessa azienda dei Galassi. Anche a carico di Candio la magistratura non avrebbe formulato accuse che, secondo il codice penale della Guinea Equatoriale, andrebbero rese note all'arrestato nel giro di massimo 72 ore. Con Candio sono ora quattro i detenuti di nazionalità italiana nel carcere di Bata Central, in Guinea Equatoriale: Roberto Berardi, in galera da quasi due anni e mezzo, che sarebbe dovuto essere scarcerato lo scorso 19 maggio per decorrenza della pena e che invece si trova ancora detenuto, senza ragione se non quella del suo ex-socio, Teodorin Obiang (cui i militari di guardia nel carcere rispondono direttamente), Fabio Galassi, arrestato il 21 marzo ed ancora in attesa di conoscerne le ragioni penali, Filippo Galassi, figlio di Fabio ai domiciliari fino al 25 giugno scorso, e Daniel Candio appunto. Attualmente, tutti e quattro i connazionali sarebbero in condizioni di salute accettabili; quello che è inaccettabile è l'atteggiamento violentemente repressivo e palesemente illegale delle autorità della Guinea Equatoriale, che sembrano quasi voler aprire una "guerra giudiziaria" a danno dei nostri connazionali nel Paese. Una situazione generale, della magistratura in Guinea Equatoriale e dello stato del carcere di Bata Central, che l'ambasciatrice in Italia Cecilia Obono Ndong conosce perfettamente, visto che in tempi recenti ha fatto visita al connazionale Roberto Berardi, oggi allo stremo delle forze. Stati Uniti: arrestato il secondo detenuto evaso nello Stato di New York 20 giorni fa La Repubblica, 29 giugno 2015 I due ergastolani erano scappati da una prigione di massima sicurezza. Fermato David Sweat al confine col Canada: è ferito e in custodia. Il compagno Richard Matt era stato ucciso dalla polizia vicino al lago Titus. Dopo più di venti giorni, finisce la grande fuga. Negli Stati Uniti, al confine col Canada, è stato arrestato il secondo detenuto evaso nelle scorse settimane da una prigione di massima sicurezza nello Stato di New York. Si era trattato di una evasione in stile Hollywood visto che i due detenuti - entrambi ergastolani - avevano trapanato i muri della cella infilandosi in un tunnel e gattonando tra stretti cunicoli fino al tombino che - oltre il possente muro di cemento alto dieci metri - li aveva resi liberi. Una fuga rocambolesca riuscita grazie alla complicità di un secondino e di una dipendente, che si era innamorata di uno di loro. Il 49enne Richard Matt - è stato ucciso sabato dalla polizia vicino al lago Titus, non lontano dal confine canadese. "Era armato e ha rifiutato di consegnarsi", hanno detto le autorità. La polizia si è poi messa all'inseguimento del secondo evaso, il 35enne David Sweat. L'hanno trovato oggi. È in custodia delle autorità dopo essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco. Entrambi pericolosi assassini, Matt era stato condannato a 25 anni per avere rapito, ucciso e smembrato un uomo; a Sweat era stato dato l'ergastolo per l'omicidio di un vice-sceriffo. Entrambi per fuggire si sono fatti beffa delle guardie carcerarie lasciando sulle brandine due manichini e un post-it giallo con la faccetta di un uomo con il cappello a cono (tipo asiatico) e la scritta "have a nice day!" ("Passate una buona giornata"). Le guardie si sono rese conto della beffa sole alle 5.30 del mattino, quando i detenuti sarebbero dovuti uscire dalle celle per il tradizionale appello. Nessuno di coloro che è stato rinchiuso nella Clinton Correctional Facility era mai riuscito, nonostante molti tentativi, nell'impresa di evadere. Per la duplice evasione sono stati arrestati nei giorni scorsi una guarda carceraria e la sarta del penitenziario accusati di complicità. Il carcere di massima sicurezza, considerato uno dei più impenetrabili - in entrata e in uscita - degli interi Stati Uniti ha cominciato a funzionare nel 1865 e oggi ospita oltre tremila detenuti. Medio Oriente: Israele libera palestinese Khader Adnan dopo 56 giorni sciopero fame Agi, 29 giugno 2015 Israele ha deciso di liberare il detenuto palestinese Khader Adnan, che per protesta era da 56 giorni in sciopero della fame. Lo comunicano il suo difensore e l'associazione Palestinian Prisoners Club. Adnan, 37 anni, era in carcere in regime di detenzione amministrativa, che consente la reclusione senza specifiche accuse per un periodo di sei mesi, rinnovabile indefinitamente. Era stato arrestato un anno, poco dopo il rapimento e l'uccisione di tre giorni israeliani. Già nel 2012, in occasione di un precedente arresto, Adnan aveva digiugnato per 66 giorni prima di ottenere la scarcerazione. La sua vicenda era seguita con molta apprensione nei territori palestinesi, nel timore che potesse morire in qualsiasi momento a causa del digiuno. L'uomo ha deciso di interrompere la sua protesta la scorsa notte, dopo che le autorità israeliane hanno fissato il ruo rilascio per il prossimo 12 luglio, ha affermato il suo legale, Jawad Boulos. Adnan è stato trasferito in un ospedale israeliano per riprendere l'alimentazione sotto controllo medico. Khader Adnan vince la sua battaglia Dopo 55 giorni di sciopero della fame, arriva l'accordo con le autorità carcerarie israeliane: sarà rilasciato il 12 luglio. Khader Adnan, prigioniero politico palestinese in sciopero della fame da 55 giorni, ha vinto per la seconda volta; nel primo mattino del 29 giugno, dopo 55 giorni di sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione amministrativa senza accusa né processo, la moglie di Adnan, Randa, ha annunciato che è stato raggiunto un accordo con i suoi carcerieri israeliani per liberarlo il 12 luglio. Ha inoltre affermato che c' è un impegno per porre fine all'uso della detenzione amministrativa - in base alla quale Adnan è stato detenuto complessivamente per oltre 6 anni, con molteplici arresti - contro di lui. Khader Adnan, 37 anni, un panettiere di Jenin e un attivista politico del Jihad Islamico, era stato rilasciato, una prima volta, dalla detenzione amministrativa israeliana senza accusa né processo, nel 2012 dopo uno sciopero della fame di 67 giorni che suscitò ampio sostegno internazionale e Palestinese e contribuì a rivitalizzare il vasto movimento per la libertà dei prigionieri Palestinesi. Uscito dal carcere il 17 aprile 2012, è stato nuovamente arrestato l'8 luglio 2014 e da allora era detenuto in detenzione amministrativa, senza accusa né processo. Il 5 maggio aveva cominciato il suo secondo sciopero della fame per protestare contro il rinnovo della sua detenzione amministrativa e si trovava in condizioni di salute critiche. Ieri sera, era stato concesso alla moglie Randa, al padre ed ai figli di Adnan di fargli visita nell'ospedale Assaf Harofeh, dove era detenuto, incatenato mani e piedi al suo letto d'ospedale, perché si temeva potesse morire da un momento all'altro. Poco dopo, la notizia dell'accordo con le autorità carcerarie israeliane. "Khader Adnan - scrive il Samidoun Palestinian Prisoner Solidarity Network - è un vero eroe Palestinese, come i suoi oltre 5.000 sorelle e fratelli rimasti nelle carceri israeliane, un prigioniero della libertà che anela e lotta incessantemente per la giustizia e ricorda a tutti noi l'urgenza di lottare per liberare ogni detenuto Palestinese tenuto dietro le sbarre per mano del colonialismo israeliano".