Gli stati generali dell'esecuzione penale. "Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?" di Antonella Tuoni (Direttrice dell'Opg di Montelupo Fiorentino) Ristretti Orizzonti, 27 giugno 2015 Il 19 maggio sono stati ufficialmente avviati a Bollate "sei mesi di ampio e approfondito confronto che dovrà portare concretamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto". Così il ministro Orlando. Con decreto del 19 giugno scorso sono stati poi nominati i coordinatori dei diciotto tavoli tematici: cinque professori universitari, di cui uno architetto, sette magistrati, un componente del comitato di bioetica, un dirigente del ministero del lavoro, un insegnante, un ex deputato, uno scrittore, un avvocato. Mi ha molto colpita la circostanza che nessun operatore penitenziario figuri tra i coordinatori, soprattutto a fronte delle esplicitate intenzioni del guardasigilli di aprire un dibattito a cui "contribuiranno innanzitutto coloro che operano nell'esecuzione penale a diversi livelli". Come direttore di carcere, che fa questo lavoro da più di venti anni, raccolgo quello che interpreto come un invito del ministro e offro il mio contributo. Non conoscendo altri canali di comunicazione attraverso i quali esprimere il mio pensiero e farlo arrivare ai coordinatori ed ai componenti dei tavoli (ancora ignoti), scelgo Ristretti Orizzonti, quale rivista specializzata di settore. Gli argomenti sono tanti e di vario genere poiché il carcere è il risultato della capacità o per meglio dire della incapacità di uno Stato di curare se stesso e quindi prima di parlare di carcere bisognerebbe concentrarsi sulla società che abbiamo costruito e prima ancora bisognerebbe interrogarsi sulla stessa necessità del carcere. Poiché però è utopistico pensare ad una società senza carcere ed è specifico impegno parlamentare e governativo, di lungo termine, tentare di migliorare il sistema, mi limiterò a cose che conosco, non per sentito dire o per averle studiate o lette sui libri, ma per esperienza diretta di vita. Il carcere è carne viva. Può essere sudore, sangue, urla, clangore di chiavi e stridore di porte, annullamento, solitudine, silenzio, buio, botte, contenzione, morte, (le statistiche registrano un tasso di suicidio 20 volte più alto in carcere rispetto alla società libera) ma può essere anche profumo di pane, musica, teatro, lavoro, responsabilizzazione, solidarietà, cura, ascolto, vita. Il carcere può essere Bollate o Guantánamo. Recentemente una laureanda, al termine di una intervista, mi ha chiesto una parola chiave rispetto al futuro dei rei folli (dirigo l'Opg di Montelupo dal 2011) ed alle residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza che dovranno sostituire il carcere, e la parola che ho scelto è competenza. Non è detto che la contenzione, pratica superata a Montelupo nel 2012, non venga reintrodotta nelle future Rems, analogamente a quanto accade in alcuni SPDC; eppure l'art. 13 C. a tutela dell'inviolabilità della libertà personale è immutato dal 1948. I principi inderogabili che dovrebbero orientarci nel nostro agire quotidiano sono tutti lì, nella nostra Carta costituzionale, da più di mezzo secolo. Addirittura quest'anno ricorrono ottocento anni dal primo abbozzo dell'Habeas Corpus, pietra quadrangolare dei diritti fondamentali dell'uomo. Noi toscani poi possiamo vantarci di appartenere al primo Stato in cui è stata abolita la pena di morte nel lontano 1786. "Le leggi son". Il vero problema è: "Chi pon mano ad esse". Credo che per migliorare il carcere si debba partire, innanzitutto, investendo in chi lavora all'interno del carcere, dal direttore all'ultimo arrivato degli agenti. Occorre, come dicevo prima, competenza e quindi selezione severa e formazione continua ad alti livelli; ma perché la competenza si traduca in pratica occorre che gli organici di tutte le professionalità penitenziarie siano completi, occorre almeno un direttore per ogni istituto penitenziario; e perché la competenza si consolidi occorre motivazione e benessere. È significativo che, mi pare dal 1997 o giù di lì, non sia più stato bandito un concorso per direttore di carcere (qualche anno fa mi sono trovata a dirigere tre carceri contemporaneamente e mi risulta che tale sia ancora la realtà in alcune regioni); altrettanto significativa è la circostanza che lo status (diritti e doveri) dei direttori sia sostanzialmente regolamentato da due o tre circolari e ancora che la polizia penitenziaria sia il fanalino di coda delle altre forze dell'ordine. È, questa, non una recriminazione, assolutamente fuori luogo in un panorama di rimodulazione degli assetti istituzionali, bensì la constatazione, nell'ottica di un miglioramento di sistema, di quanto in poco conto siano stati tenuti coloro che hanno nelle proprie mani la vita di circa 60.000 persone recluse e, di riflesso, di quanto in poco conto siano state tenute queste ultime. Garantire personale penitenziario ben centrato rispetto al proprio ruolo ed in numero adeguato rispetto al modello organizzativo prescelto è il primo ed irrinunciabile presidio di legalità in un luogo dove continueranno ad esserci porte chiuse a chiave. Le più avanzate idee gestionali sono vasi di coccio tra vasi di ferro in assenza di chi, a tali idee, dovrebbe dare le gambe. Suggerisco, quindi, secondo le buone pratiche manuali di chi deve costruire un edificio, di partire dalle fondamenta che, se non saranno solide, non potranno sostenere un luogo accogliente. Giustizia: figli dei detenuti, la Carta italiana dei diritti può diventare europea Vita, 27 giugno 2015 Bambinisenzasbarre e la rete Children of Prisoners Europe richiamano l'attenzione sulla situazione degli oltre 800 mila bambini europei con genitori in carcere e lanciano l'iniziativa Child Rights Champion. Giunge al sesto anno la Campagna europea d'informazione "Non un mio crimine, ma una mia condanna" con cui Bambinisenzasbarre e la rete Children of Prisoners Europe richiamano l'attenzione di tutti sulla situazione vissuta dai figli di genitori detenuti. I 100.000 bambini italiani, che ogni anno entrano in carcere per incontrare la mamma o il papà, chiedono all'Unione Europea, con una petizione, di adottare la "Carta dei figli dei genitori detenuti", garantendo così anche agli altri 800 mila bambini europei, figli di genitori detenuti, il diritto alla continuità del legame affettivo con il proprio genitore in regime di detenzione e, a quest'ultimo, il proprio diritto alla genitorialità. L'Italia si fa portavoce di questa richiesta, affinché il Protocollo d'Intesa firmato in Italia il 21 marzo 2014 dal Ministro della Giustizia, il Garante dell'Infanzia e dell'Adolescenza e da Bambinisenzasbarre Onlus, diventi un modello europeo. YeT app: la prima app per i diritti dei bambini. La app YeT-Yellow Telephone, la prima app a supporto dei figli e delle famiglie dei detenuti, rappresenta uno strumento concreto per l'attuazione dei principi della Carta. La campagna crowdfunding di YeT è attiva sul portale Telecom WithYouWeDo fino al 27 luglio. Messaggi dei bambini ai deputati europei. Le speciali cartoline scritte dai figli di genitori detenuti saranno consegnate a mano a Bruxelles ai deputati italiani Child Rights Champion, presso il Parlamento Ue. Le cartoline riproducono i disegni dei figli di genitori detenuti di tutta Europa, e faranno parte di una mostra itinerante nel prossimo autunno. Carceri Aperte. Anche in questa sesta edizione, tutti gli istituti penitenziari italiani sono invitati dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) a partecipare al programma "Carceri aperte", promuovendo iniziative a sostegno delle relazioni familiari, con una particolare attenzione all'accoglienza dei bambini. Per Bambinisenzasbarre è l'occasione di consolidare rapporti diretti con gli Istituti penitenziari nello scambio di informazioni, indispensabile per consentire il monitoraggio dell'attuazione della Carta come previsto dal Protocollo d'intesa. Il manifesto della campagna Carceri Aperte 2015 o le cartoline Child Rights Champion possono essere richieste all'Associazione sul sito www.bambinisenzasbarre.org con un rimborso spese postali di 3 euro e un'eventuale donazione libera. Giustizia: Ilaria Cucchi attacca Salvini "non sa niente del reato di tortura" La Presse, 27 giugno 2015 Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto in carcere per cause non ancora accertate (a seguito di una sentenza della corte d'Appello di Roma sono stati assolti tutti gli imputati ma il legale della famiglia Cucchi ha annunciato che farà ricorso alla Corte di Cassazione) è intervenuta, dai microfoni di Radio Cusano Campus, sul tema del reato di tortura. Cucchi ha replicato alle dichiarazioni di Salvini ("Se un delinquente si fa male, affari suoi") con queste parole: "Io ritengo che Salvini non sappia di cosa parla e bisogna rendersi conto del fatto gravissimo che le forze dell'ordine temano questa legge. Salvini non sa nulla di questa legge. Dichiarazioni del genere sono state fatte già in passato e a un cittadino viene da chiedersi se la polizia abbia davvero bisogno di fare del male alle persone per svolgere il proprio lavoro". Ilaria Cucchi boccia l'introduzione del reato di tortura nel codice italiano: "Io per prima ho criticato questa legge. Purtroppo, per quello che è successo a mio fratello, ho sperimentato su me stessa e sulla mia famiglia cos'è la tortura. Ho lottato e mi sono battuta assieme a molte associazioni, perché finalmente anche in Italia si avesse il coraggio di affrontare questo tema. Per anni lo Stato ha preferito ricevere sanzioni, piuttosto che affrontare il problema. Ora, dopo tanta fatica, si arriva a discutere del reato di tortura. Ma come ci si arriva? Con i compromessi, come sempre. Con i sindacati che intervengono, gli stessi sindacati che puntualmente attaccano e aggrediscono verbalmente le vittime di tortura e i loro familiari. Questo disegno di legge è un'ulteriore presa in giro, un contentino. Tanti reati, così, non potranno essere perseguiti e ci sarà la patente di impunità per coloro che commettono quei reati". Sul caso legato alla morte del fratello, Stefano, Ilaria Cucchi annuncia: "Aspetto delle novità importanti che potrebbero cambiare totalmente il corso degli eventi. Noi andiamo drammaticamente incontro alla prescrizione, che interverrà ad ottobre. La speranza ormai non mi appartiene più, però voglio continuare a credere fino all'ultimo momento che anche per mio fratello sarà fatta giustizia. Mio fratello è morto in conseguenza del pestaggio che ha subito. Molto presto daremo notizie su importanti novità e speriamo che possano essere utilizzate per arrivare ad una verità a 360 gradi". Giustizia: il venerdì di sangue della jihad globale di Guido Olimpio Corriere della Sera, 27 giugno 2015 Dalla Tunisia alla Francia, dal Kuwait alla Somalia, gli estremisti uccidono in moschea, sul lavoro, in spiaggia Terroristi fai-da-te, con la stessa ideologia. Il venerdì nero. Un giorno di terrore globale. Prima la fabbrica in Francia, poi la moschea in Kuwait e le spiagge in Tunisia. A chiudere i soldati africani trucidati dagli Shebab somali. Bersagli classici. Solo pochi giorni fa, il portavoce dello Stato islamico, Al Adnani, ha esortato a trasformare il mese del Ramadan "in calamità per gli infedeli", per i nemici, a cominciare dagli sciiti. E sono seguite 24 ore di sangue. Obiettivi diversi ma perfettamente inseribili nella coreografia dell'Isis, versione horror di quella di Al Qaeda. I seguaci del Califfato - proclamato il 29 giugno di un anno fa, altra data simbolo - hanno rivendicato il massacro kuwaitiano, per gli altri episodi il coinvolgimento è tutto da dimostrare ma non è azzardato pensare alla sua capacità di ispirare o semplicemente di influenzare. È un estremismo dove non servono ordini e legami veri. Agiscono invece con un'altra logica gli Shebab, ieri all'assalto di un'installazione a Leego, dove hanno assassinato dozzine di militari. La fazione è rimasta fedele al qaedismo, però usa i metodi feroci e riti visti in Siria o in Iraq. Spara su persone in divisa, falcia senza pietà i clienti di un centro commerciale, come è avvenuto a Nairobi, nel 2013. L'attentato vicino a Lione sottolinea tre aspetti. Dimostra che anche un impianto chimico può diventare un target pagante per i terroristi. Il sito è nella lista dei luoghi sensibili ma non può essere tramutato in una fortezza. E questo vale per centinaia di strutture in Francia e nel resto d'Europa. Il timore è che Yassin Salhi abbia indicato la strada, altri potrebbero emularlo come lui ha copiato i tagliagole. La decapitazione - la prima in Europa dopo un caso analogo in Gran Bretagna - e la bandiera nera sono una costante dei piani sventati in questi mesi, dagli Usa all'Australia. Imitazione dello scempio visto con gli ostaggi a Raqqa. Quanto è avvenuto a Saint-Quentin costringerà le forze di sicurezza ad allungare le risorse insufficienti. Altro elemento è quello della sorveglianza. Di nuovo, l'estremista era noto, lo avevano monitorato, poi si è calmato per tornare infine nella nebulosa radicale. Niente complotti, oggi i potenziali terroristi sono troppi. Servono dozzine di agenti per una copertura totale. Vale sempre la regola dell'Ira irlandese: voi dovete sempre essere fortunati, a noi basta una volta sola (per fare centro). Infine c'è l'impatto sociale, disgregante. Ed è quello che l'Isis e altre formazioni qaediste ricercano. È terreno fertile. Ha fornito migliaia di guerriglieri partiti per Libia (dove sono la componente principale dell'Isis), Iraq e Siria. Ha visto crescere gruppi esistenti sul suo territorio. I qaedisti della brigata ibn Nafaa attivi sulle montagne di Kasserine, gli scissionisti pro Isis di Ajnad al Khilafa, i salafiti di Ansar, i "nuovi" dell'Isis. Con la strage del Bardo hanno aperto un varco mai richiuso. Prima e dopo è stato uno stillicidio di conflitti a fuoco, agguati, imboscate ai militari, omicidi mirati di esponenti laici. Fin troppo chiaro il progetto: uccidere degli occidentali, abbattere quei tunisini considerati degli scudi umani, danneggiare in modo irreparabile il settore turistico, una delle poche risorse di un Paese fragile. Dopo aver seminato terrore a Tunisi, i militanti si sono preparati, a loro modo, alla stagione estiva. E proprio Ajnad al Khilafa, ai primi di maggio, ha invitato i visitatori stranieri a stare alla larga. Non erano sbruffonate, purtroppo. Bensì moniti che anticipavano la tempesta. Il killer di ieri ha poi dimostrato una certa flessibilità operativa. Non si esclude che sia arrivato dal mare. Un avvicinamento che ricorda quello usato dai militanti protagonisti dell'assalto a Mumbai e, più lontano nel tempo, agli sbarchi sulle spiagge israeliane di commando palestinesi. A questo proposito ci sono state un paio di segnalazioni britanniche sulla creazione di "unità di fuoco marittime" da parte di Al Qaeda nella terra del Maghreb, elementi addestrati però non a sparare tra gli ombrelloni ma piuttosto pronti a missioni suicide contro mercantili, yacht o navi da crociera. In questi mesi la Tunisia non è stata lasciata sola. La Francia, gli Usa e altri Paesi hanno cercato di sostenere la lotta al terrore. Inviando consiglieri, materiale, aiuti. Un aereo americano per l'intelligence, decollato da Pantelleria e Catania, ha condotto voli di ricognizione sulla regione di Kasserine. I suoi apparati hanno captato comunicazioni, movimenti. Qualche risultato è arrivato, con l'eliminazione di alcuni dirigenti islamisti. Uno sforzo non sufficiente a parare ogni fendente. È lo scenario iracheno, con lo scempio di fedeli sciiti in una moschea, musulmani considerati dall'Isis alla stregua di eretici, rinnegati, non persone. Per Abu Bakr al Baghdadi è un modo di prolungare la campagna contro l'avversario regionale. Non è un caso che abbia fatto lo stesso per marcare l'arrivo del suo movimento nello Yemen, mandando un uomo bomba sempre in un tempio musulmano e in Arabia Saudita. Gli estremisti sperano di far esplodere, insieme agli ordigni, la società innescando la faida etnico-religiosa. E, ovviamente, allargano i confini del Califfato anche in Paesi dove possono contare su donatori importanti quanto discreti. Se non hanno abbastanza mujaheddin per creare una "base territoriale" si accontentano di attaccare, convinti che gli attentati spazzino via vite, aprano spazi politici, lacerino il tessuto di uno stato. È la lotta armata che poi permetterà ai seguaci neri di consolidare la loro presenza. Assistiamo alla moltiplicazione dei terrorismi. Il fai-da-te, l'organizzato, l'ispirato, il diretto in modo remoto. A tenerli insieme, le vittime e la condivisione di un disegno plasmato nelle diverse aree a seconda delle possibilità. Gli esiti sono devastanti e non solo per i tanti innocenti uccisi. Che riescano o meno nei loro intenti, i criminali alimentano la percezione di una minaccia globale, incontrollabile, capace di toccare ogni passo della nostra vita. È un duello continuo, dove le mosse degli attentatori sono studiate per negare spazi comuni. Il luogo di culto, la hall di un albergo, un posto di lavoro sono tramutati in campo di battaglia dove le armi non sono sempre le stesse. Ma portano in dote vittorie per il Califfo o i suoi omologhi. Giustizia: il tragico Ramadan dei jihadisti; strage di turisti in spiaggia, 37 morti di Paolo G. Brera La Repubblica, 27 giugno 2015 Un uomo con un kalashnikov nascosto nell'ombrellone ha aperto il fuoco sui bagnanti rincorrendoli nel resort. Freddato dagli agenti. Corpi sui lettini, infradito insanguinate e cadaveri anche nell'acqua della piscina. Una vacanza "all inclusive" finita in un massacro. Il killer ha colpito in un albergo a Susa Alcuni testimoni: "È arrivato dal mare a bordo di un gommone" Arrestato un sospetto. "Uscite fuori dall'albergo, spaventate i turisti!", urla il manager dell'hotel Riu Imperial Marhaba, un albergo "all inclusive" violentato da una tempesta di pallottole e granate. Un killer con un kalashnikov nascosto tra le pieghe di un ombrellone ha massacrato 37 persone in costume da bagno, e sulla spiaggia riarsa ecco le infradito di una di loro, i teli abbandonati tra i lettini nel fuggi fuggi per salvarsi la pelle. I turisti sopravvissuti sciamano tra il bar e i divanetti, si rifugiano in camera e poi scendono a condividere il terrore. La polizia prende rilievi, e ascolta l'incubo raccontato da decine di voci. Ognuna ha la sua prospettiva di orrore: "I corpi erano ovunque, davanti al mio negozio, nel giardino, nella piscina", racconta Zora Dris, parlamentare e titolare di una boutique nell'albergo, che ancora si chiede come ha fatto a cavarsela. Già, se lo chiede anche Ellie Makin, un turista britannico che era proprio accanto a quel giovane demonio arrivato dal mare con la faccia da ragazzino e l'aspetto da turista innocuo. Ellie era sdraiato sul lettino: "Lui era alla mia destra, all'improvviso ho visto un ombrellone cadere ed è spuntata un'arma. Ha iniziato a sparare colpi alla sua destra, non lo so cosa sarebbe successo se si fosse girato dalla nostra parte". Anche stavolta, come già era successo nella strage del museo Bardo, è difficile persino capire quanti fossero, gli assassini. Due, dicevano le prime ricostruzioni. "Noi ne abbiamo visto uno solo", dicono molti testimoni. Il corpo di un killer è rimasto a lungo tra i vialetti asfaltati del comprensorio di Port El Kantaoui, un piccolo idillio di palme e fontane nella zona turistica di Susa riservato a clienti dei tre lussuosi hotel su questo spicchio di lungomare. Ci sono barriere da superare e vigilantes all'ingresso, ma secondo una prima ricostruzione gli assassini avevano preparato una soluzione imprevista per seminare il terrore. Sono arrivati dal mare, a bordo di un gommone. Sono da poco passate le dodici quando attracca sulla spiaggia dell'hotel. Il sole avvampa tra decine di turisti, il killer si confonde tra loro e apre il fuoco all'improvviso. Spara sulla folla, oltrepassa il color mango delle pareti esterni, entra tra i marmi bianchi nella hall, e spara ancora. Tre corpi giacciono in pozze di sangue, nel ventre della piscina coperta. Minuti terribili, prima che arrivi la polizia lo uccida. Un massacro. Peggiore di quello del Museo del Bardo, poco più di tre mesi fa. Secondo il ministero dell'Interno tunisino ci sono 37 morti e 36 feriti. Sono quasi tutti europei, soprattutto britannici, tedeschi e belgi. I corpi sono disseminati sulla spiaggia, tra gli ombrelloni, in mezzo ai tavolini per gli aperitivi e i teloni da mare. La piscina, raccontano i sopravvissuti, subito dopo l'attacco era piena di sangue. Tra le vittime non ci sarebbero italiani, anche se la Farnesina sta procedendo con gli accertamenti. Sull'attentatore si sa poco. "Un cane sciolto", ripetono dalla televisione tunisina gli inquirenti. Sulle facce dei politici di qui, così come degli uomini della polizia, si legge lo sgomento, la paura di un orrore che può colpire in ogni momento e che rischia di mettere il paese definitivamente in ginocchio, nonostante i disperati tentativi di rianimare un turismo che i moti della primavera dei gelsomini e i terremoti che ne sono seguiti, hanno colpito al cuore. Oggi però è questo killer venuto dal niente il volto di un paese tramortito da questa nuova esplosione di sangue. L'Is aveva chiesto una strage per il Ramadan. Eccola, terribile e inattesa tra queste spiagge che finora erano rimaste al sicuro. L'identikit del killer è confuso: nonostante abbia agito da solo, le autorità di Tunisi hanno fermato decine di persone in tutta l'area, una zona di alberghi persi nella malia del Mediterraneo. Il "cane sciolto" era uno studente, ripetono gli inquirenti, un ragazzo originario della regione di Kairouan, una delle città sante dell'Islam, nel centro del paese. Il viceministro per la sicurezza Rafik Chelly ripete, come in un mantra, che "questa persone non è conosciuta dalle nostre forze dell'ordine". Insomma, non era nei radar né dell'Intelligence né di nessun altro. Venuto dal nulla, insomma. Qualcuno, oltre ai colpi di kalashnikov, dice di avere sentito il colpo di una granata, vicino alla piscina. Ma i racconti dei testimoni sono caotici. Qualcuno, in mezzo agli spari, al fumo e alla paura, ha parlato di terroristi arrivati via mare a bordo di un gommone. Un altro uomo è stato arrestato ad Akouda, località a pochi chilometri da Susa. Un complice? In pochi qui usano la parola "jihad", ma aleggia ovunque. Negli stand dei venditori di noccioline e in quelle dei souvenir. La conta dei morti è penosa. Ci sarebbero vittime di nazionalità tedesca, belga, ucraina e norvegese, oltre che tunisina. Strazianti i racconti di chi per caso o per accidente non è stato colpito. Un turista gallese di 30 anni, Matthew James, è stato colpito tre volte durante la strage sulla spiaggia in Tunisia e ha fatto scudo con il suo corpo sulla fidanzata per salvarla. A raccontarlo è la fidanzata del giovane, Sas Wilson. "Matthew era coperto di sangue, mi urlava di scappare", racconta. "Sono scappata verso il nostro hotel passando tra i cadaveri", ha aggiunto la donna. La Tunisia è sotto shock. Il presidente tunisino Beji Caid Essebsi ha ammesso che il paese "non può rispondere agli attentati da sola". Serve "una strategia globale", ripete, mentre la spiaggia di Susa a sera inoltrata sembra ancora un campo di battaglia. L'ultimo paradiso violato, questa volta da un killer senza passato. Giustizia: ridisegnata la mappa dei reati fiscali di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2015 Per gli omessi versamenti dell'Iva la soglia di punibilità sale a 200mila euro. Pene più severe per l'omessa presentazione della dichiarazione, l'occultamento/distruzione di scritture contabili e l'indebita compensazione di crediti inesistenti. Diventa più difficile commettere la dichiarazione infedele. Introdotto il reato di omessa presentazione della dichiarazione del sostituto di imposta. Sono queste alcune delle principali novità contenute nel decreto di riforma dei reati tributari esaminato dal Consiglio dei ministri. Pene più severe Il delitto di omessa presentazione della dichiarazione - che in futuro scatterà per un'imposta evasa superiore a 50mila euro e non più 30mila - sarà sanzionato con la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni, mentre sinora la pena edittale era da un anno a tre anni. Anche al reato di occultamento e sottrazione di scritture contabili sono aumentate le pene. In precedenza questo delitto era sanzionato con la reclusione da sei mesi a cinque anni in futuro invece la pena minima sarà di un anno e sei mesi e la massima di sei anni. Un altro inasprimento riguarda le indebite compensazioni mediante l'utilizzo di crediti inesistenti. Viene differenziato l'attuale delitto (articolo10 quater) - che prevede la medesima sanzione per l'utilizzo di crediti indebiti a prescindere dal fatto che siano inesistenti o non spettanti - in base alla tipologia di illecito. Per i crediti non spettanti resta tutto inalterato, invece per i crediti inesistenti compensati, la sanzione viene aumentata: reclusione da 18 mesi a 6 anni. Resta inalterata la soglia dei 50mila euro che fa scattare l'illecito penale. In relazione alla frode fiscale resta il carcere fino a sei anni con esclusione del reato sotto i 30mila euro di imposta evasa. La soglia di punibilità del reato in riferimento ai ricavi non dichiarati sale a 1,5 milioni (anziché un milione). Si configura la frode anche quando l'ammontare complessivo di crediti e ritenute fittizie portate in diminuzione dell'imposta, è superiore al 5% dell'imposta, o comunque a 30.000 euro. Violazioni "alleggerite". In futuro il delitto di dichiarazione infedele, che rappresenta una delle fattispecie più ricorrenti nella prassi quotidiana, scatterà più raramente. Viene previsto, infatti, un innalzamento delle soglie di punibilità: gli attuali 50mila euro di imposta evasa diventano 150mila e il valore assoluto di imponibile evaso passa da due a tre milioni. Sono esclusi poi dalla rilevanza penale i costi indeducibili se reali, egli errori sull'inerenza e sulla competenza. Questa previsione è particolarmente importante perché l'inclusione di costi non deducibili (ma realmente sostenuti) nel reato di dichiarazione infedele, negli anni è stata oggetto di differenti interpretazioni della dottrina e della giurisprudenza. L'altro delitto che beneficerà in futuro di modifiche favorevoli al trasgressore è l'omesso versamento dell'Iva. Infatti la vigente soglia penale di 50mila euro viene innalzata a 200mila euro. Va da sé che i contribuenti che per il passato hanno omesso versamenti superiori a 50mila euro, ma inferiori a 200mila, potranno beneficiare delle nuove previsioni. L'omesso versamento delle ritenute, in ogni caso, viene aggravato dal fatto che le omissioni non devono più necessariamente risultare, come attualmente vigente e recentemente confermato dalla Suprema Corte, dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, essendo sufficiente che esse siano dovute in base alla dichiarazione. Ne consegue che in futuro la prova della commissione del reato non comporterà più la produzione delle certificazioni rilasciate al sostituito. La nuova imposta evasa Un'altra importante modifica attiene la modalità di calcolo dell'imposta evasa cui è collegata, al superamento di una determinata soglia, la maggior parte dei reati tributari. Viene finalmente chiarito, mediante la modifica dell'articolo 1 lettera f), che non si considera imposta evasa quella teorica collegata alla rettifica di perdite. Ne consegue, pertanto, che se per effetto della contestazione di violazioni sono abbattute le perdite dichiarate dal contribuente, non si commetterà un illecito penale perché si tratta di imposte "virtuali" (non effettivamente dovute). È infatti necessaria l'evasione concreta di imposte dovute, che non può verificarsi per la diminuzione della perdita inizialmente dichiarata. Nuovo delitto Da segnalare l'introduzione di una nuova condotta penale in tema di ritenute e dichiarazioni: il delitto di omessa presentazione della dichiarazione del sostituto di imposta. Il nuovo delitto di omissione del 770 comporterà la reclusione da uno a tre anni per chiunque non presenta la dichiarazione del sostituto quando l'ammontare delle ritenute non versate risulta superiore a 50mila euro. Lettere: l'inciviltà del diritto di Pasquale Mastrangelo Roma, 27 giugno 2015 Si legge da più parti che l'ennesima fiducia incassata al Senato dal fortunello Renzi, gli abbia fatto ritornare il sorriso e rivedere la luce del sole. Finalmente sappiamo che non ci vuole molto per rendere il proconsole fiorentino lieto e soddisfatto: basta procedere a colpi di fiducia parlamentare per zittire quei "piagnoni" del vecchio Pd o quei "sovversivi" di milioni di statali, che pretendono di non essere più gli unici cittadini a pagare le tasse e a sopportare "l'iniqua e intollerabile quota-balzello del 43%", dopo aver visto crollare il potere d'acquisto del proprio stipendio di circa il 35% in questi ultimi 7 anni, e sentirsi condire il tutto con una serie risibile di "twitter fantasia". Scriviamo da sempre che, secondo il nostro punto di vista, una Nazione, la cui democrazia sia basata sulla civiltà del diritto, ha come motto emblematico del proprio benessere sociale ed economico, Scuola, Sanità e Sicurezza; guarda caso, tutti e tre i fondamenti sono gestiti, amministrati e maltrattati da uno Stato inadempiente e debitore. Scuola e istruzione... adesso per voto di fiducia, o per ceri votivi - visto la gioia irrefrenabile e disgustosa, più delle lacrime della Fornero, della Giannini e della Boschi - diventerà la Buona Scuola, un augurio, come Buona Pasqua o Buon Natale, piuttosto che una certezza. Già, perché si presume che un Governo autorevole offra garanzie e certezze nel legiferare, e non materia di acredine e sfiducia al suo stesso interno, di mal di pancia fra coloro stessi che lo sostengono, o come candidamente ma non troppo, il suo stesso proconsole twitta sulle imperfezioni e le carenze da correggere. Intanto, la spina dorsale dell'educazione scolastica ha già espresso tutto il malcontento possibile, ed il rancore accumulato dopo la sentenza della Consulta sulla non retroattività della illegittimità del blocco degli stipendi, rischia di esasperare ancora oltre il senso di disillusione e frustrazione di migliaia di docenti, la cui funzione è vitale in un Paese che ha fame di conoscenza, per poter ridurre il gap evidente con altre nazioni, e d'altra parte, appare velleitario un giudizio di merito da parte di presidi, troppo spesso preda di antipatie e simpatie personali, ringalluzziti dalla nuova ridicola definizione di "leader educativi". Sanità e benessere sono già in caduta libera in questa Italia dove il 40% degli scandali, degli sprechi vegeta all'ombra di una legione di manager nominati per il profitto dei propri padrini, invece della onesta e oculata amministrazione delle aziende sanitarie. Il Governo, mai eletto, che basa la sua legittimità su un consenso di un 42% di elettori votanti, incomincia a comprendere quale catastrofe amministrativa sia stata l'affidamento di tali competenze alle regioni, causando una sperequazione, virtuale e fittizia in verità, fra realtà territoriali diverse per esigenze ambientali e capacità reattive, ma sembra troppo tardi, e se ricordiamo la Campania, ad esempio, la logica dei tagli orizzontali si è rivelata solo un ripiego insulso e senza futuro. Nel frattempo, migliaia di operatori sanitari, professionisti ospedalieri, sfiancati fino a conseguenze dannose per la propria integrità psicofisica, non vedranno riconosciuti, grazie alla pronuncia della Consulta, ai fini giuridici ed economici, gli anni perduti a lavorare con un salario inadeguato ai rischi professionali e personali, legati al proprio servizio. Sicurezza e vivibilità sociale rappresentano un campo troppo agognato dalle varie compagini politiche e non, su cui affrontarsi a suon di proclami al veleno, di frasi qualunquistiche, mentre sulle strade, travagliano quotidianamente, i rappresentanti dell'ordine di uno Stato che spesso li dimentica. Su Repubblica del 25 giugno, Massimo Riva ha scritto un articolo di commento alla decisione della Consulta, in cui, a nostro avviso, dopo un'ottima partenza, si è avventurato in un elogio della stessa, incartandosi fra Cicerone e il diritto dei cittadini. La frase ciceroniana "summus ius, summa iniuria", che va meglio tradotta: più la giustizia è estrema, più alto è il pericolo che produca una grande ingiustizia, non è un monito, è l'amara constatazione di un dato di fatto. E chiamare in causa la Grecia, con i suoi tagli sul pubblico impiego, adombrando un default italico, che non è avvenuto grazie agli blocchi degli stipendi, o affermare che bisogna guardare "oltre i confini ottusi delle legittimità formali", a nostro avviso, è sembrato un degno spot elettorale per Renzi e nulla più. A parte le ambiguità sulla entità reale di danaro risparmiato, il senso d'impotenza che ogni stipendiato avverte quando ascolta l'elenco quotidiano di ruberie arcimilionarie, di tasse evase per centinaia di milioni, a parte la convinzione di ognuno, che sente sul proprio groppone il fiato di uno Stato bugiardo ed insolvente e speranzoso di gestire i risparmi contributivi, sperando in una tua dipartita, cosa c'è ancora da salvare in questa Italia vassalla di un'Europa teutonica, e quale lezione da seguire, se i molti, a fronte dei pochi, sono già degli eterni sconfitti da questa iniqua civiltà del diritto? Calabria: giudici convinti di avere un mandato divino di Piero Sansonetti Il Garantista, 27 giugno 2015 La procura di Reggio Calabria ha "asfaltato" (per usare una parola renziana) la politica calabrese. Ha raso al suolo la giunta regionale con avvisi di garanzia, mandati di arresto e ordini di "confino". Si è salvato solo Mario Oliverio, presidente della giunta. L'invio al confino di alcuni esponenti del mondo politico calabrese, tra i quali uno dei leader più prestigiosi e stimati del centrosinistra, e cioè Nicola Adamo, è tra l'altro una novità assoluta. C'era stato qualche caso sporadico anni fa, ma aveva riguardato amministratori di piccolissimi centri, e comunque aveva sollevato un notevole scalpore. Un provvedimento di questa natura e rivolto contro esponenti rilevanti sul piano nazionale, non si era mai visto dai tempi del fascismo. Nel regime democratico l'invio al confino di capi partito non era mai stato preso in considerazione. Probabilmente fa parte della strategia mediatica scelta dalla Procura di Reggio Calabria in questa occasione. Per capire esattamente di che cosa siano accusati i numerosi dirigenti politici travolti dall'inchiesta su "rimborsopoli", e anche per capire se le accuse abbiano o no un fondamento, ed eventualmente quali lo abbiano e quali no, dobbiamo aspettare un pochino. E voi sapete che noi del "Garantista", così (un po' per il nome che portiamo, un po' per esperienza, un po' per la mania di fare statistiche sul rapporto numerico, altissimo, che esiste in Italia tra avviso di garanzia a un politico e sua colpevolezza e condanna) diffidiamo sempre dei teoremi accusatori. Però un paio di cose ci sembrano assolutamente evidenti. La prima è che in molte regioni italiane, Calabria compresa, i gruppi consiliari non hanno speso con molto rigore e oculatezza i denari che - con poco rigore e oculatezza - erano stati assegnati loro da leggi e norme assai discutibili ( e oggi, in gran parte, per fortuna, cancellate). Una certa spregiudicatezza da parte di alcuni consiglieri regionali, accompagnata dal clima di caccia-al-politico-strega che sta dilagando nel paese, sospinto da quasi tutta la stampa, certo non aumenta la credibilità del mondo politico. E così, in un circolo vizioso, la caduta della credibilità rende difficilissima la lotta all'antipolitica e ogni forma di opposizione allo strapotere della magistratura. La seconda cosa evidente è che ogni giorno di più la magistratura dimostra la sua volontà di diventare l'unico potere legittimo (insieme al potere economico, che è fuori discussione e che è il solo sovraordinato rispetto alla stessa magistratura) poiché è convinta che il paese sia immorale, che siano immorali le sue classi dirigenti, e che occorra un'opera di pulizia e di riproposizione dello Stato etico che solo la magistratura può svolgere e deve svolgere non più condizionata da altri poteri o dai lacci Desanti dello Stato di diritto. La magistratura è persuasa in perfetta buona fede di questo "imperativo categorico" al quale sente che è suo dovere rispondere. E anche se il disegno di "azzeramento" della politica e del potere democratico e rappresentativo non è un disegno studiato a tavolino e affidato a una organizzazione, è però un disegno fortissimo, strutturato, e che unisce e razionalizza la gran parte delle iniziative giudiziarie che riguardano la politica. Il caso-Calabria è evidentissimo. Rimborsopoli è un'inchiesta che ha coinvolto tutte le regioni d'Italia, e non solo la Calabria, e che riguarda fatti avvenuti alcuni anni fa. La magistratura però ha aspettato che si risolvesse il caso Scopelliti, che si tornasse a votare e che fosse insediata la nuova giunta. Poi ha calato la mannaia, sferrando un colpo micidiale contro la giunta regionale, che avrà inevitabilmente conseguenze pesanti per tutta la Regione, la quale si troverà di nuovo in una situazione di ingovernabilità dalla quale era appena uscita. La Procura ieri ha dimostrato la grandiosità del suo potere. Nessuna istituzione democratica può resistergli o opporglisi, e la stessa democrazia deve accettare di sottomettersi a lei. Nelle motivazioni con le quali impone un regime di confino a Nicola Adamo c'è tutta la filosofia di questa iniziativa. Adamo viene inviato al confino perché gli si riconosce (o si sospetta) una sua "grande capacità di influenzare la politica calabrese". In sostanza, la ragione della misura di confino sta nelle doti politiche di Adamo. La magistratura ritiene che siano troppo alte per lasciarlo libero, e siccome non ha elementi per arrestarlo è costretta a ricorrere ad una misura di emergenza, e indubbiamente di tipo fascista o comunque totalitario, come il regime di confino. Anche sul piano dei principi l'affermazione di superiorità e di potenza è formidabile. Il messaggio è questo: "a me magistratura inquirente, e solo a me, spetta il compito di dare o no l'abilitazione a fare politica. E se ritengo eccessive le capacità politiche di alcuno, tali da mettere in discussione la mia stessa egemonia, io gli proibisco di esercitarle". Colpire in modo così altamente simbolico un personaggio altrettanto simbolico nella politica calabrese - uno dei più esperti, più saggi, più brillanti, con alle spalle una carriera molto importante di lotte, di sacrifici, di battaglie politiche - è come un manifesto: "comandiamo noi e se vogliamo vi annientiamo". Taranto: si congeda Brandimarte, il magistrato di sorveglianza più amato dai detenuti di Alessio Polveroni Il Garantista, 27 giugno 2015 Va in pensione il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto. Alla cerimonia invitati Pannella e Bernardini. Massimo Brandimarte ha lasciato il carcere di Taranto. Dopo vent'anni, prima del tempo. La notizia sarà arrivata come un lampo al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, segnando sul suo viso la smorfia, inconfondibile, della sconfitta; mentre i detenuti di tutta Italia si saranno, mestamente, scambiati la rassegnazione, di cella in cella. Brandimarte, 62 anni, per 20 anni è stato il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto. Vale a dire, uno di quei magistrati che devono garantire i diritti riconosciuti ai detenuti. Sorvegliare, insomma, che le condizioni in carcere non siano tali da costituire un pena nella pena, se non addirittura una pena capitale. Visitare le strutture, raccogliere testimonianze, verificare il livello del degrado e la salute dei cittadini all'interno delle patrie galere. Sono, come si dice, "i giudici di fatto, delle pene". Un ruolo delicatissimo, che vale la vita di migliaia di persone, le più deboli della società. Ed è proprio per la passione e la combattività di Brandimarte che, nel corso degli anni, intorno alla figura del magistrato si è creata un'aura quasi mitica. Il giudice, si dice, che spingeva detenuti non solo pugliesi a cercare di farsi assegnare o trasferire al distretto di Taranto. Di lui si racconta che abbia sempre preferito portarsi i fascicoli a casa, invece di lasciarsi le pratiche alle spalle. Uno che, nei limiti del possibile, i problemi amministrativi li risolveva piuttosto che delegarli ai farraginosi meccanismi del Dap. Ebbene, il magistrato qualche giorno fa ha annunciato la volontà di andare in pensione, con qualche anno di anticipo. Martedì 30 giugno sarà il suo ultimo giorno di servizio. Per l'occasione sarà organizzato un evento ufficiale nelle sale del Comune di Taranto. A prendere parte alla cerimonia ci saranno istituzioni locali e colleghi della magistratura. Al di là di queste due categorie, si contano due soli altri invitati: Rita Bernardini e Marco Pannella. Brandimarte, già in questi giorni, si è levato qualche sassolino dalle scarpe. Più che sassolino, forse, è il caso di dire che il magistrato ha tirato delle vere e proprie sassate in piccionaia, verso il ministero di Giustizia. Intervistato dalla trasmissione "Radio Carcere", curata da Riccardo Arena su Radio Radicale, il giudice ha fatto una diagnosi sullo stato di salute delle carceri. Un tema del quale la magistratura parla poco. Così, per avere un'idea, senza voler fare di tutta l'erba un fascio, lasciamo che siano i dati a parlare: 30 morti dietro le sbarre solo dall'inizio del 2015. L'ultimo dei quali si chiama Giacomo Mazza. Detenuto nel carcere di Bergamo, Giacomo ha lamentato per settimane dolori lancinanti allo stomaco. Fino al giorno in cui dal letto della sua cella non ce la faceva proprio a muoversi. Solo a quel punto è stato portato in ospedale. Ma ormai per lui era tutto inutile. Il referto è spietato: tumore al pancreas in stato avanzato, metastasi diffuse ovunque che divorano già la sua vita. "Spero che a nessun altro debba toccare la stessa fine. Qualsiasi cosa uno abbia fatto in vita, non è giusto che muoia per la pena". Questa sono le parole di Mazza, pronunciate poco prima di morire. La testimonianza riproposta dalla trasmissione radiofonica, è lo spunto dal quale è partita la testimonianza di Brandimarte. "Un caso esemplare", ha detto il magistrato senza mezzi termini, "il diritto alla salute dei carcerati in Italia è negletto". Considerando che i detenuti non possono prendere i medicinali altrove. "Ad esempio è scandaloso che in Puglia i detenuti malati non godano di alcuna corsia preferenziale per ottenere i medicinali dalle Asl". Un aspetto tra i molti, di una problematica complessa e diffusa in tutta Italia. Una situazione non più a macchia di leopardo, bensì a "cielo stellato", come dice Arena, storico conduttore di Radio Carcere. Secondo i dati della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria la situazione è allarmante: su oltre 53mila detenuti, 2 terzi sono malati. Dati confermati da alcuni recenti studi della Regione Toscana che, esaminando la situazione della carceri in altre 6 regioni, ha confermato come i malati nelle carceri rappresentino tra il 60 e il 78% della popolazione totale. Il problema principale individuato dagli studi sarebbe la mancanza di un unicum organizzativo. Non a caso proprio i radicali, in più di un'occasione, avevano detto a Brandimarte che il suo sarebbe stato il profilo ideale per il ruolo di Garante nazionale dei detenuti. Brandimarte ha idealmente condiviso molte delle battaglie condotte dai Radicali per la dignità delle carceri. Lui, magistrato e ingranaggio della macchina, ha sempre cercato di guardare al sistema penitenziario dal punto di vista di chi vi è costretto. Non è un caso se nell'ultimo suo giorno di servizio, alla cerimonia di congedo, Pannella e Bernardini saranno gli unici testimoni dì una vicinanza e di una notorietà che hanno di molto oltrepassato i confini della Puglia. Di certo, i radicali sono tra coloro che ben comprendono quale perdita costituisca per il nostro sistema penitenziario l'uscita dal servizio di Massimo Brandimarte Napoli: con "Oltre le sbarre onlus" risparmio a scuola e lavoro ai detenuti di Valeria Chianese Avvenire, 27 giugno 2015 Parte a Napoli un'iniziativa per l'inserimento sociale e lavorativo dei detenuti dell'Istituto Penitenziario di Secondigliano. Il progetto "Diventare cittadini: TrasformAzioni" si basa sul recupero degli arredi scolastici dimessi: saranno rigenerati dai detenuti, per consentirne il riuso, nei laboratori di falegnameria cittadini che partecipano all'iniziativa. I detenuti seguiranno corsi di formazione per lo smontaggio, la lavorazione, la rifunzionalizzazione o la trasformazione delle suppellettili, seguiti da maestri falegnami e da un designer creativo per la progettazione dei nuovi arredi. Promosso e finanziato da "Fondazione con il Sud" e organizzato da "Oltre le sbarre onlus" - ente capofila - con il supporto di Asia (Azienda Servizi Igiene Ambientale), dell'Ufficio Scolastico Regionale per la Campania, insieme ad altre associazioni, il progetto è sostenuto dagli assessorati all'Istruzione e all'Ambiente del Comune di Napoli e prevede la partecipazione attiva delle scuole nella riduzione degli sprechi e dei rifiuti inserendole nella filiera del recupero e del riuso con la restituzione alla vita e all'uso collettivo degli arredi recuperati e messi nuovamente a disposizione della collettività. Il risultato sarà più di uno: ridurre gli sprechi e il rifiuti trasformandoli in occasioni formative per detenuti, studenti, insegnanti e arredare le aule con i nuovi arredi rimessi a nuovi nelle falegnamerie impegnate nel progetto. Ed infine dare la possibilità ai detenuti di iniziare un percorso di rigenerazione, ma umano. Roma: da ottobre in vendita frutta e verdura prodotta nel carcere femminile di Rebibbia Ristretti Orizzonti, 27 giugno 2015 Da ottobre la frutta e verdura biologica prodotta nel carcere femminile di Rebibbia farà concorrenza a quella della Coldiretti. "Abbiamo aperto un'apposita porta - spiega la direttrice del carcere, Ida Del grosso, per vendere al pubblico i prodotti, certificati biologici, coltivati dalle nostre detenute (in tutto 14 attualmente, tutte con contratto di lavoro), in modo da aumentare la produzione e anche il numero delle detenute che lavorano la terra". Lo scopo è anche quello di "aprire il carcere alla realtà esterna, creare un contatto con chi sta fuori e che generalmente o respinge la realtà carceraria o ne ha addirittura paura. "Ma il carcere serve a recuperare chi ha sbagliato - continua la Del Grosso e non soltanto a espiare la pena ricevuta. Dentro ci sono delle persone". A Rebibbia oltre alla verdura e agli alberi da frutta ci sono gli animali: polli, pecore, conigli galline faraone e dunque si producono uova e formaggi. Tra breve aprirà un vero e proprio caseificio. La direttrice ha già fatto la domanda alla Coldiretti per ottenere un banco di vendita anche all'interno del mercato di Campagna Amica della domenica. Tutto questo sarà possibile anche grazie al pullmino acquistato dalla Siae con i fondi che la società degli Autori e Editori destina a progetti di taglio sociale. Il pullmino che è stato tenuto a "battesimo" ieri dalla direttrice Dal Grosso insieme alla presidente dell'Associazione A Roma Insieme, Gioia Passarelli e alla responsabile dei progetti della Siae, Danila Confalonieri servirà infatti a trasportare i prodotti al mercato e al piccolo nuovo spaccio all'esterno del carcere. "Siamo felici di esserci resi utili al lavoro delle donne in carcere - ha detto la Passarelli - oltre al trasporto dei prodotti della terra, infatti, il pullmino servirà alle consegne più spedite della lavanderia dove le donne possono lavorare ed essere retribuite". Pozzuoli (Na): "vi scrivo dall'inferno dove ci trattano come mostri", lettera di una detenuta napolitoday.it, 27 giugno 2015 La missiva, proveniente dal carcere femminile di Pozzuoli, è arrivata al Comitato Parenti e amici delle detenute. Racconta situazioni inumane, soprusi, censure. Una lettera, arrivata al Comitato Parenti e amici delle detenute del carcere di Pozzuoli, sta facendo discutere: persone trattate come mostri, in un inferno che è molto peggio di quanto non si può lasciar trasparire all'esterno. La protagonista della missiva racconta situazioni inumane, soprusi, censure. A preoccupare sarebbe soprattutto il costo dei beni di prima necessità, inaccettabile e totalmente arbitrario. Ecco il testo integrale della lettera. Sono una detenuta di Pozzuoli e vi scrivo anche da parte di tutte le detenute di questo carcere, anche se nessuno di noi può firmare, se no subito ci puniscono e non ci pensano su una volta a metterci in isolamento, che è una stanza che puoi fare solo i bisogni personali e non stare a contatto con nessuno. Per prima cosa vogliamo che voi sappiate che tutte le lettere che vi mandiamo gli assistenti non ve le fanno arrivare per paura che noi vi scriviamo come siamo trattate qua dentro, e anche quando venite qua fuori non ci consentono di parlare né con voi né con i nostri familiari, nemmeno per salutarli, se no subito fanno abuso di potere incominciando a metterci i rapporti. Si perché in questo "inferno" che noi viviamo, andiamo avanti solo con le minacce dei rapporti, anche per una sigaretta, che è l'ultima cosa che ci è rimasta qua dentro, in questo inferno che è così facile ad entrare, ma così difficile ad uscire. Vogliamo informarvi che viviamo in una stanza in cui siamo degradate e costrette a vivere piene di umidità. La mattina dobbiamo alzare i materassi perché sono bagnati di umidità e quando viene qualcuno da fuori gli fanno vedere solo la terza sezione che è un po' meglio, mica li portano alla prima e alla seconda, dove è molto peggio della terza. In ogni stanza viviamo in 10 persone e devi fare la fila per andare in bagno e svegliarti presto per farti una doccia prima che l'acqua calda va via; lo shampoo lo possiamo fare solo una volta a settimana, quindi adesso è quasi estate e ci possiamo anche arrangiare, ma pensate quando viene l'inverno quello che dobbiamo subire. Tanto che l'inverno, tante volte, talmente che fa freddo che ci alziamo solo per mangiare. Andiamo avanti. Il vitto è un vero schifo ed è anche insufficiente. Tante volte pensiamo che è meglio mangiare alla Caritas che qua dentro. Chi ha soldi per comprarsi qualcosa da mangiare e cucinarlo stesso noi detenuti mangiamo, ma chi non fa colloqui o non ha soldi può solo fare la fame. I prezzi qui da noi anche sono un abuso di potere. Paghiamo tutto, non di più, ma addirittura il doppio. Anche le cose di prima necessità, come la carta igienica. Si, perché qui nemmeno quella ci danno: se hai i soldi ne puoi fare uso, altrimenti non so cosa dovremmo fare. E qui ce ne sono tante a cui mancano i soldi, anche per questo. E a noi con i prezzi che paghiamo qua dentro, i nostri familiari per mantenerci, anche loro, cosa devono fare? Forse fra poco penso che dovranno pure loro fare reati come noi per metterci i soldi sul libretto. Che spesso e volentieri ci vediamo segnati sul libretto anche soldi che noi non abbiamo speso, ed è inutile anche chiedere spiegazioni, se no subito ci minacciano con il solito rapporto che hanno sempre a portata di mano. Certo c'è qualche assistente che è più umano verso di noi, ma per il resto ci trattano proprio da detenute come fossimo dei mostri viventi. Parliamo anche un po' del servizio sanitario. Qua per prima cosa anche se qualcuno di notte sta male l'assistente fa finta di non sentire, perché l'infermeria la notte non vuole essere disturbata. Quindi devi aspettare la mattina che passa il carrello, quel carrello sempre pieno di psicofarmaci che vogliono darci sempre. Questo sempre per farci addormentare e quindi per non essere disturbati. Figuratevi che a Pasqua dormivamo tutto il carcere ed abbiamo avuto il dubbio che abbiano messo qualcosa nel cibo, perché è impossibile che dormivamo tutte le detenute. Noi detenute della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli vorremmo che voi ci aiutiate, ma sappiamo anche che anche se venite da noi siamo state avvisate che dobbiamo dire che qua va sempre bene e che ci trattano bene: sono tutte bugie che siamo costrette a dire. Vorremmo che questa lettera venisse pubblicata su qualche giornale affinché tutti vengano a conoscenza che qui non è un carcere, ma è solo l'inferno, un inferno che siamo costrette a vivere. Che si passassero un po' la mano sulla coscienza (se ce l'hanno ancora). Noi già soffriamo per la lontananza dei nostri familiari e soprattutto per i nostri figli che abbiamo lasciato fuori. In nome di tutte le detenute di Pozzuoli vi chiediamo solo di fare qualcosa affinché possiamo soffrire solo per la lontananza dei nostri cari e non anche sopportare tutti i soprusi che subiamo qua dentro, cioè l'inferno. Ah dimenticavamo anche un'altra cosa. Lo sapete che quando lavoriamo il carcere si prende 50 euro ogni mese per il letto? Si lavora molto e prendiamo quasi l'elemosina e quindi questo è un altro abuso, di sfruttamento vero e proprio. Ma lo Stato questo lo sa? O conviene anche a loro? Oristano: abusi in cella, tre condanne e una assoluzione di Simonetta Selloni La Nuova Sardegna, 27 giugno 2015 Nella cella del carcere di piazza Manno aveva subìto violenze e abusi sessuali. Ora, a sostenere la tesi di un detenuto che aveva denunciato i suoi compagni di cella, c'è anche la sentenza del tribunale di Oristano, che ieri ha condannato tre detenuti, assolvendone invece uno, per una lunga serie di sopraffazioni compiute su una persona evidentemente debole e indifesa. E così Paolo Ungredda, 31 anni nuorese, allora detenuto per rapine e furti, Graziano Congiu, 32 anni di Simala (nel suo curriculum una rapina, ma di recente accusato di essere l'autore dell'omicidio dell'ambulante Antonio Murranca), e Daniele Daga, 26 anni di Sassari, dentro per rapina, si sono visti infliggere 6 anni e nove mesi, i primi due, e 6 anni e 3 mesi il terzo. Ungredda e Congiu condannati per violenza sessuale, minacce e lesioni, il terzo condannato solo per gli abusi, mentre un quarto imputato, Graziano Pinna, 42 anni di Borore (anche lui era in carcere per una rapina), è stato completamente scagionato dall'unica accusa che gli veniva contestata, ossia un episodio di minacce. Per i primi tre (collegio difensivo composto da Gabriele Satta, Aurelio Schintu e Lorenzo Soro), il pubblico ministero Rossella Spano aveva chiesto la condanna a 8 anni; un anno per Pinna. I giudici (presidente Mameli, a latere Marson e Mereu), hanno anche disposto una provvisionale di 10mila euro al detenuto, che si è costituito parte civile attraverso l'avvocato Marco Martinez. Un processo duro, spigoloso. Cartoline dall'inferno descritte da un uomo ridotto in soggezione dai suoi compagni di cella, trasformatisi in aguzzini. Nella galleria degli orrori, mozziconi di sigarette spente sulla nuda pelle, gavettoni con escrementi, poi molestie di natura sessuale e minacce. Una umiliazione continua che in qualche modo ha pesato anche nella testimonianza in aula, dove qualche settimana fa la vittima ha reso una deposizione a tratti frammentaria, incerta, costellata di correzioni e in qualche circostanza inesattezze. Forse, semplicemente, figlia della paura: ma su queste incertezze si è basata la linea di difensa dei legali degli imputati. Per i quali si sarebbe trattato di episodi isolati, persino scherzi. Nessuno scherzo, ha detto il tribunale. Almeno tre degli imputati dovranno rivedere il loro personalissimo concetto di umorismo. Erano violenze, finalmente uscite da una cella e raccontate in tribunale. Rovigo: due agenti picchiati da un detenuto tunisino finiscono all'ospedale Rovigo Oggi, 27 giugno 2015 Due agenti della Penitenziaria son dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso dopo esser stati malmenati da un detenuto tunisino. Erano intervenuti per prestare soccorso allo psichiatra contro cui si era scagliato il nordafricano. Giornata di ordinaria follia in via Verdi dove un detenuto di origine tunisina ha aggredito due agenti della Penitenziaria. A darne conto Marco Gallo, coordinatore provinciale della Uil-Pa, che ha raccontato come ad aver la peggio siano stati i secondini, che sono dovuti poi ricorrere alla cure del pronto soccorso dove sono stati giudicati guaribili dai sanitari con prognosi di 7 e 5 giorni. Stando alla ricostruzione resa pubblica con una nota ufficiale, il nordafricano si sarebbe scagliato improvvisamente dapprima contro lo psichiatra durante un colloquio in infermeria e quindi contro i due uomini della Penitenziaria intervenuti per allontanarlo dal medico. Un episodio sicuramente grave che mette in luce ancora una volta le difficoltà che gli operatori, in divisa e non, impiegati all'interno delle carceri italiane, incontrano quotidianamente nell'esercizio prezioso e puntuale del loro servizio. Avellino: Concorso E.I.P. Italia, sul podio carcere di Ariano e Liceo Artistico Ruggero II irpiniareport.it, 27 giugno 2015 L'Irpinia protagonista: per la terza volta si piazza al primo posto nella graduatoria del concorso nazionale E.I.P. Italia (che vede l'alto Patronato del Presidente della Repubblica, il patrocinio del ministero della Giustizia, del ministero per i Beni e le attività culturali, del ministero dell'Istruzione Università e ricerca direzione generale per lo studente, la comunicazione, l'integrazione e la partecipazione per l'anno) con due progetti. Sul podio questa volta sale il carcere di Ariano Irpino guidato dal direttore Gianfranco Marcello e il liceo artistico Ruggero II. Progetti all'insegna della rieducazione di chi è dentro le sbarre: è l'obiettivo di quanti con dedizione lavorano all'interno delle carceri e di chi - come volontario - presta da molti anni la sua opera "affinché si conosca - sottolinea Lombardo - la realtà delle sbarre monito per le nuove generazioni a non commettere errori perché lì dentro lo sguardo è fin troppo corto". È l'obiettivo della giornalista irpina Teresa Lombardo, delegata per la Regione Campania dell'Ecole Instrument de Paix che continua il suo viaggio in punta di piedi all'interno degli istituti penitenziari della Campania "per tendere la mano a chi ha sbagliato ma soprattutto per centrare l'obiettivo reinserimento del dopo affinché la recidiva della illegalità possa diminuire". Ecco la comunicazione ufficiale della Commissione nazionale del 43esimo concorso promosso dall'Ecole Instrument de Paix Italia in collaborazione con la Direzione per lo studente del ministero dell'Istruzione e con il ministero della giustizia: "Desidero esprimere la gratitudine della Commissione alla giornalista professionista de Il Sannio Quotidiano Teresa Lombardo che è delegata dell'Ecole Instrument de Paix per l'animazione culturale nelle carceri per la Regione Campania per aver segnalato questa iniziativa così meritevole": è il messaggio scritto dal presidente Ecole Instrument de Paix per l' Italia, preside prof. Anna Paola Tantucci. "L'esempio del progetto ‘Parole da dentro …Emozioni e riflessioni da dietro le sbarrè che vede collaborare insieme la direzione della casa circondariale di Ariano Irpino e la direzione del liceo artistico Ruggero II di Airola, rappresenta - si legge ancora nel documento ufficiale della Commissione nazionale - un esempio di cui la Commissione ministeriale, presieduta dalla prof. Maria Fedele consorte del presidente del Senato sen. Pietro Grasso ha particolarmente apprezzato la qualità umana e artistica del progetto e l'impegno culturale, umano e sociale, che è testimoniato dalle poesie e dalle riflessioni dei reclusi. La Commissione ha attribuito al progetto il primo premio nazionale. Inoltre è stato assegnato il premio E.I.P poesia giovane Michele Cossu alle seguenti poesie: A mia moglie s.n.c, Se io fossi di P. C., La preghiera del detenuto di A. P. e Mi dispiace di C. Celestine O. Il premio poesia prevede la pubblicazione delle opere selezionate. Copie del volume saranno consegnate ai premiati e alla casa circondariale per la biblioteca". La cerimonia di premiazione avrà luogo il 22 ottobre 2015 dalle ore 9.30 alle ore 13.00 presso la sala delle conferenze della Biblioteca nazionale centrale di Roma - Viale Castro Pretorio n. 105. E.I.P. Italia: associazione non governativa scuola strumento di Pace E.I.P. "Ecole Instrument de Paix" Italia, riconosciuta dall'Unesco (che le ha attribuito le Prix Comenius), dal Consiglio d'Europa che l'ha accreditata tra le quattro associazioni esperte nella pedagogia dei diritti umani, gode di statuto consultivo presso l'Onu dal 1967. L'Associazione ha meritato per il 2006 le Prix International Maitre pour la Paix a Bruxelles. Milano: con "L'Amore Vincerà" i detenuti in scena al Teatro Menotti Corriere della Sera, 27 giugno 2015 Al Teatro Menotti di Milano, dal 16 al 24 giugno, si è tenuto per quattro serate il Concert - Show per la Pace nel Mondo "L'Amore vincerà". Con Isabeau alla regia e Ivana Scotto di Vetta alla coreografia, i detenuti del Circuito di Alta Sicurezza della Casa di Reclusione Milano Opera hanno avuto l'opportunità di mettere in piedi uno show davvero entusiasmante e ricco di emozioni, che ha raccolto un forte successo da parte del pubblico. Essi si sono così posti dall'altra parte, quella di chi sta contro la criminalità e sceglie la giustizia e la pace. Il progetto, sostenuto in primis dal Ministero della Giustizia, Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e organizzato da "Eventi di Valore", ha una finalità prettamente rieducativa e ha visto coinvolti insieme ai detenuti anche veri professionisti del mondo dello spettacolo. Si sono esibiti in questi giorni sul palco del Teatro Menotti Eleonora Barbacini e Camilla Maffezzoli, entrambe ballerine professioniste, che hanno esordito in televisione nel talent show "Forte Forte Forte" presentato su Rai Uno da Raffaella Carrà. Ospite speciale è stato il canoista Antonio Rossi, mentre un forte apporto dal punto di vista artistico è stato fornito anche da Valentina Patti, artista a tutto tondo sia nel campo musicale che nel ballo e nella recitazione. Ferrara: detenuti-attori in scena con lo spettacolo "Me che libero nacqui al carcer danno" cronacacomune.it, 27 giugno 2015 Lunedì 29 giugno, alla Casa Circondariale di Ferrara, nell'ambito del progetto del Coordinamento Regionale Teatro-Carcere, con il patrocinio del Comune di Ferrara, della Regione Emilia-Romagna e l'ASP Ferrara, il Teatro Nucleo presenta "Me che libero nacqui al carcer danno", spettacolo tratto dalla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, con gli attori detenuti nella Casa Circondariale di Ferrara per la regia di Horacio Czertok in collaborazione con Andrea Amaducci. Il titolo dello spettacolo prende le mosse da uno scritto teatrale di Goethe su Torquato Tasso e racchiude già in sè il germe delle profonde opposizioni su cui si fonda tutta la Gerusalemme Liberata, in particolare l'episodio del Combattimento di Tancredi e Clorinda, messo in musica da Claudio Monteverdi nel 1624 come madrigale rappresentativo e sul quale si concentra anche lo spettacolo me che libero nacqui al carcer danno. Come le parole del Tasso, così la musica di Monteverdi ci portano dritti al cuore della tragedia umana e alla sua inesplicabilità. Per millenni l'uomo ha combattuto e continua a combattere, a offendere ciò che più gli è caro, la vita stessa; come afferma Horacio Czertok, regista dello spettacolo, si combatte "senza requie né respiro contro un altro che ci appare un nemico mortale", per scoprire infine che "la vittoria era anche, esattamente, una sconfitta" e che - scrive Oscar Wilde - "uccidiamo quello che amiamo". Ma emerge con la poesia, la musica, il canto e - in una sola parola - con il teatro, il bisogno benefico di raccontare questa lotta con tutti i mezzi possibili. Questa è la sfida raccolta dai detenuti attori del progetto di Teatro-Carcere. Non negare la lotta, il conflitto - brutale e cieco come quello di Tancredi - ma attraversarli e trasformarli per chi vorrà vedere, ascoltare, considerare anche questi aspetti dell'umano. Sanremo: "Sweet Dreams", i detenuti attori per un giorno nel teatro interno al carcere riviera24.it, 27 giugno 2015 Il laboratorio 2015 è stato realizzato dalla Direzione dell'Istituto attraverso i fondi del "Progetto Ponte" di Arci. Il giorno 26 giugno 2015 alle ore 14.30 si è svolto presso il Teatro interno dell'Istituto lo spettacolo "Sweet dreams" scritto e interpretato dai detenuti attori della Compagnia di Teatro Brigante della Casa Circondariale di Sanremo diretti da Davide Barella. I ristretti, sette detenuti di diverse nazionalità, hanno interpretato la storia di una compagnia di teatro chiamata a esibirsi per la prima volta in carcere, con tutte le incognite che questo può fare derivare, fra timori e circospezione, per poi scoprire che la realtà esterna è solo un "dolce sogno" mentre la verità riporta, attraverso il paradosso della disciplina teatrale, a un presente fatto di sbarre e condanne. La finzione teatrale permette alla compagnia una fuga dalla realtà, la classica evasione di pensiero, che bruscamente viene ricondotto alla normalità del presente. Ogni detenuto interessato dal progetto ha dato il proprio contributo sotto la supervisione del regista, rendendo il proprio personaggio molto credibile e allo stesso tempo giocando su più registri stilistici, in un' amalgama di amarezza e ironia che hanno dato ritmo intrinseco alla narrazione. Il progetto "Teatro brigante" con quello di quest'anno è giunto alla sua 13° edizione. Il laboratorio 2015 è stato realizzato dalla Direzione dell'Istituto attraverso i fondi del "Progetto Ponte" di Arci. Napoli: concerto di Clementino nel carcere di Poggioreale, sul palco anche Gianni Simioli Il Velino, 27 giugno 2015 Un evento straordinario organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio nella casa Circondariale "Giuseppe Salvia Poggioreale": il concerto di Clementino. Il rapper campano "campione" di vendita italiano con il suo nuovo cd "Miracolo" offre la sua performance alla popolazione carceraria in uno dei periodi che, per il caldo afoso, è di maggior disagio. Con lui sul palco, per novanta minuti di puro spettacolo e umanità, anche Gianni Simioli e la comitiva de "La Radiazza" (programma cult di Radio Marte). Completa il cast Stefano De Martino, il ballerino lanciato da "Amici". La Comunità di Sant'Egidio presente da anni nell'istituto con iniziative di solidarietà e promozione sociale, ha voluto essere vicina ai detenuti, grazie alla sensibilità di tre artisti che partiti dalle periferie più disagiate sono riusciti a realizzare i loro sogni. Un pomeriggio di solidarietà tra buona musica (previsto anche un ricordo omaggio a Pino Daniele) e racconti di vita positiva realizzato in collaborazione con Giuliano Annigliato. Durante lo spettacolo la Comunità di Sant'Egidio offrirà un gelato a tutti i detenuti che parteciperanno al concerto. Immigrazione: sulle quote l'Italia si accontenta di Carlo Lania Il Manifesto, 27 giugno 2015 Nessuna obbligatorietà nella ridistribuzione di 40 mila migranti tra gli Stati membri. Nella notte sfiorata la rottura. La redistribuzione dei profughi in Europa non sarà obbligatoria, ma gli Stati "decideranno per consenso" di accogliere nei prossimi due anni una parte dei 40 mila tra eritrei e siriani sbarcati in Italia e Grecia, ai quali si aggiungeranno altri 20 mila profughi che si trovano oggi nei campi allestiti in Africa. Al termine di una notte durante la quale non sono mancati i toni accesi, è questa la soluzione raggiunta dal Consiglio europeo per fronteggiare l'emergenza immigrazione. Nel linguaggio un po' ipocrita della diplomazia di Bruxelles le tre parole "decideranno per consenso" rappresentano la via d'uscita dallo stallo in cui l'Ue rischiava di restare impantanata. La ricollocazione di chi fugge da guerre e persecuzioni non sarà dunque obbligatoria, come proposto a maggio dalla commissione europea guidata da Juncker e come avrebbe voluto l'Italia, ma la formula trovata consente comunque a Matteo Renzi di dirsi soddisfatto per il risultato raggiunto e di cantare vittoria nei confronti dei Paesi dell'Est, i più restii ad accogliere nuovi profughi e che spingevano perché la scelta fosse volontaria. "È positivo che sia prevalso il principio europeo della redistribuzione dei richiedenti asilo sul tentativo di blocco da parte di alcuni Paesi", ha spiegato ieri il premier al termine del vertice dei capi di Stato e di governo. La parola adesso passa al Gai, il summit dei ministri degli Interni in programma per il 9 luglio. In quella sede i governi renderanno note le cifre per il ricollocamento (Ungheria e Bulgaria potrebbero però essere escluse), dopo di che servirà almeno un altro mese perché i trasferimenti diventino operativi. Naturalmente se nel frattempo non saranno intervenuti altri ostacoli. L'altra notte, nei momenti di maggiore tensione, per qualche ora si è avuta l'impressione che a rischio non ci fosse solo un accordo tra gli Stati, ma molto di più. Prima lo scontro tra Juncker, fautore dell'obbligatorietà della ripartizione, e il presidente del consiglio Ue Donald Tusk che, dimenticando la neutralità impostagli dal ruolo, si schiera al fianco di Ungheria, Slovenia, Slovacchia, repubblica Ceca e Polonia a sostegno del principio della volontarietà. Poi la presa di posizione dura di Renzi: "Se non siete d'accordo sui 40 mila, non siete degni di chiamarvi Europa", dice il premier rivolto agli altri leader. "Se questa è la vostra idea di Europa tenetevela. O c'è la solidarietà o non ci fate perdere tempo". Toni inusuali per un vertice europeo, tanto che ore più tardi lo stesso Renzi cerca di smorzare. "Non ho mai alzato la voce, ma ci siamo fatti sentire", spiega. In realtà rispetto alla aspettative della vigilia, il risultato raggiunto è poco più di un compromesso al ribasso, reso più accettabile dal fatto che può comunque rappresentare l'inizio di una nuova fase che a palazzo Chigi sperano possa portare a una revisione del regolamento di Dublino. Una strada ancora tutta in salita, come riconosce lo stesso Renzi: "È stato fatto un passettino in avanti" dice, ma "c'è ancora molto lavoro da fare". Le resistenze dimostrate nell'accogliere i profughi si sciolgono invece come neve al sole quando si parla d i rimpatri dei migranti economici, sui quali i 28 sono invece tutti d'accordo. "Un obiettivo su cui stiamo lavorando con forza e su cui è stato fatto un grande passo avanti al vertice", dice con soddisfazione il ministro degli Interni Alfano ricordando come quello delle espulsioni "funziona meglio se è un sistema europeo". Il piano messo a punto dal Viminale prevede l'apertura di quattro hotspot nei punti di sbarco dove i migranti potranno essere trattenuti al massimo per 48 ore per essere divisi tra coloro che hanno diritto a presentare domanda di asilo e quanti saranno invece espulsi perché irregolari. Passate le 48 pre, si effettuerà un primo trasferimento in hub chiusi e, successivamente, negli hub aperti situati nelle Regioni di destinazione da dove i richiedenti asilo verranno smistati nei centri Sprar, il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati. Un meccanismo messo a punto dal Viminale, per nulla disposto ad ascoltare le proteste di chi, come i governatori di Veneto, Lombardia e Liguria, vorrebbero opporsi ai trasferimenti. "Quando i migranti arrivano sulle coste siamo costretti a dargli accoglienza, quindi anche davanti a un no delle regioni andiamo avanti lo stesso", ha ribadito anche ieri il prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento Immigrazione del Viminale. Immigrazione: tra Roma e Bruxelles una gara a chi fa peggio di Filippo Miraglia (Vicepresidente Arci) Il Manifesto, 27 giugno 2015 Italia ed Europa sembrano impegnate in una gara a chi fa peggio sulla questione dei migranti. Il governo italiano si ispira al principio per cui i richiedenti asilo si accolgono mentre i cosiddetti migranti economici andrebbero espulsi e rimpatriati. Ciò avverrebbe attraverso una sorta di "accoglienza differenziata" fra Nord e Sud del nostro paese. Infatti sparirebbero tutti i centri di primo soccorso e di accoglienza. Al loro posto vi sarebbero degli hotspot, 5 o 6, che si apriranno nelle regioni mediterranee, quindi in Sicilia, in Calabria, in Puglia e forse anche in Campania. Dove più frequenti sono stati gli sbarchi e le tragedie che hanno portato alla morte migliaia di persone. Dopo 48 ore di permanenza, quando le misure di prima accoglienza verranno praticate solo se possibili, i migranti verranno spostati negli hub, ovvero grandi centri di smistamento, suddivisi in "chiusi" e "aperti". Qui avverrà la suddivisione tra chi ha diritto all'accoglienza e chi no. Questi ultimi, gli "irregolari" finiranno nei vecchi Cie, pronti per l'espulsione. Gli altri verranno "accolti" negli hub aperti e nello Sprar, il sistema di "protezione" dei richiedenti asilo e dei rifugiati affidato all'Anci. Le strutture aperte saranno situate al Nord, quelle chiuse e che fungono rampe di lancio per l'espulsione al Sud. Ovvero i "buoni" nel Nord del paese, i "cattivi" nel Meridione. Difficile immaginare un sistema più perverso, in cui si fonde la vecchia questione meridionale nostrana con il nuovo razzismo nei confronti dei migranti. In questo sistema ogni diritto viene travolto. Ai migranti viene tolta la possibilità di dichiarare quali sono i motivi della loro richiesta di protezione che invece viene affidata ad una commissione. Facile prevedere una catena di ricorsi nei confronti di decisioni negative. Il diritto a cercare lavoro viene calpestato, mentre formalmente sarebbe uno dei pilastri dei trattati europei. Come si vede Renzi ha poco da alzare la voce in sede Ue, dove peraltro non fanno meglio. Le conclusioni del Consiglio europeo sono davvero umilianti e vergognose. Si è litigato, con i paesi dell'Est nel ruolo dei più intransigenti, su 40mila rifugiati già presenti in Europa da ridistribuire in due anni tra i diversi paesi europei. Cifre tutt'altro che inquietanti, soprattutto se si tiene conto che secondo l'Unhcr più di 100mila persone sono giunte in Europa dall'inizio dell'anno considerando solo quelle che hanno battuto la via mediterranea. Contemporaneamente la Ue mantiene la missione di pattugliamento e di respingimento dei barconi, salvo l'obbligo del salvataggio in mare che anche le navi militari devono operare. Inoltre le procedure di espulsione vengono rinforzate tramite accordi con paesi retti da dittature o nei quali è ancora in corso un conflitto sanguinoso. Il Consiglio europeo dimostra ancora una volta di essere del tutto prigioniero della logica dell'Europa come fortezza. Mentre il governo italiano cerca di venire a patti con le sempre più forti pulsioni xenofobe e razziste che attraversano il nostro paese, su cui le destre soffiano a pieni polmoni e che purtroppo si diffondono rapidamente anche a livello popolare. Non è un mistero per nessuno che gran parte della campagna elettorale per le regionali si sia giocata proprio sulla questione dell'accoglienza dei migranti. D'altra parte bisogna aver chiaro che questa dell'immigrazione è una questione che rappresenta una delle discriminati più evidenti tra la destra e la sinistra in ogni paese e in Europa. Droghe e dipendenza in carcere, un problema che riguarda il 60 per cento dei detenuti di Mario Pappagallo Corriere della Sera, 27 giugno 2015 In Sardegna l'incontro annuale della neonata Federazione europea per la salute penitenziaria. In Italia circa il 60% dei detenuti fa uso di droghe. Oggi c'è ancora una elevata percentuale di persone che muore di overdose nelle prime settimane successive all'uscita dal carcere, oltre a persone che nel primo anno rientrano in carcere perché compiono nuovamente dei reati. Studi americani confermano che nei primi 5 anni dalla liberazione, circa il 75% rientra in carcere; il 43% solo nel primo anno. In Italia non si hanno percentuali così elevate, ma nel primo anno si è comunque intorno al 30%. Dati forniti dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, molto attenta a registrare queste situazioni. Secondo i dati del Centro europeo per il monitoraggio sulle droghe e le dipendenze (Emcdda), quando una persona arriva in carcere con un'incriminazione o una sentenza relativa all'uso e allo spaccio di droghe, nel 73,7% dei casi è la cannabis la sostanza da condanna. Di questa percentuale, l'84,9% arriva in carcere per uso, il 12,6% per spaccio. A seguire, le altre sostanze stupefacenti sono la cocaina (8,4%), anfetamine (5,7%), altre sostanze (5,3%), eroina (4,7%), ecstasy (1,2%). Questi ed altri dati sono emersi durante l'incontro annuale della neonata Federazione europea per la salute penitenziaria, Health Without Barriers (Hwbs, o Salute senza barriere) che si è riunita il 3 giugno a Cagliari nella cornice dell'Agorà penitenziaria. La Federazione europea, composta da esperti e società scientifiche nazionali indipendenti come la Simspe Onlus, la Sesp (Spagna), l'Apsep (Francia), il Napduk (Regno Unito), il Dij (Olanda), si adopera per la promozione della salute e i diritti umani nelle carceri europee, per il beneficio della popolazione nella sua collettività. "Il titolo "Se il paziente è anche detenuto" è già eloquente - spiega Sergio Babudieri, Coordinatore scientifico del Congresso di Cagliari e presidente della Simspe. Si tratta di un richiamo per tutta la nostra categoria di medici, ma anche per infermieri, operatori sanitari, agenti di polizia penitenziaria che operano all'interno dei 199 istituti penitenziari italiani, che deve ricordare che stiamo parlando di pazienti. Sono si detenuti, ma in primo luogo pazienti. La peculiarità della medicina penitenziaria è che anche le persone che sono sane ricadono sotto la giurisdizione del magistrato di sorveglianza che ha la responsabilità della loro salute; peraltro, per sapere che una persona non è malata è necessario comunque un atto medico". Sono due milioni in Europa i detenuti ospitati nelle strutture penitenziarie, con un tasso di occupazione media del 104%.Il Paese con il maggior tasso di sovraffollamento, rispetto alla capienza massima tollerabile, è la Grecia, con il 133,9%, mentre 680mila sono gli utenti delle prigioni russe. Numeri alti, che aiutano a fotografare un ambiente che ha bisogno di un forte cambiamento, soprattutto a causa di un sistema penitenziario che non riesce a controllare adeguatamente la popolazione presente. La realtà penitenziaria europea è allarmante: la popolazione che è transitata durante un anno in carcere si aggira a 6 milioni. Molto spesso per reati legati alle droghe le cause principali della detenzione, ma i problemi non si fermano all'esterno delle mura penitenziarie, ma colpiscono anche il loro interno. La dipendenza colpisce ed affligge anche all'interno delle mura carcerarie: in Italia circa il 60% dei detenuti fa uso di droghe, il 33% cannabis, il 40% cocaina e circa il 5% anfetamine. Tra i Paesi che vedono il maggior uso in carcere di droghe, l'Olanda raggiunge quota 80%, soprattutto per quanto riguarda la cannabis. Anche in Spagna si consuma principalmente la stessa sostanza, circa il 58% dei detenuti, ma percentualmente l'Olanda ed il Regno Unito (70%) sono i Paesi con maggior consumo di cannabis in Europa. Sempre nelle carceri degli stessi due Paesi il 79% della popolazione penitenziaria usa sostanze stupefacenti. Una situazione che preoccupa anche le strutture italiane: nella classifica il nostro è al 7° posto, su 17 Paesi monitorati. I detenuti che registrano un minor consumo di stupefacenti sono invece in Slovenia, Romania e Croazia. India: caso marò, l'Italia ha attivato l'arbitrato internazionale Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2015 L'Italia ha attivato oggi l'arbitrato internazionale sul caso dei Fucilieri di marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare. L'annuncio è giunto dalla Farnesina. I due marò italiani sono coinvolti in una controversia internazionale tra Italia e India sorta dopo l'arresto, da parte della polizia indiana, dei due fucilieri, imbarcati sulla petroliera italiana Enrica Lexie come nuclei militari di protezione, e accusati di aver ucciso il 15 febbraio 2012 due pescatori imbarcati su un peschereccio indiano al largo della costa del Kerala, uno stato dell'India sud occidentale. Il nostro ministero degli Esteri ha spiegato che la decisione, che il Parlamento aveva sollecitato, è stata presa a conclusione della necessaria fase negoziale diretta con l'India e di fronte alla impossibilità di pervenire a una soluzione della controversia. L'Italia chiederà immediatamente l'applicazione di misure che consentano la permanenza di Latorre in Italia e il rientro in Patria di Girone nelle more dell'iter della procedura arbitrale. Da parte italiana, vi sarà un impegno a tutto campo per far valere con la massima determinazione le ragioni a fondamento della nota posizione italiana sulla giurisdizione e sull'immunità. Obiettivo è la conclusione positiva della vicenda, protrattasi sin troppo a lungo, dei nostri due Marò ai quali il governo rinnova la sua vicinanza. Il governo nelle ore precedenti l'attivazione dell`arbitrato ha informato della decisione i presidenti delle Commissioni Esteri e Difesa del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati (Fabrizio Cicchitto, Elio Vito, Pier Ferdinando Casini e Nicola Latorre) che hanno rilasciato una dichiarazione congiunta: "Esprimiamo apprezzamento per la decisione del Governo di attivare, come richiesto da tempo dal Parlamento, la procedura dell'arbitrato internazionale per la risoluzione con l'India della vicenda dei Fucilieri di Marina, attivazione della quale eravamo stati informati nelle ore precedenti. Ora è il momento dell'unità delle Istituzioni e del Paese per vedere finalmente affermati, secondo le norme del diritto nazionale ed internazionale, l'innocenza e i diritti dei Marò e dell'Italia, dopo oltre tre anni di ingiusta detenzione. A Massimiliano Latorre e Salvatore Girone rinnoviamo a nome nostro personale e delle intere Commissioni che rappresentiamo, i sentimenti di vicinanza e solidarietà che abbiamo più volte manifestato". Guinea Equatoriale: intervista al detenuto italiano Fabio Galassi "sono innocente" di Andrea Spinelli crimeblog.it, 27 giugno 2015 La Tv di Stato della Guinea Equatoriale trasmette un video con una breve intervista a uno dei due italiani arrestati il 21 marzo scorso: "È tutta una montatura". Fabio e Filippo Galassi, padre e figlio, sono stati arrestati a Bata, in Guinea Equatoriale, lo scorso 21 marzo: da quel giorno si trovano agli arresti, il primo nell'inferno di Bata Central, il carcere pubblico gestito dai militari al soldo di Teodorin Nguema ("il principe", vicepresidente ed "erede al trono" del padre Teodoro, presidente dal 1979), ed il secondo ai domiciliari dopo qualche giorno in cella. Dal 21 marzo 2015 i due attendono ancora di vedersi formalizzare le accuse da parte della magistratura nguemista, nonostante il pretesto usato al momento dell'arresto: i due avrebbero tentato la fuga dalla Guinea con due trolley pieni di soldi della società nella quale lavoravano, la General Work. Al momento dell'arresto la polizia non ha trovato soldi nelle valigie dei due, che sono accusati da alcuni sedicenti dipendenti della società, che li avrebbero avvistati la mattina del 21 marzo nel tentativo di fuga. Dicevamo che Fabio Galassi, dal giorno dell'arresto, vive l'inferno del carcere di Bata, realtà durissima che mette a dura prova da quasi due anni e mezzo un altro imprenditore italiano, Roberto Berardi, detenuto innocente ben oltre i termini di carcerazione. Intervistato dalla Tvge, la televisione di Stato della Guinea Equatoriale (il proprietario è sempre lui, Teodorin Nguema), Galassi viene mostrato con indosso la divisa del carcere, come un vero prigioniero: l'anchorman di Tvge nel lanciare il servizio usa un linguaggio molto violento: "Lo hanno preso con le mani nel sacco, Fabio Galassi", appellando il connazionale come "cabròn" (letteralmente "stronzone") e descrivendo i fatti come la classica fuga all'alba: padre e figlio, spiega il giornalista, sono stati sorpresi mentre fuggivano da casa loro uscendo dalla finestra e con le valigie piene di soldi e importanti e compromettenti documenti dell'impresa General Work. Il figlio Filippo, inoltre, viene accusato di aver violato la libertà vigilata concessagli con gli arresti domiciliari. Basta il lancio del servizio per rendersi conto del livello di indipendenza dell'informazione in Guinea Equatoriale, che si spinge ben oltre i fatti (e quindi la narrazione) entrando nel campo dell'insulto e della diffamazione e sostenendo la tesi che vuole i due "accusati di vari reati", cosa non vera perché a chi scrive risulta invece il contrario: la magistratura nguemista non ha ancora formulato e notificato ai due accuse formali, in virtù anche della dissoluzione del potere giudiziario decretata dal Presidente il 20 maggio scorso. Intervistato, Fabio Galassi rigetta tutte le accuse: "Sono tutte menzogne, non abbiamo rubato nulla e ho un sacco di testimoni. Ho inviato da qui (il carcere, nda) la mia prima istanza al Tribunale per dimostrare la mia innocenza grazie a tutti i documenti che ho in casa ma se li sono già presi e attualmente non ho idea di dove siano. Hanno fatto questo senza alcun ordine di perquisizione, e questo è illegale. Non ho alcun inventario dei documenti che stanno sequestrando nè tantomeno dei miei averi personali, che pure stanno scomparendo da casa". Nel video appare un uomo stanco, provato da mesi di carcere duro che, se le cose andassero come con Berardi, non gli verranno riconosciuti nel computo dell'eventuale pena. Nel carcere in cui vivono Galassi e Berardi torture e sevizie dei militari, che gestiscono la galera, a danno dei detenuti sono abitudini quotidiane: non sappiamo se Galassi sia stato torturato o abbia subito trattamenti inumani e degradanti, come invece è stato per Berardi, ma possiamo dire con certezza che anche Galassi vive sulla sua pelle un clamoroso abuso della giustizia nguemista, che ancora non gli ha notificato alcuna accusa formale e lo tiene detenuto "per tutelarne l'incolumità". Libano: iniziato il processo per le torture nel carcere di Rumiyeh Nova, 27 giugno 2015 Un tribunale militare libanese ha iniziato un processo contro cinque membri delle forze di sicurezza interna accusati di partecipare e di coprire una brutale aggressione contro tre prigionieri nel carcere Rumiyeh a Beirut, lo scorso aprile. Due degli uomini sono apparsi nei due video trapelati sul web lo scorso fine settimana, i quali mostrano immagini di tortura ai danni dei detenuti.Il filmato mostra in particolare due agenti di sicurezza che picchiano dei prigionieri legati, disarmati e seminudi con delle sbarre di plastica. Il giudice militare, Riad Abu Ghayda, ha interrogato gli uomini, in presenza dei loro avvocati difensori, e ha formalmente emesso un ordine per il loro arresto. Gli agenti sono in custodia da domenica scorsa. Il ministro dell'Interno, Nouhad Machnouk, ha sottolineato di recente che il Libano è "l'unico stato arabo a denunciare gli ufficiali che maltrattano i prigionieri al tribunale militare". Il ministro della Giustizia libanese, Ashraf Rifi, ha accusato le milizie sciite Hezbollah di aver diffuso i video che documentavano i casi di torture subite dai detenuti del carcere di Rumiyeh a Beirut. Dopo aver incontrato il ministro dell'Interno libanese, Nahad al Mashnuq, a Beirut, Rifi ha accusato Hezbollah di aver diffuso i video. Dei quattro video esistenti che riguardano le torture inflitte ai detenuti islamici del carcere solo due sono stati pubblicati su Facebook mentre ce ne sono altri due mai visti. "Gli unici che li posseggono questi filmati - ha aggiunto il ministro - sono gli Hezbollah". L'incidente ha avuto luogo quando le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nel carcere di Rumiyeh, il più grande del paese, per sedare le rivolte dei detenuti lo scorso aprile. Stati Uniti: ucciso Richard Matt uno dei due carcerati fuggiti da prigione New York Askanews, 27 giugno 2015 Richard W. Matt - uno dei due carcerati evasi dal penitenziario di massima sicurezza Clinton Correctional Facility di Dannemora, stato di New York - è stato ucciso dopo una sparatoria con alcuni agenti che stavano da settimane dando la caccia ai due. Lo scrive il New York Times che cita fonti vicine alle indagini. Non è chiaro invece dove si trovi l'altro evaso, David Sweat. Da quasi tre settimane centinaia di agenti erano sulle tracce dei due - che erano in galera condannati per omicidio. Richard W. Matt, 48 anni, e David Sweat, 34, sono due pericolosi assassini. Il primo è stato condannato a 25 anni per avere rapito, ucciso e smembrato un uomo, il secondo all'ergastolo per l'omicidio di un vicesceriffo. La sparatoria è avvenuta nella contea di Franklin, dove settimana scorsa erano state trovate alcune tracce dei due all'interno di una cabina telefonica. Il carcere da cui sono fuggiti si trova a circa 50 chilometri dal Canada e più volte gli investigatori hanno detto che i due erano riusciti a superare i confini. I due erano fuggiti lo scorso 5 giugno con un piano da film, ma l'evasione era stata scoperta solo la mattina del 6 giugno quando la guardia carceraria non li aveva trovati in cella. La autorità dello stato di New York intanto hanno accusato due impiegati del penitenziario di aver aiutato i due a fuggire, fornendo loro strumenti per scavarsi un varco nella cella: sono Gene Palmer e Joyce E. Mitchell.