Giustizia: l'inverno dei diritti e le "contro-Costituzioni" di Stefano Rodotà La Repubblica, 26 giugno 2015 L'inverno dei diritti è tra noi, e non è cominciato ieri. Vengono smantellate le garanzie previste dallo Statuto dei lavoratori, ultime quelle riguardanti i controlli a distanza, alle quali era affidata la dignità dei lavoratori. Alte mura si ergono ai confini dell'Unione europea e tra gli stessi Stati, per allontanare i disperati migranti in forme che negano la loro umanità. Si spende la parola solidarietà e mai le politiche sono state così poco solidali. Ai diritti sociali si oppone l'inesorabile logica economica. Si respingono le proposte sul reddito minimo in nome di una sua presunta incostituzionalità. E si minacciano barricate contro la civile legge sulle unioni tra persone dello stesso sesso. Su questo dovrebbero meditare quanti continuano a parlare di un'enfasi eccessiva posta sui diritti, giungendo fino a dire che "di diritti si muore". A questa retorica è fin troppo facile opporre le durezze di una realtà che mostra come si muoia davvero, proprio per la mancanza di diritti. L'esistenza "libera e dignitosa", di cui parla l'articolo 36 della Costituzione, si trasforma in vita disperata, in esistenza precaria, in sfruttamento che sconfina nella schiavitù. Le inchieste romane hanno mostrato l'indecente uso dei migranti attraverso accordi che assicuravano agli sfruttatori un euro per ciascuno di loro. Nelle campagne campane e calabresi lo sfruttamento di chi lavora nell'agricoltura ha assunto forme di schiavitù gestita anche da organizzazioni criminali, in quelle siciliane donne rumene vengono obbligate a prestazioni sessuali per mantenere il lavoro. E dovremmo distogliere lo sguardo dai diritti? Questo accade quando le società vengono "liberate" dalle costituzioni. Fragili barriere di carta, illusori riferimenti quando la politica impone le sue durezze? Forse stiamo per certificare la fine del costituzionalismo nato nel secondo dopoguerra, quando lo "Stato costituzionale di diritto" venne fondato sul riconoscimento dei diritti fondamentali e sul controllo di costituzionalità. Oggi stanno nascendo "contro costituzioni", dominate dal primato della finanza, alla quale tutto deve essere subordinato. Qui libertà e diritti non trovano posto, e così è la stessa democrazia a rischiare la scomparsa. Qui è anche la radice della crisi dell'Unione europea. L'Europa, terra di diritti, sta negando se stessa. Nel Preambolo della Carta dei diritti fondamentali è scritto che l'Unione "pone la persona al centro della sua azione". Nella realtà proprio la persona con dignità e diritti viene dimenticata e su tutto prevalgono gli impersonali meccanismi del calcolo economico e le pretese degli Stati membri di agire come meglio credono. L'Ungheria vuole costruire un muro al confine con la Serbia, e intanto ha già privato i suoi cittadini di garanzie fondamentali senza che l'Unione intervenisse per impedire ad Orbán di proseguire nel suo cammino autoritario. Ben diverso era stato l'atteggiamento quando in Austria si era manifestato il pericolo Haider, tanto che poi, con il Trattato di Maastricht, si era dotata l'Unione di più incisivi poteri di intervento. Non sono stati esercitati, e questo non è solo un segno di debolezza, ma diventa un incentivo verso quella "rinazionalizzazione" strisciante che insidia il progetto europeo. Dall'orizzonte dell'Unione scompare anche un principio innovativo contenuto nella Carta dei diritti fondamentali e nel Trattato di Lisbona - la solidarietà. Dell'Europa fraterna si perdono le tracce, come accade quando si rifiuta l'assunzione di responsabilità comuni per l'accoglienza dei migranti. Lo stesso accade in Italia con l'esplodere degli egoismi municipali. Tutti ferocemente tesi a chiudersi in identità che escludono l'altro, e alimentano quello scomparire della coesione sociale e politica che alimenta il populismo. È vero che non si può invocare la solidarietà come fosse una bacchetta magica e non l'esito di politiche rigorose e coerenti. Ma queste politiche possono nascere solo se si parte dalla premessa del carattere fondativo di quel principio. La trama solidale è stata rotta, come mostra un bel libro del presidente della Fondazione Migrantes, monsignor Perego, e non è un caso che l'ultimo scritto di Enzo Bianchi si apra discutendo la parabola del buon Samaritano. Riferimento impegnativo perché, come ci ricorda Luigi Zoja, in quella parabola Cristo parla di "amare lo straniero". L'abbandono dei diritti, letti impropriamente da qualcuno come strumenti di frammentazione individualistica, nasce della regressione culturale e civile nella quale siamo immersi. Un'Europa cieca cerca sempre più la salvezza in direzioni sbagliate. Mentre gli Stati Uniti riducono i poteri della National Security Agency sui controlli di massa, le leggi di Francia e Spagna (in misura più ridotta quella italiana) imboccano il cammino opposto con il pretesto della lotta al terrorismo e trasformano le nostre società in nazioni di sospetti. L'accentramento di poteri di controllo negli organismi di sicurezza si congiunge così con l'accentramento nelle mani dell'imprenditore di poteri di controllo elettronico sui lavoratori. Prendere sul serio l'aggressione ai diritti è indispensabile per mettere a punto strategie di risposta, oggi affidate quasi esclusivamente alle corti costituzionali. Alla Corte di giustizia dell'Unione europea che, in un caso riguardante Google, ha affermato che il rispetto dei diritti fondamentali deve prevalere sull'interesse al profitto; alla Corte costituzionale tedesca, che ha imposto al parlamento i criteri economici necessari per garantire l'esistenza dignitosa (estendendoli anche a chi ha avuto asilo); alla Corte belga, che ha bocciato una legge sulla raccolta e conservazione dei dati personali; a sentenze della Corte italiana sul rispetto dei diritti sociali in materia di pensioni e contratti nel pubblico impiego. Ho scritto in altre occasioni che non è un segno di buona salute di un sistema il concentrarsi della garanzia solo negli organi giurisdizionali. Ma gli equilibri non si ricostituiscono eliminando le garanzie essenziali, gridando tutte le volte all'invasione delle prerogative parlamentari. È stato invasivo l'intervento dei giudici costituzionali quando hanno quasi del tutto cancellato la più ideologica tra le leggi della Repubblica, quella sulla procreazione assistita, approvata da una maggioranza assai determinata, ma che violava clamorosamente in primo luogo il diritto alla salute delle donne? E non è stata invasiva la sentenza sulle pensioni, perché tutte le leggi sono sottoposte al controllo di costituzionalità e il rispetto del pareggio di bilancio non può consentire la violazione di diritti sociali. Né la Corte deve fermarsi se la violazione ha prodotto effetti finanziari rilevanti. Può "modulare" le sue decisioni, ma questo non restituisce discrezionalità piena a governo e Parlamento, né la misura del giudizio può diventare il puro calcolo economico. Altrimenti si arriverebbe alla paradossale conclusione che più consistente è la violazione, minore è la possibilità di sanzionarla. Siamo vittime di quello che Alain Supiot ha chiamato il governo affidato ai numeri, che rende impotente la politica e impraticabile la via dei diritti. Se non ci liberiamo da questa ipoteca, né i diritti, né la politica democratica possono salvarsi. Giustizia: oggi è la Giornata Onu contro la tortura, nel mondo 141 i Paesi che la praticano di Laura Pasotti Redattore Sociale, 26 giugno 2015 Iniziative e raccolte di firme in tutto il mondo per il 26 giugno, giorno scelto dall'Onu per ricordare le vittime. Celebrazioni anche in Italia con eventi da Venezia a Reggio Calabria. Per l'occasione Amnesty Italia invita il Parlamento, ancora una volta, a introdurre il reato. Iniziative pubbliche e raccolte di firme. In oltre 55 Paesi del mondo ci si sta preparando per celebrare il 26 giugno, giorno scelto dalle Nazioni Unite per ricordare le vittime di tortura. È Amnesty International - che nel 2014 ha lanciato la campagna "Stop alla tortura" - a ricordare che, a 31 anni dall'entrata in vigore della Convenzione Onu contro la tortura, ratificata da 157 Paesi, sono migliaia le persone che subiscono torture in ogni parte del mondo: negli ultimi 5 anni l'Associazione ha denunciato casi, isolati o regolari, di tortura o altri maltrattamenti in 141 Paesi, tra cui Filippine, Marocco, Messico, Nigeria e Uzbekistan. In particolare, Amnesty ha lanciato una raccolta di firme per due casi: Yecenia Armenta, madre di 2 bambini, che ha trascorso quasi 3 anni in un carcere del Messico per aver confessato di avere ucciso il marito dopo 15 ore di tortura, violenza sessuale e minacce di violenza nei confronti dei figli, e Muhammad Bekzhanov, giornalista uzbeko in carcere dal 1999, giudicato colpevole di aver preso parte ad alcuni attentati in seguito a una confessione estorta con tortura, tra cui pestaggi, soffocamento e scariche elettriche. Anche l'Italia si prepara per celebrare la Giornata internazionale contro la tortura e per l'occasione, la sezione italiana di Amnesty invita ancora una volta il Parlamento a introdurre nel codice penale il reato di tortura. Anche il ministro dell'Interno Angelino Alfano, intervenendo al convegno ‘Sicurezza globale per lo sviluppo e la legalità' ha ribadito l'importanza di introdurre la norma anti-tortura in Italia, ma solo dopo aver rassicurato le forze di polizia che tale reato non dovrebbe e non sarà usato per criminalizzare il loro operato complessivo. "Apprezziamo il fatto che il ministro dell'Interno riconosca la necessità della legge sul reato di tortura, Amnesty International è convinta che la sua introduzione, sanzionando comportamenti criminali individuali, sarebbe nell'interesse delle forze di polizia e contribuirebbe a rafforzare il clima di fiducia tra le stesse e i cittadini - ha dichiarato Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia. Dopo aver rassicurato le forze di polizia, il ministro Alfano dovrebbe rassicurare anche la Corte europea dei diritti umani, il Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite, il Consiglio dei diritti umani dell'Onu e la comunità internazionale nel suo complesso che è volontà effettiva del governo italiano onorare l'impegno preso 26 anni fa con la ratifica della Convenzione contro la tortura. Dopo 4 legislature - ha concluso Marchesi - non può trascorrerne un'altra senza il reato di tortura". In occasione del 26 giugno sono diverse le iniziative promosse in Italia. A Venezia, il Centro studi sui diritti umani dell'Università Ca Foscari propone un seminario interdisciplinare sul tema "tortura e infanzia" con la partecipazione di associazioni che lavorano per tutelare i diritti dei minori. Obiettivo? Dare voce ai bambini e alle bambine vittime di tortura nelle situazioni di conflitto, in contesti familiari, nelle rotte migratorie e della prostituzione. Nella prima parte della giornata verrà fornita una prospettiva storica alla luce dei due conflitti mondiali, mentre nella seconda ci si concentrerà sulle torture del mondo contemporaneo, in particolare con riguardo a forme di violenza assistita e all'infanzia con un approfondimento sui minori migranti. Il pomeriggio sarà aperto da un video proposto al Festival internazionale Un film per la pace e poi si parlerà di torture importate ed esportate ovvero quelle che non si compiono in Europa ma che in un modo o nell'altro sono collegate a essa. Sostenuto da Europe Direct e organizzato con la collaborazione della rivista "Dep, deportate, esuli, profughe" e l'appoggio del Centro Pace del Comune di Venezia, l'incontro si tiene il 26 giugno dalle 9 alle 18 a Ca Foscari (Aula Baratto). In Messico lo scorso 7 giugno, in occasione delle elezioni municipali a Ocosingo (Chiapas) la polizia ha proceduto ad arresti e aggressioni arbitrarie nei confronti di 11 persone. In Arabia Saudita è stata confermata la sentenza di condanna a mille frustate e a 10 anni di carcere per il blogger Raif Badawi, arrestato nel 2012 per oltraggio all'Islam e processato per apostasia. Sono le "chiamate urgenti" sui cui Acat Italia (Azione dei cristiani per l'abolizione della tortura) punta i riflettori nel mese di giugno in occasione della Giornata internazionale contro la tortura e che verranno ricordate nella veglia di preghiera indetta a livello internazionale - insieme alla Federazione internazionale delle Acat (Fiacat) - per la notte tra il 26 e il 27 giugno. Sarà un momento di riflessione che si terrà in contemporanea in diversi Paesi del mondo per ricordare e sostenere le vittime di tortura. Per quanto riguarda l'Italia, Acat rivolge un pensiero ai migranti e ai richiedenti asilo che arrivano sulle nostre coste dopo aver affrontato viaggi pericolosi e spesso essendo stati vittime di maltrattamenti e torture nei Paesi di transito, e invita tutti i cristiani a "farsi parte attiva per il superamento di ogni egoismo e per vedere nel migranti non un nemico ma un fratello bisognoso di aiuto". Il 27 giugno a Reggio Calabria il Gruppo Italia 292 di Amnesty International organizza una manifestazione per sollecitare l'introduzione del reato di tortura nell'ordinamento italiano. L'evento prevede un corteo che partirà alle 18 e si snoderà lungo corso Garibaldi e che si concluderà in piazza Italia. Durante il percorso, verranno ricordati alcuni casi di tortura rimasti impuniti in Italia, tra cui le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di polizia durante il G8 di Genova, in particolare a Bolzaneto. Giustizia: "No al reato di tortura, fate lavorare gli agenti", Salvini diventa un caso di Mariolina Iossa Corriere della Sera, 26 giugno 2015 "Carabinieri e Polizia devono poter agire liberamente. Se devo prendere per il collo un delinquente, lo devo prendere. Se cade mentre è fermato e si sbuccia un ginocchio, c... suoi". È un Matteo Salvini con il lanciafiamme quello che ha partecipato ieri mattina alla protesta del sindacato di polizia Sap, contro il ddl che introduce il reato di tortura, con aggravanti per i pubblici ufficiali, licenziato dalla Camera pochi giorni fa. Le sue parole hanno riacceso lo scontro politico cominciato già prima della condanna della Corte europea, in aprile, per i fatti accaduti nella scuola Diaz durante il G8 di Genova. I poliziotti hanno chiesto al Parlamento di fermare il ddl e di "ripartire dall'attuale legislazione". Il segretario generale del Sap, Gianni Tonelli, ha spiegato che "esistono già in Italia fattispecie di reato che puniscono severamente gli eventuali abusi delle forze dell'ordine. Questo ddl invece nasconde la volontà di punire gli uomini e le donne in divisa, strizzando l'occhio al partito dell'Antipolizia". In particolare, il Sap teme le conseguenze di quella norma che punisce la violenza psicologica da parte delle forze dell'ordine. "Come potrà essere dimostrata? - dicono gli agenti. È come mettere un manganello nelle mani dei criminali". Ha usato parole ben più dure il leader della Lega Nord, Salvini, fotografato con il governatore Roberto Maroni, secondo il quale la norma sulla violenza psicologica è "un'idiozia" e la legge è "sbagliata e pericolosa. Noi della Lega abbiamo contrastato, mentre è stata voluta da Pd e M5S". "Polizia e Carabinieri - ha continuato - devono poter fare il loro lavoro". A chi gli ha ricordato la condanna della Corte europea dei diritti umani per i fatti di Genova, Salvini ha replicato: "La Corte europea potrebbe occuparsi di altro anziché rompere le scatole all'Italia. Per qualcuno che ha sbagliato non devono pagare tutti". "Ci rattrista che il dibattito su un tema così delicato sia diventato il pretesto per una demagogia ed una ideologizzazione che non aiuta gli appartenenti alla polizia di Stato, né l'Amministrazione e neppure il nostro Paese", risponde a Tonelli e a Salvini Lorena La Spina, segretario nazionale dell'Associazione Funzionari di Polizia, che è su posizioni diverse rispetto al Sap, pur avendo avanzato perplessità sul testo e proposto emendamenti. "Critiche scomposte - è stata la replica a distanza del capogruppo in commissione Giustizia alla Camera del Pd Walter Verini -. Il Parlamento ha fatto un buon lavoro, atteso da molti anni. Gli attacchi di queste ore sono fuori misura. Quello cha vuole essere colpito è solo l'abuso, com'è accaduto a Genova". Per Nicola Fratoianni (Sel): "A Salvini, che considera accettabile torturare, evidentemente piacerebbe vivessimo ancora nel Medioevo". Mentre Nunzia De Girolamo (Ncd) chiede "un confronto franco fra tutte le forze politiche affinché i poliziotti possano esercitare al meglio il proprio dovere". Insorgono le associazioni (Antigone-Garante dei detenuti e Acat), che si faranno sentire anche oggi, in occasione della giornata internazionale contro la tortura: "Il Sap è fuori dalla comunità internazionale". Giustizia: reato di tortura, Renzi dica se sta con il Sap e Salvini di Patrizio Gonnella (Presidente Antigone) Il Manifesto, 26 giugno 2015 Ieri il Sindacato autonomo di Polizia ha manifestato contro il reato di tortura, con il leader leghista Matteo Salvini e il governatore della Lombardia Roberto Maroni al seguito. Non lo sanno ma hanno manifestato anche contro il Papa e contro Ban Ki Moon. Era il 1997 quando le Nazioni Unite decisero che il 26 giugno fosse il giorno in cui ricordare su scala universale le vittime della tortura. Dieci anni prima, ovvero il 26 giugno del 1987, entrò in vigore la Convenzione Onu contro la tortura e ogni altra forma di punizione o trattamento inumano, crudele o degradante. Sono 158 gli Stati che in giro per il mondo hanno firmato e ratificato il Trattato. Possiamo però dire che la tortura, considerata dal diritto internazionale crimine contro l'umanità, sia oggi bandita dalla comunità degli Stati? Qui seguono due ordini di riflessioni. Il primo ordine di riflessioni riguarda quei Paesi che si sono adeguati, seppur parzialmente, ai contenuti del Trattato Onu che imponeva, tra l'altro, la previsione di un reato ad hoc nella legislazione interna a ciascuno degli Stati membri. Come sappiamo la codificazione del reato è condizione necessaria ma non sufficiente perché la tortura sia perseguita e perché non vi sia impunità per i torturatori. Non siamo così ingenui da credere che basti prevedere un reato perché la pratica di polizia si adegui e i giudici condannino. Di pochi giorni fa sono le osservazioni del Comitato Onu contro la tortura rispetto alla Spagna, Paese che dal 1995 ha introdotto il crimine nel suo codice. Il Comitato ha sostenuto che la definizione di tortura presente nella legislazione spagnola fosse del tutto inadeguata e ha invitato le autorità iberiche ad armonizzarla rispetto al testo Onu. All'articolo 1 della Convenzione si definisce la tortura. Devono ricorrere i seguenti requisiti: l'autore deve essere un pubblico ufficiale, deve esserci violenza o minaccia, deve essere prodotta sofferenza fisica o psichica, deve esservi l'intenzione di estorcere una confessione o di umiliare. Va altresì ricordato che lo Statuto della Corte Penale Internazionale abilitata a giudicare i gravi crimini contro l'umanità - tortura, genocidio, crimini di guerra - ha una definizione meno cogente. In ogni caso è questo il solco entro cui lo Stato deve muoversi. La Spagna non l'ha fatto. Il secondo ordine di riflessioni riguarda invece quei Paesi che non si sono adeguati per nulla ai contenuti del Trattato. L'Italia è in prima linea tra questi. La tortura da noi non è un reato, come ci ha ricordato la Corte Europea sui diritti umani lo scorso 7 aprile condannando il nostro Paese nel caso Cestaro a causa delle brutalità commesse dalla Polizia nella scuola Diaz nel 2001. Pochi giorni fa il ministro Alfano in un convegno pubblico ha affermato: "Il reato non sia contro la Polizia". Il reato di tortura è essenziale per una Polizia moderna; aiuta a distinguere chi svolge il proprio compito correttamente da chi invece fa un uso brutale della forza. La contrarietà delle forze dell'ordine è ingiustificabile se non adducendo tesi oltranziste. Il ddl per l'introduzione del delitto nel codice pende in commissione Giustizia al Senato. È vittima di un ping pong parlamentare già troppe volte visto in passato. Tra il 16 e il 22 settembre il Sotto-Comitato Onu contro la tortura visiterà i luoghi di privazione della libertà in Italia. È la prima volta che gli ispettori Onu entreranno nelle nostre caserme, nei nostri Cie, nelle nostre prigioni. Subito dopo si recheranno in Turchia. L'Italia è tra i 78 Paesi che si è resa disponibile a farsi visitare. Per allora sarebbe essenziale che da un lato ci fosse il reato nel codice, dall'altro fosse nominato il Garante delle persone private della libertà. La legge c'è, il Garante non ancora. Per questo ci rivolgiamo direttamente a Matteo Renzi, il quale nei giorni successivi alla sentenza europea nel caso Diaz aveva detto che "la nostra risposta è il reato di tortura". La palla è nel suo campo. Vanno neutralizzate le obiezioni del partito di Giovanardi e Alfano. Il ministro della Giustizia Orlando, in occasione del dibattito alla Camera dello scorso aprile, aveva auspicato invece un voto ampio e condiviso. Una posizione importante che ora deve trovare conferma al Senato. Spetta al premier spingere in questa direzione, anziché in quella di retroguardia del ministro degli Interni, del Sap e di Salvini. Giustizia: Salvini, la tortura e il parlare a vanvera di Aldo Masullo Il Mattino, 26 giugno 2015 Con il parlare a vanvera generalmente o ci si diverte o ci si sfoga. Esso è, per principio, al di qua della correttezza intellettuale e della responsabilità morale: è l'esonero del perditempo e dell'esasperato. Dalla fine del secolo scorso, e nel nostro sempre più rapidamente, il parlare a vanvera ha tracimato, e come una massa lutulenta ha sommerso e impregnato di sé il linguaggio politico, che poi vuol dire la logica e l'etica che ne costituiscono la funzione essenziale in una società liberale. Alla ribalta della situazione democratica italiana, in cui sempre più invadente è la rap-presentazione e sempre più svanita la rappresentanza, oggi al primato nel parlare a vanvera aspira in ottima posizione il segretario della Lega Nord, lo sbrigativo Matteo Salvini. Esemplare è la recentissima sua esternazione a proposito del "delitto di tortura", la cui idea sembra - è il caso di dire - torturarne crudelmente l'acuta sensibilità civile e l'intatta purezza dei suoi riferimenti culturali. Egli, nella sua estrema, direi patema, sollecitudine per i tutori dell'ordine pubblico, dichiara senza esitazione alcuna che la "legge sulla tortura" "espone i poliziotti e i carabinieri al ricatto dei delinquenti". Questa è la parola che lo fa saltare come colpito da una scossa elettrica: "delinquente". Su questa parola si regge tutta la sua costruzione retorica, abusiva dei fondamentali principi del diritto moderno. Che il suo sia un perfetto esemplare del parlare a vanvera lo mostra il pezzo forte del suo "ragionamento": "Le forze di polizia devono avere libertà assoluta di azione, se devono prendere per il collo un delinquente e questo si sbuccia il ginocchio o si rompe una gamba sono cazzi suoi, ci pensava prima di fare il delinquente". La mente di Salvini è torva come il suo ghigno, e il "delinquente" è l'incubo che la tortura. Egli non si rende conto che anche un ricco signore e potente politico, suo amico, alla cui alleanza si è di recente candidato, Silvio Berlusconi, tecnicamente è un "delinquente", perché ha commesso un reato per cui è stato condannato. Con questa logica, se all'epoca avessero arrestato Berlusconi e, prima ancora della condanna, gli avessero spezzato un braccio, avrebbero agito lecitamente, anzi avrebbero fatto proprio bene. Glielo vada a dire, Salvini, questo soave pensiero a Berlusconi, magari durante uno degli incontri conviviali ad Arcore! Ma il colmo dell'infamia logica e giuridica, prima che morale, sta nella totale irrilevanza, per Salvini, della possibile innocenza dell'arrestato. Alla luce nera di questa logica, non si viene arrestati perché (eventualmente) si è delinquenti, ma si è delinquenti perché si viene arrestati! Tutti i non pochi, morti nelle carceri per i maltrattamenti subiti, e la cui innocenza è stata troppo tardi riconosciuta, sarebbero, secondo Salvini, morti perché delinquenti. Quale caduta apparirebbe quella della civile milanesità, se ne misurasse la curva scegliendone il punto terminale in Salvini e il punto iniziale in Cesare Beccaria. Il qual Beccaria nel 1764, scrivendo contro la "tortura", inflitta a un qualsiasi indagato, ne condannava fermamente l'uso in ogni caso. Dallo scritto di Beccaria alle esternazioni di Salvini i 251 anni intercorsi tra le gesta dei due milanesi segnerebbero una disastrosa regressione. Salvini crede forse, o finge di credere, che la tortura sia usata comunque non solo lecitamente ma addirittura giustamente "per non so quale metafisica e incomprensibile purgazione d'infamia" come con parola di fuoco scriveva il mite Beccaria, adombrando molto efficacemente il pericolo del fanatismo giustizialista. È evidente che Salvini fa i suoi calcoli, e il suo parlare a vanvera viene utilizzato per conseguire i vantaggi di un qualificato consenso, non tanto delle forze dell' ordine quanto della gente che da sempre non solo parla ma pensa a vanvera, e lascia che le sue paure divengano non magari alimento di qualche seria concezione di destra ma ostaggio di qualche avventuristico populismo securitario. Tuttavia il leader leghista corre il rischio di risultare in fondo ingannato dalla sua stessa retorica. Nella sua scarsa stima dell'intelligenza delle persone, egli non riesce a pensare che, al di là di qualche protesta sindacale d'ufficio, oggi le varie polizie hanno acquistato una cultura giuridica ed un orgoglio civile per cui, salvo le statisticamente inevitabili eccezioni, esse costituiscono non un corpo estraneo da strumentalizzare agl'interessi di una politica fobicamente securitaria bensì una fondamentale riserva di coesione democratica. Salvini non s'accorge che, nel rivolgersi alle forze dell'ordine gabellandosi per loro difensore dai pericoli di una legge sulla tortura, offende nell'onore civile tutti gli uomini e le donne di quelle forze. È come se dicesse loro: purché non vi s'imbrigli, voi quando capita ben sapete torturare. A voi spetta di diritto il raro privilegio di essere legalmente torturatori. Il che, per una persona normale della nostra civiltà, non certo è un esaltante complimento. Ancora una volta c'è qualcuno, gran politico, che parla a vanvera. Giustizia: la posizione di Salvini sulla tortura spia di un sentire comune? di Angela Azzaro Il Garantista, 26 giugno 2015 Leggendo le parole di Matteo Salvini, che si scaglia contro il reato di tortura, si sovrappongono nella mente le immagini del leader della Lega e quelle di Stefano Cucchi. Da una parte le ruspe, che stanno facendo piazza pulita di valori politici, culturali, umani, dall'altra il volto tumefatto di un giovane che aveva la vita davanti e che ha dovuto subire qualcosa di mostruoso. L'Italia è uno dei pochi Paese europei che non ha ancora introdotto nel proprio ordinamento questo reato. Dovrebbe essere normale, scontato. Anche per i poliziotti: se uno agisce correttamente non deve avere paura di questa norma che non criminalizza ma tutela anche i funzionari dello Stato nell'esercizio delle loro funzioni. Ne dovrebbero avere paura solo coloro che non sono corretti e usano il proprio potere per ferire, far male, offendere. In molti casi fino alla morte. Loro sì, dovrebbero aver paura. Ma non dovrebbe temere il reato di tortura chi invece fa il suo mestiere con attenzione e dedizione. Le forze dell'ordine sono chiamate a tutelare il cittadino, ma troppi casi invece ci raccontano di un uso della violenza per reprimere, spaventare, instaurare un regime di terrore tra coloro che la pensano in maniera diversa. Il Parlamento italiano sta finalmente per introdurre il reato di tortura nel codice penale e questo, pur se accade in ritardo e dopo i richiami della Corte di Strasburgo, dà fastidio. Sollecita la protesta dei poliziotti che ieri hanno manifestato a Roma, Milano e Palermo, e dà fiato alle trombe di chi fa politica solleticando i peggiori istinti delle persone. Salvini è uno di questi. "Se devo prendere per il collo un delinquente - ha detto ieri - lo prendo. Se cade e si sbuccia un ginocchio, sono cazzi suoi". Non so a cosa si riferisse, ma a me - come dicevo all'inizio -vengono in mente altre immagini. Quelle di Stefano Cucchi o di Aldrovandi, le foto dei ragazzi picchiati alla Diaz o a Bolzaneto. Mi vengono in mente quei volti impauriti, ma anche quei volti che non hanno più vita. Ma la frase di Salvini, racconta anche un altro aspetto che attraversa la questione del reato di tortura ma più in generale la cultura che si sta affermando in Italia rispetto a chi è presunto responsabile di un reato. Il leader della Lega li vorrebbe trascinare fisicamente, ma molti italiani -anche tra i più apparentemente vicini allo stato di diritto - pensano che per difendersi si possa e debba sparare (anche da soli), punire in maniera esemplare (per fortuna non si fanno sondaggi sulla pena di morte, se no - temo - si potrebbero avere amare sorprese), pensano che chi delinque una volta è marchiato a vita anche se ha scontato la pena. La frase di Salvini è la spia parossistica di un modo di pensare che in Italia sta diventando una terribile normalità. Per questo è importante dare un segno diverso. Il rispetto delle regole, dello stato di diritto, è fondamentale. Oggi è la giornata internazionale contro la tortura e il Parlamento dovrebbe approvare prima possibile la legge che introduce il reato nel nostro codice penale. La battaglia per il rispetto dello stato di diritto è quotidiana, culturale e politica. Non si ferma a una norma. Ma questa è importante e va riconosciuta. "La posizione del Sap (sindacato di polizia) - hanno commentato Patrizio Gonnella (Antigone), Massimo Corti (Acat) e Franco Corleone (Coordinatore dei garanti dei detenuti) - è fuori dalla comunità internazionale. Anche il Vaticano di papa Francesco ha codificato il crimine di tortura così come chiesto dall'Onu di Ban Ki-Moon". Non c'è più tempo da perdere. Giustizia: i nuovi demagoghi che cavalcano l'odio delle divise in piazza di Carlo Bonini La Repubblica, 26 giugno 2015 C'è qualcosa di antico e di osceno nelle piazze che, ieri pomeriggio, a Roma, Milano, Palermo, il secondo sindacato di Polizia, il Sap, ha riempito di agenti per contrabbandare l'imminente primo voto parlamentare sull'introduzione del reato di tortura, come "una vendetta contro le forze dell'ordine". E nelle parole con cui Matteo Salvini le ha cavalcate ed eccitate. In una sgangherata e ideologica operazione di manipolazione, il faticoso compromesso raggiunto dalla maggioranza di governo al Senato nel definire una norma che metta il nostro Paese all'onore del mondo con appena 26 anni di ritardo (dal 1990 l'Italia non ha dato seguito alla ratifica al la Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite che bandiva la tortura dichiarandolo crimine contro l'umanità) diventa occasione per una passerella di odio e paura un tanto al chilo. Dismessa la "felpa" identitaria, Salvini si insacca nel fratino fosforescente dei poliziotti che manifestano ed entusiasti scattano selfie, dimenticando di chiedergli se il partito di cui è segretario, la Lega, non sia lo stesso che, tra il 2009 e il 2011 (governo Berlusconi), tagliò per 3 miliardi e mezzo di euro il bilancio delle Forze dell'Ordine. E se la Lega non sia lo stesso partito che, nel 2009, ridusse il turn-over del personale al 20 per cento e, un anno dopo, bloccò i fondi per adeguare i "tetti salariali" (quelli che consentono di adeguare le retribuzioni agli scatti di grado e alle indennità di servizio). Del resto, nel Paese dalla memoria cortissima, la coerenza è un dettaglio. E nel suo stantio menù della paura, che, senza pudore, recita anche l'ex ministro dell'Interno Roberto Maroni, la sbobba "sott'odio" (per parafrasare Leo Longanesi) servita da Salvini è sempre la stessa. Migranti, Polizia, Rom, Antagonisti, Euro. E identico ne è il sapore. Perché Salvini parla di cose che non conosce o che manipola. Diverso è il discorso per le migliaia di poliziotti cui ha fatto ieri da mosca cocchiera. Gli agenti che hanno sfilato a Roma, Palermo, Milano, sanno infatti perfettamente che la norma faticosamente scritta e riscritta al Senato, accogliendo le preoccupazioni sollevate da ultimo anche dal capo della Polizia, Alessandro Pansa, definisce la tortura non come reato "proprio" del pubblico ufficiale. Non è dunque norma pensata per colpire la polizia, ma la tortura, chiunque ne sia autore. Ed è norma dove la qualità del pubblico ufficiale diventa piuttosto un'aggravante, come è logico che sia. Quantomeno in una democrazia degna di chiamarsi tale. Dove il monopolio della forza riconosciuto allo Stato (e dunque alle Forze dell'ordine che ne sono Istituzione) è legittimo solo e soltanto se utilizzato nel perimetro delle garanzie dell'habeas corpus, principio di intangibilità del corpo e della sfera delle libertà individuali - civili, ed ebbene si, persino psicologiche - riconosciuto già nella Magna Charta, anno di grazia 1215. La pessima notizia non è dunque Salvini. Ma il segnale che arriva da quelle piazze. Ennesima prova, ammesso ce ne fosse bisogno, di cosa si agiti, ormai da tempo, nella pancia della Polizia di Stato. Che è e resta un corpo democratico (ed è grottesco e insieme preoccupante l'obbligo pavloviano che si avverte nel doverlo ogni volta ripetere). Ma che, a 35 anni dalla riforma che lo smilitarizzò, è con ogni evidenza sempre più privo di un sistema immunitario capace di renderlo impermeabile ai rigurgiti della peggiore demagogia di destra, alle tentazioni politicamente eversive di mettere in mora ieri un tribunale della Repubblica, oggi una Corte internazionale di Giustizia, un Parlamento, una Convenzione delle Nazioni Unite. Come se un pezzo della Polizia, improvvisamente inconsapevole della propria funzione, invocasse un principio di eccezione rispetto alla legge con i modi di una delle mille esasperate corporazioni del Paese. Non a caso, con i suoi 18mila iscritti, il Sap, sindacato di centro-destra che ha riempito ieri le piazze, è lo stesso che, un anno fa, durante il suo congresso, tributò 5 minuti di standing ovation agli agenti riconosciuti colpevoli dell'omicidio di Federico Aldrovandi, un innocente. Il suo segretario, Gianni Tonelli, è lo stesso che dopo la lettura della sentenza che mandò assolti tutti gli imputati per la morte dell'innocente Stefano Cucchi, non trovò altre parole che queste: "Se disprezzi la tua salute ne paghi le conseguenze". Il Sap non è un fungo. Altre sigle, come il Coisp, da tempo lo inseguono sullo stesso terreno di rancore, frustrazione, rabbia per chiunque si eserciti nell'ordinaria manutenzione di una democrazia e nella difesa dei suoi diritti fondamentali. Giustizia: dalla Cassazione allarme sui ricorsi inutili, uno su dieci vale meno di 5.200 euro di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 26 giugno 2015 Se la giustizia italiana non funziona, è anche per ciò che avviene al suo piano più alto, nell'ultimo e più importante grado di giudizio: la Corte di cassazione è sommersa da ricorsi che spesso si rivelano inutili e infondati, ma assorbono ugualmente una grande quantità di energie. Sottraendole a questioni che meriterebbero maggiore attenzione e soprattutto celerità. Tutto questo si somma a organici sempre insufficienti (soprattutto nel personale amministrativo), che si traducono in una giustizia troppo spesso ritardata e negata. 700 sentenze "ferme". C'è un numero, acquisito di recente, che fa capire quanto incide, ad esempio, la mancanza di cancellieri e addetti vari: l'altro ieri il presidente della sezione Lavoro della Corte suprema ha comunicato che nel suo ufficio ci sono 700 sentenze già deliberate, scritte e firmate dall'estensore e dal presidente che attendono di essere pubblicate; per renderle esecutive ci vorranno altri mesi, fra i 60 e i 90 giorni. Di questa "crisi di funzionalità che è, nella sostanza, vera crisi di identità", delle sue ragioni e di possibili soluzioni s'è discusso ieri nella assemblea generale (e straordinaria) della Cassazione convocata dal primo presidente Giorgio Santacroce, alla presenza del capo dello Stato. E proprio Santacroce lancia l'allarme più profondo: "Di fronte all'acuirsi di questa crisi è la stessa istituzione che rischia di essere affossata" se non si arriverà in tempo utile a interventi drastici ispirati a "una larga dose di radicalismo illuminista". La questione più rilevante, sottolineata in tutte le relazioni, è quella della necessaria riduzione dei ricorsi. Partendo da un dato statistico, anch'esso molto significativo: il 61 per cento degli oltre 55.000 fascicoli trattati nell'ultimo anno al "palazzaccio" di piazza Cavour è stato dichiarato inammissibile; una cifra che dà la misura del tempo e delle forze impiegate in "procedimenti inutili che in un sistema ben ordinato non dovrebbero nemmeno giungere alla Corte suprema", spiega il segretario generale Franco Ippolito. Il problema principale risiede nell'articolo 111 della Costituzione, riscritto nel 1999 con l'introduzione dei principi del cosiddetto "giusto processo": "Contro le sentenze e i provvedimenti sulle libertà personali, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge". Laddove la "violazione di legge" è estesa, ad esempio, al "difetto di motivazione" che molte volte rischia di trasformare il giudizio di legittimità (controllo del rispetto delle regole) in un terzo giudizio di merito, dopo quelli di primo e secondo grado. Ammende non riscosse. Ecco allora che per mettere un freno alla "valanga smisurata di ricorsi veicolati verso il merito della controversia", dice il presidente Santacroce, bisognerebbe rimettere mano proprio a quell'articolo della Costituzione. La modifica è indicata al primo punto delle nove proposte di riforma segnalate nel documento finale partorito dall'assemblea: lasciare inalterati i ricorsi contro i provvedimenti che incidono sulla libertà delle persone e limitare il resto "ai casi nei quali è ravvisabile la necessità di formulare principi giuridici di valenza generale". Ma i confini immaginati da Santacroce si stringono ulteriormente, limitando gli interventi della Corte alla "tutela dei diritti fondamentali, o con la previsione di un limite minimo di valore delle cause". Affermazione, quest'ultima, che parte da un'altra statistica densa di sostanza: nel 2013 l'11,5 per cento delle cause trattate in Cassazione aveva un valore economico inferiore a 5.200 euro. Il che significa, considerando la durata media di 6-7 anni dei procedimenti prima di approdare a piazza Cavour, che per ognuno lo Stato ha affrontato costi economici di molto superiori al valore effettivo della controversia. In tempi di spending review sono considerazioni che dovrebbero sollecitare la ricerca di soluzioni. Il procuratore generale Pasquale Ciccolo se la prende con una eccessiva "produzione normativa", spesso "di scarsa qualità", e invoca interventi legislativi che "assicurino l'effettiva riscossione delle somme da versare alla cassa per le ammende". Le quali, spiega uno dei relatori, "restano ineseguite per mancanza del necessario supporto organizzativo". Sul fronte degli avvocati il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin si dice disponibile a collaborare "per spezzare l'assedio dei fascicoli", ma invoca interventi come la depenalizzazione o il superamento dell'obbligatorietà dell'azione penale, senza ricorrere a "filtri che generano incertezza". Giustizia: Caterina Malavenda "diffamazione, adesso fare i cronisti sarà più difficile" di Gianluca Roselli Il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2015 È una legge con luci e ombre. Si voleva eliminare il carcere per i giornalisti, ma poteva essere fatto con un tratto di penna. E invece si è aggiunto molto altro". A parlare è Caterina Malavenda, avvocato specializzato nelle cause che riguardano la stampa, il giorno dopo l'approvazione in seconda lettura alla Camera della legge sulla diffamazione. Avvocato, i giornalisti devono gioire o no? L'abolizione del carcere è sicuramente un fatto positivo. Anche se in realtà era una norma che non veniva applicata, se non in casi eccezionali. Comunque, meglio che sia sparita. E poi la legge è stata fatta apposta per questo, quindi va bene. Peccato vi siano tante ombre accanto alle luci. Partiamo dalle (poche) luci. Per esempio, la rettifica tempestiva. Il giornalista che si accorge di aver dato una notizia errata può chiedere al direttore di pubblicare una rettifica di sua spontanea volontà. Il direttore è obbligato a pubblicarla. La pubblicazione della rettifica è causa di non punibilità. Altri cambiamenti positivi? L'ampliamento del segreto professionale anche ai giornalisti pubblicisti, che ora possono tutelare le loro fonti come i professionisti. Poi c'è il famoso emendamento salva-Conchita… Nato sull'onda del caso De Gregorio, avrebbe lo scopo di aiutare decine di giornalisti che si vedono costretti a risarcire danni a terzi al posto di editori falliti o che non vogliono pagare. La novità è che il cronista, dopo aver pagato di tasca propria, può rivalersi sull'editore come creditore privilegiato. La trovo una norma di difficile applicazione, ma è un passo avanti. Passiamo alle ombre. Tante, a partire dalla rettifica, che può diventare sconfinata, perché non è previsto un limite di lunghezza. Inoltre, deve essere pubblicata senza replica. Insomma, se tutti si mettessero a chiedere rettifiche, i giornali non conterrebbero più notizie. Si è potenziato in maniera eccessiva uno strumento legittimo. Poi c'è la questione dei due direttori. Ovvero? Il direttore di un giornale on line è stato parificato a quello della carta stampata. Ma, per esempio, sull'omesso controllo il primo è svantaggiato perché un giornale on line è sempre aperto e per un direttore è impossibile controllare tutto ciò che viene pubblicato. Lei ha criticato anche le modifiche sui blogger… Sì, perché d'ora in avanti un blogger querelato dovrà difendersi nel tribunale del luogo in cui abita la persona offesa, col rischio di dover girare qua e là per difendersi, tutto a spese proprie e senza rimborso. Parliamo delle multe, molto criticate per via dei tetti (da 5 mila a 10 mila euro) molto alti. Sembra quasi la compensazione per la scomparsa del carcere… Può essere che si sia allungato da una parte e mollato dall'altra. Stando così le cose, un giudice non potrà comminare una multa inferiore ai 5 mila euro. Solo se il giornalista è incensurato, con le attenuanti generiche, la multa è ridotta di un terzo, mentre chi è recidivo viene sospeso dalla professione da 1 a 6 mesi. Il testo, invece, è soddisfacente sul potenziamento del risarcimento che i giornalisti possono ottenere nelle liti temerarie, che potrà arginare le richieste in sede civile, spesso totalmente fuori mercato. Insomma, la legge peggiorerà la vita ai giornalisti? Ripeto, ci sono luci e ombre. Il testo è migliorato, ma restano tanti punti oscuri: si poteva fare di più e meglio. È stato eliminato il carcere, ma d'ora in poi fare i giornalisti potrebbe risultare più complicato e rischioso. Giustizia: chi fa causa al fisco pur sapendo di avere torto rischia di pagare a caro prezzo di Valerio Stroppa Italia Oggi, 26 giugno 2015 Dal 1° gennaio 2016 chi fa causa al fisco pur sapendo di avere torto rischia di pagare caro. Oltre alla condanna alle spese, il giudice potrà obbligare il contribuente a risarcire all'ente impositore il danno causato dalla lite "temeraria". Lo stesso potrà succedere a parti invertite, quando cioè l'ufficio resiste in contenzioso a fronte di un accertamento manifestamente infondato, senza procedere all'annullamento in autotutela dell'atto. Stop anche alla compensazione "selvaggia" delle spese nel processo tributario. Quello che oggi avviene in tre cause su quattro diventerà sostanzialmente l'eccezione: i giudici potranno ripartire i costi del giudizio tra le parti solo in caso di soccombenza reciproca, oppure quando sussistano "gravi ed eccezionali ragioni" che dovranno essere adeguatamente motivate nella sentenza. Si ricorda che nel 2014 le Ctp e Ctr italiane hanno compensato le spese rispettivamente nel 75 e nel 70% dei casi. È quanto prevede lo schema di dlgs recante la revisione degli interpelli e del contenzioso tributario, attuativo della legge delega n. 23/2014, oggi all'esame del consiglio dei ministri. Il primo via libera di palazzo Chigi al provvedimento, che passerà poi alle camere per i pareri, dovrebbe così arrivare a poche ore dalla scadenza per l'esercizio della delega, fissato a domani. Risarcimento danni. In via generale, nelle intenzioni del governo le spese del processo devono seguire la soccombenza. Ma attraverso una modifica all'articolo 15 del dlgs n. 546/1992, viene anche introdotta la possibilità di addebitare un ulteriore costo a carico della parte (contribuente o ente impositore) che ricorre alla giustizia in maniera capziosa, agendo o resistendo "con malafede o colpa grave". In questi casi il giudice tributario potrà condannare, su istanza del soggetto chiamato impropriamente in causa, anche al risarcimento danni. Danni che potranno essere liquidati d'ufficio nella sentenza. La modifica recepisce così nel rito tributario quanto previsto dall'articolo 96 dal codice di procedura civile, togliendo ogni dubbio circa la possibilità di estendere l'istituto della responsabilità aggravata alle cause fiscali (tema sul quale dottrina e giurisprudenza si sono divise in passato). Calcolo parcelle. Un'ulteriore precisazione viene apportata in merito all'importo delle spese di lite. Dal 2016 vi saranno ricomprese, oltre al contributo unificato, gli onorari e i diritti del difensore (compreso il contributo previdenziale integrativo e l'Iva), le spese generali e gli esborsi sostenuti. Ctp e Ctr dovranno disporre in merito alle spese anche al termine della fase cautelare, quando cioè si pronunciano sull'accoglimento o meno delle istanze di sospensione. Il dlgs ribadisce che le parcelle dei difensori devono essere liquidate sulla base dei parametri previsti per i singoli ordini professionali. Per i patrocinatori senza albo (per esempio i periti esperti delle camere di commercio, i funzionari delle associazioni di categoria o i dipendenti dei Caf) si applicheranno i parametri vigenti per i commercialisti. Invariato invece il criterio di calcolo dei compensi spettanti ai difensori degli uffici impositori: continueranno ad applicarsi i parametri degli avvocati, ridotti del 20%. La riscossione di tali somme avverrà mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Mediazione e conciliazione. Il dlgs attuativo dell'articolo 10 della delega (si veda anche articolo a fianco) aggiunge anche dei meccanismi di determinazione delle spese nei casi in cui le parti hanno tentato vanamente un accordo bonario. A cominciare dalle controversie relative al reclamo/mediazione, che dal 2016 diventerà obbligatorio per tutti gli accertamenti di importo fino a 20 mila euro (e non più solo per quelli emessi dall'Agenzia delle entrate). In questi casi, le spese di giudizio saranno maggiorate del 50%, a titolo di rimborso delle maggiori spese del procedimento. Aggravio in arrivo pure per chi respinge senza giustificato motivo la proposta di conciliazione (giudiziale o extra-giudiziale) pervenuta dalla controparte. Laddove la somma effettivamente ritenuta dovuta dal giudice sia di importo inferiore, la parte che ha respinto al mittente l'accordo più favorevole dovrà sobbarcarsi per intero le spese del processo. Se invece la conciliazione va a buon fine, le spese saranno di regola compensate, salvo che il verbale di accordo non preveda diversamente. Giustizia: la dinastia rossa dei Marroni, così gli uomini del Pd lavorano con il clan di Lirio Abbate L'Espresso, 26 giugno 2015 Mafia Capitale. Il deputato Umberto Marroni e il padre Angiolo: a loro si rivolgeva Buzzi per ogni problema, dalle tangenti al business immigrati. Due figure chiave del Pd a Roma, travolto dall'inchiesta e dalla crisi della giunta Marino. La sua foto, i suoi sms e pure le sue indicazioni telefoniche ai capi del clan di "mafia Capitale" sono finite agli atti dell'inchiesta giudiziaria. Non è un caso. Il ruolo di Umberto Marroni diventa sempre più evidente nei collegamenti fra la politica romana e il "compagno" Salvatore Buzzi. Il patron delle coop sembra pendere dalle labbra di questo parlamentare per gli affari che deve concludere. Per gli appalti da accaparrare e i finanziamenti da gestire. E soprattutto per le tangenti da pagare ad altri uomini di partito. A leggere le intercettazioni, ci sono settori in cui Buzzi e Carminati sembrano non fare un passo prima di ottenere il suo parere. È un'altra ombra pesante che si staglia sul Pd capitolino, già tormentato dalle inchieste giudiziarie e dallo scontro politico sul destino del sindaco Ignazio Marino, estraneo al malaffare ma con il dito inquisitorio di Matteo Renzi puntato sulla sua faccia. Il deputato Umberto Marroni, 49 anni, incarna la tradizione militante della sinistra romana. Il papà Angiolo è stato un influente consigliere regionale ed è oggi garante dei diritti dei detenuti del Lazio; la madre Leda Colombini è stata una partigiana e poi figura di primo piano del Pci. Le carte dell'indagine raccontano però un atteggiamento del parlamentare che deve essere ancora valutato politicamente e giudiziariamente. Perché il clan Buzzi-Carminati attende sempre il suo consiglio prima di muoversi su alcuni affari. Il boss sarebbe coinvolto in un traffico internazionale di cocaina. E anche se andava in giro a dire che "la droga mi fa schifo", utilizza il narcotraffico per rafforzare il suo potere criminale Sono episodi, fatti e circostanze registrati dai carabinieri del Ros che mettono in evidenza il ruolo di Marroni. Una figura chiave. È stato capogruppo di opposizione durante gli anni al Campidoglio di Alemanno, mentre ai tempi del sindaco Veltroni faceva coppia fissa con Matteo Orfini, attuale commissario del Pd romano: per le loro posizioni dalemiane, i due erano stati ribattezzati "i dalebani". "Umberto" è considerato da Buzzi un punto di riferimento in più occasioni. Lo chiama per nome, a testimoniare gli stretti rapporti: una liason benedetta pure da Massimo Carminati, il socio-padrino con il quale condivideva idee e proposte. Marroni non è stato destinatario di alcun provvedimento giudiziario. Ma il lavoro del pool dei pm avanza di giorno in giorno, cercando riscontri e verifiche alle indicazioni emerse durante intercettazioni e pedinamenti. Tra i tanti episodi di corruzione che vengono analizzati e approfonditi, uno riguarda la proposta di "vendita" di appartamenti da parte di un consigliere comunale del Pd, Pierpaolo Pedetti, arrestato nelle scorse settimane, e di un ex dirigente Dem di Roma, Andrea Carlini che lo stesso Buzzi definisce "uomo di Marroni". Secondo gli investigatori a gennaio 2014 Carlini avrebbe preteso da Buzzi l'acquisto di due case: il socio di Carminati, intercettato, sosteneva che questa operazione era funzionale per ottenere vantaggi in alcuni procedimenti di appalti che dovevano essere fatti con il Campidoglio. Buzzi in questo caso utilizza una metafora che ha spesso ripetuto: "la mucca tu la devi mungere, però gli devi dà da mangià". Anche la compagna di Buzzi, Alessandra Garrone, pure lei coinvolta nell'inchiesta, commentava sarcasticamente la scarsa coerenza di principi di Pedetti, con la sua doppia morale, che arrivava da una militanza nella sinistra giovanile: all'epoca professava "i grandi valori", mentre "adesso piglia i soldi". Buzzi si lamenta con Carminati della richiesta che gli hanno fatto "l'uomo di Marroni" e Pedetti. Non appare turbato per la pretesa, ma per i modi: la considera fuori luogo sia per la maniera con cui Carlini l'aveva avanzata, sia per uno sproporzionato rapporto costi-benefici. Rivolgendosi all'uomo di Marroni diceva: "fateme fà un campo nomadi. Te ne compro tre di case, no una!". E poi spiegava a Carminati che comunque era in attesa - come scrivono gli investigatori - di "disposizioni da parte di Umberto Marroni": "Mò aspetto Umberto. Se Umberto me dice de comprà, la compro". Ecco, la risposta di Marroni è indispensabile a Buzzi per poter procedere. E spiega a Carminati che Pedetti e Carlini "raccoglievano i soldi per Marroni per la campagna elettorale", ricordandogli che gli amici di Umberto avevano preteso "l'uno per cento" quando la cooperativa si era aggiudicata un appalto all'Atac, l'azienda dei trasporti dove Carlini occupava un posto nel consiglio di amministrazione. Ed è proprio il parlamentare del Pd a bloccare l'acquisto delle case. Le intercettazioni rivelano che a febbraio dello scorso anno Umberto Marroni risponde a Buzzi con un sms: "Aspetta per vicenda Carlini e Pedetti". E Buzzi replica: "Ok fammi sapere tu". A questo punto Carlini e Pedetti si agitano, creano confusione. Allora il patron delle coop chiede e ottiene ancora una volta l'intervento di Marroni per calmare tutto. E così sarà. Ma non c'è solo l'ipotesi corruzione sullo sfondo di questa relazione pericolosa. Forse è solo questione di etica politica? Buzzi è preoccupato dopo aver incontrato in un bar dell'Ostiense il deputato. Nelle conversazioni successive Mister Coop spiega ai suoi collaboratori di aver appreso che vi è un'indagine della Digos su una dipendente comunale in contatto con loro. E quindi ordina di non parlarle più a al telefono. Ma Marroni, di fronte alle prime indiscrezioni trapelate sui giornali, respinge le "ricostruzioni fantasiose", sostenendo che il colloquio era legato solo alla campagna per le Europee. E che la coop di Buzzi "era considerata da tutti un modello nel recupero degli ex detenuti". I rapporti tra Buzzi e il parlamentare, come con tanti altri esponenti della sinistra romana, hanno questa origine. Che parte dal padre, Angiolo Marroni: l'uomo chiave nell'ascesa del ras delle coop. Il 28 novembre 1990 il consiglio regionale del Lazio approva la mozione proprio di Angiolo Marroni (Pci) che impegna al recupero civile e sociale degli ex detenuti. Quel giorno erano presenti in aula alla discussione della mozione alcuni detenuti in semilibertà tra cui l'ex brigatista Alberto Franceschini e lo stesso Buzzi. Marroni senior si è sempre dedicato al tema delle carceri e della legge Gozzini: nel 2004, dopo vent'anni trascorsi a contatto con le coop dentro e fuori i penitenziari, viene nominato garante dei detenuti del Lazio e appena insediato rilascia un'intervista nella quale magnifica il lavoro della "29 giugno", la creatura di Buzzi. Ma l'impegno sociale si trasforma in un interesse diverso. Due anni fa Angiolo Marroni avrebbe fatto da mediatore per far concludere un affare al patron della 29 giugno, eliminando i concorrenti, e quindi concordando "un patto di non belligeranza" e "di piena condivisione degli interessi economici in gioco con Auxilium (la cooperativa lucana dei fratelli Pietro e Angelo Chiorazzo che si occupa della gestione dei centri per immigrati)" per un nuovo centro di accoglienza a Roma. È il primo a cui telefona Buzzi dopo avere vinto la commessa, esultando: "Dodici milioni di euro ci siamo portati via... Ne abbiamo regalati a Chiorazzo sei, ricordalo… abbiamo vinto la gara cò un prezzo buono, insomma proprio bella è andata, benissimo…Siamo arrivati prima di Cascina, abbiamo fatto l'accordo e siamo comunque arrivati prima di Cascina". Angiolo Marroni si congratula "non tanto per la vittoria, quanto per l'accordo che hai fatto". Buzzi trasmette il suo entusiasmo pure a Mirko Coratti, allora presidente Pd del consiglio comunale e poi arrestato. Gli scrive un sms: "Ho fatto contento te e Marroni per Chiorazzo. Sempre in squadra". Si tratta dell'assistenza a 1200 migranti, per ciascuno dei quali sono riusciti a portare il pagamento da 30 a 33 euro al giorno: centomila euro in più al mese. Le carte dell'inchiesta parlano chiaro. Quando c'è timore che il Partito democratico si metta di traverso su alcune scelte, l'antica amicizia di famiglia si aziona. "Cò Umberto ce posso parlà io" sottolinea Buzzi a Giovanni Fiscon, finito in manette nelle ultime retate. In quell'occasione si discute della sua nomina come direttore generale dell'Ama, la municipalizzata sui rifiuti. In un'altra intercettazione, Buzzi dichiara: "Se vince il centrosinistra siamo rovinati, solo se vince Marroni andiamo bene". In questo caso, gli elementi raccolti dagli investigatori sono quasi speculari alla radiografia politica condotta da Fabrizio Barca, che dopo la prima ondata di arresti e il commissariamento del Pd romano affidato a Orfini, ha setacciato i circoli sul territorio, individuando i danni nella base. Il risultato dell'istruttoria è impressionante: 27 sono stati definiti "dannosi" per il partito. E fra questi vi sono molti che fanno riferimento a Umberto Marroni, anche se il deputato replica sui social: "Segnale ai naviganti: non so se è buono o cattivo ma io sono iscritto al circolo di Monteverde, dove abito". Un partito senza più identità. Sembrano proprio le parole di Massimo Carminati, che discute di un incontro con "Marroni". Lo definisce "amico di Gianni Letta". E poi chiosa: "Ma si però mò... sai che c'è? È un mondo che si sta cappottando questo". Il tributo di cocaina alla "signoria" di Massimo Carminati Il boss sarebbe coinvolto in un traffico internazionale di cocaina. E anche se andava in giro a dire che "la droga mi fa schifo", utilizza il narcotraffico per rafforzare il suo potere criminale. Massimo Carminati andava dicendo a Roma che con la droga non aveva nulla a che fare. E urlava: "Finché mi accusano di omicidi... pedofilia... mi sta pure bene, ma la droga no". Eppure nell'ultima inchiesta su mafia Capitale c'è un collaboratore di giustizia, Roberto Grilli, che racconta come Carminati ha trovato i finanziatori ed ha fatto da intermediario per un traffico di 503 chili di cocaina. Un carico partito dal Sudamerica e diretto al mercato romano che nell'estate 2011 venne bloccato e sequestrato ad Alghero. Grilli che ne era il corriere fu arrestato. E adesso racconta il retroscena in cui descrive Carminati come l'uomo a cui si era rivolto per fare da intermediario, e cioè "autorizzare" e far finanziare il traffico di coca. Il cecato pur affermando "la coca mi fa schifo", riesce però a fare in modo che la droga arrivi direttamente a Roma per essere spacciata. Il collaboratore di giustizia spiega che, nel momento in cui aveva posto il tema di una eventuale "retribuzione" per la mediazione fatta da Carminati ("io in qualche modo per questa cosa come posso ringraziarti?"), il "Nero" sottolineava la propria personale distanza dal mondo della droga: "Guarda, tu non devi fà niente, anche perché io queste cose non mi impiccio, a me non mi interessa quello che fai". E poi dice a Grilli che sarebbe stato opportuno destinare una parte del carico al suo uomo di fiducia Riccardo Brugia. "Prendi un box, prendi una cantina, ci metti 20, 30 quelli che pensi, quello che reputi giusto, che chiaramente ti verrà pagato, ti verrà pagato quello che è corretto pagartelo, ti metterai d'accordo con Riccardo, gliela porterai a lui e ci penserà lui". Per gli inquirenti l'intermediazione di Massimo Carminati "non deve essere letta in termini di mero coinvolgimento nell'importazione, alla quale, peraltro, non pare interessato, tant'è che non chiede alcuna utilità per sé in termini monetari o di partecipazione ai guadagni, ma rappresenta l'esercizio di una signoria criminale che gli consente di rafforzare il proprio potere criminale". I magistrati del pool mafia Capitale per spiegare meglio questo passaggio fanno riferimento ad una affermazione registrata dai carabinieri del Ros e fatta da Salvatore Buzzi, in cui evidenzia che "l'esercizio di una signoria criminale", nell'ambito dell'organizzazione criminale "vale molto di più per il boss del risultato economico". Giustizia: i pm di nuovo all'assalto "5 anni di carcere al Cav" di Piero Sansonetti Il Garantista, 26 giugno 2015 I Pubblici ministeri di Napoli hanno chiesto cinque anni di prigione per Silvio Berlusconi. Lo accusano di compravendita di senatori. Più precisamente di compravendita di senatore singolo, e per l'esattezza si riferiscono all'ex senatore Sergio De Gregorio, che durante il periodo breve del secondo governo Prodi (2006-2008) passò dall'Idv (che faceva parte della maggioranza di centrosinistra) alle fila di Forza Italia, ottenendo in cambio, secondo i magistrati (e secondo lo stesso De Gregorio che ha confessato e patteggiato una modesta condanna) un bel gruzzoletto di soldi, più o meno un milione, che trattò, pare, con Lavitola (ex direttore dell'Avanti! e amico di Berlusconi), nella convinzione che Lavitola agisse per conto di Berlusconi. Perché Berlusconi voleva comprare De Gregorio? Secondo i magistrati per far cadere il governo Prodi e dunque - ha detto così nell'arringa il dottor Piscitelli che rappresenta l'accusa insieme al notissimo Henry John Woodcock - "per sovvertire l'ordine democratico". Deve essere questa la ragione per la quale i Pm hanno chiesto per Berlusconi il massimo possibile della pena prevista dal codice penale. Gli imputano, più o meno, un colpo di Stato. Il problema è che il passaggio di fronte di De Gregorio non portò alla caduta del governo Prodi. Il governo Prodi cadde circa un anno dopo su iniziativa della magistratura. La quale era molto nervosa perché il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, stava preparando una riforma che non piaceva affatto ai Pm, perché ne limitava i poteri. Proprio nella mattina nella quale il ministro Mastella si presentò alla Camera dei deputati per presentare la sua relazione sullo stato della giustizia e proporre le linee di una possibile riforma, fu spiccato un ordine di cattura contro la moglie del ministro e contro il suocero, e un avviso di garanzia nei confronti dello stesso Mastella. Il quale, inevitabilmente, si dimise, ritirando il suo piccolo partito - l'Under - dalla maggioranza e di conseguenza (visto che anche l'ex premier Dini si era ritirato dalla maggioranza ) lasciando Prodi senza i numeri per governare. I ritiri di Mastella e Dini in nessun modo possono essere attribuiti all'iniziativa di Berlusconi. E se - come sembrano dire i Pm di Napoli - un intervento esterno provocò la caduta del governo Prodi, annullando il risultato elettorale e dunque configurando addirittura una situazione di sovvertimento della democrazia, è chiaro che l'unico riferimento concerto può essere ai magistrati di Santa Maria Capua Vetere che procedettero all'arresto della signora Mastella e provocarono la caduta del governo. Effettivamente, il dubbio che forze esterne, negli ultimi anni, abbiano provocato la caduta dei governi italiani e sovvertito i risultati delle urne, è assolutamente legittimo. È probabile che avvenne così, appunto, nel 2008, a danno di Prodi, è probabile che successe la stessa cosa nel 2011 quando fu estromesso Berlusconi che aveva vinto le elezioni, e fu sostituito con un personaggio estraneo al Parlamento come Mario Monti (probabilmente imposto dall'Europa, violando le regole della democrazia italiana), ed è anche probabile che qualcosa di simile sia avvenuto ancora recentemente quando Enrico Letta (che come vice di Bersani aveva vinto il premio di maggioranza alle elezioni del 2013) fu a sua volta scacciato da Palazzo Chigi e sostituto da Matteo Renzi, il quale non solo non aveva partecipato alla competizione elettorale ma, precedentemente, era uscito dalle primarie del Pd sconfitto proprio dal ticket Bersani-Letta. Insomma, se si volesse, diciamo la verità, ce ne sarebbe parecchio da indagare. I Pm di Napoli operò non si sono voluti occupare di questi episodi, dove la notizia del reato è abbastanza evidente ( anche se poi sarebbe probabilmente quasi impossibile trovare i colpevoli e le prove delle colpe) e hanno preferito indagare sul caso De Gregorio, che sembra molto meno robusto ma forse parecchio più folcloristico e spettacolare. Il sette luglio il processo proseguirà con le arringhe dei difensori (Ghedini e Coppi) e già il giorno successivo potrebbe esserci la sentenza. Nella storia della Repubblica è la prima volta che la magistratura indaga su un fenomeno di "trasformismo", come si dice in gergo politologico. Eppure il fenomeno del trasformismo, in Italia, è piuttosto diffuso. Da tanti anni. Ed è esploso recentemente. Basta dare un'occhiata, del resto, all'attuale situazione nel Parlamento, dove sono davvero pochissimi i deputati che sono rimasti nella posizione politica nella quale erano stati eletti nel 2013. Quasi la metà dei parlamentari eletti con le liste di Berlusconi sono passati con Alfano e hanno cambiato il proprio schieramento, trasferendosi dall'opposizione alla maggioranza. Sel, che aveva ottenuto il premio di maggioranza facendo parte dell'alleanza col Pd, ha rotto l'alleanza ed è passata all'opposizione. Un bel pezzetto della pattuglia dei "5 Stelle" ha lasciato il partito. Il gruppo eletto con Monti e Casini si è variamente distribuito tra opposizione e maggioranza. Una gran parte dei deputati bersaniani - ma qui la questione è assai più sottile anche se consistente - sono passati con Renzi, permettendo una riforma costituzionale dalla quale lo stesso Bersani, vincitore formale delle elezioni, si è dissociato. Si può obiettare: ma non risulta che questi cambi di casacca siano stati retribuiti con denaro. Già, ma dal punto di vista giuridico retribuire con denaro o con posti di poteri e prebende è cosa diversa? (Nel codice penale, per definire il reato di concussione si parla di "denaro o altri vantaggi"). Diciamo la verità, se la magistratura dovesse decidere davvero di fare rispettare la volontà degli elettori, probabilmente dovrebbe andare in Parlamento con i camioncini e fare una bella retata. Forse si salverebbe solo il povero Bersani con un drappello di grillini. Ora si tratta di valutare l'effetto politico della iniziativa dei Pm napoletani. Difficile che non sia abbastanza consistente. I sondaggi e gli stessi risultati elettorali dicevano che Forza Italia stava iniziando ad avere dei segni di ripresa, dopo le batoste subite sempre ad opera della magistratura, soprattutto con la sentenza di condanna per evasione fiscale delle aziende del cavaliere. Addirittura gli esperti del Corriere della Sera avevano sostenuto che oggi una alleanza tra Salvini e Berlusconi avrebbe potuto essere vincente ad un ballottaggio contro Renzi, anche con un discreto margine di vantaggio. È chiaro che la richiesta di nuovo carcere per il capo di "Forza Italia" indebolisce moltissimo la sua posizione. Anche perché l'elettorato matura la convinzione che, comunque stiano le cose, la magistratura non mollerà più Berlusconi e dunque Berlusconi non avrà la possibilità di fare politica e di influenzare il governo. E questo, elettoralmente, è una batosta. Probabilmente dobbiamo rassegnarci. Non esiste nessuno in grado di intervenire per mettere sotto controllo gli eccessi della magistratura. Chi vuol fare politica lo sa: o ti inchini ai giudici o è meglio che rinunci. Lettere: tutti i condannati vanno riaccolti, "persino" Sofri. O no? di Beniamino Migliucci e Riccardo Polidoro (Unione Camere Penali) Il Garantista, 26 giugno 2015 Dopo notizie, smentite, precisazioni e rinunce, è possibile trarre qualche considerazione preoccupata in merito alla vicenda che ha coinvolto Adriano Sofri e il ministro Orlando. Il Professor Glauco Giostra ha chiarito che Adriano Sofri avrebbe partecipato al tavolo di discussione su "Istruzione, cultura e sport" degli Stati Generali sull'esecuzione penale perché gli stessi sono aperti "ad ogni contributo di idee ed esperienze anche delle persone detenute o che sono state tali perché definitivamente condannate". Al netto di alcune comprensibili e rispettabili sensibilità, il dibattito politico che si è innescato solleva inquietanti perplessità. E possibile che una persona che ha scontato la propria pena -scrittore, giornalista e uomo di cultura - non possa essere chiamato a offrire delle riflessioni, non fosse altro per l'esperienza personale maturata in anni di sofferenze? È possibile trascurare gravemente i principi dell'articolo 27 della Costituzione, che indicano la strada della rieducazione quale elemento essenziale della funzione della pena? E possibile ignorare che una persona che ha pagato il suo debito con la giustizia ha diritto a essere nuovamente accolto dalla società e a essere portatore di diritti e doveri? O forse che, una volta scontata la pena, si è condannati all'ergastolo o alla morte culturale e delle idee? Gli Stati Generali dovrebbero rappresentare un momento di riflessione collettiva per la vera innovazione del sistema penitenziario, come ci è stato chiesto anche dall'Unione Europea, e interporre ostacoli alle idee e alle riflessioni di chi ha scontato una pena è in aperto contrasto con la strada che s'intende percorrere. La successiva rinuncia di Sofri è stata probabilmente determinata dalla volontà di non acuire la polemica e di non provocare imbarazzo, ma rappresenta la sconfitta di alcuni principi e valori fondanti la nostra Costituzione e la funzione della pena. La "rivoluzione culturale" in materia di esecuzione a cui ha fatto riferimento il ministro Andrea Orlando ha molti nemici, ma chi li combatte sa di essere dalla parte giusta, quella della Costituzione, della Legge, dell'Europa intera. Lettere: Travaglio scelga tra giornalismo e teatro, la pena non è solo il carcere di Ascanio Celestini L'Huffington Post, 26 giugno 2015 Ieri Marco Travaglio ha scritto un articolo su Adriano Sofri, ma poi ha parlato anche di altro. Per me che faccio teatro e ogni tanto vedo lui comparire come attore nelle stagioni teatrali è un motivo di riflessione importante. Da alcuni anni ci chiediamo (io, ma soprattutto critici e studiosi) come mai giornalisti e magistrati, ma alle volte anche preti, portino in scena degli spettacoli teatrali. Lo so che il teatro è meno piccolo di una nicchia, ma è un settore nel quale operano dei professionisti che si sono formati per farlo. Non basta avere delle cose da dire per farci un'opera teatrale. Ma probabilmente non è così visto che c'è gente che compra il biglietto per vedere Travaglio. Oggi mi sono dovuto ricredere. La forza persuasiva di Travaglio ha qualcosa di molto teatrale e tra i capolavori della persuasione mi ricorda il celebre discorso di Marco Antonio di Shakespeare. Cesare è stato ucciso dai congiurati e sulla sua salma Antonio parla proprio col loro permesso. Anche per questo la plebe gli crede. Bruto ha ucciso Cesare per combattere la tirannia e Antonio utilizza proprio i suoi argomenti per rovesciarne il senso. Travaglio lo fa in un modo più semplice di Shakespeare, ma ci prova. La questione che cerco di affrontare nasce dal fatto che Sofri viene invitato dal ministro Orlando a parlare di carcere e giustizia e Travaglio scrive che nessuno meglio di lui può farlo, ma lo dice ricordando che non ha scontato tutti e 22 gli anni di carcere al quale è stato condannato. Scrive che "è riuscito a scontarne a malapena 7" e gioca tralasciando il fatto che per un altro mucchio di anni è uscito di giorno per lavorare e poi è tornato di sera tra le sbarre. La galera solo di notte, per lui, è villeggiatura come per Berlusconi era il confino ai tempi del fascismo? Tutti quegli anni non se li è fatti in cella perché, ricorda Travaglio, è uscito "per gravissimi problemi di salute da cui si è prontamente e fortunatamente ripreso", insomma fa pensare ad un malessere passeggero, forse persino un pretesto, ma non dice che gli si è squarciato l'esofago ed è stato un mese in coma farmacologico. E conclude la parte in cui parla di Sofri ricordando che "era stato invitato al tavolo proprio in veste di ex detenuto, quindi di profondo conoscitore della materia carceraria, per quel poco che l'aveva sperimentata". Sette anni di reclusione per lui sono pochi. In un testo del 1949 pubblicato su "Il Ponte" Vittorio Foa scrive che "nessuna pena detentiva dovrebbe superare i tre, al massimo cinque anni". Foa scriveva cose del genere perché conosceva il carcere. Lo conosceva perché c'era stato rinchiuso. Sarebbe da fare un'analisi approfondita dell'acrobazia retorica che segue e che mette in fila nomi improbabili, tipo: Riina, Buzzi, Lapo Elkann, Provenzano. L'effetto è quello del frullatore: mischio ingredienti diversi e ne viene fuori uno solo che ha un solo sapore. Che li rende tutti uguali. Un po' come la barzelletta che ci raccontavamo da bambini. Quella della mela che si sposa con la pesca e il prete dice "vi dichiaro macedonia". Ma a parte questo finale di frutta mista che mette tutti sullo stesso piano, tutti impresentabili, tutti malviventi, è più o meno a metà del monologo che usa l'artificio retorico più interessante. Ovvero quando scrive che il contributo di gente come Sofri ad un dibattito sulla detenzione "potrebbe avviarci verso la totale decarcerazione, cioè l'abolizione definitiva delle patrie galere". Come a dire che non soltanto bisognerebbe mandare più gente in galera e chiudercela per molto più tempo. Che non basta avergli fatto scontare una pena, ma devono anche starsene zitti. Per lui è uno scandalo che persone che hanno vissuto un'esperienza di detenzione scrivano libri e parlino in pubblico. E questo perché (lo scrive come se si trattasse di una provocazione uno scandalosa senza sapere che da decenni se ne parla) potrebbero farci capire l'assurdità dell'istituzione carceraria. Non sto a ricordare a Travaglio che nella Costituzione non si parla di carcere e che le pene non devono essere esclusivamente schiacciate sulla galera. Che in molti paesi si è imboccata da tempo la via della decarcerizzazione. Semplicemente mi permetto di dargli due consigli. Il primo è di decidere se sta facendo il giornalista o il teatrante. Sono due linguaggi diversi. Nel primo dovrebbe cercare di raccontare dei fatti, nel secondo può scrivere commedie o tragedie inventando commistioni, parallelismi e macedonie. E poi gli consiglio un libro che è stato pubblicato un paio di mesi fa: "Abolire il carcere". Ci sono scritti di pericolosi assassini terroristi come Luigi Manconi e Gustavo Zagrebelsky. Penso che possa farselo recapitare gratuitamente visto che l'ha pubblicato il suo stesso editore, quello per il quale pubblica libri e dirige un quotidiano. Lettere: il caso Sofri e il muro del pregiudizio di Francesco Ceraudo Ristretti Orizzonti, 26 giugno 2015 Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha istituito gli Stati Generali sul sistema carcere per attingere tutte le informazioni utili e per raccogliere idee e proposte per una Riforma aderente alle esigenze della popolazione detenuta e al dettato costituzionale della rieducazione della pena. Dobbiamo essere in grado di correggere i nostri pensieri, le nostre menti e far capire anche ai migliori che il carcere fa parte della nostra società con uomini e donne che rivendicano diritti inalienabili e questo per non mortificare davvero la ragione e l'umanità. Il Ministro Orlando ha fatto una scelta legittima ed estremamente qualificata coinvolgendo Adriano Sofri nel tavolo tematico "Istruzione, cultura e sport". Una scelta coraggiosa che si è infranta sul muro del pregiudizio suscitando commenti al di fuori di ogni contesto storico e giuridico. Adriano Sofri con la dignità che ha sempre contraddistinto il suo operato, senza pensarci due volte, ha fatto un passo indietro. Verrà meno così una voce autentica di uno che ha dimostrato sino in fondo il suo valore umano e civile per come ha vissuto l'esperienza del carcere. Verrà meno la voce di un sicuro interprete dei bisogni dei detenuti. Una persona che sa cos'è il carcere, perché ha vissuto sulla propria pelle gli abissi inconfessabili del carcere. In qualità di Dirigente Sanitario della Casa Circondariale di Pisa sono stato per circa 10 anni al fianco di Adriano Sofri e voglio rendere testimonianza di uno spirito forte, sempre totalmente disponibile alle necessità dei propri compagni quando si trattava di acquistare un cinto erniario o di far allestire una protesi dentaria. Piccoli, grandi gesti da attingere ad un patrimonio di immensa, consapevole solidarietà. Dal carcere hanno preso sostanza continui interventi ed iniziative tendenti a rendere l'ambiente più civile ed umano con articoli sui giornali, con libri e pubblicazioni varie. Le denunce sono state sempre forti e puntuali. Senza tema di essere smentiti si può sostenere che ha preso piede la cultura di un carcere a misura d'uomo, nonostante le difficoltà rappresentate dalle forze contrarie ad ogni cambiamento. Dobbiamo immaginare un carcere che faccia parte della società a pieno titolo, altrimenti siamo costretti a registrare che il fine di un reinserimento sociale viene assegnato ad uno strumento di emarginazione sociale. Al momento attuale il carcere si configura come una discarica sociale, una sorta di frigorifero dove vengono raffreddati e ibernati nel tempo e nello spazio una marea di tossicodipendenti, di extracomunitari, di disturbati mentali. Gli uomini vanno persuasi con la ragionevolezza delle norme e non dissuasi con la paura delle pene. La società non ha il diritto di togliere a nessuno insieme con la libertà personale ,anche la dignità di uomo. Ecco perché serve un carcere umano e civile che lasci magari all'uomo la colpa della sua trasgressione ,ma con essa la speranza di un riscatto. Al di là delle mura più alte, delle sbarre più solide vi sia spazio e tempo per i pensieri, i sentimenti, i bisogni e le sensazioni, la luce, i colori, i suoni, gli odori e la vita non sia l'eco di un rimpianto frantumato fra un ricordo che illanguidisce sempre di più e un'attesa consumata nella solitudine e destinata a realizzarsi quando magari non ha più senso. Adriano Sofri con la sensibilità del grande scrittore continuerà ad inviarci i suoi straordinari reportage da Sarajevo e da Kobane, illuminando dense zona d'ombra che soffocano il nostro pianeta. Palermo: detenuto legato alla branda con "fasce di contenzione" picchiò agenti, assolto di Riccardo Arena La Stampa, 26 giugno 2015 Lo avevano tenuto legato alla Branda della cella, all'Ucciardone, per 24 ore, assicurandolo con "fasce di contenzione", espressione elegante per definire la camicia di forza. E per questo i giudici di appello di Palermo definiscono il comportamento dei poliziotti penitenziari arbitrario e inumano, affermando che si è tradotto "in una forma di tortura e nella violazione dei diritti costituzioni". Il processo non era contro gli agenti ma contro di lui, Amadou Abiyara, nato in Costa d'Avorio e finito in cella, l'1 febbraio del 2008: dopo che lo avevano lasciato un'intera giornata senza poter mangiare o bere né fare i bisogni fisiologici, nel momento in cui era stato liberato, Amadou aveva reagito violentemente. Era stato per questo condannato a otto mesi. Ora è stato assolto. È stato un difensore d'ufficio, l'avvocato, Venera Micciché, a chiedere giustizia. E la Corte d'appello ha ricordato che immobilizzare i soggetti che appaiono pericolo si può apparire inumano ma è consentito solo se a stabilirlo è uno psichiatra. Nel caso specifico la prescrizione non c'era mai stata: "Ed allora - si legge in sentenza - è da chiedersi se rientri nelle funzioni del personale del carcere assicurare un soggetto straniero, che non parla italiano, con fasce di contenzione dentro una cella, senza più curarsi di lui e delle sue necessità per circa 24 ore". La reazione può ritenersi così giustificata - altra stoccata - "ignorando l'imputato le particolari consuetudini utilizzate talvolta, come nel caso di specie, nelle carceri italiane, e ritenere che nei suoi confronti sia stata esercitata una forma di violenza fisica non consentita". Catanzaro: aperto nuovo braccio dell'Istituto penale per i minorenni "Silvio Paternostro" lametino.it, 26 giugno 2015 È stato inaugurato a Catanzaro il nuovo braccio dell'Istituto penale per i minorenni "Silvio Paternostro". Alla cerimonia hanno partecipato, tra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, che ha la delega al settore, il capo dipartimento della Giustizia minorile Annamaria Palma Guarnier, il direttore del Centro per la giustizia minorile per la Calabria e la Basilicata Maria Gemmabella, il direttore generale del Personale e della formazione Luigi Di Mauro e il consigliere Carlo Villani, direttore ufficio I giustizia civile e applicato all'ufficio del capo dipartimento per la giustizia minorile. La struttura, che accoglie il nuovo padiglione, la cappella e la sala del teatro dell'istituto, sarà destinata all'accoglienza dei giovani adulti. A disposizione ci sono ampi spazi dedicati alle attività sportive, culturali e di formazione professionale nonché un'area giochi attrezzata per i figli dei detenuti. Chiesa e teatro, inoltre, potranno essere fruiti dalla cittadinanza. "Quando si parla di giustizia minorile in Europa - ha detto Ferri - l'Italia rappresenta un esempio e un fiore all'occhiello. Il nostro è un sistema pilota che tutti ci invidiano e rispetto al quale siamo all'avanguardia per quanto riguarda la rieducazione dei minori. Si dice che i numeri dei minori non solo alti. Certo non lo sono se parliamo di detenuti, ma con tutto il lavoro che si fa nella rieducazione e nel reinserimento arriviamo intorno a ventimila unità che non gravano sugli istituti ma assieme ai quali lavoriamo". Ferri che ha incontrato il personale della struttura ha ascoltato le richieste e le sollecitazioni degli operatori. "La mia presenza qui - ha aggiunto - significa che le istituzioni credono nella giustizia minorile e nel recupero dei minori anche e soprattutto in questa realtà nella quale lo Stato ha investito su un modello diverso ed efficiente basato sul recupero e sulla rieducazione, sul reinserimento di tanti minori che vivono il disagio. Bisogna fare squadra con Regione e istituzioni locali per capire dove investire le risorse". Vicenza: dieci detenuti ingaggiati per servizi di sicurezza alla basilica palladiana Il Gazzettino, 26 giugno 2015 Vicenza, dopo la grande mostra riapre ai cittadini il monumento: a sorvegliare la terrazza e le logge anche i carcerati, insieme ai custodi. Dal primo luglio la terrazza della Basilica palladiana sarà sorvegliata anche da dieci detenuti grazie a un progetto Caritas. Sono in dieci. Si tratta di detenuti che hanno iniziato un percorso di reinserimento sociale attraverso lavori socialmente utili. Uno di questi è il servizio di sorveglianza della terrazza e delle logge della Basilica palladana che, il primo luglio, apriranno i battenti. A un mese dalla chiusura della mostra Tutankhamon Caravaggio Van Gogh - che ha registrato oltre 300 mila visitatori - il monumento simbolo di Vicenza torna accessibile grazie anche al contributo dei detenuti della casa circondariale di San Pio X. Il Comune ha stanziato 20 mila euro a favore del progetto dell'associazione Diakonia della Caritas diocesana, che prevede l'utilizzo di persone prossime alla fine della pena. Persone in cerca di un riscatto sociale chiamate ad affiancare i custodi scelti attraverso una gara. "L'iniziativa ha un valore sociale e ci consente di contenere i costi", commenta il vicesindaco e assessore alla crescita Jacopo Bulgarini d'Elci. Per accedere al belvedere i vicentini di città e provincia pagheranno un euro, mentre gli altri visitatori dovranno sborsare 3 euro. Terrazza e bar saranno aperti tutti i giorni eccetto il lunedì. Trapani: detenuti ai responsabili di reati minori diventano volontari in canile dalla Lega Nazionale per la Difesa del Cane trapaniok.it, 26 giugno 2015 "L'esperienza di far scontare ai responsabili di reati minori la pena alternativa lavorando a tu per tu con gli animali si è rivelata molto positiva"- dice Antonino Giorgio, presidente della sezione locale Lndc. "E auspichiamo che il nostro esempio venga seguito in altre città del territorio nazionale" Uno degli obiettivi principali di Lega Nazionale per la Difesa del Cane è la sensibilizzazione e promozione di una corretta relazione uomo-animale come base per una convivenza sociale migliore. In quest'ottica, la Sezione Lndc di Trapani ha avviato da alcuni anni un percorso di collaborazione con l'Uepe (Ufficio di Esecuzione Penale Esterna) di Trapani e l'Ussm (Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni) di Palermo per il reinserimento sociale e lavorativo di quelle persone che hanno commesso dei reati minori e sono ritenute idonee a svolgere dei lavori di pubblica utilità in sostituzione della pena. La Sezione Lndc di Trapani, presieduta da Antonino Giorgio, gestisce l'ambulatorio veterinario comunale di Erice, che attualmente ospita circa 15 cani, ed è qui che gli adulti e i minori selezionati per scontare questa pena alternativa prestano il loro servizio, affiancando i volontari dell'Associazione nelle loro mansioni quotidiane. Si tratta dell'unica esperienza di questo genere nella Sicilia occidentale e sta dando eccellenti risultati in termini di reinserimento sociale. È noto infatti come occuparsi di un animale domestico possa contribuire a far crescere il senso di responsabilità ed empatia verso il prossimo, cosa particolarmente importante nel caso di giovani che hanno avuto un momento di sbandamento. Il clima di collaborazione con i volontari Lndc, inoltre, può fornire un sostegno morale e un incoraggiamento ad acquisire nuove abilità lavorative e a instaurare un'adeguata rete di relazioni sociali. Lndc è molto orgogliosa di questa iniziativa della sezione trapanese e auspica che questo esempio venga seguito nel resto del territorio nazionale, come testimonianza del proprio impegno per una società più giusta e accogliente per tutti gli esseri viventi. Larino (Cb): cena preparata da studenti dell'alberghiero con ortaggi coltivati in carcere primapaginamolise.it, 26 giugno 2015 Stasera, nella Casa circondariale di Larino, la cena preparata dagli studenti dell'alberghiero con gli ortaggi coltivati in carcere. Un esempio concreto di detenzione propedeutica al reinserimento. Oltre la pena. La casa circondariale di Larino offrirà oggi, 26 giugno, una cena aperta alla comunità. Dietro i fornelli ci saranno gli studenti degli istituti Alberghiero e Agrario, con un fornitore d'eccezione. Gli ortaggi che verranno utilizzati, infatti, sono stati coltivati nell'orto e nella serra del carcere. Il menù prevede degustazioni di formaggio e miele sempre prodotti nella casa circondariale dagli alunni dei corsi Apicoltura e Caseario. "L'evento, al di là delle simpatiche presentazioni - spiega la direttrice Rosa La Ginestra, serve per stimolare e lodare i detenuti che hanno lavorato tantissimo per raggiungere un simile traguardo di capacità e competenza, ma anche per ricavare una disponibilità economica per finanziare i laboratori scolastici. Un'ottima cena ed una serata con intrattenimento musicale e di balli caraibici (sempre corsi interni), ci è sembrato l'ideale per presentare le tante attività e l'ottimo livello raggiunto dagli studenti di tutti i corsi". La detenzione deve essere propedeutica al reinserimento, tesa a formare professionalmente i detenuti che, scontata la pena, potranno proporsi con diverse qualifiche sul mercato del lavoro. Uno studio dell'Isfol, l'istituto per lo sviluppo della formazione dei lavoratori, basato sul Caso Rebibbia evidenzia come "la maggioranza di detenuti svolgano mansioni di basso profilo che derivano spesso da una precedente istruzione durante il periodo scolastico, anche quella generalmente scadente". Aumentare il tasso di scolarizzazione e qualificare i detenuti garantisce "la restituzione della soddisfazione personale, la ricostruzione della identità, dell'autostima e della dignità, lo sviluppo di capacità autoresponsabilizzanti e di maturazione personale, orientate all'apprendimento e alla gestione intelligente di nuovi stili di vita in seno a un sistema strutturato di regole sociali condivise e riconosciute dall'intera collettività, lo sviluppo di sentimenti di ottimismo per il futuro" e, in ultimo, "la possibilità" di provvedere sa soli al proprio "mantenimento". In altri termini, la formazione offre gli strumenti ottimali per non sciupare la seconda occasione. E la cena di Larino, al culmine di un progetto durato un anno, è un esempio concreto di come il carcere possa essere luogo di apprendimento e non solo di espiazione. Taranto: Sappe; tentano di far arrivare droga ai familiari detenuti, due denunce tarantobuonasera.it, 26 giugno 2015 È stata scoperta - informa il sindacato Sappe - dai poliziotti penitenziari mentre controllavano i pacchi contenenti indumenti che i familiari portano ai detenuti. La sostanza stupefacente, alcuni grammi di cocaina e di hashish, era ben occultata nell'etichetta dei jeans. La droga era diretta a due detenuti tarantini, i cui familiari sono stati denunciati a piede libero. "Da tempo il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria - si legge nella nota, denuncia la critica situazione in cui si trova il carcere di Taranto a seguito sia del sovraffollamento che della cronica carenza di poliziotti penitenziari (circa una ottantina). Da tempo denunciamo le gravi condizioni di lavoro a cui sono sottoposti gli operatori penitenziari costretti a vigilare su più sezioni detentive contemporaneamente, Nonostante ciò qualche giorno fu sventato un tentato omicidio da parte di un detenuto con seri problemi psichiatrici (che non doveva stare a Taranto) che si avventò su un operatrice penitenziaria con un pezzo di vetro". "Questa mattina invece - si legge ancora nel documento del Sindacato - un doppio sequestro di sostanze stupefacenti ben occultate dentro l'etichetta di Jeans, da parte di poliziotti penitenziari mentre perquisivano i pacchi contenenti indumenti che i familiari portano ai detenuti ristretti nel penitenziario Tarantino. La droga in questione, alcuni grammi di cocaina e hashish, era diretta a due detenuti di origine tarantina. A seguito di ciò i familiari dei detenuti sono stati fermati eppoi denunciati a piede libero dagli uomini del Reparto di Polizia Penitenziaria di Taranto. Quindi nonostante tutte le problematiche presenti a Taranto, il personale di Polizia Penitenziaria continua a lavorare con grande professionalità ed abnegazione. A questi eroi nascosti che fanno un lavoro oscuro e pericolosissimo il Sappe esprime il proprio ringraziamento considerato che sono figli ripudiati da un amministrazione penitenziaria ingrata, pronta a punire per il minimo errore, ma che si dimentica del sacrificio e della professionalità di questi di lavoratori che dovrebbe ringraziare e premiare ogni giorno, per quello che fanno a tutela della legalità e delle istituzioni all'interno delle carceri Italiane". Genova: Sappe; detenuto con problemi psichici dà fuoco a materasso, intossicati 5 agenti Askanews, 26 giugno 2015 A Genova cinque agenti della polizia penitenziaria sono rimasti intossicati mentre spegnevano un incendio divampato questa mattina in una cella del carcere di Marassi. Lo ha reso noto il Sappe, sindacato autonomo della polizia penitenziaria. A provocare il rogo, dando fuoco ad un materasso, è stato un detenuto di nazionalità straniera affetto da problemi psichiatrici che, secondo quanto riferito dal sindacato di polizia, aveva già causato oltre 80 eventi critici tra danneggiamenti e incendi. "La condizione lavorativa alla quale è sottoposta la polizia penitenziaria di Genova -ha affermato il segretario regionale del Sappe, Michele Lorenzo- supera ogni limite sia di sicurezza ma soprattutto di stress psicofisico". "L'incidente -ha sottolineato Lorenzo- ha causato danni fisici a cinque poliziotti prontamente intervenuti con gli idranti per spegnere l'incendio evitando che le fiamme ed il fumo si propagassero nel reparto". Bologna: "Riflessioni ed esperienze sulla (nuova) esecuzione penale", martedì convegno bologna2000.com, 26 giugno 2015 Organizzato da Regione Emilia-Romagna, Città metropolitana di Bologna e Conferenza regionale volontariato giustizia Emilia-Romagna, martedì 30 giugno, nella Sala Polivalente della Regione (viale Aldo Moro, 50) dalle 9.30 alle 16.30 si svolge il convegno a partecipazione libera "Essere cittadini sempre - riflessioni ed esperienze sulla (nuova) esecuzione penale". L'incontro è rivolto a volontari, amministratori, dirigenti e operatori dei servizi territoriali attivi nell'area dell'esecuzione penale in Emilia-Romagna come occasione di riflessione, approfondimento e confronto sulla riforma dell'esecuzione penale in essere, sul ruolo nuovo del volontariato e delle istituzioni, sulle collaborazioni che è utile e opportuno attivare, anche considerando le sollecitazioni emerse nella realizzazione del progetto regionale "Cittadini sempre". Programma e interventi. Ore 9,30 saluti e apertura dei lavori di Monica Raciti, responsabile del servizio politiche per l'accoglienza della Regione Emilia-Romagna. ore 9.45 La riforma dell'esecuzione penale: dignità, diritti, sicurezza. Mauro Palma, consigliere del ministro della Giustizia per le tematiche sociali e della devianza. ore 10.15 Amministrazione penitenziaria, enti locali e volontariato per promuovere la generatività nell'esecuzione penale di Elena Innocenti, ricercatrice della Fondazione Zancan. ore 10.45 Tavola rotonda, coordinata da Carla Chiappini, ordine giornalisti Emilia-Romagna "Verso il nuovo modello di esecuzione penale in Emilia-Romagna: che fare?". Partecipano Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna; Pietro Buffa, Provveditore dell'Amministrazione penitenziaria per l'Emilia-Romagna; Desi Bruno, garante della Regione Emilia-Romagna per le persone private della libertà personale; Stefano Rimini, referente della vicepresidenza della Regione Emilia-Romagna; Paola Cigarini, referente della conferenza regionale volontariato e giustizia dell'Emilia-Romagna; Cinzia Migani, coordinatrice di Volabo. ore 14 Buone prassi, criticità e sollecitazioni dal progetto Cittadini sempre di Rita Paradisi, responsabile dell'unità operativa di contrasto all'esclusione sociale della Città Metropolitana di Bologna. ore 14.15 Sostegno alla genitorialità in carcere: una ricerca-azione del progetto "Cittadini sempre" di Giuseppina Campanile e Laura De Marsilis della conferenza regionale volontariato e giustizia dell'Emilia-Romagna. ore 15.15 Esecuzione penale esterna, messa alla prova, società civile e istituzioni. Ne parlano Maria Paola Schiaffelli, direttore dell'Ufficio per l'esecuzione penale esterna Emilia-Romagna Giuliana Urbelli, presidente del comitato locale per l'esecuzione penale adulti di Modena, Elisabetta D'Errico, avvocato della Camera penale di Bologna. Durante la giornata in programma anche interventi dal pubblico e testimonianze. Non è richiesta preiscrizione. Info: 0515277485 - 5277105 segrspa@regione.emilia-romagna.it. Firenze: lunedì "Open day" a Solliccianino, il carcere apre le porte alla città di Costanza Baldini intoscana.it, 26 giugno 2015 Lunedì 29 dalle 18 alle 21.30 Solliccianino offrirà la possibilità di incontrare i detenuti e conoscere le attività del carcere. Un giorno per entrare nel carcere e conoscere da vicino la vita dei detenuti, questo succederà lunedì 29 giugno all'Istituto Mario Gozzini in via Minervini a Firenze. Per l'occasione sarà inaugurata la nuova biblioteca e sarà possibile acquistare tramite offerta libera alcuni oggetti d'artigianato realizzati dagli stessi detenuti. Il ricavato verrà utilizzato per sovvenzionare i laboratori. L'istituto Mario Gozzini, più noto a tutti con il nome di Solliccianino, fu inaugurato nel lontano 1989 perché il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, Regione, Comune e Provincia vollero avviare una sperimentazione trattamentale, che fu denominata "Custodia Attenuata", appositamente volta alla realizzazione degli interventi terapeutici e psico-socio-educativi a favore di una parte della popolazione detenuta. Dopo i primi due anni di sperimentazione questo modello penitenziario fu replicato in molte altre regioni con ottimi risultati ed oggi è presente in quasi tutto il territorio nazionale, nominato quale fiore all'occhiello quando si parla di eccellenze nel settore del trattamento riabilitativo dei detenuti. L'intento generale dell'istituto è quello di utilizzare il tempo della carcerazione come una occasione per riflettere e riprogettare la propria esistenza, sia per coloro che hanno commesso reati collegati all'uso di sostanze stupefacenti sia per coloro che, anche in assenza di problematiche di tossicodipendenza, sono entrati nel circuito dell'anti-socialità a causa di vissuti connotati dal disagio e dall'emarginazione. Ogni giorno i detenuti, dalle ore 8.00, possono circolare liberamente all'interno delle sezioni e possono accedere alle attività organizzate nella zona situata al piano terra (cortili, campo sportivo, palestra, aule, sala cinema/teatro, biblioteca, cappella) Le attività, scolastiche, formative, culturali, ricreative e sportive, si differenziano a seconda dei giorni della settimana e dei periodi dell'anno. Dal molti anni all'Istituto a Custodia Attenuata Mario Gozzini, grazie alla fiducia accordata dalla direzione e dal suo staff, Mediateca Regionale Toscana, oggi Fst, coordina e svolge la formazione interdisciplinare sul cinema con l'insegnate di scuola carceraria Fulvia Poli. Da due anni l'attività è in collaborazione anche con la professoresse Patrizia Di Virgilio, docente della classe di scuola superiore dell'Istituto di Agraria. Il laboratorio, "Cinema d'aria" edizione 2014/2015, si è sviluppato attraverso un percorso di alfabetizzazione al cinema ed educazione all'uso dei mezzi audiovisivi. Il corso, ripartito in due sezioni (teoria e pratica), è stato attuato su moduli tematici condivisi con la scuola. Obbiettivo principale è stato quello di approfondire il tema I continenti e far conoscere il cinema di qualità producendo anche interviste per apprendere il linguaggio della comunicazione giornalistica. Il particolare successo dell'attività è da riconoscere nell'impegno dei partecipanti che da novembre a giugno, hanno visionato film sull'Africa, l'Asia, l'Europa e le Americhe; approfondito sotto-temi come intercultura e integrazione, oltre ad aver ospitato registi come il nigeriano Dayo Fidelis sul suo film Ben Kross. Quest'anno inoltre, in collaborazione con Lila Onlus, ha avuto inizio il corso: "Leggere è un diritto?", sostenuto da un bando del Cesvot, che consiste nell'avvicinare la lettura e parteciparla come azione collettiva. Per questa attività sono stati ospiti Folco Terzani per il suo libro A piedi nudi sulla terra ed Antonella Cilento con il suo Lisario o il piacere infinito delle donne. Per i due incontri la preparazione interdisciplinare con la scuola è stata fondamentale e nel programma di cinema è stato proposto il film La fine è il mio inizio, riferito a Terzani e Marianna Ucria per l'affinità di contenuto narrativo in previsione dell'incontro con la scrittrice Cilento. Eboli (Sa): la Casa di Reclusione aderisce alla campagna "Contro la droga, vivi la vita" di Rita Romano (Direttore della Casa di Reclusione di Eboli) Ristretti Orizzonti, 26 giugno 2015 Il 26 giugno si celebra la Giornata Internazionale contro il consumo ed il traffico illecito di droga. L'iniziativa è stata indetta dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1987 per ricordare l'obiettivo comune a tutti gli Stati membri di creare una comunità internazionale libera dalla droga. La Casa di Reclusione di Eboli aderisce alla connessa campagna di sensibilizzazione "Contro la droga, vivi la vita" organizzando nel campo dell'istituto una partita di calcio che vedrà confrontarsi in campo la squadra dei detenuti e la squadra esterna dell'Associazione Culturale Giovanile "Moby Dick". All'evento non poteva non aderire la Casa di Reclusione di Eboli che nella sua mission ha, appunto, il recupero dalla tossicodipendenza dei giovani reclusi che intraprendono all'interno dell'Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento dei Tossicodipendenti un programma terapeutico-trattamentale specificamente mirato alla loro riabilitazione e teleologicamente orientato alla loro inclusione sociale. Tanto si realizza grazie alla messa a punto ed alla realizzazione di tutta una serie di attività e di iniziative che ben possono definirsi come vere e proprie "azioni garanti" andando le stesse a garantire all'unisono il rispetto dei principi normativi che regolano l'esecuzione penale nel nostro ordinamento e la loro concreta attuazione, i fondamentali diritti dei reclusi insieme all'interesse dell'intera collettività che dall'azzeramento o quanto meno dall'abbassamento dei livelli di recidiva non può non trovare vantaggio. Tutti i progetti di educazione alla legalità che la Casa di Reclusione di Eboli ha realizzato nell'arco di un decennio nelle scuole dell'intera Provincia di Salerno e che hanno avuto come tema principale la prevenzione quale fondamentale arma di dissuasione dall'utilizzo delle droghe si collocano in perfetta sintonia con gli obiettivi perseguiti dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite: contrastare il fenomeno della tossicodipendenza e promuovere stili di vita sani con particolare attenzione alla popolazione giovanile. Immigrazione: l'accordo Ue; 40mila migranti "redistribuiti" in due anni, poi altri 20mila di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2015 Il lungo iter politico di cui è oggetto il pacchetto di misure per meglio gestire l'immigrazione in Europa ha superato questa notte un passaggio significativo. I Ventotto hanno dato il loro appoggio alle misure proposte dalla Commissione europea, dando mandato ai ministri degli Interni di chiudere il negoziato entro luglio. Il negoziato politico, tuttavia, non è terminato e potrebbe riservare sorprese, soprattutto sull'obbligatorietà o meno di una redistribuzione dei profughi. La decisione è giunta questa notte dopo una lunghissima e tesissima trattativa tra i capi di stato e di governo dell'Unione. I leader hanno litigato per circa sei ore su un canovaccio di conclusioni che secondo alcuni paesi lasciava aperta la possibilità a una qualche forma di obbligatorietà del meccanismo di redistribuzione di 40mila migranti arrivati in Italia e in Grecia. "È stato uno dei vertici più difficili che io abbia mai visto", ha detto un diplomatico abituato ai summit europei. In maggio, Bruxelles ha presentato proposte che prevedono la ricollocazione di 40mila richiedenti asilo arrivati in Italia e in Grecia su un periodo di 24 mesi; il reinsediamento di 20mila persone, tuttora fuori dal territorio europeo e "in chiaro bisogno di protezione internazionale"; e nuove "politiche più efficaci di rimpatrio" degli immigrati giunti nell'Unione senza motivi legali per restarvi. Il pacchetto prevede anche la nascita di centri di identificazione, così come la cooperazione con i paesi terzi. La Commissione ha proposto che la ricollocazione sia obbligatoria, mentre in aprile i leader avevano previsto che fosse volontaria. Il canovaccio di conclusioni non precisava la natura della redistribuzione, tanto da innervosire la Repubblica Ceca e la Slovacchia, contrarie all'obbligatorietà. Il risultato è un compromesso. La bozza di comunicato è rimasta inalterata, ma è stato aggiunto un riferimento alle conclusioni del vertice del 23 aprile (in cui si specificava la volontarietà del meccanismo). La parola passa ora ai diplomatici che dovranno negoziare nelle prossime settimane il testo definitivo. Non sarà facile, tenuto conto dell'animosità di questa notte tra i capi di stato e di governo. Riusciranno i Ventotto a trovare un consenso su una qualche forma di obbligatorietà oppure verrà scelta la volontarietà, vanificando per molti aspetti l'obiettivo stesso del ricollocamento dei profughi? Molto dipenderà dai diplomatici e dalla loro capacità di scalfire l'emotività che circonda il tema. Peraltro, mancava ieri un testo definitivo delle conclusioni, ma secondo le prime informazioni raccolte qui a Bruxelles i Ventotto sono d'accordo per partecipare tutti alla redistribuzione dei profughi, esclusi i paesi esentati. In fin dei conti, il meccanismo una volta approvato potrebbe rivelarsi vincolante perché fatto proprio dai paesi. Nei fatti, se verrà approvato, il provvedimento rimetterebbe in discussione il Principio di Dublino, vale a dire la responsabilità di accoglienza del paese di primo arrivo. I commenti questa notte sono stati in chiaroscuro. Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker si è lamentato per un compromesso definito "modesto". Dal canto suo, il premier italiano Matteo Renzi ha spiegato: "Per noi non è la soluzione del problema, ma la discussione non era sui numeri, ma sul principio di volontarietà e sono molto felice che questa espressione non sia nel testo. Nei prossimi mesi decideremo la redistribuzione. Questo è un primo passo". Nel contempo, è stato deciso che altri due paesi saranno trattati in modo particolare nella redistribuzione dei profughi. Oltre alla Grecia e all'Italia, anche la Bulgaria e l'Ungheria. Questi due paesi dell'Est Europa hanno subito un forte aumento dei flussi migratori in questi ultimi mesi, in particolare provenienti dalla Siria e dal Kosovo. "Il nostro approccio deve essere geograficamente comprensivo", ha detto il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk in una conferenza stampa alle 3 di notte. Immigrazione: sulle domande di asilo l'Italia meno efficiente di Germania e Francia di Claudio Gatti Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2015 Come politici, politicanti, cooperative e affaristi di ogni genere siano riusciti a mettere le mani sul business dei migranti è chiaramente emerso dall'inchiesta che la Procura di Roma ha battezzato "Mondo di mezzo". Ma a complicare la gestione dell'emergenza migranti in Italia c'è anche un altro fenomeno, meno imbarazzante ma altrettanto rilevante, di cui si parla poco. Ci riferiamo alle lungaggini e inefficienze della macchina burocratica che tengono decine di migliaia di persone parcheggiate in campi di accoglienza con il potenziale per diventare vere e proprie polveriere sociali. L'ondata migratoria che anche quest'anno si è abbattuta sull'Italia metterebbe alla prova qualsiasi apparato pubblico del mondo, ma quello italiano sta dimostrando tutte le pecche e falle che ne fanno uno dei più mal ridotti del mondo occidentale. Da un'inchiesta del Sole 24 Ore risulta evidente che l'infrastruttura pubblica messa in piedi dallo Stato per smaltire le domande di asilo presentate dai migranti è decisamente meno efficiente di quella di un Paese, la Germania, che nell'ultimo anno e mezzo ha fatto fronte a un numero di migranti 3 volte superiore. Nei primi cinque mesi del 2015, in Germania i 29 "sportelli" dell'Ufficio federale per migranti e rifugiati hanno ricevuto 125.972 nuove pratiche e ne hanno smaltite 93.816. Nel 2014, le nuove richieste erano state 173.072 e quelle smaltite 128.911. Dall'Ufficio francese della protezione dei rifugiati e apolidi abbiamo invece saputo che nel 2014 sono state presentate in tutto 64.811 domande di asilo e che i suoi 225 funzionari ne hanno smaltite 45.454. Con un terzo dei migranti arrivati in Germania la burocrazia pubblica italiana risulta invece decisamente più lenta. Eppure, per far fronte all'esplosione di sbarchi iniziata in primavera, il 22 agosto dell'anno scorso il Governo aveva approvato un decreto legge con nuove "disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale". La due principali disposizioni prevedevano il raddoppio delle commissioni territoriali che gestiscono le richieste di asilo, passate da dieci a venti, e l'aumento delle sotto-commissioni, o "sezioni" territoriali, fino a un massimo di trenta. La legge di conversione di quel decreto è stata approvata in Parlamento il 17 ottobre 2014 e il numero di commissioni e sezioni è da allora pressoché raddoppiato - le commissioni sono passate da 10 a 19, e le sezioni da 7 sono diventate 13. Nonostante ciò, dai dati che Il Sole 24 Ore è faticosamente riuscito a ottenere, la capacità di smaltimento nel nostro Paese rimane di quattro volte inferiore a quella della Germania. Nei premi cinque mesi del 2015 risultano infatti essere state smaltite appena 20.142 pratiche (nel 2014 sono state 36.270). Ci è stato impossibile sapere quante nuove pratiche sono state presentate quest'anno perché l'ufficio stampa del Ministero dell'interno ci ha detto di non essere "in possesso dei dati relativi al numero degli sbarcati nel 2015 che hanno presentato domanda", aggiungendo che "le decisioni prese riguardano principalmente richieste presentate in periodi precedenti". Il 20 giugno scorso abbiamo invece appreso da Eurostat che nel primo trimestre del 2015 in Italia sono state presentate 15.200 domande d'asilo. Il ministero dell'Interno non ci ha fornito neppure i dati delle pratiche smaltite da ogni singola commissione o sezione (dati che ci risultano essere raccolti da una banca dati su base settimanale e quindi facilmente recuperabili). Il Sole 24 Ore è comunque indipendentemente riuscito a ottenerne una parte, appurando che uno dei motivi della lentezza è il fatto che in città come Brescia, Enna e persino una località strategica come Agrigento (per via di Lampedusa), le nuove strutture istituite dalla legge del 17 ottobre scorso sono entrate in funzione solo a maggio di quest'anno. E hanno quindi finora smaltito pochissime pratiche. A produrre pochi risultati, rimanendo ben sotto le mille pratiche, è stata anche la commissione insediatasi a Palermo. Anche se lì il problema è relativamente meno grave, visto che il numero di migranti ospitati nel capoluogo regionale siciliano è molto più basso che altrove in Sicilia. Quest'ultimo dato solleva però un'altra questione. Quando abbiamo chiesto al Ministero in base a quale criteri è stato deciso di creare una commissione (presieduta da un vice-prefetto vicario a tempo pieno) oppure una semplice sezione (con un vice-prefetto non a tempo pieno e quindi con ritmi di lavoro meno intensi) ci è stato risposto che "la distribuzione sul territorio delle Commissioni territoriali e relative Sezioni è stata valutata in considerazione delle presenze dei richiedenti asilo sul territorio nazionale". Ma allora come si spiega la scelta di Palermo e non Agrigento, visto che il capoluogo regionale ha meno della metà dei migranti della città della valle dei templi? Non si spiega. Quello che si sa però è che la vice-prefetto designata per quel posto, Donatella Ferrera, ha casa a Palermo e non ad Agrigento, ed è molto vicina (anche di casa) a Saverio Romano, l'ex ministro delle politiche agricole originariamente dell'Udc poi passato in Forza Italia, che la volle come vice-capo di gabinetto. Che scelte come quella di potenziare una struttura meno carica di lavoro qual è Palermo anziché una ben più provata come Agrigento non siano prive di potenziali conseguenze lo ha dimostrato la rivolta di una cinquantina di migranti di un campo di accoglienza agrigentino che all'inizio di marzo scorso hanno bloccato il traffico e preso in ostaggio un operatore per protestare contro i ritardi nella concessione dello status di rifugiato. Inizialmente la prassi prevedeva che ogni migrante fosse intervistato dall'intera commissione (formata da un funzionario della polizia di Stato, un componente designato dall'ente locale e uno dell'Alto commissariato delle Nazioni unite). Adesso l'intervista può essere condotta da un singolo componente. Ma questo non ha accelerato i tempi. Anzi, a volte li ha addirittura rallentati perché se l'intervista non è condotta bene, sono necessarie integrazioni che prolungano la procedura. "Mentre in Francia le domande di asilo sono di 20 pagine, da noi sono quattro paginette da riempire in stile quiz con la possibilità, quasi mai esercitata, di allegare documentazione ulteriore. Quindi le commissioni hanno poco materiale sul quale prepararsi per le interviste", ci dice il componente di una commissione che chiede l'anonimato. Se poi chi ha avuto la domanda respinta decide di fare ricorso al tribunale competente, cosa a cui ha diritto a spese dello Stato, i tempi diventano quelli matusalemmiani della giustizia italiana. A quel punto gli unici a guadagnarci sono gli avvocati, ai quali viene erogata dallo Stato una media di mille euro a pratica. Droghe: cannabis, proposte per una buona normativa di Emilio Quintieri (Radicali Italiani) Il Garantista, 26 giugno 2015 Sul modello anche dei "Social Club" spagnoli la speranza di una legge avanzata nel nostro Paese. Non c'è nulla di "ufficiale" e, seppur dovesse rimanere "riservata", la proposta di legge che l'intergruppo Parlamentare sulla cannabis ha abbozzato, è stata resa pubblica. Durante l'ultimo incontro, l'onorevole Enza Bruno Bossio, deputata Pd, molto vicina alle posizioni dei Radicali, ha proposto alcune importanti modifiche per migliorare il progetto di legge. In particolare, le modifiche proposte dalla Bruno Bossio riguardano i primi quattro articoli della bozza dell'intergruppo. In primis, quello che concerne la coltivazione in forma associata sul modello dei "cannabis social club" spagnoli. La norma, infatti, così come proposta, prevede che gli associati debbano essere maggiorenni e residenti in Italia e non debbano aver riportato condanne definitive per alcuni reati. "Ritengo doveroso - ha detto la Bruno Bossio - che il divieto di coltivazione, previsto in tale articolo, venga circoscritto per tutti i condannati per spaccio o cessione. Quelli che siano stati riconosciuti responsabili per fatti di grave entità ed altro. In sostanza, vanno inclusi, tra i possibili coltivatori in forma associata, quelle migliaia di cittadini sino ad oggi condannate per detenzione e/o cessione di piccole quantità di stupefacenti che ad oggi la proposta escluderebbe". Su questa modifica, la maggioranza dell'intergruppo, dovrebbe esprimersi favorevolmente. Altra questione affrontata è stato il divieto assoluto dì fumare i derivati della cannabis negli spazi pubblici o aperti al pubblico e nei luoghi di lavoro pubblici e privati. Secondo la Bruno Bossio, questo divieto è del tutto assurdo e sproporzionato. Ha proposto, infatti, di sopprimere tout court il comma 2 oppure dì sostituirlo con il divieto, attualmente vigente, per quanto concerne il fumo del tabacco. Questa proposta, seppur condivisa da altri parlamentari pare che non venga accolta e che resterà il divieto sancito nella bozza provvisoria. La parlamentare ha proposto anche alcune modifiche fondamentali all'Articolo 3, che riguarda le condotte non punibili e fatti di lieve entità. Si sancisce la "non punibilità" della cessione di cannabis e dei prodotti da essa ottenuti a determinate condizioni ed entro specifici limiti. Si depenalizza la cessione ad una persona maggiorenne e, comunque, la cessione che avvenga fra soggetti minori, di una modica quantità di cannabis (nei limiti consentiti), in quanto si presume preordinata al consumo personale. E su questo, nulla da eccepire. Nel gruppo parlamentare non è stata invece raggiunta un'intesa per quel che riguarda le pene detentive e pecuniarie ipotizzate. Infatti, la deputata calabrese, ha proposto di ridurne il minimo e il massimo edittale previsto per le cd. "droghe pesanti" (cocaina, etc.). Anziché 6, 4 anni di reclusione. La multa - oggi da euro 2.064 a euro 13.000 - da ridurre a un minimo di mille a un massimo di 5mila euro. Per quanto riguarda le droghe leggere (cannabis, etc.) fermo restando le pene detentive ipotizzate da 6 mesi a 3 anni, ha proposto di ridurre quelle pecuniarie. Nel minimo e nel massimo. Anziché da mille euro a 6.5 cento, da 5cento a 2.5 cento euro. Queste ultime proposte avrebbe anche l'obiettivo di evitare la custodia in carcere anche per i fatti di lieve entità per le cosiddette "droghe pesanti". Così, si permetterebbe la sospensione della carcerazione del condannato al momento del passaggio in giudicato della sentenza, in attesa del giudizio della Magistratura di Sorveglianza. Inoltre, si potrebbe applicare nella fase processuale, il nuovo istituto della sospensione del processo con messa alla prova dell'imputato; nonché l'istituto della non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Salvaguardare la non punibilità per particolare tenuità del fatto va nella direzione della riduzione del sovraffollamento carcerario; non ingolfa i Tribunali con processi per fatti tenui e non abituali, la modesta detenzione e/o cessione di sostanze stupefacenti anche "non leggere". Così come la non applicabilità della carcerazione preventiva ai reati puniti con pena detentiva inferiore a 5 anni. Infine, ha proposto di aggiungere un ulteriore comma, dopo il comma 1, per abrogare i commi 1 e 2 dell'articolo 85 del testo unico sugli stupefacenti. Sono le "pene accessorie" che il giudice può comminare ai condannati e che consistono nel divieto di espatrio e nel ritiro della patente di guida per un periodo non superiore a 3 anni. "Ritengo - ha insistito la democrat - che sia giusto abrogare queste "pene accessorie" o, comunque, di non applicarle per i fatti di lieve entità, ritenendole eccessive ed inadeguate in quando riducono ed ostacolano le opportunità di lavoro e di reinserimento sociale dei soggetti". Il ritiro della patente di guida è un handicap assoluto o relativo, assoluto nelle attività di lavoro in cui la patente è necessaria e relativo in tutte quelle in cui l'uso della stessa è più o meno indispensabile per raggiungere il luogo di lavoro. Non disporre della patente di guida oggi è una forma di grave incapacitazione della persona. I condannati, non saranno certo "ostacolati" dal divieto di espatrio o dal ritiro della patente se intendano tornare a delinquere mentre lo saranno se intendano seguire un percorso di riabilitazione sociale e di lavoro. Droghe: c'è chi sta ancora in carcere per la Fini-Giovanardi… e Renzi non fa niente di Alessandro Da Rold linkiesta.it, 26 giugno 2015 Esce il Libro Bianco di Antigone e della Società della Ragione sulla legge per le droghe leggere: "La politica si è mostrata pavida e latitante". C'è chi è ancora in carcere illegittimamente. Chi non avendo un buon avvocato non ha potuto far valere le sue ragioni. Oppure, più semplicemente, c'è chi sta ancora scontando la pena per la lentezza e la "farraginosità della macchina giudiziaria". Spesso i registri informatici non riescono a rilevare le richieste. E migliaia di detenuti continuano a rimanere in galera. Mette i brividi l'ultimo Libro Bianco dell'associazione Antigone e della Società della Ragione sulla legge sulle droghe. A un anno dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l'incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi non è cambiato nulla, né la maggioranza dei detenuti giudicati all'epoca è riuscita a far valere le proprie ragioni contro pene illegittime. Colpa soprattutto del legislatore, del governo di Matteo Renzi, che non è intervenuto mai sulla questione, nonostante le richieste dello stesso presidente della Corte di Cassazione all'inizio dell'anno giudiziario. E nonostante l'emergenza del sovraffollamento delle carceri, come dichiarato più volte dall'Unione Europea. A gennaio il primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, chiese di "adeguare le pene previste in questa materia, tenuto conto del ripristino della differenziazione tra droghe leggere e droghe pesanti e, soprattutto, prendendo coraggiosamente atto della estrema inutilità dell'incremento sanzionatorio stabilito con la legge Fini-Giovanardi". All'epoca, era il febbraio del 2014, ci si aspettava - si legge nella relazione - che "la pronuncia di incostituzionalità avrebbe avuto effetti sulla popolazione detenuta nelle carceri italiane. Diminuendo significativamente (passando da 20 a 6 anni) il massimo della pena per detenzione e spaccio di derivati della cannabis". In particolare l'ipotesi è che si sarebbero prodotti due effetti: "in primis l'insussistenza dei presupposti per misure cautelari in carcere basati su previsioni di pena assai superiori a quelle vigenti dopo la sentenza; e a seguire la necessità di rideterminare le condanne passate in giudicato sulla base delle pene giudicate illegittime". Nulla di tutto questo. Anche se nell'ultimo anno sono state portate avanti battaglie da parte della Società della Ragione contro le pene illegittime. Come le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che nell'ottobre del 2014 "dettero impulso alla rideterminazione delle pene. Fu cioè riconosciuto ai detenuti il diritto a ottenere il ridimensionamento delle pene sulla base della normativa così come uscita dalla sentenza della Corte costituzionale" Leonardo Fiorentini, tra gli estensori del Libro Bianco, è molto preciso nella relazione. "Sulla base del pronunciamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le associazioni iniziarono la campagna "Contro la pena illegittima", chiedendo al parlamento e al governo un provvedimento che garantisse una decisione immediata e uguale per tutti, con una riduzione di due terzi delle pene comminate sulla base di una legge incostituzionale. Purtroppo anche in questa occasione la politica si è mostrata pavida e latitante e questo semplice provvedimento non è stato adottato". A nulla sono poi servite le lettere e gli appelli inviati al governo. "Molti garanti dei diritti dei detenuti" si legge "hanno anche richiesto alle Procure della Repubblica informazioni sulla quantità di incidenti di esecuzione e sul loro esito. Le risposte da parte delle istituzioni sono state poche e assai poco significative". Il risultato è avvilente, perché migliaia di detenuti non sono riusciti a far valere i loro diritti. "La Procura generale della Corte d'Appello di Milano segnala di avere ricevuto 51 richieste e di averne accolte il 20%. Rimanda per il resto della Lombardia alla procura generale di Brescia e alle 13 Procure della Repubblica". E poi ancora: "La Procura Generale di Firenze ha effettuato una ricerca dei fascicoli in esecuzione relativi a reati di droga e ne ha individuati circa 400 e di questi 44 relativi a droghe leggere e solo per 7 casi si è proceduto alla rideterminazione della pena. Il quadro che emerge dalle risposte delle procure della Toscana è desolante; solo a Prato è stato disposto un monitoraggio. Per il resto poche istanze e ancora meno accoglimenti. Alcune procure sostengono che il registro informatico dell'esecuzione (Siep) non consente la rilevazione delle specifiche richieste di rideterminazione della pena per cui non sono estrapolabili quelle conseguenti alla sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014. Altre procure rimandano alle cancellerie del giudice dell'esecuzione. Abbiamo avuto notizia che la Procura di Napoli si è attivata in prima persona e che sono stati esaminati 233 casi di incidenti di esecuzione". Per questo motivo, conclude la relazione, "Molti hanno scontato fino alla fine la pena illegittima mentre probabilmente alcuni sono ancora in carcere. In ogni caso, la campagna ha messo in luce la farraginosità della macchina giudiziaria e il suo carattere discriminatorio e di classe. Solo chi ha risorse e avvocato può sperare di vedere riconosciuto il suo diritto. La campagna "Contro la pena illegittima" proseguirà chiedendo al Ministero della Giustizia di impegnarsi nel richiedere tutti i dati e fornire almeno un quadro esaustivo di una vicenda paradossale". Svizzera: caso Adeline, sanzionata la direttrice del Servizio esecuzione pene tio.ch, 26 giugno 2015 La donna ha autorizzato l'uscita di Fabrice A., il detenuto pluri-recidivo che uccise la socio-terapeuta. Sanzione disciplinare contro la direttrice del Servizio ginevrino di esecuzione delle pene (Sapem) che ha autorizzato l'uscita di Fabrice A., il detenuto pluri-recidivo che uccise la socio-terapeuta Adeline il 12 settembre 2013 in un bosco di Ginevra. Stando a un'inchiesta amministrativa, la donna avrebbe dovuto nutrire seri dubbi sulla sua pericolosità. La direttrice del Sapem è stata retrogradata a semplice impiegata in periodo di prova per una durata di due anni. Lo ha reso noto oggi il Consiglio di Stato ginevrino, confermando una notizia della "Tribune de Genève". La sanzione fa seguito alla pubblicazione del rapporto dell'ex giudice vodese Jean-Pierre Lador. Il governo ginevrino non commenta le sue conclusioni, visto che la direttrice ha 30 giorni di tempo per eventualmente interporre ricorso. La socio-terapeuta Adeline era stata uccisa nel settembre 2013 dal detenuto del centro di reinserimento ginevrino de La Pâquerette Fabrice A. durante un'uscita accompagnata. Da allora tre rapporti sono stati pubblicati sulla vicenda che ha fatto molto scalpore. Un anno fa la direttrice dell'unità de La Pâquerette, presso cui lavorava Adeline, era stata sanzionata con un biasimo in seguito alle conclusioni di un'altra inchiesta amministrativa. Da allora la donna non è più professionalmente attiva nel settore penitenziario, ma ha assunto altre funzioni in seno all'Ospedale universitario di Ginevra, da cui dipendeva il centro di reinserimento. Un altro rapporto della commissione d'inchiesta parlamentare istituita per far luce sulle disfunzioni che hanno condotto alla morte di Adeline dovrebbe essere pubblicato entro il 30 ottobre. Giordania: dissidente alawita torturato a morte nelle carceri del regime di Assad di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 26 giugno 2015 Un anziano oppositore del regime di Assad, appartenente alla comunità alawita di cui fanno parte i clan al potere nel Paese, è morto dopo essere stato torturato in carcere. Uday Rajab era rientrato in Siria dall'esilio dopo aver ricevuto promesse dal governo di non subire persecuzioni. La notizia è stata data all'agenzia Ansa da avvocati siriani a Damasco che da anni lavorano alla difesa dei diritti umani nel loro Paese. Uday Rajab era finito in carcere negli anni ‘80 perché membro dell'allora partito d'azione comunista ma poi era riuscito a fuggire all'estero, Originario di Jabla, un'altra roccaforte lealista, l'uomo era tornato rientrato dall'Egitto dopo che il ministro siriano della riconciliazione nazionale, Ali Haidar, gli aveva personalmente assicurato che al suo rientro in patria non avrebbe subito persecuzioni da parte del sistema di controllo e repressione del regime. Ma la realtà è stata, purtroppo, molto diversa. Il dissidente è morto nelle ultime ore nell'ospedale militare di Tartus, porto nella regione costiera feudo dei clan alleati alla famiglia presidenziale degli Assad. Secondo le fonti, Rajab era stato ricoverato in ospedale dopo le gravi ferite riportate durante le percosse e torture subite nella caserma dei servizi di sicurezza militari di Tartus, dove era stato condotto nelle settimane scorse. Sono centinaia i casi di dissidenti e oppositori politici alawiti finiti nelle carceri, in esilio o addirittura morti a causa delle persecuzioni del regime degli Assad, al potere dal 1970. Molti di questi dissidenti avevano ingrossato negli anni 70 e 80 le file delle formazioni di ispirazione comunista e laicista che chiedevano riforme politiche. Con lo scoppio della rivolta nel 2011, alcuni dissidenti alawiti hanno partecipato alla creazione a Damasco di piattaforme della opposizione interna al Paese e "tollerata" dalle autorità fino a quando queste sigle non sono tornate a chiedere reali riforme politiche, una richiesta che il regime considera tradizionalmente una invalicabile linea rossa. Giappone: Tokyo torna a usare la forca, giustiziato detenuto Askanews, 26 giugno 2015 La giustizia giapponese ha eseguito la condanna a morte di Tsukasa Kanda, condannato per aver ucciso una donna nel 2007. Si tratta della prima impiccagione da quando Yoko Kamikawa è diventata ministro della Giustizia. Lo scrive oggi il Japan Times. L'ultima esecuzione era stata effettuata ad agosto dello scorso anno. Dopo la morte di Kanda, nel braccio della morte restano 130 condannati. Kanda era stato condannato per aver ucciso nell'agosto 2007, assieme ad altre due persone, una donna di 31 ani a Nagoya. "Il suo crimine è stato spietato ed estremamente brutale", ha detto Kamikawa in una dichiarazione alla stampa dopo l'esecuzione. "Ho riflettuto molto - ha aggiunto - prima di dare il via libera all'esecuzione". Il Giappone, assieme agli Stati uniti, è l'unico paese del G7 ad avere ancora la pena di morte nel suo ordinamento. Amnesty International ha attaccato oggi il governo di Tokyo. "Con il paese che guarda da un'altra parte (ai progetti di modifica sul ruolo dei militari del premier Shinzo Abe, ndr.), le autorità giapponesi hanno deciso che era conveniente riprendere le esecuzioni. Prendere così la vita di un uomo è politica da bassifondi", ha dichiarato Hiroka Shoji, ricercatore per l'Asia di Amnesty. Un sondaggio diffuso dal governo a gennaio mostra che l'80,3 per cento dei giapponesi continua a ritenere la pena di morte "inevitabile". Egitto: Comitato protezione giornalisti; Paese ha il più alto numero di reporter in carcere Nova, 26 giugno 2015 Il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) denuncia in un rapporto la situazione della libertà di stampa in Egitto, sottolineando che ad oggi il paese è quello con il più alto numero di operatori del settore rinchiusi nelle carceri. Secondo la relazione basata su un censimenti nei vari penitenziari egiziani, l'organizzazione internazionale con sede a New York ha certificato la presenza di almeno 18 giornalisti nelle carceri egiziane, sottolineando che il numero è il più alto registrato dal 1990. Il Cpj sottolinea che le continue minacce contro giornalisti, blogger e reporter hanno spinto i media a censurare le posizioni contrarie al governo in carica in particolare su temi sensibili. Secondo gli attivisti da un lato le autorità sostengono la libertà di stampa, mentre dall'altro il presidente Abdel Fatah al Sisi ha utilizzato il preteso della difesa della sicurezza nazionale per reprimere il dissenso sui media. Dalla deposizione del presidente egiziano Mohamed Morsi nel luglio 2013 e dalle messa fuorilegge del movimento dei Fratelli Musulmani le autorità hanno arrestato diversi giornalisti e politici accusati di appartenere al gruppo islamista. Secondo il Cpj il rischio di arresti sta impedendo ai media di coprire in modo adeguato la situazione interna nel paese, lasciando intere aree, come il Nord Sinai, completamente scoperte, affidando la diffusione di informazioni e notizie ai soli rapporti militari. Il rapporto denuncia anche casi di abusi subiti dai giornalisti in carcere, pubblicando lettere in cui alcuni detenuti lamentano vessazioni e torture anche con l'utilizzo di scariche elettriche. Oltre a giornalisti sarebbero invece almeno 100 gli attivisti incarcerati o vittime di sequestri lampo da parte delle forze della sicurezza. Nel paese ha suscitato diverse polemiche e critiche il caso dell'attivista Islam Atito, giovane studente universitario di 23 della Ein Shams University del Cairo sequestrato in strada mentre si recava ad una sessione di esami e ritrovato morto il 20 maggio 2015 con segni evidenti di torture sul corpo.