La feroce vergogna dei trasferimenti penitenziari di Maria Brucale L'Opinione, 25 giugno 2015 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha presentato a Strasburgo i risultati delle misure adottate dall'Italia per risolvere la situazione carceraria. Ha offerto dati rassicuranti e proiezioni di riforma ed ha ottenuto il plauso del segretario generale del Consiglio d'Europa, Thorbjorn Jagland. Il 29 maggio 2014, scaduto il termine concesso all'Italia per ripristinare condizioni minime di legalità nelle carceri, il giudizio espresso dalla Corte Europea è stato di "sospendere la pena" a fronte di una serie di impegni presi e di promesse fatte che avrebbero dovuto tradursi in risultati concreti e in una legislazione di urgenza di carattere risarcitorio cui dare tempestiva applicazione per coloro che, detenuti, avevano patito una reclusione lesiva della dignità umana e dei più elementari diritti. Ad un anno di distanza, la Cedu si accontenta ancora delle promesse. I rimedi compensativi che avrebbero dovuto risarcire i ristretti in condizioni inumane attraverso la riduzione della pena ancora da espiare (un giorno in meno ogni dieci di tortura patita) ovvero, per chi era stato già scarcerato, attraverso un "equo" ristoro economico (ben otto euro per ogni giorno di patimenti e vessazioni), non sono mai stati attuati. Grandissima parte delle istanze dei detenuti è stata dichiarata inammissibile perché le richieste erano mal poste (verranno ripresentate intasando definitivamente i tribunali di sorveglianza già al collasso). Moltissime sono ancora in attesa di decisione. E allora, come si è proceduto a tentare di riequilibrare la situazione di drammatico sovraffollamento delle carceri? Qualcosa ha fatto la sentenza della Corte Costituzionale che ha demolito la legge Fini-Giovanardi e comportato un numero notevole di scarcerazioni. Certamente utile è stato il rimedio della concessione, alle persone detenute che avevano mantenuto una buona condotta (non tutte, non quelle ristrette per i reati di cui all'art. 4 bis O.P., quelle si possono torturare e non devono essere risarcite) di una riduzione di pena maggiore. Ma il sistema più efficace probabilmente è stato spostare i detenuti su e giù per l'Italia. Immaginando uno schema dove ogni detenuto occupa un quadratino, è bastato riempire i quadratini prendendo Tizio da Sulmona e mettendolo a Massama, in Sardegna; Caio da Parma a Palmi; Sempronio da Padova a Sulmona, Filano da Genova a Spoleto e così via. L'art. 27 della Costituzione, per troppo tempo rimasto inattuato, ha tuonato il ministro Orlando al Cnr, a Roma, promuovendo la legge delega che orienta il legislatore ad un superamento degli ostacoli normativi che rendono di fatto inattuabile, soprattutto per alcune categorie di detenuti, l'accesso a qualunque percorso di progressione trattamentale e di riabilitazione. Un sistema penitenziario "carcerogeno", ha ribadito agli Stati Generali sul carcere, in presenza del Presidente Emerito Giorgio Napolitano con il suo monito: "cambiare le coscienza!". E allora? Che ne è di queste persone spostate dal sud al nord senza alcun rispetto delle loro vite? Dei loro percorsi? Delle loro storie? Dei loro traguardi? Dei loro passi faticosi per ricostruirsi ritagliando un nuovo sé attraverso i volti degli operatori intramurari, l'inserimento nelle opportunità offerte dal carcere? Senza alcun riguardo per le loro famiglie, le loro condizioni economiche, i loro sforzi, le loro esigenze di viaggio, le abitudini faticosamente conquistate negli anni? Spazi da riempire. Dove c'è un buco ne metti uno. Cose. Tutto qui. E intanto Ornella Favero e la Redazione di Ristretti Orizzonti conducono una battaglia scomoda e solitaria. La sezione di alta sicurezza di Padova sta per essere chiusa, smantellata. Vite, progetti, percorsi, opportunità, progressioni di cambiamento vengono spezzati, interrotti; i detenuti trasferiti qua e là per l'Italia dove tutto cambia, si azzera, muore e tutto deve ricominciare, da capo. Ci sono persone ristrette da più di vent'anni alla A.S. di Padova, le loro menti sono cambiate, sono proiettate alla vita. Molti di loro lavorano alla redazione di Ristretti Orizzonti, si confrontano tra di loro e con realtà esterne, studiano, scrivono, crescono, si "rieducano". Non sono gli uomini che sono entrati in carcere moltissimi anni addietro eppure restano marchiati dalla reclusione nelle sezioni di alta sicurezza. Se fossero "declassificati" potrebbero continuare a perseguire il loro progetto di crescita, a portare avanti il loro percorso di rivisitazione critica del sé. Continuerebbero da detenuti il loro cammino in sezioni di media sicurezza. Ma i loro reati sono reati di mafia, stimmate, indelebili. È possibile per loro ambire alla rieducazione? La Costituzione lo pretende. Il ministro Orlando si è fatto portavoce di questa pretesa. Ma la realtà è un'altra. Le note degli organi interpellati dalle direzioni delle carceri per valutare la possibilità di declassificare persone ristrette in regimi di alta sicurezza si esauriscono in vacue formule di stile che si traducono nella negazione della speranza: "non è dato escludere l'attualità dei collegamenti con il sodalizio"; "considerata l'assenza di elementi certi da cui desumere l'allontanamento definitivo dalle organizzazioni criminali"; "non risultano elementi univoci comprovanti l'interruzione di rapporti". Nessun elemento reale, concreto e verificabile viene offerto che spieghi, al di là di una logica biecamente punitiva, la pericolosità attuale di tante persone alle quali, qualunque impegno profondano nel rinnovarsi, nessuna strada è offerta, nessuna ammenda è prospettata. Ci vuole coraggio ad abbattere il pregiudizio. Ci vuole una logica diversa che parta dall'uomo ed all'uomo sia proiettata, che scomponga la legge dei numeri e isoli una ad una le persone, ciascuna con il proprio vissuto, con la propria storia, con le proprie scelte, con le proprie consapevolezze, con i propri traguardi da raggiungere. Se avranno un nome, un volto, una sofferenza, una storia, sarà più difficile spostare i detenuti per riempire e svuotare caselle. E come uomini, forse, sarà loro riconosciuto il diritto di sapere perché, dopo lunghi anni di carcerazione, non é ammesso che siano cambiati, non é permesso che, passo dopo passo, siano restituiti alla società. "Non potranno mentire in eterno. Dovranno pur rispondere, prima o poi, alla ragione con la ragione, alle idee con le idee, al sentimento col sentimento. E allora taceranno: il loro castello di ricatti, di violenze, di menzogne crollerà" (Pier Paolo Pasolini). "Chiusi come maiali in piccole celle che puzzano di water" Il Garantista, 25 giugno 2015 "Siamo i detenuti del Reparto di Alta Sicurezza del carcere di Parma. Siamo già tanti, ma vogliono trasferire altri dal carcere di Padova". Lettera inviata al Capo dello Stato, al Ministro della Giustizia, al Capo dell'amministrazione Penitenziaria, ai Magistrati di Sorveglianza di Reggio Emilia, al Direttore della Casa di reclusione di Parma, al Garante dei diritti dei detenuti Emilia-Romagna. Per conoscenza al senatore Luigi Manconi e altri. Siamo i detenuti del Reparto di Alta Sicurezza della Casa di reclusione di Parma. Abbiamo deciso di rivolgerci a voi dopo essere venuti a conoscenza del fatto che la sezione dì alta sicurezza di Padova sarà dimessa e che i detenuti di quel reparto - secondo notizie giornalistiche - verranno trasferiti presso il reparto di alta sicurezza del carcere di Parma. Vogliamo, innanzitutto rivolgerci a voi in termini civili, quei termini che ci consentono di affrontare una comunicazione responsabile e cosciente atta a fare conoscere e comprendere quali sono le difficoltà che segnano la nostra quotidianità. Gli argomenti che tratteremo, per quanto complessi, sono indissolubilmente legati alla vivibilità all'interno delle celle e alla qualità della vita al di fuori di esse. La sezione di alta sicurezza del carcere di Parma, attualmente ospita 27 detenuti, per una capienza max di 25 posti. Tra gli ospiti qui reclusi, 19 sono ergastolani, i rimanenti 8 scontano condanne ventennali o trentennali. Nel computo dei 27 ci sono persone affette da malattie debilitanti, altri soffrono di problemi psi-co-fisici-claustrofobici, altri ancora sono studenti universitari, infine ci sono individui con discrete condizioni fisiche. Per tutti, nessuno escluso, vale il principio del rispetto della dignità umana. Dignità citata nelle premesse delle regole penitenziarie europee del 2006, ma anche all'art. 18 (I locali di detenzione e, in particolare, quelli destinati ad accogliere i detenuti durante la notte devono soddisfare le esigenze di rispetto della dignità umana e, per quanto possibile, della vita privata e rispondere alle condizioni minime richieste in materia di sanità e di igiene, tenuto conto delle condizioni climatiche, segnatamente per quanto riguarda la superficie e la cubatura). Noi stiamo chiusi in cella 20 ore su 24. Le 4 ore sono assegnate ai passeggi. Locali questi non idonei ad ospitare 27 persone, se si considerala superficie minima disponibile per ogni maiale che, secondo la direttiva Cee 91/630 (recepita dall'Italia) è di 6 metri quadri. Le celle detentive, per capienza, possono ospitare solo un detenuto. Se all'interno venissero collocate 2 persone lo spazio disponibile calpestabile pro-capite scenderebbe sotto i 3 metri quadri, spazio calcolato al netto dell'ingombro del mobilio. La cella è provvista di un piccolo wc privo di finestra. Il ricambio d'aria dovrebbe avvenire attraverso un aeratore, ma questo non avviene e giornalmente chi vive stipato in due all'interno della stessa cella è costretto a respirare gli odori maleodoranti causati dai bisogni fisiologici del compagno di cella. Per le operazioni di pulizia corporale la porta del wc rimane aperta. Abbiamo costatato l'impossibilità di lavarsi nel lavabo con la porta chiusa. Questa situazione non è sufficientemente adeguata ad assicurare un minimo di privacy. Ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intra-murario, la giurisprudenza nazionale ha precisato che, dalla superficie lorda della cella debba essere detratta la superficie occupata dagli arredi, individuando nel suolo calpestabile il parametro di calcolo. Una misura questa calcolata sulla base del criterio di 9 mq per singolo detenuto, più 5 mq per gli altri. Lo stesso spazio per cui in Italia viene concessa l'abitabilità alle abitazioni, condizione più favorevole rispetto ai 7 mq per singolo detenuto più 4 mq - stabiliti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura - per gli altri. (Fonte Dap, Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo statistica e automazione di supporto dipartimentale). Sulla questione spazio individuale esiste una elaborazione giurisprudenziale da parte della: Corte di Cassazione, magistratura di Sorveglianza di Padova, magistratura di Sorveglianza di Verona. Tra gli aspetti della qualità della vita di noi detenuti del reparto di alta sicurezza da segnalare la mancanza di una biblioteca, di una scuola, di lavoro, l'esclusione alle nomine a Commissioni esterne, a corsi professionali finalizzati. Ma la questione dell'inumanità della pena non si esaurisce nello spazio messo a disposizione a una persona in carcere, ma vanno contemplati altri parametri, tra i quali spicca quella evidenziata nello standard del Comitato per la prevenzione della tortura, che, nello specifico, afferma: "Tra i 3 ed i 7 mq a disposizione la disumanità è inversamente proporzionale al grado di implementazione di una serie di fattori compensativi, il primo fra tutti è assicurare che i detenuti possano trascorrere una ragionevole parte della giornata - 8 ore o più - fuori dalla cella occupati in attività motivanti di vario tipo. Per i condannati i regimi dovrebbero essere di livello ancora più elevato". In considerazione di quanto descritto pare opportuno rivelare che l'eventuale - quanto probabile - arrivo di altri detenuti restringerebbero i già esigui spazi vitali in cella e se lo spazio recluso diventa incapace di garantire lo spazio vitale, viola la dignità umana. Ci appelliamo alla vostra sensibilità e vi chiediamo una pena coerente con la dignità umana, spazi di vita umani, trattamento umano, riconoscimento pieno di diritti, salvaguardando l'integrità psico-fisica della persona qui detenuta, nel rispetto dell'articolo 27 della Costituzione. I detenuti: Avarello Giovanni - Cavallo Aurelio - Mafrica Giovanni - Stolder Ciro - Piscopo Giuseppe - Di Girgenti Antonino - Farraioli Domenico - Barranca Giuseppe - Testa Domenico - Donatiello Giovanni - Pulcinelli Ciro - Rua Gianfranco - Reitano Roberto - Favara Corrado - Gangitano Andrea -Romeo Antonio - Benigno Salvatore - fiocchetti Gaetano - Bevilacqua Fioravantio - Donatello Giovanni - Capozza Luigi - Sorrento Antonio - Morelli Domenico - Di Bona Enzo - Mazzara Vito. Paglia e Farina (Sel): interrogazione su trasferimento detenuti di AS da Padova a Parma parmatoday.it, 25 giugno 2015 Paglia e Farina di Sel: "Le condizioni di spazio, di trattamento e di partecipazione ad attività tra le sezioni di Alta Sicurezza di Padova e di Parma non sono neanche lontanamente paragonabili come si evince anche dalla testimonianza diretta resa dai detenuti - osservano gli On. Paglia e Farina - ed è perciò certo che se il paventato trasferimento si compisse, si andrebbe a ledere l'articolo 27 della Costituzione". "È degli ultimi giorni la notizia -si legge in una nota dei deputati di Sel Giovanni Paglia e Daniele Farina - del trasferimento di un numero ancora imprecisato di detenuti delle sezioni di massima sicurezza del carcere di Padova al carcere di Parma, a causa della decisione repentina e non meglio motivata del Dap di chiudere le suddette sezioni del carcere veneto. Alcuni di questi spostamenti sono già avvenuti nonostante l'allarme lanciato dal Garante per i diritti dei detenuti di Parma a cui oggi si è aggiunta una drammatica testimonianza da parte degli attuali detenuti della sezione As1 (reati legati alla criminalità organizzata di tipo mafioso) del carcere emiliano, attraverso una lettera sulla vivibilità interna e sull'ulteriore peggioramento che ne conseguirebbe se si realizzasse il paventato trasferimento dei detenuti da Padova. A prendere l'iniziativa ed interrogare il ministro della Giustizia Andrea Orlando sono i deputati di Sel Giovanni Paglia e Daniele Farina, grazie ad una puntuale ricostruzione delle condizioni in essere. Le condizioni di spazio, di trattamento e di partecipazione ad attività tra le sezioni di Alta Sicurezza di Padova e di Parma non sono neanche lontanamente paragonabili come si evince anche dalla testimonianza diretta resa dai detenuti - osservano gli On. Paglia e Farina - ed è perciò certo che se il paventato trasferimento si compisse, si andrebbe a ledere l'articolo 27 della Costituzione. Perciò crediamo - concludono Paglia e Farina - che il ministero della Giustizia e il Dap abbiano l'obbligo morale di scongiurare questo trasferimento, a tutela dei detenuti ristretti a Padova e a Parma". Il testo dell'interrogazione Al Ministro della Giustizia - Premesso che: da notizie diffuse dalla stampa, nonché da segnalazione del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Parma, Roberto Cavalieri, si apprende che, a fronte della paventata chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza del carcere di Padova, alcuni detenuti di tali sezioni verrebbero trasferiti presso la Sezione AS1 (detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso) del carcere di Parma; sembrerebbe che già due trasferimenti siano stati effettuati, con preoccupazioni circa il degrado delle condizioni detentive della popolazione carceraria di Parma; come noto, presso gli istituti di Parma è presente una sola sezione per detenuti AS1 sulle 6 sezioni presenti di Alta sicurezza; le restanti 5 sono destinate a detenuti AS3 (condannati per reati associativi). A tale gruppo di detenuti in AS1, per comprensibili motivi organizzativi del reparto Alta sicurezza, sono offerte poche occasioni di partecipazione ad attività che sono da considerarsi marginali rispetto a quelle destinate agli altri detenuti del circuito AS3; non è presente alcuna attività lavorativa significativa; solo ed unicamente, quando presente, ristretta ai lavori alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria per porta-vitto e poco più; sotto il profilo dello studio, questo è in gran parte rappresentato dalla autonoma iniziativa di alcuni detenuti iscritti a percorsi universitari; quanto alla collocazione nelle celle, questa è in parte soddisfatta in termini di assegnazione in cella singola, molto spesso sostenuta e obbligata anche da esigenze di salute, patologie psichiatriche e di studio dei detenuti; il trasferimento di detenuti della sezione Alta sicurezza del carcere di Padova presso il carcere di Parma non può che rappresentare una scelta assolutamente inopportuna, anche in quanto l'offerta trattamentale presente a Parma non è in alcun modo paragonabile a quella presente nel Penitenziario di Padova; dunque, si penalizzerebbero le scelte dell'istituto, anche operate da anni, per il trasferimento di detenuti che a Parma non troverebbero che poche attività di trattamento, spesso senza disponibilità di posti, e con un' erogazione delle stesse assai rarefatta nel corso della settimana; inoltre, il carico sanitario caratterizzante il carcere di Parma - conseguente alla detenzione di persone con patologie complesse e che richiedono prestazioni già allo stato carenti sotto il profilo della tempestiva erogazione- si aggraverebbe con una ricaduta negativa per tutti i detenuti, oltre che per il personale sia sanitario, sia dell'amministrazione penitenziaria; quanto alla collocazione nelle celle, le condizioni di vita dei detenuti AS1 sarebbero compromesse con allocazione di più persone nella stessa cella, con ricadute negative sia sul piano delle relazioni, sia dello stato psico-fisico, dei detenuti, soprattutto in riferimento a gli studenti e ai detenuti con problemi di salute; i detenuti del circuito AS1 e reclusi a Parma non hanno prospettive di sviluppo trattamentale e di partecipazione ad attività che, anche se proposte dal volontariato o dalla Comunità esterna, non sono realizzabili per problemi organizzativi legati ai divieti di incontro con i detenuti in AS3, alla mancanza di spazi idonei, nonché alle note questioni di disponibilità di personale addetto alla sorveglianza che possa permettere una apertura alle attività che vada oltre al normale, e ristretto, orario vigente (dalle 9.00 alle 15.00 con un'ora di pausa); come illustrato, il trasferimento paventato dei detenuti AS dal carcere di Padova a quello di Parma comprometterebbe dunque i percorsi trattamentali in corso presso l'istituto di Parma, nonché le generali condizioni di vivibilità all'interno della struttura carceraria, sia per la popolazione reclusa, sia per chi opera all'interno del carcere, con grave compromissione di quanto garantito dall'articolo 27 della Costituzione. Per sapere: se il Ministro in indirizzo, e in particolare il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, non ritenga di dover salvaguardare la condizione detentiva e i percorsi trattamentali delle persone ospitate nelle sezioni AS di Parma, non procedendo alla decisione relativa al trasferimento nella menzionata struttura dei detenuti ristretti a Padova. Paglia, Daniele Farina "Bloccate i trasferimenti da Padova, questo carcere rischia di scoppiare" Redattore Sociale, 25 giugno 2015 Ventisette firme di altrettanti detenuti. E il nuovo appello dal carcere di Parma per scongiurare l'arrivo di nuovi carcerati dopo la chiusura della sezione di massima sicurezza del penitenziario di Padova. Due pagine scritte a mano che spiegano ragioni e preoccupazioni. Alla cortese attenzione: Capo del DAP dr. Consolo Santi, Provv. Amm. Pen. E.R. dr. Pietro Buffa, Direttore C.R. Parma dr. Carlo Berdini, Ministro della Giustizia on. Andrea Orlando, Garante Regionale detenuti dr. Bruno Desi, Garante comunale detenuti dr. Roberto Cavalieri, Deputati e Senatori eletti dai cittadini di Parma, Volontariato penitenziario di Parma, Organi di stampa, Magistratura di Sorveglianza di Reggio Emilia. Alle SS.LL. I nostri cordiali saluti, siamo i detenuti del carcere AS1 del carcere di Parma. Con la presente vogliamo rappresentare noi stessi e nel farlo sentiamo il dovere civico di confermare e avvalorare le notizie riportato sul comunicato stampa emanato dal Garante comunale, in data 17 giugno 2015. Attualmente, nella sezione AS1, sono ristretti 28 detenuti, 6 dei quali vivono stipati in celle in cui lo spazio calpestabile per ogni detenuto è inferiore ai 3 mq. Questa condizione rappresenta per loro una forma di degrado fisico e di lesione dei diritti fondamentali garantiti dall'articolo 27 della Costituzione. A tutti è ormai noto che nei prossimi giorni arriveranno - provenienti dal carcere di Padova - altri 15 detenuti AS1. Il loro arrivo aprirà la voragine dei maltrattamenti (così è stata definita dalla Cedu - nella sentenza Torreggiani - la condizione di chi è costretto a vivere in uno spazio calpestabile inferiore a 3 metri). Come è noto, gli istituti di Parma sono stati riclassificati Alta Sicurezza. Delle 6 sezioni 5 sono state catalogate AS3, la rimanente assegnata AS1. Per ragioni organizzative gli spazi lavorativi, culturali, dei rapporti affettivi allo scopo di rafforzare i legami famigliari, nonché l'offerta trattamentale sono stati indirizzati quasi tutti o quasi a valorizzare il percorso rieducativo dei detenuti AS3. Per quanto riguarda noi detenuti AS1 le attività sono limitate ad incontri di 2 ore a settimana, ad un corso su Etica e legalità, cui partecipano 12 detenuti; il qual corso chiuderà il 30 giugno 2015. L'attività dei prodotti da forno - evidenziata nel comunicato stampa del 17 giugno 2015 - è un'iniziativa benefica che 12 di noi hanno deciso di condividere, donando i prodotti alla mensa dei poveri dei Frati Francescani. L'iniziativa ci vede impegnati mezza giornata alla settimana. Del corso di formazione professionale della durata di 300 ore, l'incognita è legata al "se finanziato". Infine l'attività sportiva: si trattava di un corso Uisp terminato da poco, le cui possibilità di ripresa sono legate ad un futuro finanziamento. Tutte le attività trattamentali, culturali e sportive, poi, sono state sospese lo scorso 13 giugno c.s. e riprenderanno - forse - la seconda decade di settembre. Per tre mesi, dunque, giornate svuotate da ogni attività di formazione significativa. Con un'offerta trattamentale inesistente, l'arrivo di altri detenuti va a peggiorare una situazione già complicata, e ciò implica una regressione trattamentale incolpevole. La legge penitenziaria, infatti, impone alle direzioni degli istituti di pena la compilazione del programma di trattamento per la redazione delle relazioni comportamentali, nel termine stabilito di 9 mesi, e non soltanto in previsione di una concessione di una misura alternativa alla detenzione. I detenuti qui ristretti hanno già scontato dai 20 ai 29 anni di prigione, tutte condanne ostative; 20 di noi, sulla cartella biografica, nella parte in cui è indicata la data del fine pena, si legge 9999. A nessuno di noi è stato redatto un programma trattamentale. A nessuno di noi è stata indirizzata un'indagine Uepe (Uffici di esecuzione penale esterna) allo scopo di elaborare e sottoporre alla Magistratura di Sorveglianza i programmi di trattamento da applicare, verificandone al contempo la corretta esecuzione da parte degli ammessi a tali sanzioni e misure. Strutture, queste, che collaborano con le direzioni allo scopo di far uscire i detenuti meritevoli dopo che questi hanno scontato una parte della condanna in un Istituto Penitenziario. Se e quando arriveranno i detenuti da Padova le condizioni di vivibilità interna saranno compromesse, e la ricaduta negativa coinvolgerà tutti, anche studenti universitari, ammalati, soggetti con problemi psichiatrici. Ci siamo resi conto che non esistono diritti certi. Tutto ciò che riguarda le regole e la sicurezza - nel suo aspetto più ossessivo, non in quello logico - diviene automatismo, mentre il Diritto, le garanzie costituzionali, le regole minime per il trattamento dei detenuti con le quali gli organismi internazionali tutelano l'integrità psico-fisica e la dignità dei detenuti, sono nei fatti oscurate, poiché si ritiene più conveniente riempire di antidepressivi piuttosto che riflettere e lavorare sulle cause ne determinano la necessità, sulla debolezza etica di certe leggi e delle pratiche che ne derivano e che ne fanno aumentare il vuoto di responsabilità. Chiediamo, dunque, alle SS.LL. di scongiurare il piano di trasferimento dei detenuti AS1 dal carcere di Padova. Chiediamo che la vostra attenzione possa tramutarsi in sensibilità civica, poiché voltar lo sguardo davanti all' inumanità di una pena così sofferta equivale a un ulteriore aggravio della pena stessa, ad un gravissimo smarrimento del diritto e delle idee di Giustizia ed Equità. Con profonda riconoscenza. Seguono le 27 firme di Antonio D.G., Domenico F., Giuseppe B., Vito M., Enzo D.B., Domenico T., Corrado F., Roberto R., Gianfranco R., Domenico M., Gioacchino N., Giovanni A., Ciro S., Giovanni M., Gaetano B., Andrea G., Antonio S., Luigi C., Antonio A., Antonio R., Salvatore B., Giuseppe P., Giovanni D., Ciro P., Aurelio C., Fioravanti B., Pietro V. Solidarietà fra le sbarre ad Adriano Sofri di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 25 giugno 2015 "Gli inglesi spedirono in Australia i condannati e si trovarono in cambio una nazione". (Tratto dalla Prefazione di Erri De Luca dal libro "Fuga dall'Assassino dei Sogni". Edizioni Erranti di Musumeci e Cosco). Riguardo agli Stati Generali sul carcere e sulla pena ho già scritto molto per chiedere un coinvolgimento attivo e sostanziale delle persone detenute nella discussione sulla legge penitenziaria. E sinceramente non ho intenzione di dire più nulla, consapevole che gli addetti ai lavori come sempre se la cantano e se la suonano da soli. Ero però contento che il Ministro Andrea Orlando, fra gli "esperti" per riformare il sistema penitenziario italiano, avesse chiamato Adriano Sofri (ex detenuto) che il carcere lo conosce meglio degli avvocati, dei magistrati, dei docenti universitari, degli operatori penitenziari, perché se lo è fatto. Le polemiche che sono uscite per la sua partecipazione all'interno degli Stati Generali sulla esecuzione della pena hanno convinto Adriano Sofri a rinunciare all'incarico. Ed io, detenuto condannato alla pena dell'ergastolo, o se preferite alla "Pena di Morte Viva" o "Nascosta" come la chiama Papa Francesco, ho deciso di trasmettergli la mia solidarietà. Adriano, le polemiche nate per la tua partecipazione agli Stati Generali sul carcere e sulla pena mi hanno fatto capire, se mai ce ne fosse stato bisogno, che non si finirà mai di scontare una pena neppure quando l'hai finita, perché per la stragrande maggioranza delle persone rimarremo (innocenti o colpevoli, non ha importanza) sempre gli uomini dei nostri reati. Credo che parte della società ci odi perché siamo lo specchio di una cattiva coscienza; e lo fa con vigliaccheria perché siamo inermi e scoperti, né si accontenta di farlo solo con noi detenuti ma lo fa anche con le nostre famiglie. Ci puniscono per tutti i mali della società. E chi non è forte e potente non può difendersi né, a causa delle distanze, incontrare i familiari perché lo Stato ci porta come pacchi, o meglio come anime morte, da una parte all'altra dell'Italia. Eppure i dati di ogni Stato affermano che non vi è alcuna correlazione tra inasprimento delle pene e riduzione dei reati. Penso che anche i più cattivi possano migliorare ogni volta che ne hanno occasione, ma che stando anni e anni in carcere senza speranza, migliorare sia impossibile. Credo che in uno Stato che pratica la giustizia i detenuti non siano irrecuperabili, perché è più difficile comportarsi male che bene. Penso che la legge meriti di essere definita tale solo a condizione che gli stessi servitori della legge vi ubbidiscano e forniscano personalmente esempi appropriati di un comportamento irreprensibile. Credo che l'istituzione penitenziaria debba nutrirsi di giustizia, adempierla, nel modo più scrupoloso possibile, farne umile professione e fedelmente metterla in pratica. Penso che punire, con esclusivo criterio remunerativo senza dare possibilità di rieducazione sia una crudeltà. Credo che il prigioniero abbia il diritto di "gridare" e di cercare di capire, anche gridando il suo disagio, per quali ragioni queste stesse leggi che lo hanno condannato, non vengano rispettate neppure in carcere. Penso che più è lunga la pena e più sia difficile l'inserimento, perché il carcere annulla, distrugge affetti, personalità, progetti, famiglia. E poi una volta fuori, si ritorna perché non si ha altra scelta. Credo che quando uno ha commesso un reato, quanto prima lo si fa uscire dal carcere, dopo un percorso rieducativo, meglio sia per tutti. Adriano, hai fatto bene a fare un passo indietro. Se si faranno gli Stati Generali sul carcere e sulla pena da soli, senza il coinvolgimento attivo dei detenuti (o ex detenuti) non capiranno mai che cosa sia una galera o come viva e cosa pensi un prigioniero; produrranno solo chiacchiere. E per fortuna che alcuni padri della nostra Carta costituzionale sono stati ex detenuti e hanno partecipato all'Assemblea Costituente portando tutta la loro conoscenza delle galere. Un sorriso fra le sbarre. Caso Sofri, se "l'opportunità" ha vinto sullo stato di diritto di Emilia Rossi Il Garantista, 25 giugno 2015 C'è una parola che nel nostro Paese fa a pugni da sempre con lo stato di diritto e i suoi principi: Opportunità. L'Opportunità se ne fa un baffo del rispetto delle regole, del loro valore e anche, talvolta, della loro sacralità: sta in piedi più in alto, le prende a sberle e, manco a dirlo, vince sempre, pur nella sua mutevolezza, s'intende. Che quello che è opportuno oggi non è detto sia lo stesso domani. Così è accaduto con il caso Sofri, con la puntata più recente del suo caso, ovviamente: l'invito a partecipare come esperto della situazione delle carceri italiane ad uno dei tavoli di discussione degli Stati Generali sull'esecuzione della pena, istituiti dal Ministro Orlando con lo specifico obiettivo di studiare il mondo carcerario e provare, chissà, a renderlo meno indecente di quello che è. Non si trattava di un incarico di consulenza e tantomeno di una nomina in un organismo di potere: non importa, tanto è bastato perché si sollevasse una polemica virulenta in nome, appunto, dell'Opportunità. Le competenze e l'esperienza di Adriano Sofri che, oltre al resto, il carcere l'ha conosciuto e "studiato" da detenuto e anche da libero, sono state travolte dal coro, aperto dal Sappe e prontamente intonato da mezzo mondo, con generosa trasversalità di ambienti culturali, professionali e politici, che ha bollato la scelta con il marchio dell'inaccettabilità (che è la sorella, in chiave sanzionatoria, dell'opportunità). Nelle ore (minuti?) trascorsi prima che lo sventurato rispondesse e motivasse il suo rifiuto, l'Opportunità ha giocato la sua partita con tutto l'armamentario di dietrologia politica, insinuazioni di favoritismo per il personaggio noto a discapito di mille altri che come lui e, anzi, per carità, mille volte più di lui avrebbero potuto essere scelti. Quasi che invece che di un invito a partecipare a un tavolo di discussione si trattasse di un concorso ad un posto pubblico per titoli ed esami. In realtà l'Opportunità voleva chiunque tranne lui, Adriano Sofri. Perché fare il suo nome significa riaprire ferite ancora aperte in un Paese che proprio non è in grado di chiudersele, le ferite, e magari di curarle e superarle. Significa riaprire un dibattito tra innocentisti e colpevolista che non si è mai risolto, significa ricordare una vicenda storica e processuale tormentata e contrastata che si preferisce non ricordare, significa, poi, scuotere di nuovo quelle coscienze che con il processo Sofri si sono lavate i peccati di simpatia verso i compagni che sbagliavano e vogliono rimanere in pace. L'Opportunità vince facile, va poi detto, in un Paese che ancora non concepisce il principio che il patto sociale va reintegrato quando chi l'ha violato ha pagato il suo debito. E non concepisce che su questo principio si regge tutto il sistema della pretesa punitiva dello Stato: perché il valore della pena e della sua esecuzione esistono soltanto se il loro effetto è la riabilitazione del condannato, la sua restituzione al circuito civile e sociale, in tutti i termini che la legge prevede e consente. Altrimenti alla pena legale scontata segue un'espiazione imperitura che fa del condannato un ladro, un assassino, un corruttore, un evasore a vita. E l'ergastolo civile e sociale non è proprio compatibile con uno stato di diritto e con il rispetto della garanzia che governa anche l'esecuzione della pena, mettendole termini di durata e obiettivi di risocializzazione. La strada dello stato di diritto è lastricata di inopportunità, evidentemente: lo tenga presente il ministro Orlando, come ha già fatto. E continui così. Casi Sofri, chi ha sbagliato ha il diritto-dovere di testimoniare il carcere di Mariano Ragusa Il Mattino, 25 giugno 2015 Dietro la coralità dell'indignazione sollevata dall'invito rivolto ad Adriano Sofri dal ministero della Giustizia per partecipare al tavolo di confronto sui problemi del carcere, ci sono motivazioni che appare improprio considerare omogenee. Vanno soprattutto distinte, nel tentativo di un sereno approccio alle questioni che la vicenda solleva, quelle espresse dalla famiglia del commissario Calabresi (per il cui omicidio Sofri è stato condannato a 22 anni) dal resto delle posizioni espresse dai sindacati di categoria e, da ultimo, dal leader della Lega Salvini. Il caso si potrebbe dire a ragione chiuso dallo stesso Sofri che ha rinunciato all'incarico volendosi tirar fuori - come ha scritto sul Foglio on line - dal "piccolo chiasso" e dalle "fesserie promozionali" sollevato dall'iniziativa ministeriale. Sopravvive al fatto, però, la polemica rivelativa, in profondità, di uno stato d'animo del Paese nei confronti del proprio passato e delle sue pagine più cupe e dolorose. È questo dolore che palpita nel cuore della vedova del commissario Calabresi che ha definito "incomprensibile" quella iniziativa. Colpita negli affetti più profondi, condannata ad una sofferenza per la morte del marito al culmine di una devastante campagna di odio nel buio degli anni di piombo, la vedova di Calabresi ha ragioni intangibili ed indiscutibili per manifestare indignazione. Convivere con la devastazione della vita, sua e della sua famiglia, iniziata quel tragico 17 maggio del 1972, per quanto lo si voglia razionalizzare, resta una ferita aperta che mantiene in allarme per sempre il ricordo e delinea una prospettiva diversa agli stessi sentimenti. E tuttavia, la vedova Calabresi, con la dignità e la forza d'animo, gli stessi che la sostennero quando abbracciò davanti al presidente Napolitano la vedova di Giuseppe Pinelli (l'anarchico morto precipitando dalla finestra della Questura di Milano, vicenda che portò Lotta Continua a condannare a morte il commissario), nel limitarsi a definire semplicemente "incomprensibile" l'incarico affidato a Sofri ha come voluto conservare nel privato quel dolore, isolarlo e preservarlo - dietro una parola che esprime stupore - dalla polemica che ne è scaturita. Di tutt'altro tono e natura, orientato a obiettivi più immediatamente politici, sono le parole di indignazione pronunciate dai sindacati di polizia. Ricordiamone alcune per provare a riflettere. "Scelta inspiegabile - scrive il Sappe - fatta per cercare una sua riabilitazione politica". Rincara la dose il Coisp: "Folle decisione di coinvolgere individui da tale passato, senza alcuna competenza specifica, fatta per attirare l'attenzione". Infine la Consap: "Scelta vergognosa" e "schiaffo alla memoria del commissario Calabresi". Il ministero di Giustizia ha chiarito che la presenza di Sofri al tavolo della iniziativa ("Cultura, istruzione, sport nel carcere") era legittimata dalla scelta di raccogliere opinioni, insieme a quelle di esperti, studiosi ed operatori, anche "delle persone detenute o che sono state definitivamente condannate". Le reazioni del sindacato, ancorché legittime, dimostrano probabilmente quanto opportuno era l'angolo di visuale scelto dal ministero della Giustizia per discutere su un questione centrale del nostro tempo: la funzione della pena, la sua finalità riabilitativa. Riflessione tutt'altro che accademica ma decisiva soprattutto per riconsiderare l'efficacia degli strumenti di repressione (in primis, il carcere) in un tempo in cui la sicurezza vacilla e il sentimento della paura e dell'incertezza domina le nostre società come un demone insinuante. Queste questioni si intrecciano, nel nuovo caso Sofri, alla tragedia di un passato oscurato dalla violenza politica, dalle stragi, dall'assassinio eletto a strumento di lotta politica. Un passato pesante che tuttavia non può venire "congelato" in una sospensione pronta però a sciogliersi quando ne ricorre l'utilità come strumento politico virato sulle battaglie dell'oggi. Il giudizio su quella tragica stagione che mise a rischio la tenuta della democrazia e la sacralità del valore della vita umana, è consolidato e condiviso nella coscienza pubblica del Paese. Appare irrazionale, se non addirittura ridicolo, immaginare "riabilitazioni politiche" dei suoi protagonisti negativi quando alle porte c'è la minaccia del terrorismo governato dall'Isis. La stagione degli anni di piombo è finita nelle coscienze del Paese prim'ancora che nella sconfitta sentenziata dalla storia. Aver giudicato (anche in sede penale) non vuol dire dimenticare ma neanche rimuovere il peso di quella follia. La costruzione della memoria di una comunità, di un Paese, di un popolo, è lavoro interminabile. Un cantiere che deve restare perennemente aperto ma ancorato a una doppia certezza. La prima: non concedere alibi che un multiforme negazionismo è sempre pronto ad offrire. La seconda: nessun cedimento a giustificazionismi attraverso la scorciatoia del relativismo. In quella stagione c'era una parte giusta e una sbagliata. Sofri, nella deriva della sinistra extraparlamentare approdata alla barbarie dell'omicidio Calabresi, presidiava quest'ultima. Dubbi non possono esserci. E tuttavia le voci, i pensieri, le riflessioni che da quella "parte sbagliata" possono manifestarsi, vanno accolte come lievito per rendere sempre più forte la nostra democrazia. Quella "parte sbagliata" può raccontare al Paese quale efficacia hanno le legittime strategie di controllo dell'illegalità adottate dallo Stato, per adeguarne il tiro e renderle più stringenti. Quella "parte sbagliata" può diventare lo specchio rovesciato nel quale la nostra democrazia riesce a cogliere e recuperare i suoi punti di debolezza, gli snodi del possibile collasso. L'ascolto non è né riabilitazione né rimozione. E va da se che interlocutori, in questo confronto, si diventa con una legittimazione conquistata alla luce di un percorso credibile di scelte e comportamenti. La differenza resta netta. E guai a stingere i confini e diluire le distanze. Sofri "consulente" del ministero come "condannato in via definitiva" avrebbe rappresentato una possibilità in più per capire. La sua non sarebbe stata - né doveva essere - la cattedra del maestro che dispensa lezioni e buoni consigli - verrebbe da dire evocando De Andre - non potendo più dare cattivi esempi. Tutt'altro. Il punto, in definitiva, è il significato che una società dà alla sanzione penale. Se cioè debba essere lo stigma definitivo ed irreversibile che edifica spazi di apartheid etiche. O la scena nella quale una comunità misura il suo rapporto con il "male" e la possibilità di saperlo dominare e vincere. Le polemiche su Adriano Sofri sono un'occasione persa di Antonio Barone huffingtonpost.it, 25 giugno 2015 Giustizia o ingiustizia? È complicato stabilire a quale di queste due categorie appartenga la polemica esplosa su Adriano Sofri che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aveva invitato, in qualità di esperto, agli Stati generali dell'esecuzione penale. Lo dico subito e a scanso di equivoci. Non è mia intenzione polemizzare con la famiglia Calabresi, con la vedova Gemma e il figlio Mario, che, come tutte le vittime hanno e avranno sempre il diritto a manifestare il proprio dolore nelle forme e con gli argomenti che riterranno più opportuni. Né è mia intenzione dibattere sulla colpevolezza o l'innocenza di Adriano Sofri, sulle quali si è già espressa la magistratura con una sentenza di condanna definitiva. Il punto non è se Adriano Sofri sia colpevole o meno ma se possa o no dare il proprio contributo ad un'iniziativa governativa che dovrebbe indagare sull'universo carcerario, sulle sofferenze e sul malessere che ad esso sono immanenti. È lecito che agli Stati generali dell'esecuzione penale si racconti il dolore intimo di chi deve pagare i propri errori attraverso il carcere? È lecito che nella discussione sulle carceri italiane, più volte oggetto di ammonimenti e condanne da parte della giustizia europea a causa della loro disumanità latente, si possano rappresentare anche gli stati d'animo di chi vive privato della libertà e che, seppur colpevole, è, e resta, sempre una persona? La scelta del ministro Orlando di chiedere un contributo a Sofri rispetto all'assise del mondo carcerario rispondeva in modo implicito e intelligente a queste domande, cercando al tempo stesso di trasmettere un messaggio di positività per chi il mondo lo guarda dall'altro lato delle sbarre, da dove, spesso, l'orizzonte della riabilitazione assume le forme sbiadite del miraggio e i tempi irraggiungibili del mai. Una percentuale, resa nota dal centro studi Ristretti Orizzonti, aiuta a comprendere di cosa si parla: "nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere". Questo dato descrive in maniera precisa come la prima vittima della detenzione nelle carceri italiane sia la speranza che con grande facilità cede il passo alla cupa disperazione e, spesso, al suicidio. Gli Stati generali dell'esecuzione penale, senza la capacità di tradurre numeri e percentuali, in esperienze e sensazioni, sarebbero un esercizio per addetti ai lavori, un convegno ricco di report ma incapace di indagare il fenomeno carcerario nella sua complessità: complessità che è impossibile comprendere se non si analizza anche la prospettiva di chi sta "dentro". Adriano Sofri avrebbe potuto, attraverso la sua esperienza, sintetizzare con precisione proprio quegli stati d'animo che prova chi, mentre sconta la propria pena, rischia di smarrire, per fattori psicologici o materiali, la propria umanità. Chi ha stima di Adriano Sofri (e io sono tra quelli) non pensa affatto agli anni settanta e al retaggio di un periodo storico in cui violenza e politica si sono ibridati pericolosamente ma alla profondità di Altri Hotel o al racconto della tragedia di Sarajevo, vergogna che galleggia tra l'incoscienza e la rimozione nella storia di quell'Europa che allora come oggi, paralizzata dal bug di un burocratico immobilismo, è incapace di intervenire per fermare le tragedie che le divampano sotto il naso. La polemica su Adriano Sofri esplicita una visione preoccupante degli istituti di pena, quella di chi li considera una discarica di umanità irrecuperabile che non potrà mai più dare un contributo alla società, nonostante l'espiazione della pena. Una visione da cui, purtroppo, non si è discostato nemmeno il Sappe, Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria che, per primo, ha innescato la polemica. Sarebbe stato nel loro interesse avere un punto di vista da parte di chi ha dovuto vivere una parte della propria vita dall'altro lato delle sbarre: al confronto hanno preferito la strada della semplificazione assegnando implicite etichette di moralità. Semplificazione per semplificazione sarebbe facile dire che il Sappe ha scelto di ridurre la propria categoria al ruolo di "secondini". Sui politici che hanno alimentato la polemica montando un vero e proprio caso è inutile soffermarsi: sono il prodotto del nostro tempo, il risultato dell'ignoranza di lotta e di governo che ormai ha sostituito l'analisi e lo studio dei fenomeni e, spesso, anche il buon senso. D'altronde come si può dare peso alle patenti di "dignità" rilasciate da chi non è stato capace di condannare con la dovuta fermezza le torture avvenute al G8 di Genova e che, anzi, senza scomporsi di un millimetro è riuscito addirittura a giustificare le azioni di chi si è spinto fino a violentare la Costituzione? Caso Sofri, la riforma carceraria non vuole "passerelle" di Barbara Alessandrini L'Opinione, 25 giugno 2015 Alla fine Adriano Sofri ha rinunciato all'incarico che gli era stato offerto dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Lo ha fatto con la consueta aria di sufficienza definendo fesserie le polemiche che l'iniziativa del Governo aveva acceso. Ma lo ha fatto. In ogni caso ha compiuto un gesto di buon senso che chiude una fortunatamente breve vicenda nata male e su cui si è consumato un inutile quanto ottuso scontro da opposte tifoserie. Ottuso perché agganciato al travisamento del significato dei termini giustizialismo e garantismo, ormai usati spessissimo in modo strumentale. Chi parla di giustizialismo feroce a proposito delle libere obiezioni di coloro che non hanno accolto con sommo e prono entusiasmo la decisione di Orlando di cooptare Sofri a discutere della riforma delle carceri, ha dato infatti prova di come l'antinomia "garantismo-giustizialismo" sia diventato un facile monolitico totem lessicale e concettuale, privo di sfaccettature che finisce per schiantarsi, fino a tramortirlo, sul pensiero vigile e sul senso della realtà. Un lavacro in cui sciacquarsi bocca e mente e acquietare la propria coscienza sotto l'ala di una delle due tifoserie senza esercitare il sacro beneficio del dubbio e della funzione critica, in quella scomodissima e solitaria zona franca che i liberali definiscono "altrove". Fermo restando la perenne pulsione forcaiola di una parte dell'opinione pubblica scandalizzata per la decisione di far parlare di riforma penitenziaria un assassino che ha scontato la sua pena e che è poi sempre la stessa che guarda come ad un ansiolitico l'innalzamento delle pene o vorrebbe "gettare la chiave" delle celle che ospitano i detenuti, il garantismo e il giustizialismo sono categorie valoriali che nulla hanno a che vedere con l'iniziale decisione del ministro né con le legittime perplessità di chi si è domandato perché far ricadere la scelta proprio su Sofri. Garantismo, sarebbe bene ripeterlo fino allo sfinimento, come non corrisponde a impunità, non significa rinunciare al proprio diritto, se determinate scelte siano o meno opportune. E la decisione del ministro di chiamare Sofri ha rappresentato semplicemente una scelta inopportuna. Perché ha confermato la vocazione di una certa sinistra a celebrare autoreferenzialissimi rituali-passerella in cui cooptare i soliti esponenti dei circoletti buoni nelle occasioni di politica pubblica. Nel caso di Sofri della frateria Ferrara-Sofri-Bignardi. È un problema culturale, di opportunità. Soprattutto considerando che moltissimi altri ex detenuti, nel frattempo magari si sono anche laureati in carcere o hanno intrapreso importanti e vincenti percorsi riabilitativi e che potrebbero dare il loro preziosissimo contributo all'elaborazione di un importante processo di rinnovamento come quello inaugurato dagli Stati generali delle carceri. Certo, se solo si superasse quell'handicap che non li vede appartenenti a fraterie di sorta. La vicenda si è chiusa nell'arco di ventiquattro ore ma vale la pena soffermarsi su un aspetto di sostanza che resta sul tavolo. Ritenere giusto appuntare un nome come quello di Sofri all'occhiello del sacrosanto percorso cui tutti i garantisti autentici guardano con fiducia affinché si giunga ad una riforma del sistema di esecuzione della pena, francamente avremmo voluto che si fosse evitato. Anche perché, in ultimo, conferma che la legge per certa sinistra si applica per i nemici e si interpreta per gli amici. Non è il garantismo ad esser chiamato in causa, ma il garantismo peloso sì. E torna ad imporsi la differenza tra liberali autentici e liberali fasulli. Caso Sofri, il ministro Orlando è stato poco accorto di Francesco Damato Italia Oggi, 25 giugno 2015 Più ancora che lo scandalo denunciato dal sindacato della polizia penitenziaria, con tanto di critiche al ministro della Giustizia e di appello al capo dello Stato per un intervento di dissuasione resosi poi inutile, si potrebbe considerare una beffa la rapida comparsa e scomparsa di Adriano Sofri dagli "Stati generali - udite, udite - dell'esecuzione penale". Che è un modo alquanto enfatico di chiamare i lavori preparatori dell'ennesima riforma carceraria, con la quale il giovane Guardasigilli Andrea Orlando spera forse di stupire il mondo intero, e non solo il suo esigente e fantasioso presidente del Consiglio, prodigo pure lui di parole quando si pone degli obbiettivi salvifici e cerca di dare al pubblico l'impressione di averli a portata di mano. Si può pure capire che al ministro della Giustizia sia venuta l'idea di considerare un esperto di problemi penitenziari uno come Sofri, di cui è probabilmente assiduo lettore, e che le carceri ha avuto l'occasione di conoscerle davvero. Le conosce, non per averle visitate, ma per avervi vissuto qualche anno da detenuto: disposti dalla magistratura, al termine di un lunghissimo percorso processuale, come mandante dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi nel 1972, ma poco più o poco meno di sette, sin quando per serie ragioni di salute non gli fu concesso di scontare il resto della pena a casa, sino al 2012. Da allora, per fine pena appunto, egli è tornato ad essere un uomo libero a tutti gli effetti. Libero pure di essere consultato dal governo della Repubblica sul modo di migliorare l'esecuzione delle pene altrui. Quello che francamente si capisce meno, anzi non si capisce per niente, è il motivo per cui il Guardasigilli ha ritenuto di gestire la consulenza di Sofri così maldestramente da non offrigli scampo alla scelta di una rinuncia tanto orgogliosa quanto paradossale di fronte alle proteste che non era certo difficile immaginare, una volta che la cosa fosse diventata di pubblico dominio. Proteste liquidate dall'interessato come "fesserie", capaci tuttavia di caricare la sua prestazione di un "peso deformante di improprie letture". Sono bastate così al povero Sofri una sola telefonata di lavoro, come lui stesso ha precisato, a "un autorevole giurista" e "l'adesione - sono sempre sue parole - ad una eventuale riunione" perché esplodesse una mezza rivolta. Di fronte alla quale il ministro ha ritenuto di difendersi, e difenderlo, non vantando la reale e ormai conclusa esperienza penitenziaria di Sofri ma assicurando la completa gratuità della sua consulenza, senza i compensi, i gettoni e le trasferte previste o denunciate dai critici. Ed ora il povero Orlando (povero anche lui, sì) deve fornire i suoi "chiarimenti" anche alla vedova di Luigi Calabresi e al figlio Mario, direttore della Stampa, entrambi intervenuti nelle polemiche per condividerle. Eppure a Mario Calabresi era capitato negli anni scorsi di condividere con Sofri non dico allegramente, ma almeno pazientemente la firma su un giornale di grande diffusione come La Repubblica, peraltro prima che lo stesso Sofri avesse finito di scontare, fra carcere e casa, la pena procuratagli dal barbaro assassinio del papà commissario. Che era stato ripetutamente e ignobilmente indicato alla gogna da titoli e articoli di Lotta Continua come il responsabile della morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, fermato e interrogato nella Questura di Milano dopo la strage del 1969 nei locali ambrosiani della Banca Nazionale dell'Agricoltura. L'aspetto più buffo di questa vicenda sta nel fatto che Sofri abbia dovuto rinunciare, in uno dei diciotto "tavoli" nei quali si articoleranno gli "Stati generali" della riforma carceraria, particolarmente in quello dell'istruzione, della cultura e dello sport, alla maggiore e reale competenza guadagnatasi, come detenuto, dopo quella sfortunata di direttore di Lotta Continua: sfortunata per le drammatiche complicazioni che gliene sarebbero derivate. Unione delle Camere penali italiane: grave rinuncia Sofri per Stati generali Agi, 25 giugno 2015 "Preoccupazione" per le contestazioni mosse alla nomina di Adriano Sofri a coordinatore del tavolo "Istruzione, cultura e sport" degli Stati Generali sull'esecuzione penale. A manifestarla è l'Unione delle Camere penali italiane, con il proprio "Osservatorio Carcere", sottolineando che la rinuncia di Sofri all'incarico "rappresenta una grave perdita per i lavori degli Stati Generali, che dovranno tenere conto di quanto accaduto e far comprendere qual è il vero senso della pena". I penalisti rilevano infatti che "il dibattito pubblico che s'intende finalmente promuovere sulla detenzione in Italia non può fare a meno delle voci di coloro che sono stati effettivamente ristretti in carcere. La scelta di Adriano Sofri, che ricordiamo è da tutti riconosciuto, al di là delle idee manifestate, come giornalista e scrittore, va condivisa perché, negli anni del carcere, egli ha continuato a collaborare con importanti testate giornalistiche e a scrivere libri. Chi meglio di lui potrebbe dare un contributo effettivo e concreto, alla luce della sua lunga esperienza detentiva? Gli Stati Generali - osserva l'Ucpi - dovrebbero rappresentare un momento di riflessione collettiva per la vera innovazione del sistema penitenziario, come ci è stato chiesto dall'Unione Europea e chi oggi esprime giudizi, chiedendo la condanna a morte del pensiero di un uomo di cultura, ritenendo che egli, addirittura dopo aver scontato la pena, non possa esprimere le sue idee e contribuire a questo rinnovamento, è in aperto contrasto con la strada che s'intende percorrere". La "rivoluzione culturale" in materia di esecuzione a cui ha fatto riferimento il ministro Andrea Orlando, concludono i penalisti, "ha molti nemici, ma chi li combatte sa di essere dalla parte giusta, quella della Costituzione, della Legge, dell'Europa intera". Giustizia: suicidi e Opg, nelle carceri va sempre peggio di Valter Vecellio L'Indro, 25 giugno 2015 Regioni senza Rems verso il commissariamento? che potrebbe non risolvere il problema di una legge mal fatta. Suicidi in carcere: la domanda è questa: perché, nonostante tutti gli sforzi, effettivi o promessi; nonostante l'indubbio impegno di tanti agenti della Polizia penitenziaria e della comunità penitenziaria in genere, perché il numero di suicidi o tentati suicidi tra i detenuti italiani è sempre più in aumento? Nelle prigioni italiane si registra un tasso di suicidi 20 volte maggiore rispetto a quello della popolazione libera. Secondo le stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità viene commesso un tentativo di suicidio circa ogni tre secondi, ed un suicidio completato ogni minuto. Nelle carceri poi, si registrano numeri maggiori sempre in aumento, rispetto a quelli della comunità circostante. Il sovraffollamento delle carceri non si arresta, calano le forze di Polizia penitenziaria, e questa bomba a orologeria esplode tra i detenuti sotto forma di suicidio. Eccetto per una leggera flessione registrata nel 2013, quando i detenuti suicidi furono il 30 per cento, i dati sono allarmanti. Nelle carceri italiane si registra un tasso di suicidi 20 volte maggiore rispetto a quello della popolazione libera. Nel corso di questi ultimi dodici anni sono avvenuti complessivamente 692 suicidi, più di un terzo di tutti i decessi avvenuti in carcere. Nel 2012 i detenuti hanno raggiunto i 7.317 atti di autolesionismo e 1.308 tentativi di suicidio. Le morti sono state complessivamente 154, 60 per suicidio, con una più elevata frequenza tra le persone più giovani. Ospedali Psichiatrici Giudiziari: 31 marzo scorso: a partire da quel giorno gli Opg sarebbero dovuti sparire. Una promessa e un annuncio dato con molta enfasi, l'evento storico. Fine di una pagina spesso drammatica del sistema penale del nostro Paese. A che punto siamo? La realtà è ben diversa da quella auspicata. Gli Opg non si sono affatto svuotati. In Campania attualmente sono presenti 122 internati, 67 ad Aversa, 55 a Secondigliano. Di questi circa la metà sono campani, gli altri provengono da altre regioni. Le Residenze per l'Esecuzione delle Misure di Sicurezza che avrebbero dovuto sostituire gli OPG, non sono ancora pronte. In Campania ne sono previste due: a Calvi Risorta, e S. Nicola la Baronia, 20 posti ciascuna. Se tutto andrà come si spera saranno completate entro l'estate, le prime funzionanti a livello nazionale. Sono state individuate tre Rems provvisorie: 38 posti letto, solo due sono aperte. Finito l'effetto annuncio, si deve prendere atto che non si è pronti. La legge 81 del 2014 che definisce la chiusura degli Opg, rileva evidenti limiti che non si sono voluti vedere, ma che fin dal primo momento erano chiarissimi: per esempio si prevede il commissariamento per le Regioni inadempienti. Con questo provvedimento, del resto non attuato pur talvolta essendoci le condizioni, il commissario dovrebbe predisporre in un tempo ragionevole i piani per la definizione delle Rems e riorganizzare i Dipartimenti di Salute Mentale, avviando nel contempo i progetti terapeutici individuali. Ma ecco emergere un'altra criticità: la difficoltà di prendere in carico i pazienti più problematici, gli internati rimasti in OPG, e quelli per cui fallisce la licenza finale di esperimento. Le incognite sul futuro, comunque, riguardano soprattutto i nuovi ingressi che nel frattempo continuano ad essere predisposti nelle Rems, con un intasamento che nei prossimi mesi diventerà ingestibile. Al di là dello specifico caso campano, almeno 300 persone restano rinchiuse nei cinque Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, e quasi 250 persone sono rinchiuse nell'OPG di Castiglione delle Stiviere. Nelle otto Rems sinora attivate nelle altre regioni vi sono meno di 100 persone. È la denuncia del Comitato StopOpg. Il comitato chiede che le regioni che non hanno ancora accolto i loro pazienti siano immediatamente commissariate, "per assicurare le dimissioni e il trasferimento delle persone internate. Il Commissariamento è indispensabile per superare i ritardi nella chiusura degli Opg e per l'attuazione integrale della Legge 81/2014; misure e progetti che il Ministero della Salute è tenuto a monitorare e a sollecitare". Giustizia: è caos sulla chiusura degli Opg, Governo pronto a commissariare le Regioni Adnkronos, 25 giugno 2015 Il 31 marzo 2015 avrebbero dovuto lasciare gli Ospedali psichiatrici giudiziari ed essere trasferite nelle Rems, Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza. Ma a più di due mesi dalla decisione del governo di non concedere più proroghe per la chiusura delle strutture, secondo i dati forniti all'Adnkronos dal ministero della Salute, ci sono ancora almeno 300 persone che restano rinchiuse nei 5 Opg "superstiti" sul territorio nazionale: Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia. Altre 225 persone si trovano nella Rems di Castiglione delle Stiviere (struttura quest'ultima convertita da Opg a gestione sanitaria in Rems, con 160 posti letto, tanto che la Regione ha comunicato che non accetterà ulteriori pazienti), mentre nelle 8 Rems sinora attivate nelle altre regioni ci sono meno di 100 persone in totale. Dal Veneto al Piemonte, sono diverse le Regioni ancora indietro sulla tabella di marcia. E il governo sta valutando il commissariamento di quelle inadempienti, che non hanno rispettato il cronoprogramma concordato per la realizzazione delle Rems, le strutture destinate a ospitare tutti i pazienti dimessi dagli Opg e per le quali sono stati messi a disposizione delle Regioni 173 milioni di euro, solo in parte utilizzati. "I ministeri competenti, della Salute e della Giustizia, stanno valutando se intervenire con il commissariamento, strumento previsto dalla legge", dice all'Adnkronos il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo, presidente dell'Organismo di Coordinamento del processo di superamento degli Opg. Si tratterebbe di un unico commissario nazionale per le Regioni ritenute in difetto. "Siamo sicuramente preoccupati da questi ritardi - prosegue De Filippo - Non a caso l'organismo di coordinamento che era previsto dalla norma e che doveva concludere le sue attività dal primo di aprile continua a riunirsi ogni 15 giorni per mantenere sotto controllo l'attività di superamento degli Opg". "Sin dall'inizio abbiamo detto che non si sarebbe trattato di un trasferimento simultaneo dei pazienti, perché per ogni singola persona è necessaria un'autorizzazione dell'autorità giudiziaria e una valutazione clinica e terapeutica, quindi era chiaro che il processo avrebbe richiesto qualche settimana o mese", precisa il Sottosegretario De Filippo. "Il problema è rispettare il cronoprogramma - sottolinea - Va detto che c'è una casistica diversa, perché ci sono casi nei quali le Regioni non lo hanno rispettato perché i Comuni dove era stato individuato il luogo per le Rems hanno fatto ricorso per diversi motivi ai tribunali amministrativi i quali hanno accolto in alcuni casi il ricorso e disposto quindi le sospensive. In altri casi oggettivamente ci sono ritardi rispetto al piano che era stato comunicato dalle Regioni il 15 marzo 2015". Ma cos'è che non ha funzionato nell'applicazione della Legge 81/2014, che prevede il superamento dell'Opg? Secondo StopOpg, che il 17 giugno, presso il ministero della Salute, ha partecipato a un incontro con il sottosegretario De Filippo, "i ritardi e le incongruenze nella chiusura degli Opg e nell'attuazione della legge 81/2014 sono certamente dovuti a inadempienze di alcune Regioni, che abbiamo chiesto siano commissariate". "Ma richiamiamo il ruolo e la necessaria collaborazione, della magistratura, nel dare attuazione alla nuova legislazione", prosegue. Il comitato promotore ha anche lanciato un appello, che vede già centinaia di firmatari in tutta Italia, "per chiudere davvero gli ospedali psichiatrici giudiziari" e per chiedere "più servizi per la salute mentale e non Rems". "Il governo faccia pure la sua parte". Così Sergio Chiamparino, presidente dimissionario della Conferenza delle Regioni, commenta all'Adnkronos il commissariamento che il governo sta valutando per le Regioni inadempienti sulla chiusura degli Opg. L'argomento, in ogni caso, fa sapere Chiamparino, sarà oggetto di approfondimento da parte dei governatori che domani a Roma si riuniranno sulla questione dei profughi. "In questa vicenda la Regione Veneto non è inadempiente - è la replica del presidente della Regione del Veneto Luca Zaia - Se c'è qualcuno da commissariare è il Governo pasticcione, che avrebbe dovuto occuparsene fin dal 2012, e che si è ben guardato dal farlo sino al marzo scorso, quando sono stati resi effettivamente disponibili i promessi finanziamenti nazionali per realizzare le necessarie strutture. Ora si vogliono nominare commissari per fare la stessa cosa che con gli immigrati: inventare soluzioni raffazzonate e irrispettose prima di tutto della dignità delle persone e poi dei territori e dei cittadini residenti per coprire inefficienze, sottovalutazioni e mancati finanziamenti da parte di Roma". Giustizia: chiusura degli Opg; dal Piemonte alla Sardegna, a che punto stanno le Regioni Adnkronos, 25 giugno 2015 Tra inadempienze e ricorsi al Tar, sono diverse ancora le Regioni indietro sulla tabella di marcia per la realizzazione delle Rems, Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza che avrebbero dovuto sostituire gli Opg dopo la decisione del governo di non concedere più proroghe alla scadenza del 31 marzo 2015 per la chiusura delle strutture. Secondo quanto reso noto all'Adnkronos dal sottosegretario del ministero della Salute, Vito De Filippo, ecco qual è la situazione complessiva delle Rems aggiornata al 22 giugno 2015. Piemonte: Permane una situazione critica sia per i nuovi ingressi sia perché le Rems provvisorie saranno probabilmente attive dal 1° settembre 2015. Per la fase transitoria sono previsti 35 posti letto. Si resta sempre in attesa dei documenti relativi alla rimodulazione del programma con l'identificazione delle strutture definitive e dei posti letto. Lombardia: È attiva la struttura di Castiglione delle Stiviere per 160 posti letto. Tuttavia, si trova ad avere 225 pazienti. Pertanto, la Regione ha comunicato che la struttura non accetterà ulteriori pazienti e l'impossibilità di mantenere adeguati livelli di sicurezza. Nella fase definitiva a Castiglione saranno attivi 120 posti letto e nella Rems che sarà realizzata a Limbiate 40 posti letto. Si resta sempre in attesa dei documenti relativi alla rimodulazione del programma per l'utilizzo delle risorse residue. Trento e Bolzano: Dal 1° luglio dovrebbero essere attivati nel polo di Pergine 4 posti letto ad alta vigilanza e successivamente dal 1° agosto altri 5 posti letto da rendere disponibili per la Provincia Autonoma di Bolzano. Veneto: La Regione ha stipulato convenzioni con la regione Lombardia per il pagamento delle rette dei pazienti ospitati a Castiglione delle Stiviere. Per quanto riguarda ulteriori soluzioni per la presa in carico anche dei nuovi ingressi, a tutt'oggi non è pervenuta alcuna comunicazione in merito. La struttura definitiva sarà situata a Nogara con 40 posti letto. Friuli Venezia Giulia: Per la fase transitoria è stata prevista al 4 maggio 2015 l'attivazione di 4 posti letto nelle strutture di Aurisina e Maniago. I 10 posti letto definitivi saranno realizzati sempre nelle strutture su indicate (nella fase transitoria vengono attivati i primi 4 posti letto). Liguria: La Regione ha sottoscritto per la fase transitoria un accordo con la Regione Lombardia per 10 posti letto. La Rems definitiva di 20 posti letto a Calice al Cornoviglio (Sp) è in corso di realizzazione. Emilia Romagna: Per la fase transitoria sono stati attivati 24 posti letto nelle strutture di Casa degli Svizzeri (Bo) e Casale di mezzani (Pr). La Rems definitiva di 40 p.l. sarà realizzata a Reggio Emilia. Toscana - Umbria: La Regione ha trasmesso formalmente la richiesta di rimodulazione del programma con i relativi atti. Gli Uffici competenti delle Direzioni Generali della Programmazione e della Prevenzione hanno espresso parere favorevole su detto programma ed è in corso di formalizzazione la nota che autorizza la Regione ad avviare la realizzazione degli interventi, nelle more dell'adozione del Decreto di assegnazione. Per la fase transitoria è prevista l'attivazione entro il 1° agosto 2015 di 22 posti letto a Volterra. Nella fase definitiva sempre a Volterra la Rems sarà di 40 posti letto. Marche: Per la fase transitoria è attiva dal 22 giugno in località Molino Giovanetti-Montegrimano Terme (Pu) una struttura di 16 posti letto. La Rems definitiva di 20 posti letto nel Comune di Fossombrone è in corso di realizzazione. Lazio: La Regione ha previsto 4 Rems provvisorie, è attiva la Rems di Pontecorvo per 11 posti letto. Per la Rems di: Subiaco di 20 posti letto l'attivazione è prevista per il 1° luglio, Ceccano di 40 posti letto l'attivazione è prevista per il 30 luglio, Palombara Sabina di 40 posti letto l'attivazione è prevista per il 1° agosto. Sono previste tre Rems definitive per complessivi 91 posti letto nei Comuni di Subiaco, Ceccano e Rieti. Abruzzo e Molise: L'Ufficio legislativo su segnalazione dell'Avvocatura Generale dello Stato fa presente che l'ordinanza del Tar Abruzzo con la quale è stata disposta una "verificazione (all'uopo, demandando al ministro della Giustizia la più sollecita individuazione di una commissione di tre membri, composta da un membro esperto del Ministero della Giustizia, da un membro esperto del Ministero della Salute e da altro tecnico del settore) in ordine alla "effettiva idoneità del progetto approvato dalla Asl resistente a garantire l'assoluta autonomia dei locali destinati a Rems rispetto all'utilizzo attuale della struttura sanitaria e in conformità ai requisiti strutturali e funzionali fissati per le Rems". L'ordinanza, sebbene abbia un contenuto istruttorio, si traduce, di fatto, in una sospensione, sebbene a tempo (ovvero fino alla prossima camera di consiglio fissata per il mese di settembre), del provvedimento commissariale e del successivo provvedimento dell'Azienda sanitaria di individuazione della struttura da adibire a Rems. La Rems definitiva di 20 posti letto è prevista nel Comune di Ripa Teatina. Campania: Sono attive la Rems provvisorie di Mondragone con 8 posti letto e la Rems di Roccaromana con 20 posti letto. Dovrebbe essere attivata per il 30 giugno la Rems definitiva di San Nicola Baronia per 20 posti letto, mentre l'atra Rems definitiva di 20 posti letto di Calvi Risorta dovrebbe essere attivata per il 31 agosto. Puglia: In relazione al ricorso del Comune di Spinazzola al Tar circa l'attivazione della Rems, la Regione, nota del 10 giugno scorso, comunica che la Magistratura ha rinviato l'udienza al 2 luglio e chiede la valutazione da parte dei ministeri Salute e Giustizia, citati nel ricorso dell'Amministrazione comunale, di costituirsi in giudizio a supporto del programma deliberato dalla Regione e approvato con Dm 30 aprile 2015. Sono previste due Rems definitive a Carovigno e Spinazzola per complessivi 38 posti letto. Basilicata: È attiva la Rems definitiva di Tinchi per 10 posti letto (di cui in via provvisoria 5 posti letto per Regione Calabria). Calabria: Convenzione per 5 posti letto con la Regione Basilicata. È prevista l'attivazione, senza indicazione della data, della Rems provvisoria a Santa Sofia D'Epiro per 20 posti letto. È prevista una Rems definitiva a Girifalco di 40 posti letto. Sicilia: Sono attive le Rems provvisorie di Naso per 20 posti letto e di Caltagirone per 20 posti letto. È prevista la realizzazione di tre Rems definitive per complessivi 80 posti letto a Caltagirone, Caltanissetta e Naso. Sardegna: La Regione ha previsto una Rems provvisoria a Capoterra (Ca) per 16 posti letto, la data di attivazione era prevista per il 18 maggio scorso. Giustizia: sono ancora 340 gli internati negli Opg, serve più impegno da Regioni su Rems ilfarmacistaonline.it, 25 giugno 2015 Il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo è intervenuto ieri mattina in commissione Igiene e Sanità al Senato. Sottolineato come la mancata apertura delle strutture provvisorie in diverse Regioni abbia dato vita ad assegnazioni temporanee di pazienti fuori bacino, con ripercussioni sulla sicurezza delle strutture esistenti. Governo deciso a intervenire "in tutti i modi consentiti dalla legge per sopperire all'operato delle Regioni e delle amministrazioni che non rispetteranno gli adempimenti" "Alla data del 22 giugno 2015, gli internati presenti nei sei Oog del territorio nazionale risultano 341: molto è stato quindi fatto, se si pensa che tre anni fa gli internati erano circa duemila". Lo ha sottolineato questa mattina il sottosegretario alla Salute, Vito De Filippo, intervenendo in commissione Igiene e Sanità al Senato per fare il punto sull'esecuzione della normativa per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari. De Filippo ha osservato che la prospettiva della legge 81 "non sembra ancora oggi di facile attuazione: appare necessaria in primo luogo una maturazione delle diverse istituzioni coinvolte in un campo delicatissimo, che richiede il bilanciamento di diritti essenziali di alcuni cittadini in situazione di infermità anche grave e la tutela della sicurezza collettiva. Chi ha voluto in questi mesi fare opera di allarmismo - ha sottolineato - ha determinato un indebito slittamento tra i due fuochi su un'ellisse che abbraccia, nell'intento del legislatore e prima ancora nel quadro delle garanzie costituzionali, due prospettive: la sicurezza dei cittadini e il benessere dei pazienti psichiatrici". Il sottosegretario, nel corso della sua audizione, ha rilevato che le Rems sin qui attivate "non hanno sufficiente capacità ricettiva per accogliere i pazienti che devono essere trasferiti dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari verso le nuove strutture previste dalla legge, né sono in grado di accogliere i pazienti provenienti dalla libertà nei confronti dei quali l'Autorità Giudiziaria abbia disposto l'applicazione della misura di sicurezza detentiva: a seguito di comunicazioni del Dap, è emerso che le Rems di Pisticci (Basilicata), di Pontecorvo (Lazio per le donne internate), di Bologna e Parma (Emilia Romagna) hanno raggiunto la capienza massima. Inoltre, le Rems provvisorie di Castiglione delle Stiviere, che dovrebbero accogliere i pazienti residenti nella regione Lombardia e i pazienti residenti nella regione Liguria, accolgono ora pazienti residenti in altre Regioni, che non hanno ancora attivato nel loro territorio alcuna Rems. Peraltro, per i pazienti residenti nella regione Liguria i 10 posti letto, previsti dalla apposita Convenzione stipulata con la regione Lombardia, sono insufficienti per accogliere tutti i ricoverati, ancora ospitati negli Opg di Montelupo Fiorentino e di Napoli Secondigliano Reparto Verde". De Filippo ha inoltre riferito che il Ministero della Giustizia si è "più volte pronunciato nel senso di un incremento nella programmazione dei posti per le Rems sui vari territori regionali. Se i dati relativi ai nuovi ingressi si dovessero confermare e si dovesse confermare stabilmente l'incremento delle persone destinatarie di misure di sicurezza - soggiunge - sarà necessario aggiornare la programmazione delle Rems: questo per garantire gli standard essenziali di benessere e limitare al massimo gli spostamenti da una Regione all'altra, nel rispetto del principio di prossimità alle famiglie del luogo di cura e custodia". La mancata apertura delle strutture provvisorie in diverse Regioni, ha costretto il Dap a realizzare assegnazioni temporanee fuori bacino di pazienti nell'ambito più prossimo e nelle Regioni più disponibili, quali la Lombardia e l'Emilia Romagna, per poi trasferirli di nuovo nella Regione di residenza. "Questo iter ha provocato delle difficoltà e ripercussioni sulla sicurezza delle strutture esistenti, in particolare per la Lombardia, che non potrà più accettare alcun paziente fuori bacino, avendo già la struttura di Castiglione superato di molto la propria capienza - ha spiegato. Questa prassi deve essere quanto prima interrotta, per tutelare il benessere delle persone, che sarebbe gravemente compromesso da questi continui spostamenti: non è solo questione di budget, di cui pure ampiamente si discute, ma di garantire la riabilitazione e il reinserimento come opzione privilegiata, ove possibile". Alla luce dei dati sullo stato di realizzazione delle Rems nelle singole Regioni, De Filippo ha auspicato un "accresciuto impegno delle amministrazioni regionali affinché sia garantita una maggiore corrispondenza tra quanto si deve realizzare e quanto è stato dichiarato e verbalizzato nelle numerose riunioni dell'Organismo di coordinamento". Ribadita, infine, l'intenzione da parte del Governo di procedere "in tutti i modi consentiti dalla legge per sopperire all'operato delle Regioni e delle amministrazioni che non rispetteranno gli adempimenti connessi alla realizzazione delle Rems individuate sul territorio di competenza". Giustizia: reato di "omicidio stradale", un'altra resa del legislatore alla folla forcaiola di Maurizio Tortorella Tempi, 25 giugno 2015 Quando la democrazia si consacra all'idolo della galera. È giusto prevedere una pena fino a dodici anni di carcere per un delitto non effettivamente voluto? Spaventa anche, nella norma in discussione, tutta una serie di severe previsioni: la pena non potrà essere mitigata da attenuanti; l'arresto del reo sarà obbligato; la prescrizione allungata. Tempi davvero duri, per i garantisti. Penso per esempio a quella mosca bianca di Luigi Manconi, senatore del Partito democratico, che da un mese va in giro per l'Italia a presentare il suo saggio "Abolire il carcere" (Chiarelettere, 120 pagine, 12 euro): l'idea che la prigione possa essere sostituita da altro, o che il suo utilizzo debba essere drasticamente ridotto, come fu tanti anni fa per l'ospedale psichiatrico, oggi pare una provocazione bell'e buona. Manconi è fortunato che in Italia si legge poco, e che i libri sono merce scarsamente considerata: altrimenti a ogni conferenza troverebbe una folla di contestatori, grillini e manettari in testa. È così, purtroppo: l'opinione pubblica, e alla sua rincorsa il legislatore contemporaneo, sembrano avere eletto il carcere a nuova icona della democrazia. È vero in tante riforme penali, dalla corruzione alla prescrizione allungata, e anche per quanto attiene al nuovo reato di "omicidio stradale". Invocato da tanti, in effetti il reato sembrerebbe trovare nelle cronache di ogni giorno più di un'apparente giustificazione. Perché è intollerabile osservare il disprezzo della vita da parte di quanti si mettono alla guida, ubriachi o drogati, e per l'ennesima volta travolgono indifesi pedoni. Ma e giusto prevedere una pena fino a 12 anni di carcere per un delitto colposo, e quindi non effettivamente voluto? Non basterebbe trattare con severità questi casi basandosi sulle norme esistenti, e colpendo eventuali recidive con estrema severità? Vediamo che cosa accadrebbe se la legge passasse così com'è attualmente congegnata. Basterà un incidente mortale provocato da un conducente in stato di "media ebrezza" (un tasso alcolimetrico tra 0,8 e 1,5 grammi per litro di sangue) o da un guidatore pienamente sobrio che invece abbia superato i 70 chilometri orari in un centro urbano, oppure che abbia invertito la marcia in prossimità d'incroci o curve, o ancora che abbia iniziato un sorpasso in prossimità di un attraversamento pedonale. Premesso che chi scrive è di fatto astemio e di solito è molto attento alla guida, quindi non è in conflitto d'interessi con quanto sostiene, quel che spaventa nella norma in discussione è anche una serie di severe previsioni: il giudice non potrà contemperare la pena con le circostanze attenuanti; l'arresto del reo sarà obbligatorio; la prescrizione sarà allungata. E se capitasse a me? Insomma, se la logica giuridica dev'essere... logica, allora sarebbe meglio inserire il nuovo "omicidio stradale" direttamente tra i reati volontari. Del resto, alcuni tribunali italiani hanno già imboccato questa strada ipotizzando la fattispecie del "dolo eventuale" nei confronti di qualche imputato, individuando cioè nel conducente imprudente o ubriaco-drogato la volontarietà di chi accetta consapevolmente il rischio di uccidere. Un po' come aveva fatto la procura di Torino quando aveva accusato la Thyssen Krupp di omicidio plurimo volontario perché i suoi dirigenti non avevano fatto tutto quello che era possibile per accrescere le procedure di sicurezza: in quel caso però la sentenza delle sezioni unite della Cassazione il 24 aprile 2014 aveva riportato tutto nell'alveo dell'omicidio colposo. Nel caso del guidatore, va detto che l'illogicità è doppia. Perché il presunto omicida volontario dovrebbe aver messo in conto anche l'ipotesi della propria morte accidentale. Resta il fatto che trattare da reato doloso un reato tipicamente colposo non è né giusto, né giuridicamente corretto. Sarebbe bello che ogni lettore si ponesse il problema: e se capitasse a me di fare un errore? Sommessamente, sarebbe importante che il problema se lo ponesse anche il legislatore. Giustizia: con il reato di tortura in galera ci va la polizia, oggi la protesta in piazza di Maurizio Belpietro Libero, 25 giugno 2015 Il reato di tortura lega le mani atte forze dell'ordine, che finiranno sotto accusa anche se infliggono "sofferenze psichiche" agli arrestati Una parola sbagliata può costare un processo: per non rischiare gli agenti lasceranno perdere, E a rimetterci saranno i cittadini onesti. La polizia si ribella. Oggi il sindacato autonomo degli agenti sarà in piazza per protestare contro la legge che introduce il reato di tortura. Detta così potrebbe sembrare una follia. Ma come, i rappresentanti delle forze dell'ordine pretendono la licenza di torturare le persone? Siamo in uno Stato di diritto oppure in uno Stato guidato da Augusto Pinochet? Perplessità legittime, se non fosse che le cose non stanno proprio così, come in apparenza sembrano. La polizia non vuole nessuna immunità per commettere reati contro le persone. Ci mancherebbe. Molto più semplicemente gli agenti chiedono di poter fare bene il loro mestiere, che consiste nel far rispettare la legge e nel difendere cittadini onesti, arrestando, se del caso, chi viola la legge. Purtroppo però nuove norme stanno per essere introdotte dal Parlamento e a finire agli arresti rischiano di essere proprio i poliziotti, a danno - manco a dirlo - degli italiani per bene. Le novità che hanno spinto gli uomini delle forze dell'ordine a scendere in piazza come dei metalmeccanici qualunque sono quelle contenute nel disegno di legge che introduce il reato di tortura. Di che si tratta? Di una misura tenuta a battesimo dopo le vicende del G8. Ricordate? Circa quattordici anni fa il movimento No global (poi divenuto movimento No Tav e più recentemente No Expo: facevano prima a chiamarlo No tutto o No Progresso) mise a ferro e fuoco Genova, città con la sola colpa di ospitare il vertice dei Paesi più industrializzati del mondo. Nonostante ad appiccare incendi, distruggere vetrine e lanciare sampietrini siano stati i tristemente famosi Black Block, ossia tipi mascherati di nero che hanno il solo scopo di scontrarsi con la polizia, a finire nei guai furono proprio gli agenti, i quali furono spediti sul banco degli imputati. Risultato, a distanza di anni alcuni funzionari sono stati condannati come i peggiori delinquenti, mentre chi ha provocato i danni gira impunito pronto a devastare altre città. Non contenti di aver ottenuto la condanna e la sospensione dal lavoro e dallo stipendio dei poliziotti (i quali avranno anche ecceduto, ma di certo non sono stati loro a spaccare tutto), alcuni esponenti del movimento e della sinistra hanno sollecitato l'adozione di norme che punissero la polizia per il reato tortura, come se appunto i commissariati e le caserme fossero reclusori stile Abu Ghraib. A corroborare la richiesta di una legge che punisse i rappresentanti delle forze dell'ordine hanno contribuito storie tipo quelle di Stefano Cucchi, un piccolo spacciatore morto mentre era in custodia cautelare nel carcere di Regina Coeli. L'uomo era malnutrito e già in pessime condizioni di salute, ma la famiglia ha sempre sostenuto che le cause del decesso erano diverse da quelle del suo precario stato fisico, accusando apertamente carabinieri e personale carcerario di aver picchiato il congiunto. Non importa che i giudici abbiano assolto gli imputati. Agli occhi dì una parte dell'opinione pubblica e di gran parte di stampa e tv, la polizia (anche se in questo caso ad operare l'arresto furono i carabinieri) è assassina, punto e basta e dunque serve una legge che ponga fine agli abusi. Naturalmente può accadere che a qualche agente scappi la mano e lungi da noi la volontà di difendere in blocco chiunque indossi una divisa. Così come ci sono giornalisti che infrangono la legge, ci sono poliziotti che la violano e quando lo fanno, quando cioè commettono un reato, è giusto che siano sanzionati. Ma non è questo il punto. La legge sul reato di tortura, di cui noi non sentiamo la mancanza ritenendo che per punire gli abusi bastino le norme esistenti, introduce la possibilità di perseguire le forze dell'ordine non soltanto per delle lesioni riscontrabili, cioè dovute a maltrattamenti o botte inferte dai rappresentanti delle forze dell'ordine, ma anche per le acute sofferenze psichiche. Eh, sì, avete letto bene. Se io sono un poliziotto e arresto un delinquente deve stare attento a non causargli acute sofferenze psichiche. Che vuole dire? Che mentre gli pongo i braccialetti al polso devo sussurrargli parole affettuose perché non rimanga male al momento dell'arresto? Oppure, prendendolo in consegna, devo però offrirgli i pasticcini e rassicurarlo dicendogli che lo rimanderò presto a casa e che in fondo non ha fatto nulla di male? Già, perché a quanto si capisce, il solo dire a tizio che ha appena rapinato una vecchietta che gli farete passare un brutto quarto d'ora è già una minaccia che può provocare al soggetto "un'acuta sofferenza psichica". Se poi per caso vi scappa di dire a un sottoposto "sbattilo in cella e fagli vedere l'inferno", siete rovinati, perché commettete un reato doppio, con l'induzione di un subalterno a commettere un reato. "La legge sul reato di tortura è un lasciapassare per i delinquenti", dicono i poliziotti. Difficile dar loro torto. Ancor più difficile immaginare che, se passasse una simile norma, gli agenti continuerebbero a fare il proprio mestiere. Con un'accusa sul capo che potrebbe portarli in cella oltre che a perdere il lavoro, i rappresentanti delle forze dell'ordine farebbero a gara a voltarsi dall'altra parte di fronte a un delinquente. Risultato: la tortura la subirebbe la gente per bene, che di fronte ai criminali non avrebbe più alcuna tutela e pagherebbe sulla propria pelle le campagne progressiste della sinistra italiana. Altro che manette ai poliziotti. Le manette mettiamole a certi onorevoli e ai loro progetti folli. Giustizia: reato di tortura, 500mila volantini per spiegare cosa non va nella nuova legge di Tommaso Montesano Libero, 25 giugno 2015 Cinquanta presidi a Roma, altrettanti a Milano. Per distribuire ai cittadini 500mila opuscoli informativi in cui si spiega perché l'approvazione del disegno di legge che introduce in Italia il reato di tortura metterà a rischio la sicurezza del Paese. "I poliziotti saranno costretti a tirare i remi in barca lasciando campo libero ai malviventi", lancia l'allarme il Sindacato autonomo di polizia (Sap), che oggi si mobilita nelle due principali città italiane per contrastare un provvedimento bollato come "ideologico", "nato per colpire chi ha una divisa", orchestrato dal "solito e ben conosciuto partito dell'anti-Polizia". Una protesta che lunedì 29 giugno conoscerà la seconda tappa in tutte le Province italiane. "E se sarà necessario, seguiranno ulteriori mobilitazioni", fa sapere Gianni Tonelli, segretario generale del Sap. A fianco dei poliziotti scenderanno in piazza anche i vigili del fuoco del Conapo, visto che la nuova norma, ricorda Antonio Brizzi, segretario generale del sindacato autonomo, "si riferisce a tutti i pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio". Oggi pomeriggio, nel punto di distribuzione nei pressi di Palazzo Chigi, ci sarà anche Matteo Salvini, leader della Lega. "No al reato di tortura, che impedisce di lavorare a Polizia e Carabinieri. Il Parlamento stia con le guardie, non con i ladri", twitta il numero uno del Carroccio. Il disegno di legge è giunto alla terza lettura. Lo scorso aprile è arrivato il semaforo verde di Montecitorio, che però ha modificato il testo proveniente dal Senato, che così è tornato a Palazzo Madama per l'approvazione definitiva. Sette gli articoli del provvedimento, che introduce nel codice penale i reati di tortura e istigazione alla tortura. Il primo è punito da quattro a dieci anni, che diventano minimo cinque e massimo quindici se a commettere il reato è un pubblico ufficiale; il secondo prevede da sei mesi a tre anni di reclusione. Ma è sulle condotte che configurano la tortura che il Sap ha avviato da tempo l'operazione verità culminata nel mezzo milione di volantini pieghevoli che saranno distribuiti oggi. Non sono solo le "acute sofferenze fisiche" a far scattare l'incriminazione, ma anche quelle "psichiche". Per il sindacato di Polizia si tratta di una norma "imprecisa, indeterminata" che avrebbe come unico effetto quello di introdurre "una mina vagante nel nostro ordinamento". "Come si misura l'acuta sofferenza psichica? Qual è l'azione idonea a causarla? Come sarebbero dimostrabili, accertabili e individuabili queste sofferenze psichiche?", si chiede Tonelli. Il rischio, denuncia il segretario generale del Sap, è che la prescrizione sia "applicata a qualsiasi fatto che implichi una sofferenza psichica". A titolo di esempio, i giuristi contattati dal sindacato citano due comportamenti tipici durante un interrogatorio di polizia: "Con la nuova norma, un poliziotto commette tortura se dice: "Dimmi dov'è il covo o ti tiro un pugno in testa!". Diventa torturatore anche un magistrato che dice a un mafioso: "O collabori, o ti faccio passare un brutto quarto d'ora". Siamo esterrefatti, per non dire altro". Ecco perché il disegno di legge, nato da un'iniziativa del senatore democratico Luigi Manconi, rischia di trasformarsi in un "altro strumento di lesione potentissimo dei tutori della sicurezza: basterà denunciare di aver subito una sofferenza psichica, magari durante un interrogatorio, per poter accusare gli uomini e le donne in divisa del reato di tortura". Di fronte a queste prospettive, si chiede il Sap, "come si potrà biasimare un operatore di polizia o un magistrato che, intimorito dalle eventuali ripercussioni che un suo monito particolarmente autorevole possa avere sul mafioso di turno, opti per un approccio più soft?". Giustizia: reato di tortura, Manconi contro Alfano "la Diaz non è un capitolo chiuso" di Selene Cilluffo today.it, 25 giugno 2015 Dopo le dichiarazioni del ministro degli Interni, il presidente della commissione diritti umani del Senato risponde ad Alfano: "Spesso si è creato un clima di connivenza nell'arma, che copriva l'agente responsabile di violenze, che mentiva e ometteva i dati". Il ministro degli Interni Angelino Alfano lo ha detto con chiarezza, alla presenza del capo della polizia Alessandro Pansa: "Dobbiamo avere un reato contro la tortura in Italia ma non deve essere concepito come un reato contro le forze di polizia". Ma non si è fermato qui, definendo i fatti della scuola Diaz un "capitolo chiuso". A quelle dichiarazioni adesso risponde il presidente della commissione Diritti umani del Senato, Luigi Manconi, nonché autore del disegno di legge che vuole introdurre nel nostro codice penale questo tipo di reato. Alfano dice che nel suo disegno di legge il reato di tortura non deve essere concepito come un reato contro la polizia. Il suo ddl ha questa impostazione? "Alfano ha ragione nel senso che non bisogna fare un ddl contro le forze di polizia. Il mio era fatto per tutelare il corpo dai propri membri infedeli. Solo una legge che sia molto rigorosa nei confronti di quegli appartenenti alle forze di polizia (polizia di stato, penitenziaria, carabinieri e guardia di finanza) che sanzioni con rigore e severità gli atti di violenza, di illegalità, gli abusi, i comportamenti e i maltrattamenti inumani e degradanti, solo una norma così severa può impedire che il disonore in cui incorrono gli agenti che commettano simili violenze ricada sull'intero corpo. Non conosco mezzo più efficace, più intelligente di questo per salvare l'onore della divisa" Il ministro degli Interni ha anche affermato che "non risultano casi di impunità in polizia o che il dipartimento polizia si sia messo a coprire". Secondo lei è così? "La legge prevede che quando si dà luogo a un'azione giudiziaria l'inchiesta amministrativa si sospenda. Perché il giudizio del tribunale è più significativo, più forte della giustizia amministrativa interna. Dopo di che spesso è accaduto, posso fare un esempio, che una sentenza molto importante che ha condannato in via definitiva i responsabili della morte di Federico Aldrovandi non sia stata seguita a livello amministrativo da una sanzione altrettanto severa. Su questo il ministro ha proprio torto. Tuttavia non è questo il punto. A me interessa che i responsabili dei corpi di polizia siano i primi a volere indagini più penetranti e attente, cosa che non accade. Vorrei che quando si individua la possibilità che, per esempio, un carabiniere sia coinvolto in un atto di violenza, non scatti immediatamente il riflesso incondizionato per cui l'arma "si serra come un solo uomo attorno a quel collega". Lo si difenda certo, con tutte le garanzie previste in Italia per i cittadini che sono indagati. La difesa "come un solo uomo" spesso diventa un messaggio di omertà all'interno del corpo. Per questo prima ancora della sanzione disciplinare mi interessa il comportamento, che dai gradi più alti fino ai compagni di azione, si trasmette. Abbiamo avuto mille circostanze in cui davvero si è creato un clima di connivenza, che copriva quell'individuo responsabile di un atto di violenza, che mentiva e ometteva i dati, che si rifiutava di rispondere. Questo è accaduto davvero decine e decine di volte". Infine quello della scuola Diaz è un capitolo chiuso? "È tutt'altro che un capitolo chiuso. Non è un mistero che la Corte europea dei diritti umani emetterà altre sentenze simili a quella di pochi mesi fa a carico di componenti delle forze dell'ordine, responsabili di abusi, illegalità e violenze. Nei prossimi mesi e anni dovremo misurarci ancora con quel retaggio sanguinoso e doloroso del passato che è stato il G8 di Genova e che la classe politica italiana non ha voluto affrontare con radicalità, non realizzando una commissione d'inchiesta politica che indicasse le responsabilità e chiudesse quel capitolo. Lo abbiamo lasciato aperto dolorosamente e scandalosamente. Il risultato è che l'Europa ci richiama giustamente ai nostri doveri". Giustizia: diffamazione, multe senza carcere e le rettifiche pubblicate evitando commenti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2015 La legge approvata alla Camera, ora torna al Senato - Modifiche sul reato a mezzo stampa Niente carcere per i giornalisti in caso di diffamazione, ma solo pene pecuniarie. In compenso, obbligo di rettifica senza commento a favore dell'offeso. La Camera ieri ha approvato il disegno di legge sulla diffamazione modificando in parte il testo trasmesso dal Senato che ora dovrà tornare a esaminare il provvedimento. Soppressa, tra l'altro, la norma sul diritto all'oblio, il diritto cioè a eliminare dai siti e dai motori di ricerca le informazioni diffamatorie. Sul piano delle sanzioni è escluso il carcere per chi diffama a mezzo stampa, ma è prevista una multa che andrà da 5mila a 10mila euro. Se il fatto attribuito è però consapevolmente falso, la misura sale da un minimo di 10mila a 50mila euro. Alla condanna è associata la pena della pubblicazione della sentenza. In caso di recidiva, scatterà anche l'interdizione da 1 a 6 mesi dalla professione. La rettifica tempestiva sarà valutata dal giudice come causa di non punibilità. Rettifiche o smentite, a condizione che non siano false o suscettibili di incriminazione penale, devono essere pubblicate senza commento e risposta, citando espressamente il titolo, la data e l'autore dell'articolo ritenuto diffamatorio. Il direttore dovrà informare della richiesta l'autore del servizio. Tempi e modalità della pubblicazione a titolo di rettifica cambiano a seconda dei diversi media. Se però c'è inerzia, l'interessato può chiedere al giudice un ordine di pubblicazione (per il cui mancato rispetto scatta una sanzione amministrativa da 8mila a 16mila euro). Nella diffamazione a mezzo stampa il danno sarà quantificato sulla base della diffusione e rilevanza della testata, della gravità dell'offesa e dell'effetto riparatorio della rettifica. L'azione civile dovrà essere esercitata entro due anni dalla pubblicazione. Fuori dal concorso con l'autore del servizio, il direttore o il suo vice rispondono a titolo di colpa se vi è un nesso di causalità tra omesso controllo e diffamazione; la pena è in ogni caso ridotta di un terzo. È comunque esclusa per il direttore l'interdizione dalla professione di giornalista. Le funzioni di vigilanza possono essere delegate, ma in forma scritta. In caso di querela temeraria, il querelante può essere condannato al pagamento di una somma da mille a 10mila euro in favore della Cassa delle ammende. Chi invece attiva in malafede o colpa grave un giudizio civile a fini risarcitori rischierà, oltre al rimborso delle spese e al risarcimento, di dover pagare a favore del convenuto un'ulteriore somma determinata in via equitativa dal giudice che dovrà tenere conto dell'entità della domanda risarcitoria. Anche per l'ingiuria e la diffamazione tra privati viene eliminato il carcere ma aumenta la multa (fino a 5mila euro per l'ingiuria e 10mila per la diffamazione) che si applica anche alle offese arrecate in via telematica. Giustizia: compravendita senatori, chiesti cinque anni per l'ex premier Berlusconi di Dario Del Porto La Repubblica, 25 giugno 2015 Ma il leader di Forza Italia: "Richiesta fuori dalla realtà". Quale fiducia posso avere i cittadini, se un parlamentare vende la propria funzione?", chiede il procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli durante la requisitoria al processo di Napoli sulla compravendita di senatori. L'imputato principale, Silvio Berlusconi, non è in aula. Nei suoi confronti, la Procura chiede la condanna "senza attenuanti" a 5 anni di reclusione con l'accusa di corruzione. Secondo l'aggiunto Piscitelli e i pm Henry John Woodcock, Alessandro Milita e Fabrizio Vanorio, l'ex premier fu il "regista, il finanziatore e il beneficiario", di un piano, la cosiddetta "Operazione libertà", che tra il 2006 e il 2008 si concretizzò in "un colossale investimento economico diretto ad ottenere il risultato che interessava Berlusconi, anzi lo ossessionava come ha riferito uno dei testimoni: mandare a casa il governo Prodi", sottolineano gli inquirenti. La replica dell'ex premier arriva dopo qualche ora: "La richiesta della Procura di Napoli confligge con la realtà e con tutte le risultanze processuali, in linea con la tradizione dei peggiori processi politici. Confido che il tribunale voglia rapidamente ristabilire la verità dei fatti e pronunciare una sentenza totalmente assolutoria". Nella ricostruzione dell'accusa, il "sicario" di quella strategia diretta a "reclutare senatori per erodere il governo Prodi" fu l'ex direttore ed editore dell'Avanti Valter Lavitola, detenuto da oltre tre anni perché coinvolto in altri procedimenti fra i quali quello sulla bancarotta del quotidiano. All'indirizzo di Lavitola, il pm chiede la pena di 4 anni e 4 mesi di reclusione. Al centro del processo ci sono i tre milioni, due dei quali versati "in nero", che sarebbero consegnati all'ex senatore Sergio De Gregorio, eletto nel2006con Italia dei Valori, poi passato con il centrodestra, per "sabotare" il governo Prodi. De Gregorio ha ammesso di aver ricevuto il denaro e patteggiato la pena. "Ma sono convinto - argomenta il procuratore aggiunto Piscitelli - che altri parlamentari abbiano ceduto, solo che non siamo stati capaci di accertarlo". In apertura di udienza, gli avvocati Niccolò Ghedini e Michele Cerabona, legali di Berlusconi, hanno depositato al collegio presieduto dal giudice Serena Corleto la memoria che l'ex Cavaliere ha trasmesso alla Camera per chiedere di sancire la "insindacabilità" delle condotte al centro del processo perché coperte da immunità parlamentare. "La promessa di voto in cambio di denaro non ha nulla a che vedere con l'insindacabilità", ribatte il procuratore aggiunto Piscitelli. Un'istanza analoga era stata già respinta dal tribunale. La difesa non ha comunque chiesto la sospensione del processo. "Questa vicenda resterà nei libri di storia e servirà da monito per il futuro", dice il pm Milita nella prima parte della requisitoria. La confessione di De Gregorio, sottolinea la Procura, non è l'unico pilastro del processo. "L'architrave" è costituita, a giudizio dei pubblici ministeri, dalla lettera del 13 dicembre 2013 e attribuita a Lavitola nella quale l'ex editore chiede 5 milioni a Berlusconi vantando, tra l'altro, di "aver comprato De Gregorio". Ora la parola passa alla difesa. "Tutti i testimoni e le prove documentali hanno dimostrato la totale inconsistenza dell'impianto accusatorio", affermano gli avvocati Ghedini e Cerabona assieme agli avvocati Franco Coppi e Bruno La Rosa, che assistono Forza Italia citata come responsabile civile. Il processo dovrà concludersi entro novembre pena la prescrizione. Durante il dibattimento sono stati sentiti come testi, fra gli altri, Romano Prodi, Anna Finocchiaro, Renato Schifani, Clemente Mastella. La sentenza è prevista per l'8 luglio. Puglia: formazione e reinserimento per i detenuti, pubblicato l'Avviso Fse regionale sudnews.it, 25 giugno 2015 Le domande dovranno essere inoltrate, a pena di esclusione, unicamente per via telematica. Si chiama "Welcome" il progetto sperimentale di inclusione sociale rivolto ai detenuti (adulti e minori) in regime di media sicurezza. L'Avviso emanato dalla Regione Puglia, di concerto con il Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria di Bari, il Centro di Giustizia Minorile, il Garante dei Detenuti e il Garante dei Diritti dell' Infanzia, sarà pubblicato domani 25 giugno sul Bollettino Ufficiale della Regione Puglia. "L'intera programmazione pugliese del Fondo Sociale Europeo per il periodo 2007-2013 è stata integralmente orientata ad accorciare le disparità sociali tra i primi e gli ultimi - ha detto Alba Sasso, assessore alla formazione della giunta Vendola, commentando il nuovo bando - Attraverso "Welcome" intendiamo sperimentare nuove forme di recupero dei detenuti in regime di media sicurezza, nella convinzione che attraverso un'adeguata formazione si possa contribuire ad evitare episodi di recidività dei reati, una volta saldato il debito con la giustizia. Inoltre - ha proseguito Sasso - i momenti formativi contribuiscono a rendere meno gravoso il periodo di carcerazione, e ad alleviare il peso della detenzione, aggravato dal sovraffollamento delle strutture e dalla carenza di servizi, nonostante il grande lavoro del personale impiegato negli Istituti di pena. Welcome - ha concluso Sasso - e i tanti progetti a sostegno dell'inclusione sociale finanziati con le risorse Fse, rappresentano un patrimonio prezioso che certamente la nuova giunta Emiliano saprà valorizzare". L'obiettivo generale del progetto è quello di potenziare le competenze professionali dei detenuti e migliorare le relazioni e i rapporti interpersonali, per agevolare il processo di inclusione sociale e lavorativa, attraverso l'offerta degli strumenti conoscitivi e professionali necessari per contrastare le condizioni di discriminazione nel mercato del lavoro e assicurare capacità competitiva, in condizioni di parità, nel sistema delle relazioni, nella famiglia e nella società. A tal fine, in un'ottica di approccio globale al tema del miglioramento della qualità della detenzione e del reinserimento socio-lavorativo delle persone a maggiore rischio di esclusione, Welcome promuove la realizzazione di azioni integrate di formazione ed accompagnamento per soggetti sottoposti ad esecuzione penale. Nello specifico, con un impegno di spesa pari a 864mila euro a valere sulle risorse del Programma Operativo 2007-2013 del Fondo Sociale Europeo della Regione Puglia, Asse III - Inclusione Sociale, si prevede l'attivazione di 12 corsi di formazione, ciascuno da 320 ore suddivise in 180 ore di formazione teorica e 140 di attività laboratoriali tecnico/pratiche, per figure professionali che spaziano dal giardiniere al muratore, dal pittore al falegname, dal piastrellista all'addetto alle lavorazioni ceramiche. I destinatari degli interventi sono 120 detenuti interessati all'apprendimento di abilità e competenze attraverso il sistema della formazione professionale, individuati con criteri di trasparenza ed equità dalle Direzioni degli Istituti Penitenziari presenti nella regione in base a requisiti relativi alla anzianità di disoccupazione durante lo stato di detenzione, ai carichi familiari, alla professionalità. Le Direzioni degli Istituti, inoltre, procederanno alla selezione, per ciascun Istituto, di un detenuto in possesso di qualifiche professionali acquisite tramite percorsi formativi erogati dalla Regione Puglia, ovvero, che possiedano le abilità/competenze maturate in precedenti esperienze lavorative anche prima della detenzione, al quale affidare il ruolo di "mentore" nell'espletamento delle attività formativo/ istruttive nei confronti degli altri detenuti/allievi partecipanti. Ad attuare i corsi di formazione saranno gli enti di formazione professionale che, alla data di presentazione della candidatura relativa al bando, siano inseriti nell'elenco regionale degli organismi accreditati dalla Regione Puglia, in partenariato, (pena l'esclusione) con almeno un organismo del Terzo Settore (cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, associazioni dei familiari, associazioni di volontariato, ecc.). Le domande dovranno essere inoltrate, a pena di esclusione, unicamente per via telematica attraverso la procedura on line Avviso n. 6/2015 - "Welcome - Progetto sperimentale di inclusione sociale per persone in esecuzione penale - P.O. Puglia F.S.E. 2007-2013", messa a disposizione all'indirizzo www.sistema.puglia.it nella sezione Formazione Professionale (link: www.sistema.puglia.it/welcome2015). La procedura sarà disponibile a partire dalle ore 14:00 del 30/06/2015 e sino alle ore 14:00 del 13.07.2015. Veneto: Zaia; chiusura Opg, da commissariare è il Governo, fondi disponibili solo a marzo marketpress.info, 25 giugno 2015 "In questa vicenda la Regione Veneto non è inadempiente. Se c'è qualcuno da commissariare è il Governo pasticcione, che avrebbe dovuto occuparsene fin dal 2012, e che si è ben guardato dal farlo sino al marzo scorso, quando sono stati resi effettivamente disponibili i promessi finanziamenti nazionali per realizzare le necessarie strutture. Ora si vogliono nominare commissari per fare la stessa cosa che con gli immigrati: inventare soluzioni raffazzonate e irrispettose prima di tutto della dignità delle persone e poi dei territori e dei cittadini residenti per coprire inefficienze, sottovalutazioni e mancati finanziamenti da parte di Roma". Con queste parole il Presidente della Regione del Veneto Luca Zaia risponde al Governo nazionale, che starebbe valutando il commissariamento di quelle Regioni che non hanno ancora realizzato le Residenze per l'Esecuzione della Misura di Sicurezza Sanitaria (le Rems) in sostituzione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (gli Opg). "Se vogliono nominare un commissario in Veneto - aggiunge Zaia - facciano pure - ma non vorrei essere nei panni di chi dovrà assumersi la responsabilità di attivare strutture gravemente inadatte alla delicatezza di pazienti verso i quali occorre prima di tutto garantire che siano adeguatamente ospitati e messi nella condizione di non nuocere a sé stessi e agli altri". "Respingo con fermezza totale - incalza Zaia - ogni ipotesi di inadempienza del Veneto - perché la Regione, facendo diligentemente la sua parte, realizzò e inviò al Ministero, che lo approvò, il suo progetto di realizzazione di una Rems, per la precisione a Nogara, già nel 2013. Da allora, i fondi necessari sono stati realmente messi a disposizione a marzo 2014. Il Governo ammetta che pretendeva mettessimo all'opera la fata turchina per costruire una Rems in qualche mese - conclude il Governatore - o scenda sulla terra, faccia un sano mea culpa e la smetta di scaricare sui territori le sue colpe e le sue sempre più gravi inefficienze". Livorno: progetto "Frescobaldi per Gorgona", sostenere i detenuti anche fuori dal carcere Askanews , 25 giugno 2015 Cresce e si rafforza il progetto sociale Frescobaldi per Gorgona, nato ad agosto 2012, grazie alla collaborazione tra l'azienda vitivinicola toscana e la Direzione della colonia penale, che mira a dare ai detenuti la possibilità di fare un'esperienza professionale nel campo della viticoltura. In occasione della presentazione della nuova vendemmia (Gorgona 2014), sono state presentate sull'isola carcere le novità 2015 che vedono tra i partner, dopo Pinchiorri e Bocelli, anche Cescot, agenzia espressione di Confesercenti Firenze, attiva nel campo della formazione. Obiettivo è quello di sostenere un detenuto meritevole offrendogli un corso di formazione di sei mesi nel settore della ristorazione e uno stage in un ristorante di Firenze. Dopo aver formato i detenuti sull'isola, grazie all'aiuto di agronomi ed enologi, arriva dunque il momento di accompagnare il detenuto anche fuori dal carcere per un percorso di reinserimento sociale concreto e tangibile dove mettere a frutto i segreti del mestiere imparati a Gorgona. Un'idea che aiuta a legare sempre più lo sconto della pena all'idea della riabilitazione, dell'educazione e della formazione. Un esempio reale a dimostrazione che il carcere può essere davvero l'occasione per i detenuti di un recupero nella comunità sociale e lavorativa. Gorgona oggi è l`unica isola-penitenziario rimasta in Italia e rappresenta un esempio felice di sistema penitenziario: un modello di eccellenza e di recupero dei detenuti proprio secondo quanto indicato dalla nostra Costituzione, un esperimento che vede uniti pubblico e privato dove la recidiva è molto bassa rispetto agli altri istituti penitenziari. Un progetto in cui Frescobaldi ha creduto fin da subito rimettendo in sesto l`ettaro di vigna esistente sull`isola, raddoppiato poi a febbraio di quest`anno, da cui produrre un vino, Gorgona, un bianco di vermentino e ansonica servito nei migliori ristoranti ed enoteche italiani. Un progetto nel quale l`azienda di vini toscana ha investito oltre 150.000 euro in tre anni tra formazione e mezzi. Avellino: Prestini (Cgil): sovraffollamento e organici in carceri, situazione preoccupante irpiniafocus.it, 25 giugno 2015 Il responsabile nazionale della Fp Cgil Penitenziari denuncia: "Gravi carenze nella struttura, tipico carcere anni 80, dove inoltre all'aumento di lavoro dovuto al nuovo padiglione non è corrisposto un implemento della dotazione organica". Non dà esiti rassicuranti la visita effettuata al Carcere di Bellizzi da una delegazione della Cgil che ha portato al di là dei cancelli della casa circondariale del capoluogo irpino anche il responsabile nazionale della Fp Cgil Penitenziari Massimiliano Prestini, insieme al coordinatore aziendale Fp Cgil presso la casa circondariale di Avellino Orlando Scocca, al vice coordinatore aziendale Fp Cgil per il carcere di Ariano Irpino Raffaele Pastore, al coordinatore regionale Fp Cgil Cinofili Gerardo Testa, al dirigente provinciale Fp Cgil Luciano Mastrangelo e al segretario generale Fp Cgil Marco D'Acunto. "Sul problema del sovraffollamento, in questo istituto in particolare, non abbiamo registrato miglioramenti e le condizioni per i detenuti sicuramente sono preoccupanti, perché rispetto alle punte massime di 650 detenuti del passato oggi ne sono comunque presenti 630", riporta all'uscita Prestini, evidenziando che non si riscontrano i benefici apportati dalle "nuove modifiche normative introdotte nel nostro Paese, che hanno consentito una diminuzione del sovraffollamento negli istituti penitenziari, tanto che siamo passati da circa 70mila detenuti a poco più di 50mila in totale". "Abbiamo visitato tutte le sezioni, un po' tutto l'istituto, ma più che altro le aree operative e meno gli uffici dove ci sono meno problematiche rispetto a sezioni in cui il personale ha difficoltà a gestire una situazione del genere. È chiaro che laddove c'è sovraffollamento - insiste - è più semplice lavorare. Abbiamo incontrato sia il direttore dell'istituto sia il comandante del nucleo traduzioni, ai quali abbiamo segnalato anche altre problematiche". Prestini sottolinea, infatti, la coesistenza a Bellizzi di due situazioni molto differenti: da un lato, "un padiglione nuovo, che pare portato da un altro mondo perché è perfetto (cosa ci consente anche di superare i rimproveri giunti della Unione Europea per il sovraffollamento detentivo) e che viene utilizzato per il nuovo progetto di sorveglianza dinamica e destinato quindi a detenuti che hanno avuto un certo tipo di comportamento, di conseguenza possono restare per tutto il giorno al di fuori dalla cella". Dall'altra, "il resto dell'istituto, dove si trova la maggior parte dei detenuti e degli operatori, che invece è in pessime condizioni. È il classico carcere degli anni 80, quando si è costruito in modo becero, e i luoghi di lavoro oggi sono praticamente distrutti". "A questo si aggiunge che all'aumento di lavoro dovuto al nuovo padiglione non è corrisposto un implemento della dotazione organica - prosegue il segretario nazionale, che è rimasta quella di parecchi anni fa, per cui si registra una carenza di personale al punto tale che ci sono agenti di polizia penitenziaria che hanno 200 - 300 giorni di ferie arretrate che non riescono a smaltire. Lo scorso anno, addirittura, nel periodo estivo ci sono stati lavoratori che rispetto ai 5 giorni festivi mensili spettanti hanno fatto un solo riposo, lavorando quindi 25-27 giorni di seguito". Rispetto a questa situazione il sindacato ha chiesto un impegno al direttore della casa circondariale, ma guardando anche alla prospettiva di un possibile incremento di personale: "Tra pochi giorni discuteremo a livello nazionale la mobilità, perché termina un corso di allievi agenti - spiega Prestini - e con la loro immissione in ruolo cercheremo di lavorare per fare in modo che arrivi nuovo personale e venga cambiata l'attuale pianta organica". Le difficoltà, però, sembrano toccare tutte le categorie: "C'è una forte carenza di organico anche nei ruoli di sovrintendenti e ispettori - precisa infatti Mastrangelo -, dove mancano all'appello rispettivamente 15 unità, ed è difficile garantire la turnazione sulle 24 ore, specialmente i turni da sei ore del quarto quadrante, incidendo sul riposo ma anche su un eccesso di lavoro straordinario". Difficoltà di natura logistica, invece, per la sezione Cinofili, anche per la scarsità di mezzi per raggiungere la sede distaccata dell'Unità della Polizia Penitenziaria, che lamenta inoltre poca cura di spazi che potrebbero invece trovare utilizzazione migliore. Il segretario generale D'Acunto denuncia, inoltre, "una difficoltà di relazioni sindacali con la Direzione, ma questa problematiche -dice - si possono cominciare a sanare se c'è la disponibilità della direzione ad un confronto serio non platonico, per così dire, con le organizzazioni sindacali. Se c'è questa disponibilità - assicura -, possiamo dare un contributo e provare a risolverli. Non certo il sovraffollamento - precisa -, ma rispetto all'organizzazione del lavoro e al miglioramento delle condizioni di lavoro si può pensare a un progetto di smaltimento ferie oppure a una organizzazione diversa da quella che la direzione, con molto ritardo, ci ha proposto". Almeno 40 gli agenti in più ritenuti necessari, mentre "la pianta organica è attualmente composta da 357 unità - riepiloga D'Acunto, ma solo in teoria perché in servizio ce ne sono poco più di 240 per effetto della spending review, e per altro la stessa pianta non è stata aggiornata con l'apertura del nuovo padiglione, cosa che significa quindi detenuti in più con gli stessi agenti e gli stessi mezzi". "Anche Ariano è in sofferenza, nonostante sia stato aperto il nuovo padiglione da maggio dell'anno scorso - riporta il vice coordinatore aziendale alla casa circondariale del Tricolle, Pastore -. Il personale è demotivato perché non può esplicare il proprio lavoro con la dovuta attenzione per il sovraccarico di impegno nel fronteggiare le esigenze giornaliere. Registriamo una vacanza organica di almeno 40 agenti". Come nel capoluogo, infine, ad Ariano si registrano disagi anche sotto il profilo strutturale: "Il nuovo padiglione è in ristrutturazione - aggiunge - e si sta cercando di riaprire le sezioni del vecchio, ma c'è ancora molto da fare e i lavori procedono a rilento". Ivrea (To): manca il braccialetto elettronico, il detenuto deve restare in cella di Giuseppe Legato La Stampa, 25 giugno 2015 Anche se il giudice ha concesso gli arresti domiciliari. Nella casa circondariale di Ivrea c'è un detenuto che dovrebbe essere a casa agli arresti domiciliari e non in una cella di due metri per due. Agli inizi di giugno i giudici del Tribunale della Libertà hanno disposto la misura cautelare a casa, ma solo se vincolata all'utilizzo del braccialetto elettronico. Il problema è che di braccialetti non ce ne sono e quindi l'uomo resta dietro le sbarre. Si chiama D.G, 40 anni, nativo di Settimo. Mesi fa è stato arrestato dopo una lunga indagine che ha ricostruito una quindicina di rapine. "Un malvivente seriale", ma solo in quel caso. Perché agli atti risultava, fin lì, incensurato. Il suo legale Luca Calabrò, del foro di Torino, lo ha assistito dal primo momento. Passati pochi mesi l'avvocato ha fatto istanza al Tribunale della Libertà per chiedere i domiciliari. "E i giudici - spiega Calabrò - pur riconoscendo e ribadendo i gravi indizi di colpevolezza che sussistono a suo carico, hanno accordato i domiciliari previo utilizzo del braccialetto elettronico". L'ordinanza è del 5 giugno scorso e stabilisce nel 15 giugno la data di uscita dal carcere di Ivrea. Peccato che da quella data D. G. sia ancora in cella: "Il motivo è che il Ministero non invia i braccialetti - spiega Calabrò, ho chiamato anche l'ufficio matricola che mi ha confermato l'esistenza di una lista d'attesa. Fin quando Telecom e polizia giudiziaria non hanno disponibilità del congegno, il mio assistito non può uscire anche se i giudici gli hanno accordato questo diritto". Calabrò non vuole sollevare una polemica, men che mai nei confronti del carcere: "Resta però un interrogativo: perché mai il legislatore prevede un istituto giuridico e poi non attua gli strumenti per renderlo concretamente fattibile?". Dalla casa circondariale di Ivrea confermano: "Il detenuto in questione è tutt'ora recluso e il braccialetto non è ancora disponibile. Ci sono altri due casi di questo tipo, ma risulta che il problema sia esteso a molti altri istituti penitenziari". Il braccialetto deve essere inviato dal Ministero e viene applicato a casa dell'arrestato, insieme al congegno di allarme. Gli agenti penitenziari dovranno soltanto trasportare il detenuto ai domiciliari quando da Roma arriverà notizia che il congegno è disponibile. Alessandria: detenuto distrugge la cella e inghiotte un telefonino, salvato dai medici di Miriam Massone La Stampa, 25 giugno 2015 È avvenuto al carcere San Michele di Alessandria: dopo il colloquio con la moglie (denunciata perché trovata con droga) l'uomo, 37 anni, ha dato in escandescenze. Dopo il colloquio con la moglie (denunciata perché entrata al carcere San Michele con droga nascosta nelle parti intime), un detenuto, italiano, di 37 anni, rinchiuso per una serie di reati contro il patrimonio, ha reagito violentemente spaccando tutti gli oggetti nella sua cella. Una scena di violenza culminata con un gesto che in un primo momento è passato inosservato agli agenti: ha inghiottito, cioè, un telefono cellulare. Trasferito al Pronto soccorso, i medici gli hanno fatto una radiografia al bacino che ha evidenziato il piccolo telefono all'interno dell'intestino. Sono stati gli uomini della polizia penitenziaria a convincerlo a espellerlo. Donato Capace, segretario generale del Sappe lancia l'allarme: "Episodi così non accadrebbero se il carcere fosse schermato: a quel punto anche introdurre un cellulare risulterebbe inutile perché non ci sarebbe campo". La droga che nascondeva la moglie invece - 10 ovuli, secondo quanto testimonia il sindacato Osapp - è stata sequestrata dalla polizia scientifica. Pozzuoli (Na): l'iniziativa "è moda" al Rione Terra, detenute-mannequin per una serata di Elisabetta Froncillo Il Mattino, 25 giugno 2015 Sfilare sui tacchi senza cadere. È la prova per le detenute di Pozzuoli che sabato sera andranno in scena con "É moda", uno spettacolo in passerella nella cornice del Rione Terra. Un progetto di inclusione sociale che parte da dietro le sbarre, dove la P&P Academy ha realizzato un corso di portamento e bon ton, coinvolgendo oltre venti recluse tra laboratori di sartoria e corsi da modelle, fino ad arrivare sul red carpet indossando abiti pregiati. Dal mondo del carcere alla società, questo è il grande salto. È una vera scommessa per chi come la P&P, insieme al Comune di Pozzuoli, ha lavorato con delle donne che hanno sbagliato nella loro vita e stanno pagando con la privazione della libertà. Si punta su chi ha già una condanna definitiva e intraprende un percorso di reinserimento lavorativo. Delle venti ospiti della casa circondariale diretta dalla dottoressa Stella Scialpi, un gruppo di loro sabato alle20,30 sfilerà insieme a modelle professioniste nell'antica Rocca puteolana. Organza e colori, virtuosismi e innovazioni avvolgeranno mannequin d'eccezione. Non sarà soltanto spettacolo ma un vero progetto sociale a riempire la serata. Ad arricchire la diciassettesima edizione di "É moda" ci saranno gli stilisti Massimo Sarli, Nino Lettìeri, Danila Dubuà, Manuel Artist, Le chic di Cinzia Scozzese, e Veronica Guerra. "Le creazioni di moda di altissimo livello meraviglieranno il pubblico con le loro collezioni - ha detto l'organizzatrice Anna Paparone, della P&P Academy - Inoltre il progetto avviato con il carcere femminile ha dato i suoi primi frutti: una delle detenute che ha sfilatolo scorso anno, tornata in libertà da alcuni mesi, è stata ingaggiata dall'agenzia che mi fornisce le modelle professioniste e sabato sfilerà tra queste". Questa assunzione è la prima prova superata della sfida cominciata un anno fa in carcere, quando la moda ha fatto il suo ingresso, con una sola convinzione: recluse non significa essere escluse. "Si tratta di un'iniziativa lodevole - ha affermato l'assessore alle Politiche sociali, Teresa Stellato, che patrocina l'evento. Il reinserimento a pieno titolo delle detenute deve essere un obiettivo costante della società, non si può solo punire. È giusto che delle recluse meritevoli possano ritrovare il proprio domani dopo il debito pagato con lo Stato". La serata, che sarà presentata dall'organizzatrice insieme allo showman Diego Sanchez e Rajae Bezzaz del Grande Fratello, sarà animata anche dal Premio "Eccellenze Campane", che si intersecherà con le performance degli stilisti. Si tratta del riconoscimento riservato a quanti si sono contraddistinti nel campo della moda, della cultura, dello sport, della medicina e della politica. Sarà assegnato agli attori Mario Porfido, Stefano Sarchielli, Rosaria De Cicco e Francesco Di leva; al regista Enrico Maria La Manna; a Graziano Amato di "Uomini e donne"; al chirurgo Plastico Sergio Verza; all'attore comico e cabarettista Angelo Dì Gennaro; al responsabile nazionale dei dirigenti della Polizia di Stato Siulp Maurizio Mastiopinto, autore del libro "Portati ‘o pigiama"; a Susanna Moccia, presidente dei Giovani Imprenditori; ai cantanti Fabio Pascarella e Nando Misuraca; allo sponsor Kamo Caffè e allo stilista Massimo Sarli. Firenze: "Rugby oltre le sbarre", un nuovo progetto che coinvolge i detenuti dilettantitoscana.it, 25 giugno 2015 Venerdì 26 giugno alle 10 al cinema di Sollicciano verrà presentato il Progetto Rugby oltre le sbarre, che è stato ideato dal Csi, Centro Sportivo Italiano e dall'Opera Madonnina del Grappa in collaborazione con Fir, Federazione Italiana Rugby, e Crt, Comitato Regionale Toscano, con il supporto tecnico del Firenze Rugby 1931 e con il patrocinio di Regione Toscana e Comune di Firenze. Dopo la presentazione con le autorità la proiezione di un video sul rugby e con l'incontro con lo scrittore Antonio Falda, che presenterà il suo libro Per la Libertà, nato da una ricerca compiuta in otto istituti carcerari italiani per capire come il Rugby possa essere di aiuto a chi sta per reinserirsi nella vita civile ma anche a chi non ha all'orizzonte il riguadagnare la libertà. A seguire una selezione di giocatori toscani darà vita ad un incontro di rugby. Alle 19, nei locali di Alzaia, la libreria della Fondazione Stensen, alla presenza del Presidente del Comitato Regionale Toscano della Fir, Riccardo Bonaccorsi, avrà luogo la presentazione al pubblico del libro di A. Falda in un aperitivo-cena. Sarà l'occasione per la comunità biancorossa del Padovani e per tutti gli amanti del rugby in Toscana per dimostrare il proprio sostegno a questa nuova realtà, non solo partecipando, ma anche portando tutto ciò che a una squadra di rugby può servire: scarpe che non si usano più, vecchie magliette da gioco e non solo. Quarantena e carcere, il piano Ue sui migranti di Carlo Di Foggia Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2015 Le premesse non sono delle migliori, e il parallelismo con lo stallo greco è d'obbligo: anche sui migranti l'Ue si prepara a chiudere un accordicchio. Ieri le veline provenienti da Bruxelles facevano trapelare il fallimento della strategia italiana: la proposta della Commissione europea di imporre quote obbligatorie agli Stati membri per ricollocare 40 mila migranti arrivati in Italia e Grecia non passerà al vertice Ue di oggi e domani. L'ultima bozza delle discussioni finali, circolata due giorni fa, parlava di un'intesa di massima, lasciando ai Paesi la scelta di come spartirseli, entro luglio. "Le quote obbligatorie rischiano di essere controproducenti e non passeranno", spiegava invece ieri alle agenzie un alto funzionario europeo: "L'accordo tra gli Stati membri non c'è e non c'è mai stato". Con queste premesse ieri Matteo Renzi ha riferito alle Camera in vista del vertice. "Noi chiediamo all'Europa di accogliere e prendersi carico insieme a noi dei migranti - ha spiegato il premier, incassando gli applausi - È l'Europa che non può pensare di fare da sola". Poi la solita linea: l'immigrazione è un problema mondiale, non un'emergenza italiana. "Il 24 giugno dello scorso anno eravamo qui a presentare il Consiglio Ue, come oggi. Gli arrivi erano stati 59.600, quest'anno sono stati 61.400. Un aumento di 1.800 unità, il 3%. Oggi guardiamo a uno scoglio o a una stazione, ma bisogna alzare gli occhi e guardare a Calais", dove centinaia di migranti sono bloccati agli imbarchi verso l'Inghilterra e in questi giorni hanno provato ad approfittare dello sciopero dei portuali francesi per nascondersi nei camion in fila. "Scene inaccettabili, aiuteremo le autorità Francesi" nei controlli ha tuonato ieri il premier inglese David Camero. Da settimane l'Italia e i paesi dell'Unione si scontrano. Gli Stati orientali vogliono che l'adesione sia su base volontaria. Stessa linea ribadita dal presidente francese Fracois Hollande nella sua visita italiana: "Le quote non sono la soluzione". Quella uscita nei giorni scorsi, però, non è l'unica bozza finale. Secondo diverse indiscrezioni, l'Ue sarebbe invece pronta a una svolta durissima. Il Guardian, per dire, ha rivelato che il consiglio europeo dovrebbe approvare una proposta che prevede la coercizione e il carcere fino a 18 mesi per i migranti irregolari che arrivano in Europa, in modo da consentire la registrazione delle impronte digitali. Gli europei, stando al testo, avrebbero deciso di mettere in piedi "strutture nelle aree di confine (Italia, Grecia, Malta) con il sostegno di squadre di esperti per garantire che i migranti siano identificati e che gli siano prese le impronte digitali". Non solo, come aveva annunciato il commissario Avramopoulos, la competenza per i rimpatri dei migranti irregolari passerà dagli stati nazionali a Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere, dove la polizia potrà addirittura sottoporli "a un sistema di quarantena". che il tema stia circolando a Bruxelles lo ha indirettamente confermato il premier: "La sinistra non può avere paura del rispetto delle regole e del concetto di rimpatrio. Concetti cui dobbiamo aggrapparci per evitare un'ondata che rischia di mettere in discussione il concetto di Europa". L'agenda europea è partita martedì con l'avvio della missione navale. Un'operazione che avrà un'efficacia operativa limitata visto che non potrà intervenire nelle acque e sulle coste libiche. Serve una risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell'Onu e l'ok di un governo unitario libico, che non esiste, spaccato com'è nelle due compagini di Tripoli e Tobruk (l'unica riconosciuta a livello internazionale). A gettare benzina sul fuoco ci ha pensato ieri il ministro delle infrastrutture Graziano Delrio: "L'Onu faccia l'Onu dicendo chiaramente: ‘In Libia adesso mandiamo una forza di interposizione, facciamo lì i campi di accoglienza e facciamo una guerra dove al limite è lecito anche sparare agli scafisti". Un'ipotesi che ha scatenato la reazione degli ambasciatori libici. "È una violazione della sovranità libica senza l'accordo del governo legittimo, quello di Tobruk (da dove però partono pochissimi barconi, ndr)" ha spiegato Mustafa Ali Rugibani, incaricato d'affari dell'ambasciata di Libia in Vatizano. Parole che fanno eco a quelle dell'ambasciatore libico in Italia (lato Tripoli), Ahmed Safar: "L'operazione manca di legittimità e potrebbe essere considerata un atto di aggressione. Un grosso favore all'Isis". Rimpatri dei migranti con 8 voli al mese. Oggi il vertice Ue. Renzi: possiamo fare da soli di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 25 giugno 2015 Emergenza immigrazione, nuovo piano del governo dopo il fallimento, di fatto, dell'Agenda messa a punto dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker che oggi dovrà essere approvata dai capi di Stato e di governo a Bruxelles: due voli charter a settimana per rimpatriare gli stranieri nei Paesi d'origine con cui abbiamo già trattati in vigore e nuovi accordi di polizia - dunque con procedure più veloci - con quegli Stati africani dai quali si muove la maggior parte dei migranti. Il premier britannico Cameron accusa l'Italia: chi arriva va schedato meglio. La replica di Renzi: "I rimpatri non sono più un tabù, ma dobbiamo evitare in Europa il ritorno dei muri". Due voli charter alla settimana per rimpatriare gli stranieri nei Paesi d'origine con cui abbiamo già trattati in vigore. Nuovi accordi di polizia - dunque con procedure più veloci - con quegli Stati africani dai quali si muove la maggior parte dei migranti. È questo l'obiettivo del governo dopo il fallimento di fatto dell'Agenda messa a punto dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker che oggi dovrà essere approvata dai capi di Stato e di governo. Perché il voto finale sarà favorevole ma la precisazione contenuta nel testo per specificare che si tratta di un intervento "per fronteggiare l'emergenza" sembra escludere che l'Italia possa contare sull'appoggio dell'Unione. E, soprattutto, che un sistema di distribuzione vada "a regime" dal 2016 come previsto inizialmente. Dunque si devono cercare strade alternative escludendo, almeno per il momento, di mettere in atto quel "piano B" ritorsivo annunciato la scorsa settimana dal presidente del Consiglio Matteo Renzi che prevedeva il rilascio di permessi di viaggio a chi fa richiesta di asilo. Intanto, per l'accoglienza, il Viminale dirama una nuova circolare per trovare 11mila posti. Dall'inizio dell'anno sono 24 i viaggi organizzati dalla polizia per riportare in patria tunisini, egiziani e nigeriani arrivati in Italia negli ultimi mesi. In media uno a settimana, ognuno con 50 persone. Altri saranno predisposti nelle prossime ore, ma il governo vuole incrementare le partenze, proprio per alleggerire la pressione che deriva dalla presenza degli "irregolari". Oltre alle intese già in vigore si è dunque deciso di proporre nuovi patti. Accordi di polizia che non hanno necessità di una trattativa diplomatica troppo lunga e possono chiudersi nel giro di un paio di mesi, come del resto è già accaduto la scorsa settimana con il Gambia. Lettere di invito sono state spedite ai vertici delle forze dell'ordine di Costa d'Avorio, Senegal e Ghana, da cui partono migliaia di persone. Secondo i dati aggiornati al 22 giugno, quest'anno ne sono giunte oltre 4mila soltanto dai primi due Paesi. Questo consentirà di programmare almeno otto viaggi al mese, quasi interamente finanziati dall'Ue, in modo da raddoppiare il numero dei rimpatri. Per mostrare collaborazione con i partner europei - nella speranza di ottenere almeno maggiori finanziamenti - l'Italia sembra comunque intenzionata a creare quei centri di smistamento, gli "hotspot", con la presenza di osservatori internazionali. In particolare sono 42 i funzionari di Easo (l'Agenzia europea di supporto all'asilo) che arriveranno nel nostro Paese ufficialmente per partecipare alle operazioni di foto segnalamento, in realtà per verificare che a tutti i richiedenti asilo vengano prese le impronte digitali. Ogni struttura potrà ospitare circa 300 persone e saranno sistemate nei porti di arrivo, dunque in Sicilia, Puglia e Calabria. L'Unione - in particolare la Francia - chiede che gli stranieri vengano tenuti in custodia fino al termine della procedura, ma su questo l'Italia sembra decisa a non cedere anche perché la nostra legislazione non lo prevede. Per questo saranno creati "hub" più capienti nelle altre Regioni in modo da trasferire chi ha presentato la domanda e rimane in attesa dell'esito. La pressione diventa ogni giorno più pesante, con sbarchi continui. Gli ultimi mille migranti sono approdati ieri pomeriggio e dal Viminale è partita una circolare per chiedere alle prefetture la messa a disposizione di undicimila posti. Un numero che tiene conto della necessità di programmare i trasferimenti dalla Sicilia e dalle altre Regioni dove maggiore è il numero di stranieri ospitati. E divide in quote il numero delle persone da sistemare tenendo conto che Lombardia, Veneto e Liguria dovranno coprire anche le carenze delle scorse settimane, avendo accettato un numero inferiore a quello previsto. Minore è invece il dato per il Friuli, perché si tiene conto degli ingressi via terra che hanno fatto arrivare nella zona centinaia di stranieri. Quando parla di "rimpatrio" Renzi non sa quel che dice di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2015 Purtroppo Renzi dà l'impressione (che contrasta con la sua ambizione di leader fermo e sicuro sempre e di tutto) di cambiare spesso la direzione di marcia per qualunque problema. In questo caso aveva prima annunciato, a proposito di guerra agli scafisti, che "non manderemo i nostri soldati a farsi scannare". Poi ha detto che niente sarebbe accaduto senza l'autorizzazione dell'Onu. Il 22 giugno improvvisamente ha annunciato una elaborata operazione militare europea a guida italiana, con sommergibili, droni, navi da guerra e mille soldati, le migliori marine del mondo sotto il comando italiano. Il giorno dopo la chiave di tutto il problema è il "rimpatrio", vera e unica soluzione, naturalmente sulla base di accordi con i rispettivi governi. E occupiamoci di rimpatrio. Alcune domande forse ci aiuteranno a capire. 1) Con quale governo si può stipulare un accordo di civile rimpatrio che preveda salva la vita? Dipende dal passaporto ma anche dalla religione. Consegnare cristiani a certi governi vuol dire metterli in serio pericolo, consegnare sunniti ad autorità sciite è certo un rischio grave, ma anche il contrario. Se vige o non vige la Sharia in un Paese di rimpatrio, può fare una differenza mortale. 2) Quali governi, fra quelli che stipulerebbero accordi, non hanno o non eseguono la pena di morte? Tenete conto delle mille frustate comminate come pena, in Arabia Saudita, a un blogger indisciplinato. Mille frustate vuol dire pena di morte, e il reato era davvero minore, non riguardava guerra, difesa, segreti o insulti alla corte. Siamo in grado di valutare, nei diversi Paesi, se e quanto è grave il reato di emigrazione clandestina per intere famiglie? Quale pena o condanna comporta? 3) Tutti i Paesi in guerra, dalla Siria all'Iraq allo Yemen, al Sudan, alla Libia, lungo un arco vastissimo che dalle frontiere del Kenya (ricordate la strage dell'università cattolica kenyota?) arriva alla Libia (ma ci sono anche i guerriglieri Saharawi e quelli del Mali, per non citare Boko Haram), attraversa l'Africa e tutti i governi locali sono inclini a considerare traditori (pena di morte) i loro cittadini in fuga. In Eritrea (che solo Salvini ha il coraggio di definire "Paese in pace") l'obbligo del servizio militare scatta a 14 (quattordici) anni. Dunque tutti i giovani eritrei in Europa o in mare in questo momento sono disertori. 4) Ci sono importanti zone del mondo senza governo. I casi più clamorosi sono la Libia e la Somalia, ma non è diversa la situazione in metà della Siria (all'altra metà offriremmo il rimpatrio dei loro nemici che avevano creduto di trovare asilo) e in vaste aree di Paesi che sembrano governate. In queste condizioni dove troverà rifugio un "politico" egiziano in cerca di salvezza dal suo regime che, come si sa, ha la mano pesante? Il "rimpatrio" è difficile, richiede tempo e denaro, ma è anche un'avventura molto pericolosa specialmente per le famiglie che sono riuscite a fuggire insieme. Può la stoltezza di Hollande (e degli altri colleghi europei che chiudono le frontiere), trasformare il governo italiano in un boia indaffarato a rendere possibile una montagna di condanne a morte? Davvero qualcuno crede ancora che tutti questi profughi che rischiano tutto, con i bambini piccoli, siano qui a cercare un lavoro migliore? Zaccaria (Cir): il sistema d'asilo non funziona, l'Europa mostri coraggio nel cambiarlo La Repubblica, 25 giugno 2015 Alla vigilia del Consiglio Europeo del 25 e 26 giugno, il Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir) ha illustrato la proposta di legge presentata dal deputato di Scelta Civica Mario Marazziti che contiene le soluzioni possibili per il superamento dell'attuale crisi del diritto d'asilo e della protezione internazionale per i rifugiati in Italia e in Europa. Il Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR), assieme al deputato di Scelta Civica, Mario Marazziti, ha presentato oggi un disegno di legge che contiene proposte concrete per il superamento dell'attuale crisi del diritto d'asilo e della protezione internazionale per i rifugiati in Italia e in Europa. "Crediamo che l'Europa debba muoversi su due binari - si legge nel documento diffuso dal Cir - rafforzare e introdurre forme di ingresso protetto, da una parte, superare il sistema Dublino, dall'altra". "Non siamo ottimisti - ha detto Christopher Hein, direttore del CIR - sugli esiti del Consiglio Europeo di domani. L'unica cosa su cui sembra che ci sia accordo è l'operazione Eunafvor-Med, per il contrasto ai trafficanti, con l'intento dichiarato di evitare le morti in mare, ma con la conseguenza concreta di impedire gli arrivi dei profughi. E queste persone che alternative avranno alle carceri Libiche? - ha domandato Hein - Se le misure di contrasto ai trafficanti di persone non verranno affiancate da misure di ingresso regolare, si rischia di costruire un altro muro, di condannare i richiedenti asilo, i rifugiati e i migranti presenti in Libia ad essere esposti ad ogni tipo di violenza e negazione di diritti elementari, senza avere scampo. In questo modo, non si produrrà altro che l'utilizzo di nuove rotte più lunghe e ancor più pericolose per raggiungere il nostro continente". "Se l'Italia fa il primo passo..." La Proposta di Legge Organica sul Diritto d'Asilo, depositata da Mario Marazziti pochi giorni fa alla Camera punta a ridurre il rischio di morire in mare: "Un Programma Nazionale di Reinsediamento e la possibilità di presentare domanda d'asilo alle nostre ambasciate dai paesi di origine e di transito - ha detto il deputato, primo firmatario della proposta di legge - siamo convinti che l'Italia, su questo debba fare un primo passo per poi promuovere queste stesse soluzioni a livello comunitario. Un po' come è successo per il trattato di Schengen, quando all'inizio non tutti gli stati membri erano d'accordo per aprire le frontiere. Se da una parte il problema dell'arrivo in Europa dei profughi preoccupa moltissimo - ha aggiunto Marazziti - dall'altra il Consiglio Europeo deve essere in grado di dare risposte credibili a quanti sono arrivati nel nostro continente". Il fallimento del trattato di Dublino. "Il balletto delle cifre sulla possibile ricollocazione di un numero esiguo di rifugiati - ha detto il professor Roberto Zaccaria, Presidente del Cir - non fa bene alla credibilità dell'Europa, così come le nuove frontiere che si sono rialzate tra l'Italia e i Paesi del Nord. Le limitazioni alla libertà di circolazione rappresentano ferite aperte che denunciano una degenerazione di un congegno destinato all'accoglienza che al momento evidentemente non funziona. Le quote, se approvate, potranno aiutare l'Italia e la Grecia ad attenuare la pressione che grava sul sistema d'asilo in affanno - ha aggiunto Zaccaria - ma non risolveranno i problemi dei rifugiati che, spostati come pacchi postali, cercheranno comunque di arrivare alla loro meta. Crediamo che l'unica concreta possibilità sia superare il "Sistema Dublino", ormai miseramente fallito - ha concluso il presidente del Cir - per questa ragione promuoviamo la creazione di uno status di rifugiato europeo, attraverso il mutuo riconoscimento delle decisioni positive che permetterebbe ai rifugiati, una volta riconosciuti tali, di scegliere il Paese Europeo in cui stabilirsi. Se l'Europa vuole essere credibile deve poter dare delle risposte dignitose alle esigenze dei rifugiati". La campagna "Ponti non muri". Si chiama così: "Ponti non muri" la campagna del CIR, finanziata della Fondazione Unipol, con Unipol Gruppo Finanziario, per promuove misure concrete e alternative alle persona in fuga. In pratica si chiede che vengano potenziati i programmi di reinsediamento, di ammissione umanitaria e sponsorizzazione di ingressi da parte di familiari residenti, gruppi di cittadini e associazioni. La cifra proposta nell'Agenda Europea immigrazione di 20mila posti di reinsediamento su base volontaria per tutti i Paesi Europei è del tutto insufficiente. Nel 2014, solo 7.268 rifugiati sono stati reinsediati in Europa. Nello stesso anno, gli Stati Uniti hanno reinsediato 73.011 rifugiati, l'Australia he ha reinsediati 11.570 e il Canada 12.277 (dati Unhcr). Le proposte. Secondo il CIR, deve anche essere introdotta una deroga dall'obbligo del visto o agevolazioni per ottenere un visto in favore di persone provenienti da aree di conflitto e di persecuzioni. Queste misure non comportano modifiche della legislazione in vigore, ma solo un'applicazione delle norme esistenti orientate verso la protezione. L'Unione Europea - è ancora la proposta del Consiglio Italiano per i Rifugiati - dovrebbe anche adottare linee guida per armonizzare i modi che ciascuno Stato membro adotta, a proposito del rilascio di visti umanitari, con validità territoriale limitata. Revisionando il Codice Europeo sui visti, dovrebbe poi essere introdotta la possibilità di emettere visti di protezione. In una seconda fase, gli Stati membri dovrebbero introdurre o re-introdurre schemi nazionali di ingresso protetto per richiedenti asilo nei loro paesi di origine e per coloro che non riescono ad ottenere protezione nei paesi terzi di primo approdo o di transito. "Infine - si legge nel documento - chiediamo in una terza fase che la Commissione proponga una Direttiva sulle procedure di ingresso protetto (PEP) da introdurre in tutti gli Stati membri, in uno spirito di condivisione delle responsabilità tra i Paesi dell'Unione europea ai sensi dell'articolo 80 del Trattato di Lisbona. Droghe: meno detenuti, dopo l'abolizione della Fini-Giovanardi concreto cambio di rotta Redattore Sociale, 25 giugno 2015 Libro bianco delle associazioni. Calano ingressi in carcere e reclusi per droga, ma urge la rideterminazione delle pene e una modifica radicale del testo unico sulle tossicodipendenze. "Purtroppo la politica si è dimostrata ancora una volta pavida e letargica". Arrivano i primi segnali concreti di un cambio di rotta nelle politiche antidroga italiane dopo il superamento della legge Fini-Giovanardi e il cambio al vertice del Dipartimento politiche antidroga, ma dalla politica il mondo delle associazioni aspetta chiari segnali su depenalizzazione dei consumi, rideterminazione delle pene, misure alternative e riduzione del danno. È quello che emerge nel sesto Libro bianco sulla legge sulle droghe presentato questa mattina al Senato da La Società della Ragione, Antigone, Cnca, Forum Droghe e sostenuto dalle associazioni del Cartello di Genova. Un testo che, come sempre, anticipa la presentazione della Relazione al Parlamento sulle droghe che quest'anno sembra essere già pronta per la data di consegna (fine giugno), dopo il ritardo accumulato nella sua edizione 2014, presentata il 5 settembre 2014 dal ministro per le Riforme costituzionali e i rapporti con il parlamento, Maria Elena Boschi. Il testo mostra i dati del dopo Fini-Giovanardi, legge abolita dalla Corte costituzionale il 12 febbraio 2014, con evidenti novità riguardo alla popolazione carceraria. Crollano gli ingressi in carcere, aumentano le misure alternative Secondo quanto riportato dal testo, infatti, il generale ridimensionamento dei detenuti non è solo dovuto ad un effetto "Torreggiani" e lo dimostrano bene le percentuali di nuovi ingressi o detenuti per droga rispetto al totale della popolazione carceraria, più dei numeri assoluti. Secondo il Libro bianco, infatti, nel 2014 circa il 28 per cento degli ingressi in carcere è per violazione dell'art. 73 (detenzione di sostanze illecite). Secondo gli autori si tratta del dato "più basso dal 2006, e per la prima volta dopo 6 anni si scende sotto la fatidica quota del 30 per cento. Solo un anno fa il dato era del 30,56 per cento, mentre il picco era stato registrato nel 2012 con il 32,47 per cento". Nel 2014, gli ingressi per reati in violazione dell'arte. 73 sono stati 13.972 rispetto ai 18.151 dell'anno prima e ai 28 mila degli anni 2008-2009. Anche il numero dei detenuti presenti in carcere per droga è diminuito. "Il 33,56 per cento dei detenuti presenti sono imputati/condannati per reati di droga - spiegano gli autori del libro bianco. Un detenuto su tre; è molto, ma dal 2006 non si era mai scesi sotto il 37 per cento, con un picco del 40 nel 2009". Anche in questo caso i numeri assoluti parlano di un forte calo: 17.995 presenti nel 2014 rispetto ai 23 mila dell'anno prima e ai 27 mila del 2010. "La diminuzione di 9 mila detenuti nel corso del 2014 - spiega il testo - è determinata dal calo dei detenuti per detenzione e spaccio di stupefacenti di circa 5.500 unità". Sul fronte dei consumi, il testo riporta i dati raccolti dal Cnr nel 2014, anticipando quelli della relazione al Parlamento. Secondo lo studio, "gli italiani di 15-64 anni che hanno consumato almeno una sostanza psicoattiva illecita nell'anno precedente la rilevazione sono quasi 4 milioni, cioè il 10 per cento circa della popolazione", quindi uno su dieci. Di questi, circa 3,5 milioni hanno consumato cannabis. Lo studio, inoltre, mostra un leggero incremento rispetto al 2011 nel consumo della cannabis, così come dell'eroina e di sostanze stimolanti. Cocaina e allucinogeni sono invece in calo. A preoccupare, però, sono i consumi più frequenti tra i giovanissimi e l'uso di sostanze spesso sconosciute. Tra le questioni aperte, però, resta quella riguardante la rideterminazione della pena per chi è stato condannato in base a una legge poi dichiarata incostituzionale, spiega il testo. "Per le sezioni unite della Corte di Cassazione - specifica il testo -, a seguito della declaratoria di incostituzionalità i detenuti hanno il diritto di ottenere il ridimensionamento delle pene sulla base della normativa così come è uscita dalla sentenza della Corte costituzionale. Sulla base di questo pronunciamento è partita la campagna "Contro la pena illegittima", attraverso la quale si è chiesto al parlamento e al governo un provvedimento che garantisse una decisione immediata ed uguale per tutti. Purtroppo la politica si è dimostrata ancora una volta pavida e letargica". Questione politica che, per gli autori del Libro bianco, dovrà essere affrontata al più presto. Dal testo, infatti, emerge l'"amarezza" delle associazioni per l'occasione persa dal governo di poter intervenire con più incisività per "cambiare passo sulla politica delle droghe", a cominciare dall'assenza di una chiara guida politica sul tema delle droghe fino a quella del Dipartimento antidroga, affidato a Patrizia De Rose nel ruolo di responsabile tecnico amministrativo a cui si riconosce "l'impegno di smantellamento della vecchia struttura di Giovanni Serpelloni e della costruzione di momenti di confronto e di relazioni non discriminatorie". Ma le voci su una Conferenza nazionale sulle droghe da tenersi a febbraio del prossimo anno e l'imminente Assemblea generale dell'Onu sulle droghe di New York (Ungass 2016) necessitano di una "urgente" presa di posizione su questioni cruciali quali la "modifica radicale del Dpr 309/90 (il testo unico sulle tossicodipendenze) per una completa depenalizzazione del consumo di sostanze stupefacenti compresa la coltivazione domestica di canapa, sulle misure alternative alla detenzione e sui programmi di riduzione del danno". Medio Oriente: Anp; chiederemo l'incriminazione di Israele anche sulle colonie di Michele Giorgio Il Manifesto, 25 giugno 2015 Territori Occupati. Da Ramallah ieri hanno smentito le indiscrezioni pubblicate dal "Jerusalem Post" sulla rinuncia palestinese all'indagine della Procura dell'Aja contro la colonizzazione israeliana. Domani prevista l'adesione ufficiale della Palestina alla Corte penale internazionale. Netanyahu prepara la risposta. Tutto è pronto alla sede della Corte penale internazionale dell'Aja, dove domani è prevista la cerimonia di adesione della Palestina. Oggi il ministro degli esteri dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Riad al Malki, terrà in Olanda una conferenza per spiegare gli obiettivi del passo compiuto tre mesi fa dai vertici politici palestinesi tra le forti proteste di Israele, che teme di subire un'indagine per crimini di guerra, e le critiche aperte degli Stati Uniti. Tuttavia la vigilia dell'adesione alla Cpi, sollecitata per anni da intellettuali, attivisti ed esperti legali palestinesi, è segnata dalle indiscrezioni pubblicate ieri dal quotidiano israeliano Jerusalem Post su una presunta rinuncia, da parte dell'Anp, alla richiesta immediata di un'inchiesta della procura internazionale sulla colonizzazione israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Rinuncia conseguenza di un accordo non scritto, ossia in cambio del trasferimento al governo di Ramallah di centinaia di milioni di dollari palestinesi, frutto della raccolta di tasse e dazi, bloccati da Israele negli ultimi mesi, come ritorsione per l'adesione della Palestina alla Cpi. Voci che hanno provocato sgomento anche perché giunte nel "Giorno della Terra" che ha visto migliaia di palestinesi in Cisgiordania, a Gaza e in Galilea sfilare nel 39esimo anniversario dell'uccisione da parte della polizia di sei palestinesi di Israele durante le manifestazioni contro le confisca delle terre arabe. "Sono soltanto invenzioni dell'ufficio (del premier) Netanyahu riprese dalla stampa israeliana: non c'è mai stato un accordo del genere. Si tratta di denaro palestinese e Israele non ci sta facendo un favore…Ci aspettiamo che la Corte penale internazionale apra un'inchiesta sugli insediamenti colonici israeliani così come sulla recente guerra di Gaza", ha reagito con stizza la leadership dell'Anp. Parole che non hanno spazzato via tutte le ombre. Anche perché non pochi si sono insospettiti quando venerdì scorso, all'improvviso, Netanyahu ha deciso di sbloccare i fondi palestinesi, ufficialmente per "motivi umanitari" ed evitare il crollo dell'Anp. Per il Jerusalem Post invece il via libera al trasferimento dei fondi sarebbe avvenuto quando l'Anp ha garantito che, almeno per ora, non chiederà l'incriminazione dello Stato ebraico per la colonizzazione e proseguirà la cooperazione di sicurezza con Israele. Se per un verso le sanzioni economiche decise da Netanyahu contro l'Anp rappresentano un danno anche per gli interessi di Israele - i 130/150 milioni di dollari che Tel Aviv raccoglie mensilmente con tasse e dazi dovuti ai palestinesi, rappresentando circa due terzi del budget dell'Anp e senza quei fondi non può essere assicurato neanche il coordinamento di sicurezza -, per l'altro è chiaro che l'Anp non ha capacità di resistenza sul lungo periodo alle pressione di Israele. Sono bastati appena tre mesi di blocco dei fondi per mettere in ginocchio la struttura amministrativa palestinese e per vedere scricchiolare le banche in Cisgiordania, che si sono esposte prestando centinaia di milioni di dollari all'Anp senza alcuna garanzia concreta di rivederli nelle loro casseforti. Questa condizione conferma la vulnerabilità dell'Anp mentre si affilano le armi legali per la battaglia alla Cpi che si prevede senza esclusione di colpi. Senza dimenticare che Netanyahu dovrebbe formare un nuovo governo di destra e portare avanti le politiche di occupazione. Le notizie che giungono ogni giorno dalla Cisgiordania sono preoccupanti. L'ultima riferisce che le autorità militari intenderebbero demolire un intero villaggio palestinese, Susya (350 abitanti), a loro dire sorto illegalmente e su terre di "interesse archeologico". Per l'esercito Susya non ha radici storiche. Una affermazione che fa sorridere se si tiene conto che le colonie israeliane nella zona sono state costruite dopo l'occupazione della Cisgiordania nel 1967 in totale violazione del diritto internazionale. "La decisione dei comandi militari è incredibile", ha commentato l'avvocato Kamar Mishraki-Asad, che rappresenta gli abitanti del villaggio "la terra di Susya è dei palestinesi". Libano: Human Rights Watch denuncia uso di tortura nelle carceri di Roberta Papaleo arabpress.eu, 25 giugno 2015 Se sul piano teorico il Libano combatte la tortura, nella realtà si riscontra un silenzio politico circa i crimini operati nelle carceri o nei luoghi di detenzione. La tortura nelle carceri libanesi. La pratica della tortura per punire i detenuti libanesi continua nelle carceri e nei luoghi di detenzione del Paese. Secondo rapporti internazionali pubblicati negli anni passati da Human Rights Watch è possibile distinguere due gruppi di detenuti. Il primo appartiene alla categoria di detenuti "politici" o quasi; il secondo, invece, si riferisce a condannati per uso di droghe, prostituzione o perché omosessuali. Secondo quanto esposto nelle varie relazioni internazionali, sono gli uomini di sicurezza a praticare la tortura contro i prigionieri, colpiti con pugni, bastoni o cavi. Nonostante l'attivismo dei settori di intelligence dell'esercito presso il ministero della Difesa, delle sezioni di informazione nelle Forze di Sicurezza Interna o nei Centri di detenzione corrispondenti all'Ufficio di Lotta alle droghe con sede a Beirut e Zahle, oltre alle stazioni di polizia, per l'abolizione della tortura, sembra che le misure adottate non abbiano l'effetto sperato. Eppure, la legge in Libano prevede il reato di tortura. Quando nel 2008 furono ritrovati nelle carceri libanesi i corpi di 52 detenuti, il ministero degli Interni avviò un'inchiesta, i cui risultati restano ancora sconosciuti. Lo stesso silenzio si ripete nel 2013 a seguito della circolazione sui social network di una video clip che ritraeva i soldati libanesi intenti a picchiare un detenuto. Il giudice istruttore dell'esercito procedette al fermo di cinque membri dell'intelligence. Tuttavia, né il ministero della Difesa, né il comando dell'esercito hanno mai riferito gli sviluppi dell'inchiesta o le misure adottate contro i responsabili all'agenzia di Human Rights Watch. Da parte sua, Sàad el-Din Shatila, direttore dell'Ufficio di "Dignità per i diritti umani", con sede a Beirut, e collaboratore al rapporto del "Comitato contro la Tortura", ritiene che in Libano, negli ultimi anni, non siano state apportate modifiche circa la questione della tortura nei luoghi di detenzione. Infatti, dopo le incursioni nella prigione di Roumie, le organizzazioni dei diritti umani avevano chiesto l'istituzione di una Commissione d'Inchiesta "a causa dello stato di confusione dalle misure adottate" contro la violenza, che tarda ad essere realizzata. Shatila sposta l'attenzione su quel protocollo opzionale che il Libano aveva firmato inteso a combattere la tortura, e che "prescrive la necessità di adozione di un meccanismo di controllo nei luoghi di detenzione". Ma i tempi di applicazione ed efficacia di tale protocollo sono ancora agli inizi. Sempre secondo Shatila, il problema del ritardo o del silenzio circa i crimini operati dalle forze di sicurezza contro i detenuti risiede proprio nella considerazione che la società libanese ha della tortura, ritenuta un vero e proprio tabù di cui si nega l'esistenza. Ne consegue quindi la grossa responsabilità attribuita alle associazioni dei diritti umani contro l'indifferenza politica. Stati Uniti: detenuto disabile muore perché dimenticato in cella senza cibo né acqua giornalettismo.com, 25 giugno 2015 Keaton Farris aveva 25 anni e soffriva di un disturbo bipolare, dopo 20 giorni detenzione è morto perché dimenticato in cella senza cibo né acqua. Keaton Farris è stato arrestato il 20 marzo a Coupeville, nello stato di Washington, con l'accusa di aver provato a incassare un assegno da 355 dollari che non era intestato a lui. Non aveva precedenti, ma soffriva di disturbi mentali che gli erano stati diagnosticati due anni fa, ma era migliorato molto con l'assunzione dei farmaci. Ieri lo sceriffo della contea di Island ha pubblicato un rapporto nel quale si scusa con la famiglia, perché Farris è morto in prigione l'8 aprile, e dice l'autopsia che è morto di fame e di sete. Lo sceriffo lamenta una fallimento delle procedure, ma il fallimento altro non è che l'aver abbandonato per giorni in cella, senza cibo né acqua, un detenuto che per le sue condizioni doveva invece essere controllato ogni ora. Quella di Farris è stata una vera e propria Odissea nel sistema carcerario locale, cominciata nella prigione di Lynnwood, dove i responsabili gli hanno rifiutato l'accesso ai farmaci nonostante si fosse dichiarato malato e nonostante i parenti avessero avvertito che aveva bisogno dei farmaci. Farris è stato poi colpito almeno una volta con il taser, legato e ammanettato e infine trasferito in altre prigioni, dove non è andata meglio. Alla Snohomish County Jail le guardie hanno annotato che appariva gravemente malato e che mostrava sintomi di psicosi, poi è stato trasferito alla prigione della contea di Snohomish dov'è stato legato a una sedia di contenzione in attesa della visita di uno specialista, che non è mai arrivata. È stato invece trasferito alla prigione di Coupeville, dove ha allagato la cella chiudendo lo scarico del WC con il cuscino, e così gli hanno chiuso l'acqua in cella. Poi se lo sono dimenticato, anche se le carte della prigione dicono che lo hanno controllato ogni ora come avrebbero dovuto. Dopo due giorni trascorsi così, Farris è morto l'8 aprile. Stati Uniti: un secondo arresto per i due detenuti evasi, è una guardia carceraria La Repubblica, 25 giugno 2015 Sotto accusa l'agente Gene Palmer, sospettato di aver fornito ai due ergastolani le lame nascondendole negli hamburger. C'è un secondo arresto collegato al caso dei due detenuti - Richard Matt, 48 anni, e David Sweat - evasi clamorosamente 19 giorni fa dal carcere di massima sicurezza dello Stato di New York. È Gene Palmer, guardia carceraria del Clinton Correctional Facility, 57 anni di Dannemora. I dettagli delle accuse non sono ancora stati precisati ma l'uomo è sospettato di aver fornito ai due detenuti le lame nascondendole all'interno di hamburger congelati portati in cella. In precedenza era finita in manette per l'evasione la sarta Joyce Mitchell, 51 anni, accusata di aver fatto da palo e di aver fornito ai due criminali alcuni strumenti per la fuga. La donna è anche sospettata di aver avuto rapporti sessuali con uno dei sue evasi. La gigantesca caccia all'uomo intanto continua. L'ultimo possibile avvistamento è avvenuto al confine tra lo Stato di New York e la Pennsylvania. Un testimone ha riferito di aver visto i due uomini lungo i binari della ferrovia nella zona di Friendship, un villaggio di 2mila anime nella contea di Allegany. La polizia ha schierato 150 agenti, ma senza esito. Matt è stato condannato per rapimento e l'uccisione di un uomo nel 1997. Sweat per l'omicidio di un vice sceriffo della contea di Broome. I due, lo ricordiamo, sono fuggiti dopo aver trapanato i muri della cella, infilandosi in tunnel e gattonando tra stretti cunicoli fino a un tombino oltre il possente muro di cemento alto dieci metri che circonda il carcere di massima sicurezza.