I prigionieri di Alta Sicurezza, emigranti italiani delle nostre "Patrie Galere" di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 24 giugno 2015 "Avevo fame. Ogni giorno lo stomaco occupava i miei pensieri. Perché il cibo era poco, scarso e immangiabile, come l'acqua di cui ci davano una bottiglia al giorno, quella del rubinetto non era potabile, era gialla e puzzolente". (Tratto dalla testimonianza di Pasquale De Feo dal libro "Fuga dall'Assassino dei Sogni". Edizioni erranti di Musumeci e Cosco. Prefazione di Erri De Luca. Oggi leggendo un bell'articolo della giornalista Francesca De Carolis, curatrice del libro "Urla a bassa voce." dal titolo "Detenuti "AS": pedine da spostare in un disumano gioco per riempire caselle" pensavo che ci sono persone che emigrano di loro volontà per sfuggire alla guerra, o per cercare fortuna e poi ci sono prigionieri che i funzionari (con stipendi d'oro, per una volta diciamolo) dell'Amministrazione penitenziari costringano in catene a emigrare da un carcere all'altro, probabilmente per farli soffrire e farli stare più male. Quello che è accaduto e sta accadendo nella sezione dell'Alta Sicurezza del carcere di Padova ora sta accadendo un po' anche in altre carceri. Ed ho saputo che il compagno Pasquale De Feo, ergastolano e da più di trent'anni in carcere, dal carcere di Catanzaro Siano è stato appena deportato in Sardegna nel carcere di Massama Oristano. Nei miei ventiquattro anni di carcere ho incontrato Pasquale in diversi carcere, nel 1992 nell'isola del Diavolo dell'Asinara, nel 2002 nel carcere dei suicidi di Sulmona, nel 2004 nel lager del carcere di Nuoro. Abbiamo sempre lottato insieme, sia da vicino che da lontano, per portare la legalità nelle nostre "Patrie Galere" scrivendo, protestando. sempre pacificamente, con delle fermate nei cortili e con delle battiture alla sbarre, con petizioni e raccolte di firme sia fuori che dentro. Con il passare degli anni a me è andata bene ed io da circa un anno sono stato declassificato nella sezione di Media Sicurezza a Padova, a lui invece è andata male ed è ancora nei gironi infernali dell'Alta Sicurezza e di nuovo deportato in Sardegna. Ed io sinceramente mi vergogno un po' della mia fortuna perché solo di questo si tratta. M'immagino, come è capitato tante volte anche a me, che adesso Pasquale dovrà ricominciare di nuovo tutto da capo. Lottare per soddisfare le più piccole necessità, il computer per studiare e non potrà più vedere il padre anziano e malato. Proprio in questi giorni mi ha scritto se gli mandavo la circolare ministeriale dove era consentito possedere i libri con la copertina rigida perché nel carcere dov'è adesso non entrano. Che altro dire, scrivere o pensare? È un diritto dei prigionieri, espresso chiaramente nell'Ordinamento penitenziario (art. 28) e ribadito nel nuovo Regolamento esecutivo (art. 115), quello di scontare la pena in un carcere che sia nella stessa regione o il più vicino possibile dove vive la propria famiglia. Possibile che i burocrati dell'Amministrazione penitenziaria non capiscano (o forse lo capiscono bene) che il trasferimento continuo dei prigionieri da un istituto all'altro (oltre che sprecare risorse umane e finanziarie) ha conseguenze nefaste sulla salute e sullo stato psichico dei detenuti? E non si può neppure tenere le persone detenute per decenni nei circuiti di Alta Sicurezza in nome della sicurezza preventiva. Non mi stancherò mai di ricordare che l'art. 27 della Costituzione prevede che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. E credo fortemente che questo articolo della Costituzione non escluda solo maltrattamenti fisici ma anche quelli psicologici, per esempio quello di non poter abbracciare il proprio genitore perché deportato a 2.000 chilometri. Ricordo ai funzionari dell'Amministrazione penitenziaria, che sono spesso stati condannati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, che la legalità non finisce quando uno entra in prigione, anzi deve iniziare dal di dentro per poterla poi esportare fuori. Non mi resta altro che dire a Pasquale di farsi forza e di dimostrare ancora una volta di essere migliore di quelli che lo fanno soffrire. Giustizia: Stati generali del carcere, Sofri costretto a rinunciare di Riccardo Chiari Il Manifesto, 24 giugno 2015 Il ministro Orlando chiama l'ex esponente di Lotta Continua alla discussione sugli Stati generali dell'esecuzione penale, e subito si scatenano le polemiche. Il diretto interessato rinuncia dopo le critiche della famiglia Calabresi. "Ad Adriano Sofri era stato chiesto di prendere parte ad una discussione a cui parteciperanno oltre 200 persone, portando il contributo dell'esperienza di una persona che ha scontato tutta la propria pena". Il ministro Andrea Orlando ragiona come se l'Italia fosse un paese normale. Non lo è. È bastato che filtrasse la notizia di una "consulenza" - che consulenza non è - all'ex esponente di Lotta Continua, nelle pieghe degli Stati generali dell'esecuzione penale, per dare il via alla consueta canea. Prima alcuni sindacati di polizia penitenziaria. A ruota fascioleghisti e berluscones. Infine, con maggior garbo, la stessa famiglia Calabresi. La moglie e il figlio del dirigente di polizia Luigi Calabresi per la cui morte, nel 1972, Sofri fu definitivamente condannato nel 1997 a 22 anni di reclusione. Dopo ben sette processi, una scia interminabile di discussioni, e più di uno strappo alla giurisprudenza in materia di riscontri alle dichiarazioni di un correo. Sofri ha subito rinunciato. Lo ha scritto sul sito del Foglio, uno dei quotidiani con cui collabora: "Si è sollevato un piccolo chiasso attorno alla mia "nomina" da parte del ministro della giustizia come esperto di carcere". Il mio contributo si era limitato a una conversazione telefonica con un autorevole giurista, e all'adesione a una eventuale riunione futura. Alla quale invece non andrò, scusandomene coi promotori, perché ne ho abbastanza delle fesserie in genere e delle fesserie promozionali in particolare". La riunione di cui fa cenno Sofri, precisa il ministero di via Arenula, sarà "una innovativa procedura di consultazione pubblica - da sviluppare essenzialmente attraverso il dibattito telematico - sui temi collegati alla pena e alla sua percezione sociale". Ancor più diretto Glauco Giostra, coordinatore del Comitato scientifico degli Stati generali dell'esecuzione penale: "In nessun modo può la partecipazione a quella procedura considerarsi un incarico di consulenza, trattandosi della promozione di un dibattito pubblico intorno ai temi del carcere". Per certo su quei temi Adriano Sofri può raccontare molte cose. Dopo essere stato arrestato nel 1988 a seguito delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Leonardo Marino, anche lui ex di Lotta Continua che si autoaccusò di esser stato l'autista del presunto killer Ovidio Bompressi, Sofri è stato condannato come mandante insieme a Sergio Pietrostefani dell'omicidio Calabresi, e ha trascorso svariati anni in carcere (a Bergamo e a Pisa) e poi in semilibertà. La sua scarcerazione definitiva porta la data del gennaio 2012, per decorrenza della pena. E il suo potenziale contributo alla discussione negli Stati generali dell'esecuzione penale, che il decreto del Guardasigilli Orlando di quattro giorni fa delineava "per quanto concerne i settori istruzione, cultura e sport", sarebbe avvenuto per via telematica. Senza nemmeno bisogno di un rimborso spese. "L'iniziativa ha l'obiettivo di raccogliere le idee e le proposte di avvocati, magistrati, docenti universitari, operatori penitenziari e sanitari, assistenti sociali, volontari, garanti delle persone detenute, rappresentati della cultura e dell'associazionismo - puntualizza il capo di gabinetto del ministero, Giovanni Melillo - nella prospettiva di un cambiamento profondo del sistema di esecuzione della pena". Un sistema da riformare, viste anche le ripetute condanne inflitte all'Italia dalla Corte di giustizia europea. Prima che Sofri gettasse la spugna, si erano levate voci anche in sua difesa: "Sono polemiche inaccettabili - aveva sottolineato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - Sofri è una personalità indiscussa della cultura italiana ed europea. Il suo contributo, anche alla luce dell'esperienza sofferta, sarà un arricchimento anche per il personale penitenziario. È a lui che dobbiamo la prima traduzione italiana del rapporto ispettivo del Comitato europeo per la prevenzione della tortura nel 1992". Tutto inutile. Soprattutto dopo il tweet di Mario Calabresi, attuale direttore de "La Stampa": "Sentire pareri diversi è sempre giusto, ma non comprendo la scelta di far sedere Sofri al tavolo della riforma". Giustizia: Adriano Sofri risponde "non c'è dubbio che ci siano esperti più esperti di me" di Adriano Sofri Il Foglio, 24 giugno 2015 Non c'è dubbio che ci siano esperti più esperti di me: ergastolani senza riparo, che stanno in galera da una vita e sanno di starci fino alla morte; ragazzi arabi denudati e messi in una cella liscia; detenuti gravemente malati e destinati a creparci. Si è sollevato un piccolo chiasso attorno alla mia "nomina" da parte del ministro della Giustizia come "esperto" di carcere, e in particolare di "cultura, istruzione e sport" in carcere, nel contesto della preparazione di materiali utili a migliorare la condizione delle galere italiane. L'antefatto: ricevuto un invito a partecipare a uno di 18 (tanti) "tavoli" a tema, avevo accettato. Non mi tiro indietro quando si tenti di fare qualcosa di utile alla vita quotidiana dei detenuti e della vasta umanità che il carcere travolge. Il mio contributo si era limitato a una conversazione telefonica con un autorevole giurista, e all'adesione a una eventuale riunione futura. Alla quale invece non andrò, scusandomene coi promotori, perché ne ho abbastanza delle fesserie in genere e delle fesserie promozionali in particolare. La polemica è stata innescata dal segretario del sindacato di polizia penitenziaria Sappe. Costui mi porta uno speciale attaccamento, spiegabilissimo. Tra le troppo rare circostanze in cui i mezzi di informazione lo menzionano, una ingente percentuale proviene, negli ultimi vent'anni, dalla sua premura per me. Questa volta trova - al punto di essere "letteralmente saltato sulla sedia" - "molto grave e inaccettabile" che io sia considerato esperto di carcere. Ora, non c'è dubbio che ci siano esperti più esperti di me: ergastolani senza riparo, che stanno in galera da una vita e sanno di starci fino alla morte; ragazzi arabi denudati e messi in una cella liscia; detenuti gravemente malati e destinati a creparci (io andai lì lì). Eccetera. Tuttavia anch'io sono passabilmente esperto, avendo conosciuto il carcere più volte - la prima nel 1970, le Nuove di Torino, l'ergastolo di Saluzzo; poi nel 1988, una camera di sicurezza di Milano, il carcere di Bergamo; poi nel 1997 e di nuovo nel 2000, Sollicciano e Pisa, per complessivi nove anni, più altri anni di detenzione a domicilio. Non solo, ma in Italia e fuori non perdo occasione di visitare le prigioni, per quell'antica convinzione che siano uno specchio ideale della civiltà di un paese. Dunque, ammesso che anche il punto di vista di chi ha conosciuto la galera dalla parte di dentro paia di qualche interesse per il progetto di migliorarla, io sono del tutto idoneo a figurare da "esperto", che non è un titolo di cavaliere. (Sono anche piuttosto esperto di agenti e sindacati di polizia penitenziaria, nella loro variegata qualità). Così ho interpretato l'invito, così l'avrei accettato, salva la verifica della sua utilità. Il titolare del Sappe aggiunge ("ricorrendo all'ironia", secondo qualche giornale, dotato a sua volta di un raro umorismo) che "meno male che il ministro ci ha risparmiato la nomina del boss mafioso Totò Riina come massimo competente del 41bis". Il fatto è che Riina, benché non sia necessariamente "il massimo competente" del 41bis, ne è certo competente: e troverei del tutto ragionevole che, in una seria indagine sulla realtà del 41bis, venisse anche lui interpellato in qualità di "competente". Questo genere di competenza ed esperienza non ha infatti a che fare con l'innocenza, o la colpevolezza, o la gravità della colpevolezza, di chi finisce in carcere. Un ministero che avesse svolto una sua indagine sulla crocifissione avrebbe fatto bene a raccogliere il parere del crocifisso al centro, del ladrone di destra, e di quello di sinistra. L'indignato sindacalista ha voluto anche avvertire che "gli italiani onesti e con la fedina penale immacolata pagheranno con le loro tasse le trasferte, i pasti ed i gettoni di presenza ad Adriano Sofri". Incauto: in quell'unica conversazione, avevo dichiarato una mia insuperabile condizione, di non ricevere neanche un centesimo di euro, neanche nella forma di rimborso delle spese. Non l'avevo fatto per prevenire polemiche di tal altezza, che non immaginavo così recidive. L'avevo fatto per una sentita simpatia verso me stesso. Adesso, detto questo, ripeterò che io sono anche un esperto della giustizia, essendo stato accusato, condannato e imprigionato per un reato che non avevo commesso, e che non avrebbe mai potuto essere provato. Fra le conseguenze pluridecennali di quella ingiustizia c'è anche il salto che ha staccato inopinatamente e però brevemente dalla sedia il segretario del Sappe. Giustizia: il ministro nomina Sofri, Calabresi lo destituisce di Piero Sansonetti Il Garantista, 24 giugno 2015 Il direttore de La Stampa guida una campagna di odio contro l'ex fondatore di "Lotta continua". Vi ricordate quando c'era lo stato di diritto? Stavamo aspettando la prova regina, come dicono i criminologi. Cioè la prova dell'avvenuta morte e sepoltura dell'ultimo residuo di garantismo, in questo paese. Ieri la prova è arrivata sotto le spoglie di Adriano Sofri, anzi, più precisamente, della scarica di fuoco scagliata contro di lui dal mondo politico e giornalistico compatto, guidato dal direttore del quotidiano La Stampa, Mario Calabresi. I fatti sono semplici. Il ministero della Giustizia, diretto dal saggio - ma molto timoroso - onorevole Orlando, ha deciso di realizzare gli "Stati generali delle carceri". Questi "Stati Generali" devono servire a studiare delle riforme che rendano il sistema carcerario italiano - che oggi vive di medioevo - un pochino più moderno e più civile. Sono stati chiamati a partecipare agli "Stati generali" molte persone, esperti, avvocati, giuristi, giudici, intellettuali e sociologi vari. Poi dalle carceri - dalle celle - si sono levate alcune voci, non irragionevoli, che dicevano: forse è il caso che anche i carcerati, cioè i cittadini - gli abitanti - della carceri partecipino a questa discussione, visto che i carcerati, di solito, di carcere un po' ne sanno. È possibile che il ministro Orlando e il capo di gabinetto Melillo abbiano dato ascolto a questa richiesta quando hanno deciso di chiamare a partecipare a uno dei diciotto tavoli - divisi per temi - che si occuperanno della questione, un intellettuale molto conosciuto in Italia, da circa mezzo secolo, e che le carceri le conosce bene per due ragioni: la prima è che si è sempre occupato con passione del problema; la seconda è che in una cella ha soggiornato per circa sei anni. Accusato di essere il mandante dell'omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi. Sapete tutti di chi sto parlando: di Adriano Sofri, fondatore del gruppo politico "Lotta Continua" nel 1968, e poi tre anni dopo del quotidiano omonimo, e poi di altri vari giornali, e poi ascoltato consigliere del ministro Martelli, e poi - per lunghi anni - imputato di professione al processo per l'omicidio Calabresi, giudicato - mi pare - quindici volte dai tribunali e dalle corti d'appello e dalla Cassazione (più o meno cinque sentenze a suo favore e dieci contro), condannato in via definitiva a ventidue anni di carcere, dichiaratosi sempre in nocente, uscito di galera nel 2012 per aver scontato più di un terzo della pena e per buona condotta. Nessuno sa se Sofri sia stato o no il mandate dell'omicidio. Contro di lui c'è solo l'accusa di un pentito, il famoso pentito Marino, il quale si autoaccusò di essere stato il killer del commissario ma - grazie agli sconti di pena - non fece carcere. Marino disse: "Sofri mi disse di sparargli, durante un certo comizio a Pisa, sotto la pioggia". Sofri stresso riconobbe la colpa "morale", per avere guidato una campagna politica e di stampa contro Luigi Calabresi, ma rifiutò sempre la responsabilità concreta, cioè negò di avere dato quell'ordine. E oltretutto pare proprio che quel giorno a Pisa non piovesse e dunque che la memoria di Marino fosse un po' appannata. Chi era il commissario Calabresi? Era il capo della squadra politica della Questura di Milano nel 1969, quando a piazza Fontana ci fu la strage e le indagini furono subito spinte dai servizi segreti contro gli anarchici che invece non c'entravano niente. Calabresi fu accusato a sua volta di essere stato il responsabile dell'uccisione dell'anarchico Pinelli, gettato dalla finestra della questura di Milano, dopo un interrogatorio guidato da lui, da Calabresi, che però non era nella stanza dalla quale Pinelli fu defenestrato quando il delitto avvenne. E dunque era innocente. Come sia stato ucciso Pinelli e chi ne portasse la responsabilità non si è mai accertato. Un magistrato che indagò - l'allora giovane giudice D'Ambrosio - violentò la lingua italiana e la scienza medica e parlò di "malore attivo". Cioè se ne lavò le mani. Eravamo nei primi anni settanta, anni di inaudite violenze politiche, che venivano sia da parte dello Stato sia da parte della sinistra. E certo "Lotta Continua" non fu un protagonista secondaria di queste violenze. Tre anni dopo la morte di Pinelli, nel maggio del 1972, il commissario Calabresi, una mattina, salutò la moglie ei suoi tre bambini, uscì di casa e stava per salire sulla sua Fiat 500 per andare al lavoro, in Questura. Si avvicinò un tale e gli sparò a bruciapelo. Lo uccise. Salì su una Fiat 24 dove lo aspettava un complice e scomparve. "Lotta Continua" esultò per la morte del commissario. Tutti però erano convinti che i colpevoli fossero i servizi segreti, o forse la destra. Fu anche accusato un fascista, che si chiamava Nardi, e poi morì anche lui misteriosamente. Ma per 16 anni, fino al 1988, nessuno scoprì mai niente. Poi Marino un bel giorno di giugno andò dai carabinieri e accusò Sofri, che in quel momento era molto vicino al numero due del Psi Claudio Martelli, e anche, un po', al potentissimo Craxi. Fu un siluro al Psi? Chissà. Tutto questo è l'antefatto. Il fatto invece è meno complicato: consiste nella rivolta morale che ha unito Maurizio Gasparri e Marco Travaglio, e moltissimi altri politici e giornalisti contro il fatto che Adriano Sofri possa godere di diritti civili e - visto che è un tipo sveglio e istruito - possa collaborare a risolvere il problema della carceri. No - hanno gridato tutti all'unisono - crucifige, crucifige! Leader della azione di barriera contro Sofri è stato il direttore della Stampa. Il quale - come probabilmente sapete - è il figlio del commissario Calabresi. E in questa occasione ha unificato i suoi due ruoli di potente direttore e potente figlio. Naturalmente nessuno al mondo si sognerebbe di contestare il diritto al dolore di Mario Calabresi, che era un bambinetto di tre anni quando gli uccisero il papà. Non si capisce però cosa c'entri questo dolore con la giustizia italiana. C'entra solo nel momento in cui si stabilisce che in fondo lo Stato di diritto può essere archiviato, può passare nella galleria dei ricordi, e può essere sostituito con una specie di processo popolare permanente, nel quale le regole contano poco, ed eventualmente contano solo le emozioni e comanda chi sa gonfiare queste emozioni, strumentalizzarle, usarle per fare politica. A Sofri per altro non era stato offerto un incarico retribuito, ma solo chiesta una consulenza. Lui, travolto dalla cagnara sollevata in poche ore, ha deciso immediatamente di rinunciare all'incarico. Continuerà a studiare, a leggere e a scrivere gli articoli che scrive con frequenza sul giornale "La Repubblica". Per lui il danno non è grave. È più grave, forse, per i carcerati, che perdono una voce amica, e sapiente. Ed è grave per lo stato della nostra società, dove ormai dichiararsi garantisti è pericoloso, è scandaloso, è quasi proibito. Giustizia: il ministro Orlando; Sofri era solo stato invitato a partecipare a una discussione di Paolo Mastrolilli La Stampa, 24 giugno 2015 "Ci siamo spiegati male. Forse abbiamo sottovalutato dei passaggi che andavano fatti". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando è alla Borsa di New York, per illustrare i progressi compiuti dall'Italia nella riduzione e la velocizzazione delle cause civili, creando anche "una corsia protetta per gli investitori". Da Roma lo investe la polemica per la nomina di Adriano Sofri come consulente degli Stati generali dell'esecuzione penale, che avvieranno la discussione sulla riforma del sistema carcerario. "Non ha ricevuto - risponde il ministro - alcun compito specifico. Non aveva un incarico o una consulenza, e tanto meno una retribuzione, come ho letto da qualche parte. Era solo stato invitato a partecipare ad una discussione, che include circa duecento persone divise fra diciotto tavoli nell'arco di sei mesi. L'obiettivo era ascoltare voci diverse sulla materia, non prendere decisioni legislative o amministrative, che competono al Comitato scientifico presieduto dal professor Giostra". Sofri dunque era stato coinvolto come condannato che ha fatto l'esperienza del carcere, anche se è uscito prima di completare la sua pena: "Non ha goduto di un trattamento particolare, ma simile a tutte le persone nelle sue condizioni. Ha scontato in prigione una parte significativa della propria condanna, e poi per motivi di salute è stata applicata una diversa modalità di esecuzione della pena. Non ci pareva che questo inficiasse la sua possibilità di partecipare ad una discussione, non di svolgere un ruolo pubblico". Quello che ha provocato le polemiche, però, è soprattutto il suo passato precedente al carcere: "Ci sono strumentalizzazioni che non sarebbero state evitate in ogni caso, perché c'è chi usa il carcere come strumento di propaganda. Invece spiegare meglio cosa era stato chiesto a Sofri e a che titolo, forse avrebbe evitato soprattutto anche forme di sofferenza da parte di chi ha letto in questo atto una sorta di cancellazione delle sue responsabilità, o addirittura di indicazione di una particolare funzione pubblica". Non c'era quindi l'intenzione di eliminare le sue colpe, "non è nostro compito e non potremmo farlo neanche volendo", ma solo di ascoltarlo su temi dove ha espresso opinioni che Orlando giudica "interessanti, ad esempio sul trattamento, il modello passivo di detenzione, l'utilizzo del tempo. Non era stato chiamato come ex terrorista, ma come persona che ha fatto l'esperienza del carcere e ne ha scritto e parlato". La vicenda, dunque, "è stata pompata oltre il segno", anche se si sostiene che il passato di Sofri dovrebbe escluderlo da simili ruoli: "Comprendo questa posizione da parte di chi è stato colpito. Sarebbe giusta se si fosse trattato di dare a Sofri un qualche incarico pubblico, ma ad una discussione e un dibattito possono partecipare anche persone che anno commesso errori". Il ministro, in sostanza, rifarebbe la sua scelta: "Sarebbe stata sbagliata e discutibile se avessimo dato incarichi o consulenze, o trasformato quella esperienza in una qualche fonte di riconoscimento. Continuo invece a pensare che la discussione debba prevedere posizioni tra loro anche diverse e distanti". L'errore quindi non è avvenuto sulla sostanza del progetto, ma sulla sua comunicazione, che ha provocato "un corto circuito, risolto dalla decisione di Sofri di non partecipare più alla discussione. Me l'ha comunicata e io la comprendo". Giustizia: Rita Bernardini "pure io sono ho una condanna… Sofri ha sbagliato a lasciare" di Giovanna Faggionato lettera43.it, 24 giugno 2015 Anche la radicale è tra i consulenti del ministero. E anche lei ha una condanna, per disobbedienza civile. "Adriano è un esempio. E l'incarico non è pagato". Sul Sappe: "Pensi a quello che succede nelle carceri". Adriano Sofri ha rinunciato all'incarico assegnatogli dal ministero della Giustizia. La polemica scoppiata sulla sua nomina, le critiche del sindacato delle guardie penitenziarie, ma forse soprattutto le voci del figlio e della vedova Calabresi lo devono aver convinto. Sulla vicenda, però, c'è stata grande imprecisione. L'elenco dei consiglieri sugli Stati generali sull'esecuzione penale pubblicato dal ministero il 19 maggio 2015 non comprendeva il nome di Sofri, perché il suo era un incarico differente. "Non si trattava di una consulenza pagata, ma di un incarico da coordinatore di uno dei 18 tavoli tematici scelti dal ministero della Giustizia", spiega Rita Bernardini, radicale di lungo corso che per la grazia di Sofri e di Bompressi ha condotto una lunga battaglia. Anche lei è stata chiamata da Andrea Orlando come coordinatrice del tavolo sull'affettività e le relazioni territoriali, un ruolo che è "a titolo gratuito, prevede solo un rimborso spese". E come Sofri, Bernardini è pregiudicata per la giustizia italiana: "Cosa dirà il Sappe quando saprà che sono stata condannata per disobbedienza civile sulle droghe leggere?". D. Sofri ha lasciato: cosa ne pensa? R. Mi spiace, capisco il suo stato d'animo, ma secondo me ha sbagliato. D. Perché? R. Perché Adriano Sofri ha dimostrato il suo valore umano e civile con l'esemplarità della sua vita, anche per come ha vissuto l'esperienza del carcere. D. Cosa intende? R. Lo dimostra quello che ha scritto, le sue battaglie per i diritti umani non solo in Italia. A me non interessa entrare nella sua vicenda giudiziaria, mi basta guardare la storia degli ultimi suoi tre decenni. Ripeto: esemplare. Quando stava in carcere ha rinunciato a molti di quei benefici che gli spettavano di diritto. Ai Capece & company tutto questo non interessa. D. Lei pensa dunque che fosse la persona giusta? R. Una persona di valore che sa cos'è il carcere, che è culturalmente preparata poteva dare un contributo importante. D. Come giudica le loro critiche? R. Che dovrebbero rileggersi la Costituzione italiana riflettendo sul significato rieducativo della pena. Dovrebbero concentrarsi di più sul loro lavoro sindacale; sul fatto, per esempio, che gli agenti di polizia penitenziaria sono fra le forze di polizia quelli che sono rimasti più indietro in termini di stipendi e di carriere. D. Ma è corretto che lo Stato paghi una persona condannata per un crimine che ha offeso la comunità? R. Guardi che questo era un incarico gratuito e per Sofri sarebbe stato un modo di mettersi al servizio della comunità, come ha già fatto e fa senza avere avuto incarichi. Nel decreto di nomina è spiegato che non ci sono emolumenti e che gli eventuali rimborsi spese devono essere documentati (io vorrei pubblicamente) e nei limiti della legge e delle ristrettezze di bilancio. Quando ho collaborato con la commissione istituita dalla Cancellieri non ho chiesto nemmeno un euro di rimborso perché le riunioni si tenevano a Roma e io vivo a Roma. Giustizia: riforma del reato di diffamazione, passi avanti ma restano dei nodi aperti di Caterina Malavenda Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2015 È in discussione alla Camera, oramai in dirittura d'arrivo, la legge che dovrà disciplinare, modificando in gran parte le norme vigenti, la diffamazione e l'ingiuria, oltre che il segreto professionale e la condanna di chi promuove liti temerarie. Gli argomenti sono diversi e non del tutto omogenei e, tuttavia, una volta tanto, si può riconoscere che, dopo i diversi passaggi parlamentari, alcuni problemi sono stati risolti. Oltre che l'eliminazione del carcere - e non solo per i giornalisti - è una buona soluzione, una volta che andrà a regime, l'esclusione della punibilità per l'autore dell'offesa, il direttore e l'editore che provvedano, anche spontaneamente, a rettificare errori e falsità, lesivi della reputazione altrui. Nulla si dice sulle conseguenze della rettifica in sede civile, utile solo per ridurre il danno, un'asimmetria censurata anche nel parere della Commissione cultura. Per bilanciare la frustrazione di non poter replicare, la legge prevede che la pubblicazione della rettifica possa essere rifiutata, se inequivocabilmente falsa, avverbio questo sul quale ci sarà certamente da discutere, in sede di applicazione. Rimane la mancata indicazione della lunghezza massima della rettifica sulla carta stampata e, per un popolo di scrittori mancati, questa finirà per essere un'occasione troppo ghiotta per non sproloquiare, anche oltre il necessario, come accade già oggi: auspicabile la reintroduzione del limite delle trenta righe. Eccellente, anche se sempre rimesso al giudice civile, il potenziamento del risarcimento da lite temeraria, il cui ammontare, parametrato sul danno richiesto - fino alla metà - potrà arginare le richieste milionarie del tutto fuori mercato, ma dotate di palese funzione deterrente. Incomprensibile risulta, perciò, la penalizzazione dell'imputato su querela temeraria che, invece, non godrà dello stesso trattamento: inspiegabilmente soppresso il comma che lo prevedeva, anche in sede penale, rimane il pagamento di una somma da 1.000 a 10.000 euro a favore della cassa delle ammende, scarsamente dissuasiva e, soprattutto, inutile, nell'ottica risarcitoria. Al di là dell'estensione, incomprensibile e inutilmente penalizzante, ai siti informativi online registrati, delle norme penali e non solo, rimane ancora qualche problema serio. La competenza per la diffamazione telematica, quindi anche a mezzo blog o tweet, derogando alle norme generali, viene spostata nel luogo in cui risiede la persona offesa, come accade già per le cause civili, una scelta che condanna blogger ed editori di siti online a un perenne errare irragionevole, a proprie spese e, anche in caso di assoluzione, senza alcun rimborso. Altrettanto irragionevoli risultano la soglia minima - 5.000 euro - per la multa e l'interdizione dalla professione fino a sei mesi, alla seconda condanna per diffamazione, un rischio concreto per ogni giornalista. Ciò per tacere della sproporzione fra la pena per la diffamazione a mezzo stampa, testate giornalistiche online registrate o radiotelevisione - fino a 10.000 euro di multa - e quella per la diffamazione "comune", sanzionata con la multa fino a 15.000 euro, aumentata della metà, se l'offesa è arrecata con un qualsiasi altro mezzo di pubblicità o in via telematica: 22.500 euro per aver diffamato su un blog o, secondo la Cassazione, su Facebook, non è affatto uno scherzo. Confermato il nuovo reato del direttore che non pubblica la rettifica, su richiesta del giornalista interessato, senza che si dica se sia procedibile d'ufficio o a querela di parte, rimane il dubbio sulla concreta utilità della modifica dell'articolo 2751 bis Codice civile e il riconoscimento del privilegio del credito del giornalista e al direttore, che abbiano pagato il danno da diffamazione, sui beni mobili dell'editore. Chi mai aggredirebbe economicamente un giornalista, se l'editore è solvibile? E se non lo è più, su quali beni si rivarrà mai il malcapitato, costretto a pagare anche per lui? Giustizia: diffamazione; pronta la riforma, eliminata la galera ecco le super multe di Liana Milella La Repubblica, 24 giugno 2015 Si chiama legge Costa, quella sulla diffamazione. E proprio da Enrico Costa, il vice ministro della Giustizia, ieri sono arrivate le ultime difficoltà. Vuole che siano cancellati gli inasprimenti sulle liti temerarie in sede civile. Il Pd è contrario e cerca un compromesso. Ma lui insiste, via quelle liti o salta tutto. Vigilia al cardiopalmo per la legge che cancella definitivamente il carcere per il giornalista che diffama, sostituito da multe assai pesanti, e bilanciato da obblighi di rettifica altrettanto severi. Dentro la stampa tv e online, ma fuori i blog. Via anche la minaccia del diritto all'oblio sul web. New entry la norma a tutela di chi scrive per giornali che poi falliscono e che avrà diritto di essere considerato un creditore privilegiato. Luci e ombre. Un Pd soddisfatto del lavoro compiuto. "È una legge equilibrata che risponde ai canoni delle sentenze della Ue e s'inserisce nel filone giuridicamente innovativo di una giustizia riparativa e non soltanto punitiva" dice la presidente Pd della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti. "Bisogna che il Senato la approvi in due mesi così com'è" chiede il relatore, anche lui Pd, Walter Verini. Ma adesso tutto dipende dall'ultima impuntatura di Costa e di Ncd. Di prima mattina, oggi, ci saranno le ultime trattative. Poi in aula. La legge, se l'accordo si trova sull'ultimo ostacolo, potrebbe superare lo scoglio di Montecitorio per l'ora di pranzo. Tutto si gioca su poche righe all'articolo 5. Non va giù agli alfaniani che, in caso di lite civile con una forte richiesta di denaro, il giudice possa riconoscere "una somma in via equitativa non superiore alla metà dell'oggetto della domanda risarcitoria". Il Pd si sforza di trovare un compromesso, per cui il giudice dovrà tenere conto "in particolare della domanda di risarcimento". Ma Ncd non demorde. Vuole che la norma salti del tutto per tre ragioni: esisterebbe già nel codice civile; il (presunto) privilegio non può valere solo per la categoria dei giornalisti, ma se passa deve valere per tutti. Ma soprattutto Ncd la considera "un'intimidazione" nei confronti di chi intende muovere la contestazione e si troverebbe frenato dal presentarla. A voler fare un pronostico tutto lascia pensare che il Pd dovrebbe spuntarla con la formulazione generica che anche Donatella Ferranti ritiene accettabile. Da oggi, se la legge passa, i giornalisti faranno i conti con una nuova e ferrea regola, quella della rettifica obbligatoria, senza commento e senza risposta, che potrà evitare una successiva causa. Ma anche con un sistema di multe stringente. Un minimo di 5mila euro, anche per una diffamazione semplice, con un tetto a 10mila. Ma, di fronte a una notizia volutamente falsa, ecco il tetto di 50mila. Giustizia: evasione fiscale, il ravvedimento operoso acquista efficacia penale di Roberto Rosati Italia Oggi, 24 giugno 2015 La regolarizzazione delle dichiarazioni fiscali infedeli o omesse comporterà anche la non punibilità dei relativi reati. A condizione che sia spontanea. Il ravvedimento operoso acquista efficacia penale: la regolarizzazione amministrativa delle violazioni di dichiarazione infedele o omessa comporterà la non punibilità dei reati. Ai soli fi ni penali, inoltre, l'omissione della dichiarazione potrà essere sanata entro il termine di presentazione di quella successiva. Questo, però, a condizione che la regolarizzazione sia spontanea. Sono alcune delle novità contenute nella bozza del dlgs di riforma del sistema penale tributario che andrà venerdì in consiglio dei ministri. Se il testo sarà confermato, ci sarà anche lo sdoppiamento del reato di compensazione indebita, sanzionato diversamente a seconda che il credito sia non spettante oppure inesistente. Praticamente certa, come anticipato ieri, l'elevazione a 150.000 euro della soglia per la rilevanza penale delle violazioni di omesso versamento dell'Iva e delle ritenute. Omessi versamenti e compensazioni indebite. Cominciamo dalle modifiche agli articoli 10-bis e 10-ter del dlgs n. 74/2000: il mancato pagamento dell'Iva e delle ritenute d'imposta dovute in base alla dichiarazioni annuali costituirà reato solo se i rispettivi importi superano 150.000 euro nel periodo d'imposta (anziché 50.000 euro). Invariata invece la soglia (50.000 euro) per la configurazione del reato di indebita compensazione di cui all'art. 10-quater. Anche qui però potrebbero esserci novità: se vengono utilizzati crediti non spettanti, resta ferma la reclusione da sei mesi a due anni, mentre se si tratta di crediti inesistenti la pena detentiva sarebbe da un anno e mezzo a sei anni. Si prevede poi la non punibilità di tutti i reati in esame (10-bis, 10-ter e 10-quater) se, prima dell'apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, compresi sanzioni e interessi, vengono estinti mediante integrale pagamento, anche a seguito delle procedure deflative contemplate dalle leggi tributarie, compreso il ravvedimento operoso. La tacitazione della pretesa erariale, quindi, da circostanza attenuante diventerebbe esimente. Dichiarazione infedele o omessa. Per il reato di infedele dichiarazione previsto dall'art. 4, le soglie da superare (congiuntamente) aumentano da 50.000 a 150.000 euro per quanto riguarda l'imposta evasa, e da 2 a 3 milioni per l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione. Elevato inoltre da 50.000 a 150.000 il limite d'imposta evasa oltre il quale la dichiarazione omessa costituisce reato ai sensi dell'art. 5. Anche per questi reati viene introdotta la causa di non punibilità collegata alla soddisfazione degli interessi erariali a seguito di ravvedimento operoso, purché però la regolarizzazione sia effettuata prima che l'autore abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali. Diversamente che sul piano amministrativo, dunque, il ravvedimento operoso determinerà la non punibilità solo se la regolarizzazione è effettuata anteriormente al verificarsi delle predette cause ostative. Per quanto riguarda il reato di omessa dichiarazione (art. 5), inoltre, il ravvedimento penale sarà efficace se la dichiarazione viene presentata entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, dunque anche oltre il termine di 90 giorni dalla scadenza stabilito per la regolarizzazione amministrativa. In relazione a questa ipotesi, tuttavia, si deve rilevare che la dichiarazione presentata dopo il predetto termine si considera omessa e il trasgressore non ha diritto ad alcuna riduzione della sanzione amministrativa, per cui non è chiaro in quale misura dovrebbe pagare la sanzione per fruire della non punibilità penale. Circostanze attenuanti. Al di fuori delle nuove ipotesi di non punibilità previste per i suddetti reati, nonché di quella introdotta per l'accesso al regime di adempimento degli oneri documentali in relazione ai rapporti fra imprese collegate, vengono rimodulate le previsioni circostanziali riguardanti tutti i reati contemplati dal dlgs n. 74/2000. In particolare viene prevista: la riduzione delle pene fi no alla metà, nonché l'inapplicabilità delle pene accessorie, nel caso di estinzione integrale della pretesa tributaria prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (attualmente la riduzione si ferma a un terzo); l'aumento delle pene per i delitti di cui al titolo II, se il reato è commesso da correo nell'esercizio di attività di intermediazione fiscale. Giustizia: il monito del Garante Antonello Soro "il Jobs Act rispetti la privacy" di Antonio Sciotto Il Manifesto, 24 giugno 2015 L'authority chiede di evitare "controlli invasivi". Il governo: "Dal testo nessun rischio". Il Pd apre alle modifiche: è da capire quanto reali e profonde. La Cgil lancia una campagna contro il "Grande fratello". Ammonizione per il Jobs Act: il Garante della privacy, Antonello Soro, ieri ha messo in guardia il Parlamento sulla possibilità che il decreto attualmente in discussione, quello sul controllo a distanza, possa violare diritti sensibili dei lavoratori. Il responsabile dell'authority ha parlato in occasione della Relazione annuale dell'ente: il decreto all'esame delle Camere, ha detto Soro, deve impedire "forme ingiustificate e invasive di controllo" dei lavoratori, "nel rispetto della delega e dei vincoli della legislazione europea", evitando "una indebita profilazione delle persone che lavorano". "È auspicabile - ha proseguito il Garante nella Relazione al Parlamento - che il decreto legislativo sappia ordinare i cambiamenti resi possibili dalle innovazioni in una cornice di garanzie che impediscano forme ingiustificate e invasive di controllo, nel rispetto della delega e dei vincoli della legislazione europea. Un più profondo monitoraggio di impianti e strumenti non deve tradursi in una indebita profilazione delle persone che lavorano". "Occorre sempre di più coniugare l'esigenza di efficienza delle imprese con la tutela dei diritti". "Nei rapporti di lavoro - ha continuato nella sua analisi Soro - il crescente ricorso alle tecnologie nell'organizzazione aziendale, i diffusi sistemi di geolocalizzazione e telecamere intelligenti hanno sfumato la linea, un tempo netta, tra vita privata e lavorativa". Questo quanto scritto nella Relazione, ma poi il Garante si è intrattenuto con i cronisti, precisando ancora meglio il senso delle sue parole: "L'aggiornamento del controllo a distanza, dopo 45 anni, rientra nella fisiologia dei comportamenti dei Parlamenti - ha spiegato - Conta però che questo aggiornamento avvenga in una cornice di garanzie, nel rispetto della legislazione europea e dei diritti delle persone". Nella sostanza ciò significa, ha specificato quindi, che "tutte le informazioni che il datore di lavoro potrà legittimamente trarre dal controllo a distanza" vengano raccolte "senza che se ne faccia uso per il controllo totalizzante e per la profilazione delle persone": occorre sempre "separare con nettezza la finalità dell'aumento dell'efficienza dell'impresa e il controllo totalizzante, che non è consentito dalla normativa Ue". Un appello quindi innanzitutto ai vincoli della Ue, principi - quelli relativi alla riservatezza e al rispetto della privacy - contenuti anche nella nostra Costituzione. Diritti riconosciuti ormai tra quelli fondamentali della persona. A Soro ha replicato la ministra delle Riforme Maria Elena Boschi: "Il Garante - ha detto - ha auspicato il giusto equilibrio, che il governo ha ben presente, tra il diritto alla riservatezza dei lavoratori e la modernizzazione della disciplina alla luce dei nuovi strumenti tecnologici". Questo aspetto "è già nel testo del governo: se nei pareri delle commissioni ci saranno ulteriori suggerimenti - ha concluso - li terremo in considerazione". A rispondere, più tardi, con una nota, è anche il ministero del Lavoro: le nuove norme, spiega il comunicato, "adeguano la disciplina oggi vigente del 1970 alle innovazioni da allora intervenute, rispettando le indicazioni che il Garante della Privacy ha fornito negli ultimi anni, in particolare con le linee guida del 2007 sull'utilizzo della posta elettronica e di internet". Il ministero ribadisce inoltre che "per quanto riguarda gli strumenti che vengono assegnati al lavoratore" per rendere la prestazione lavorativa"(quali cellulari, tablet e pc) non si autorizza nessun controllo a distanza, ma si chiariscono semplicemente le modalità e i limiti per l'utilizzo di questi strumenti e dei dati raccolti attraverso di essi". È la seconda volta, in pochi giorni, che il ministero deve tornare a difendere il decreto: lo aveva fatto, con una nota ancora più lunga, molto più dettagliata, e dobbiamo dire in alcuni passi anche parecchio criptica, una settimana fa, quando la segretaria della Cgil Susanna Camusso aveva attaccato frontalmente il provvedimento, parlando di un "Grande fratello". L'allarme di Soro è invece stato raccolto dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, che ha chiesto di fare "chiarezza nel dibattito parlamentare sul tema dei controlli a distanza". Contro il Jobs Act si è espressa Sel, mentre Cesare Damiano (Pd), presidente della Commissione Lavoro della Camera, ha auspicato un "confronto per superare le ambiguità del testo". Cauta anche Annamaria Parente, capogruppo Pd in Commissione Lavoro del Senato : "Ascolteremo le parti sociali e il monito del Garante". La Cgil ieri ha animato due flash mob, a Roma e a Bari, in vista della campagna "No accordo, no controllo", per sottolineare che in assenza di contrattazione il sindacato contrasterà l'applicazione della norma. Giustizia: norma "transitoria" nella riforma, un anno in più ai magistrati "over 70" di Marco Bellinazzo Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2015 Per evitare il caos negli uffici giudiziari e ricorrere a una sostituzione forzata dei magistrati più anziani, il Governo ha inserito una norma "transitoria" nel decreto legge sulla giustizia civile approvato ieri. In pratica, potranno restare al loro posto ancora per un anno quei magistrati che non avranno compiuto 72 anni al 31 dicembre 2015. Già nel luglio 2014, del resto, il primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, in una lettera ai presidenti delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera, Donatella Ferranti e Paolo Sisto, in vista del parere sul decreto legge n. 90/2015 che ha riportato da 75 a 70 anni l'età pensionabile dei magistrati, aveva chiesto di scaglionare in quattro anni (fino a dicembre 2018) l'entrata a regime della riforma per evitare che il 31 dicembre 2015 venisse meno "in maniera traumatica la stessa struttura direttiva della Corte di cassazione" (primo presidente, presidente aggiunto e 35 presidenti di sezione). La "progressiva attuazione" della riforma impedirebbe, scriveva ancora Santacroce, "la decapitazione degli uffici direttivi", oltre che della Cassazione, degli uffici di merito, e consentirebbe al Csm di avere un ragionevole lasso di tempo per bandire i concorsi e coprire i posti vacanti. Ma soprattutto, consentirebbe al ministero della Giustizia di procedere a nuovi concorsi di reclutamento dei magistrati trasformando lo "slogan" del "ricambio generazionale" nella "prospettiva concreta di realizzare il ringiovanimento della magistratura". Con il decreto varato ieri Palazzo Chigi intende realizzare anche il portale delle vendite pubbliche, che contenga gli avvisi di tutte le vendite disposte dai tribunali italiani. L'iniziativa si colloca nel solco del portale europeo della giustizia, in fase di attuazione e a cui è affidato il compito di "rendere più semplice la vita del cittadino". In particolare, la massima informazione sulle procedure esecutive aumenterà la trasparenza delle vendite giudiziarie e, quindi, il tasso di efficacia e la tutela dei creditori e dei debitori. Il portale consentirà, infatti, a tutti gli interessati di acquisire le informazioni relative a tutte le vendite giudiziarie accedendo a un'unica area web gestita dal ministero della Giustizia, superando l'attuale frammentazione, dovuta al fatto che ogni tribunale pubblica gli avvisi di vendita su un sito individuato autonomamente e non comunicante con i siti degli altri uffici. Inoltre, così facendo, si supererà, per le vendite immobiliari, la previsione che impone la pubblicità dell'avviso nell'albo del tribunale. Con un ulteriore ritocco alle procedure esecutive si stabilisce che la divulgazione a mezzo stampa divenga una forma di pubblicità solo eventualmente concorrente sulla base di una istanza del creditore. L'interesse del creditore, come quello dello stesso debitore, è di massimizzare i risultati netti delle vendite giudiziarie dato che spesso, specie nel caso di immobili di valore contenuto, questi vengono compromessi da eccessive spese di pubblicità. Lettere: una Rems non Rems di Giuseppe Ortano (Direttore Uosm 23 Asl Caserta) Ristretti Orizzonti, 24 giugno 2015 Sono ormai trascorsi 45 giorni da quando, con l'avvenuto trasferimento di operatori sanitari appartenenti a varie qualifiche, è diventata operativa l'articolazione Rems di Mondragone. Le funzioni di Rems provvisoria vengono svolte presso la struttura residenziale della Uosm 23 e si vanno sempre più caratterizzando per una forte integrazione con le attività riabilitative e di tutele della salute mentale qui attive. Massima cura è rivolta a mantenere una costante attenzione su pratiche di deistituzionalizzazione, così come già sperimentato nella chiusura dell'Ospedale Psichiatrico di Aversa, nel lontano 1997. Al centro delle pratiche, nell'ottica basagliana è il paziente, non la malattia. La scommessa è nella riuscita di una integrazione vera, mirata all'abbattimento dello stigma legato alla figura del folle reo, che troppo spesso è proprio appannaggio degli operatori stessi, anch'essi i vittime di una più o meno lungo processo di istituzionalizzazione. Solo così sarà davvero possibile assicurare gli interventi di cura e di riabilitazione che rappresentano il reale superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e aggiungere un ulteriore tassello verso il completamento della riforma psichiatrica varata con la legge 180 del 1978. Questo non vuol dire che non si sono dovute affrontare difficoltà e criticità, tutte legate al fatto che la legge 81/2014 è intervenuta in costanza legislativa, senza modificare gli istituti giuridici del codice penale a fondamento dell'invio in Opg dei soggetti infermi di mente e autori di reato nonché giudicati socialmente pericolosi. Infatti l'ulteriore e ben più difficile compito dovrà necessariamente essere la riforma del codice penale in vigore (Codice Rocco di epoca fascista), in particolare nella parte inerente la controversa definizione di imputabilità. Una prima criticità è rappresentata dal fatto che mentre la struttura è ubicata a circa 100 metri dalla Compagnia dei Carabinieri, l'accordo che definisce le modalità operative di collaborazione tra il personale sanitario delle Rems casertane e le Forze dell'Ordine, così come richiesto dal decreto del Ministero della salute del 01/10/2012, identifica per la sicurezza perimetrale il Commissariato di PS di Castelvolturno, che è ubicato a circa 15 Km di distanza. Il bacino di afferenza è riferito ad utenti della Regione Campania, ma Il primo paziente ad essere accolto era proveniente dal Carcere di Velletri ed è originario del Lazio. Giunge preceduto soltanto da una burocratica secca disposizione del Dap, basata sul semplice presupposto del " primo posto disponibile". Dopo qualche giorno ancora un paziente del Lazio, con le stesse modalità e poi dopo qualche giorno ancora un'altra persona del Lazio! Era del resto ampiamente prevedibile che ciò accedesse, a ragione dell'insipienza già dimostrata da questa regione nel prendersi carico dei suoi cittadini internati in Campania. Prevale dunque la modalità manicomiale di deportazione delle persone sulla base della burocratica esigenza del Dap di "sistemazione" del problema, senza tener in alcun conto che lo spirito di fondo della legge 81/2014 è quello di ricorrere come estrema ratio all'accoglienza in Rems, favorendo situazioni alternative con la presa in carico dei Dsm di appartenenza. Dopo pochi giorni finalmente arrivano i campani: da Castiglione delle Stiviere, da Genova, da Salerno. Stesse modalità e termini. Le pratiche matricolari di accesso vengono svolte presso la Rsa e, sebbene svolte con discrezione, nei fatti si crea una commistione giudiziario - sanitaria che, a mio avviso, può rivelarsi in qualche modo deleteria per il clima interno della struttura residenziale che, occorre ricordarlo, ospita in regime residenziale e semiresidenziale utenti del territorio di competenza della Uosm 23. Una ulteriore criticità è rappresentata dal fatto che a fronte di 8 posti letto autorizzati, sono state fatte 15 assegnazioni che, se accolte, come se si trattasse del carcere, determinerebbero di fatto una situazione di illegalità. Infine, appare del tutto ovvio constatare come le logiche istituzionali tendano a riprodursi, incuranti dei luoghi e delle persone coinvolte. Gli operatori inviati a supporto appaiono i più istituzionalizzati, legati a pratiche deresponsabilizzanti per loro stessi e gli utenti; prevalgono le logiche del "controllo" e della "minimizzazione del rischio" di paventate responsabilità legali. I pregiudizi, come diceva Wittgenstein, sono come degli occhiali dalle lenti colorate attraverso i quali osserviamo il mondo, ma che non sappiamo di portare. Dunque per gli operatori sanitari e sociosanitari assegnati alla Rems e tutti con esperienza certe volte anche brevissima di lavoro in Opg, la struttura è "troppo aperta" e dunque offre "occasioni di pericolo per le persone a vario titolo ivi ospitate". I pazienti sono pericolosi, imprevedibili, incomprensibili. Gli operatori appartenenti alla Uosm, di converso, sentono come una invasione la presenza della Rems, soprattutto perché rompe degli equilibri consolidati di rapporto con utenti ex manicomiali, o comunque con cui si ha una lunga dimestichezza. Al contrario, fortunatamente, gli " internati" (così sono ancora definiti con misura di sicurezza!) sono entusiasti e quasi tutti si sono subito integrati con gli operatori delle cooperative sociali ed a sua volta gli operatori hanno accolto senza nessuna differenza gli ultimi arrivati ! A conferma del ruolo positivo ed indispensabile dei cosiddetti "non professionali" nella riabilitazione psichiatrica e psicosociale. L'ultima, ma non ultima questione riguarda l'elaborazione di una modalità condivisa con i giudici che permetta una piena integrazione con il territorio, ai fini dell'elaborazione di un vero progetto di restituzione e rientro nei loro luoghi di origine che se permangono le modalità del regolamento penitenziario sarà solo una "pia fraus". Bologna: Maisto (Trib. Sorv.); situazione drammatica, mancano i magistrati e il personale Ansa, 24 giugno 2015 Nel Tribunale di Sorveglianza di Bologna, ufficio che negli ultimi anni ha preso decisioni sui condannati del crac Parmalat, su Totò Riina e Salvatore Provenzano detenuti a Parma, oltre che sui domiciliari di Annamaria Franzoni, "la situazione è drammatica". L'allarme è lanciato dal presidente Francesco Maisto, che ha convocato una conferenza stampa, tenuta insieme ai colleghi magistrati e al personale, il giorno dopo l'agitazione proclamata dall'Anm, in modo da evitare "di essere affogati" nei problemi generali della giustizia bolognese. Il problema principale della Sorveglianza bolognese è nei numeri ridotti, di magistrati e di personale di cancelleria. A Bologna i giudici sono quattro più il presidente, come da organico, ma uno è in malattia e per far fronte al lavoro "ne servirebbero il doppio", ha detto Maisto. Vacante è il posto previsto a Modena, cui fanno supplenza i giudici di Bologna. Ancora più seria è la questione a Reggio Emilia dove c'è un solo magistrato (sarebbero due, da organico), competente anche su Parma e Piacenza, con circa 1.200 detenuti da giudicare, più ovviamente i casi di persone in libertà. Non è molto più bassa la media di detenuti per ciascuno degli altri magistrati. A ciò si aggiunge che negli ultimi sei anni "è stata ridotto del 37% il personale di cancelleria". A breve, inoltre, potrebbero non essere più a disposizione le sette unità di polizia penitenziaria che fanno lavoro di supporto negli uffici, perché dovranno riprendere servizio nelle carceri. Manca il direttore amministrativo, in prestito una volta ogni 15 giorni da Modena, con l'effetto di difficoltà a pagare periti ed esperti. Tutto questo determina "un rallentamento nella fissazione delle udienze e ritardi nella concessione dei benefici", ha spiegato Maisto, anche se il tribunale ‘tiene bottà perché "le persone lavorano molto più del dovuto e del sufficiente". Il tema è che "Governo e Parlamento aumentano le competenze dei tribunali di Sorveglianza, ma non si pongono il problema di come farli funzionare. Da parte del ministero della Giustizia c'è un problema di gestione del personale". E da parte dell'avvocatura "ci sono solo richieste e recriminazioni, non offerta di energie", come avviene in altre realtà. Inoltre a Bologna, grazie ad una convenzione con la Provincia, c'era un servizio prestato da volontari di alcune associazioni. Ma con il passaggio alla Città Metropolitana, pare che queste convenzioni non saranno rinnovate, con un ulteriore venir meno di risorse. Reggio Emilia: un solo magistrato di sorveglianza per 1.200 detenuti La Gazzetta di Reggio, 24 giugno 2015 Maria Giovanna Salsi è l'unico magistrato togato di sorveglianza con giurisdizione anche Parma e Piacenza. Il presidente Maisto: "Situazione gravissima e logorante". Un magistrato di sorveglianza per 1.200 detenuti, tra cui quelli in regime di 41bis (rinchiusi nel carcere di Parma) e i sex offenders (a Piacenza). E non ci sono solo quelli a cui pensare, perché sotto il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia ricadono anche l'ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio (che è ancora aperto), la nuova Rems e il Cdt (centro diagnostico terapeutico) di Parma, che smista i detenuti pericolosi. A lanciare l'allarme sulla situazione "gravissima" del tribunale di sorveglianza è oggi il presidente Francesco Maisto, che ha tenuto una conferenza stampa a Bologna affiancato dai quattro colleghi che insieme a lui affrontano tutto il carico relativo all'Emilia-Romagna. Tra loro Maria Giovanna Salsi, al momento l'unico giudice di sorveglianza a Reggio Emilia, sotto la cui giurisdizione ricadono, oltre al territorio di Reggio, anche Parma e Piacenza. "A Reggio fino a poco tempo fa eravamo due magistrati con 600 detenuti a testa, ed erano già numeri altissimi. Adesso sono sola", spiega il giudice Salsi. La situazione del personale non è meno drammatica: "A pieno organico, a Reggio dovrebbero essere nove persone, invece sono cinque di cui uno part time. E tra loro ci sono un commesso e un autista, che non possono apporre timbri e non hanno potere di firma", spiega Salsi, che lancia l'allarme: "Basta solo che due persone si ammalino contemporaneamente, o che qualcuno vada in ferie mentre uno è malato, che il tribunale non può aprire, perché non c'è personale a ricevere gli atti, le carte cadrebbero a terra". La situazione di Reggio Emilia è una delle più paradossali della regione, dove ci sono "carenze di magistrati, cancellieri e ufficiali giudiziari". Al momento, spiega oggi Maisto, sono in tutto cinque i magistrati di sorveglianza operativi: la pianta organica ne vorrebbe otto, ma venne fatta negli anni 80 e "sarebbe comunque sottodimensionata, visto ce ne vorrebbero almeno il doppio", non ha dubbi Maisto. Soprattutto rapportato al numero di detenuti su cui vigilare. Dei cinque magistrati di sorveglianza, a Bologna ce ne sono tre più il presidente (dovrebbero essere quattro ma uno è malato), a Reggio uno solo (quando dovrebbero essere due) e a Modena nessuno (e resterà vacante fino al giugno 2016, visto che il giudice assegnato è incinta in maternità). Tanto che le funzioni relative a Modena e Reggio ricadono in parte su colleghi di Bologna. Per Maisto la situazione è gravissima, soprattutto visto che "questo tribunale celebra processi per 41 bis e altri casi clamorosi a livello nazionale". Di recente, ad esempio, è stata discussa e rigettata la richiesta di Totò Riina (detenuto a Parma) di uscire dal carcere per questioni di salute. E proprio oggi si è svolta un'udienza per uno degli imputati a piede libero del crac Parmalat. "La coperta è corta e tutto non possiamo fare, stabiliamo delle priorità ma di fatto stiamo subendo una regressione nei tempi, ci sono ritardi fisiologici e stiamo perdendo i primati di cui fino a poco tempo fa potevamo vantarci". Il merito, conclude Maisto, è tutto del personale: "Se abbiamo mantenuto tempi tutto sommato accettabili è solo perché qui c'è gente che lavora molto più del necessario, ma questo alla lunga logora: se la soluzione non arriva, il personale alla fine si demotiva". Roma: la cella è troppo stretta, detenuto risarcito con 11mila euro di Riccardo Di Vanna Il Messaggero, 24 giugno 2015 Otto euro per ogni giorno trascorso in una cella sovraffollata di Regina Coeli o di Rebibbia. È il risarcimento stabilito dal giudice della seconda sezione civile del tribunale di Roma per un ex detenuto cinquantenne che, nel dicembre del 2014, si era appellato all'articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, ricorrendo contro il Ministero della Giustizia per l'inadeguatezza delle strutture penitenziarie dove ha scontato quasi quattro anni di reclusione per spaccio e reati contro il patrimonio. Un provvedimento, emesso dal giudice Antonella Dell'Orfano, che ha riconosciuto all'ex detenuto una compensazione complessiva di 11.000 euro, a fronte di 1.378 giorni di carcere vissuti in un contesto considerato inumano e degradante. Una nuova sentenza che riguarda le carenze strutturali dei penitenziari italiani è stata emessa nelle scorse ore dalla seconda sezione civile del tribunale di Roma per un ex detenuto cinquantenne che, nel dicembre del 2014, si era appellato all'articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. Secondo l'ex ristretto, che ha scontato quasi quattro anni di reclusione per spaccio e reati contro il patrimonio, la cella dove era detenuto era troppo stretta e le condizioni di degrado evidenti. L'uomo, difeso dagli avvocati Giuseppe Caparrucci e Silvia Narduzzi, si è rivolto per questo alla magistratura ordinaria e ieri un provvedimento, emesso dal giudice Antonella Dell'Orfano, gli ha riconosciuto 11mila euro a titolo di risarcimento, a fronte di 1.378 giorni di carcere vissuti in quello che è stato descritto come un contesto considerato inumano e degradante. La vicenda è molto simile a quella di un 44enne, condannato nel 2011 per reati legati agli stupefacenti, che ha raccontato la sua detenzione nel carcere di Sollicciano, a Firenze, sottolineando: "La mia non è stata detenzione ma segregazione. Decima sezione penale, niente libertà di movimento, in 3 in una cella di neppure 12 metri quadri, l'acqua che filtra dal terrazzino, umida d'inverno e bollente d'estate: fino a 50 gradi, non puoi appoggiarti al muro". L'uomo era stato scarcerato a marzo; il suo legale, Giovanni Conticelli, aveva chiesto, sulla base dell'articolo 35 dell'ordinamento penitenziario, "una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari a 1 giorno ogni 10 espiati" in condizioni inumane, nonché "una somma di denaro pari a 8 euro per ciascuna giornata". Il giudice aveva accolto il ricorso. Napoli: Associazione "La Mansarda", dieci detenuti diventano pasticcieri a Poggioreale di Giuliana Covella Il Mattino, 24 giugno 2015 "La cultura è importante. Quello che vorremmo, oltre a questo corso, è leggere libri e conoscere gli attori di "Un posto al sole", l'unico programma che vediamo in tv". Gennaro Riccio è il cugino di Annalisa Durante, ha 28 anni e viene da Forcella. Vincenzo Tolomelli, di anni ne ha 29 ed è del Rione Sanità. Sorridono fieri mentre mostrano agli ospiti il risultato del corso di pasticceria promosso dall'associazione La Mansarda nel carcere di Poggioreale. I due giovani, reclusi nel Padiglione Livorno, hanno frequentato il percorso formativo da febbraio a giugno insieme ad alni otto compagni: Domenico, Bernardino, Dario, Giuseppe, Marco, Vincenzo, Alessandro e Francesco. Ieri l'evento finale, alla presenza del direttore Antonio Fullone, del presidente del Tribunale Carmine Esposito, del Provveditore Tommaso Contestabile e della Garante dei detenuti Adriana Tocco. In quattro mesi, insieme ai volontari della Mansarda, i detenuti hanno imparato a preparare i dolci tipici della tradizione non solo partenopea: pastiera, caprese, tiramisù, zeppole e finanche dei pasticcini alle noci ispirati a una ricetta statunitense. "Alla persona che sbaglia va tolta la libertà, ma non la dignità - dice Samuele Ciambriello, presidente della onlus. Abbiamo già organizzato un torneo di calcio con i carcerati e ora il corso per pasticceri. Ma lanciamo un appello al nuovo Consiglio regionale: istituisca ima commissione ad hoc per monitorare cosa si fa nelle carceri, per andare oltre il muro dell'indifferenza". Un'iniziativa importante, secondo Fullone, che ha sottolineato tuttavia il problema del sovraffollamento ("abbiamo oltre 1.900 reclusi rispetto a una capienza di 1.600") ma soprattutto di "una struttura fatiscente che risale ai primi del 900 e che rispecchia un'idea dì detenzione superata con pochi spazi all'aperto e per la socializzazione. Ecco perché abbiamo stipulato un accordo con la facoltà di Architettura per il ripensamento dei luoghi". A puntare i riflettori sulla carenza di personale amministrativo Esposito: "abbiamo avuto una riduzione di oltre il 30% e quei pochi vanno in pensione, per cui siamo costretti spesso a rigettare le udienze". Davanti al buffet insieme agli altri c'è anche Dario Marra, 30 anni e in lista d'attesa al Cardarelli da tre anni: "Ho calcoli ai reni e un problema all'anca. Non posso mangiare nulla ne posso stare seduto, Ma vado avanti, sperando che prima o poi qualcuno ascolti la mia richiesta d'aiuto". Fossano (Cn): nuovo campo di calcio fra le mura del carcere inaugurato con un torneo La Stampa, 24 giugno 2015 Detenuti, agenti di polizia penitenziaria, arbitri e operatori sanitari dell'Asl Cnl si sono sfidati in partite di calcio a 5 per inaugurare il nuovo campo in erba sintetica del carcere dì Fossano, nel cortile interno della struttura, sul quale si affacciano le celle. Il torneo quadrangolare si è svolto l'altro pomeriggio alla presenza di educatori, volontari, referenti della Caritas, giornalisti e personale della struttura. Sono scese in campo quattro squadre: "Bad Boys" (composta dal ristretti del "Santa Caterina"), "G.S. Piede libero" (operatori dell'Asl Cn1 che lavorano in strutture per malati psichici), "Arbitri Aia" di Cuneo e "Polizia penitenziaria" di Fossano. "Lo sport avvicina - ha detto il comandante della polizia penitenziaria, Eraclio Stefano Seda. Con questa iniziativa, il nostro mondo si apre all'esterno". Il calcio d'inizio è stato dato da un ospite d'eccezione: Franco Lerda, già giocatore e allenatore del Torino calcio e tecnico di diverse altre squadre, fra le quali il Lecce. A lui e ai rappresentanti delle "formazioni ospiti sono stati consegnati i portachiavi da tavolo realizzati dai detenuti nel laboratorio dentro le mura "Ferro & Fuoco". Poi le 6 partite del girone all'italiana. Il torneo è stato vinto dal "G.S. Piede libero". La giornata si è conclusa con rinfresco preparato dai detenuti. Oggi nella struttura, diventata a custodia attenuata, cioè per tossicodipendenti e detenuti a fine pena che non abbiano avuto provvedimenti disciplinari, ci sono circa 50 ristretti nei 133 posti disponibili. Immigrazione: Ban Ki-moon (Onu) "occorrono più canali legali verso l'Europa" di Luca Fazio Il Manifesto, 24 giugno 2015 In vista del vertice europeo sull'immigrazione che darà il via alla missione militare nel Mediterraneo, il segretario generale dell'Onu chiede ai paesi del vecchio continente uno sforzo di "solidarietà globale" per accogliere i migranti che fuggono da fame e guerre. Intanto altre duemila persone ieri sono sbarcate sulle coste siciliane. Ci vorrebbe un'altra Europa, non questa. Il tono non è ostile ma il discorso è netto e autorevole. Non può non suonare come una bocciatura. Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, dice che vorrebbe "un'Europa leader della solidarietà globale", e lo dice mentre l'Europa si appresta a schierare le sue navi da guerra nel Mediterraneo limitandosi ad accogliere 40 mila migranti su base volontaria solo per rispondere ad una "emergenza", dunque senza l'obbligo delle quote. Troppo poco, mentre ogni giorno ne sbarcano centinaia e centinaia sulle coste italiane e greche. L'affermazione di Ban Ki-moon contrasta nettamente con la decisione dei ministri degli esteri della Ue che hanno dato il via libera alla prima fase della missione navale EuNavForMed al largo delle coste libiche per intensificare "la lotta contro i trafficanti di esseri umani" (domani verrà annunciata ufficialmente al vertice europeo). I militari saranno operativi entro una settimana. Si dà il caso però che la fase due, la distruzione dei barconi e il pattugliamento in acque libiche, dovrà essere ratificata da una risoluzione dell'Onu - altrimenti sarebbe una dichiarazione di guerra. Ban Ki-moon, nell'intervento di ieri a Strasburgo, davanti all'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, pur senza nominarla non è sembrato ben disposto nei confronti dell'opzione militare. Ha chiesto altro, più "canali legali" per i migranti, non navi da guerra. "I paesi europei - ha detto - sono i più ricchi e hanno la capacità di condividere la loro prosperità con altri. Per questo continuo a sollecitare i leader europei a guardare alle cause fondamentali dei flussi migratori, ma allo stesso tempo e prima di tutto, a salvare le vite umane e a provvedere all'assistenza umanitaria". Il suggerimento del segretario generale dell'Onu suona come un avvertimento all'Europa che si sta imbarcando verso un'altra avventura libica: "Occorrono più canali legali verso l'Europa per i migranti, perché questo ridurrà il numero di persone che rischiano la vita". La Ue sta facendo esattamente il contrario. Sembra già tutto deciso, lo si capisce anche dalla rassegnazione malcelata dei ministri più esposti di questa missione che sembra impossibile. Angelino Alfano (Interni) continua a fingere che ci siano ancora margini per ricalibrare la redistribuzione dei migranti, ma è fiato sprecato: "Vogliamo che il meccanismo di ricollocamento di richiedenti asilo dall'Italia in altri paesi sia vincolante e obbligatorio e non su base volontaria. Vogliamo che l'Europa faccia l'Europa e prenda su di sé questo carico, puntiamo anche ad un numero più alto di ricollocamenti". Senza tante velleità Paolo Gentiloni (Esteri) invece ha parlato di "passi avanti" in commissione Affari costituzionali. "Sono certamente molto limitati - ha ammesso - e sui quali il negoziato e il confronto sono ancora aperti ma tuttavia hanno messo in luce un minimo di capacità di reazione, che dimostra un minimo di consapevolezza, insufficiente ma che ha prodotto qualche passo avanti". Anche sul tema dei rimpatri, un'altra inutile promessa di impegno da parte dell'Ue, il ministro ha ammesso che tra il dire e il fare ci sono problemi insormontabili: "Per non alimentare eccessive illusioni, dobbiamo essere consapevoli che la maggioranza dei migranti irregolari arrivano in Italia da quattro paesi (Eritrea, Somalia, Nigeria e Siria) con i quali non è possibile attuare politiche di rimpatrio perché non c'è modo di avere al momento accordi bilaterali né europei. Non esiste una singola misura miracolosa". Questo è il quadro desolante mentre sono sotto gli occhi di tutti - come scrive Medici Senza Frontiere che ieri ha lanciato un appello in vista del vertice di Strasburgo di domani - "le vergognose conseguenze dell'inazione degli stati membri dell'Unione Europea, che stanno ignorando le proprie responsabilità umanitarie". Msf chiede alla Ue di mettere a disposizione le risorse necessarie per permettere all'Italia e alla Grecia di assicurare protezione adeguata e condizioni di accoglienza umane nei luoghi di arrivo a tutte le persone che chiedono assistenza. "Invece di parlare di solidarietà tra gli stati - ha dichiarato Manu Moncada, coordinatore per la migrazione in Italia - è tempo per l'Ue di agire concretamente per aiutare persone che fuggono da terribili crisi umanitarie e trovare un accordo su politiche che siano efficaci, piuttosto che confermare un atteggiamento ostile di respingimento istituzionale". Tanto più che è inutile, dal canale di Sicilia al mare del nord. Solo ieri più di mille migranti sono sbarcati in Sicilia. 292 persone a Pozzallo, tra cui anche il cadavere di un migrante del Gambia ucciso da un colpo di arma da fuoco sparato da miliziani libici. Altre 316 persone a bordo di due imbarcazioni sono arrivate a Lampedusa. Mentre a Messina sono sbarcati 512 migranti. E questa mattina, a Palermo, ne arriveranno altri 800. In tutto sono 1.920 persone in poche ore. E duemila chilometri più a nord, a Calais, dall'altra parte dell'Europa, centinaia di migranti hanno cercato di salire sui camion diretti in Inghilterra approfittando di un rallentamento causato da uno sciopero. A Calais in questo momento ci sono circa 3 mila persone che cercano di scappare dalla Francia: come dieci Ventimiglia. Nella cittadina ligure di confine anche oggi continua la clamorosa protesta dei cento migranti sdraiati sugli scogli che aspettano un'altra Europa. Immigrazione: come ti invento i "pregiudicati" nell'inchiesta sul "Cara" di Mineo di Errico Novi Il Garantista, 24 giugno 2015 Dite che il processo mediatico imperversa? E avete ragione. E anzi c'è di più: perché l'ultima avveniristica degenerazione della nostra giustizia non riguarda solo il circuito perverso media-Procure. Ormai la ricerca dell'effetto, della suggestione, contagia le stesse strutture investigative. Non solo i pm dunque ma anche gli organi di polizia giudiziaria e i corpi dello Stato che conducono materialmente le indagini. Se volete capire come funziona questa dinamica tremenda dovete seguire il filo che ha portato uno stimato medico catanese, Salvo Calì, nelle carte dell'inchiesta sul Cara di Mineo. Quella cioè condotta dalla Procura di Catania che vede indagati, tra gli altri, anche il sottosegretario dell'Ncd Giuseppe Castiglione e il solito onnipresente Luca Odevaine. Il Cara è un centro di accoglienza per immigrati. Uno snodo cioè importantissimo nella gestione dell'affare più delicato del momento, quello dell'assistenza a profughi e disperati. Bene, l'irregolarità dell'appalto per la gestione del centro in provincia di Catania è un'ipotesi della Procura etnea. Rilanciata con forza dal presidente dell'Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone. Il quale continua a invocare il commissariamento della struttura. Sulla base di cosa? Del fatto che a giudizio suo e dei pm, Castiglione e Odevaine avrebbero ritagliato l'appalto "in modo sartoriale", cioè su misura, per la cordata di imprese cooperative che poi in effetti si è aggiudicata la gara. Della cordata fa parte anche il Consorzio Sisifo. Di cui appunto il dottor Calì è stato presidente per 18 anni, e più precisamente fino al 2012. "Le gare in realtà sono state tre: due le abbiamo vinte nel periodo in cui io ero ancora presidente, la terza sotto il mio successore. A mio giudizio tutte cristalline". Cosa ci sarebbe di anomalo, invece, secondo gli inquirenti? Il fatto che l'appalto sia stato assegnato secondo un meccanismo di accorpamento: anziché dividerlo in tante gare quante erano i diversi servizi da aggiudicare, si è cercato un unico soggetto (o associazione di soggetti) che potesse fornire in modo integrato tutte le attività. L'associazione di imprese di cui anche il Consorzio Sisifo fa parte aveva i mezzi e le articolazioni per acquisire la gestione globale del Centro immigrati, e c'è riuscita. Ora, premesso che le accuse di Cantone e le ipotesi della Procura sono tutte da verificare, e visto che si è ben lontani dal farlo (d'altronde i processi davanti a un giudice terzo in Italia ci sono per questo, almeno per ora), è tornato utile, agli inquirenti, comporre un quadro che facesse il più possibile effetto. Allo scopo i carabinieri dei Ros hanno infilato nel loro rapporto tutto quanto potesse conferire almeno una certa aria da malaffare. In mancanza di meglio, anche informazioni non verificate. Come quella in cui a Salvo Calì sono stati attribuiti "precedenti di polizia". Strana definizione. Che i giornali, anche i due maggiori quotidiani del Paese, "Corriere della Sera" e "Repubblica", hanno giustamente preso sul serio. E infatti venerdì 12 giugno hanno pubblicato servizi che riportavano anche l'eco di queste informative dei carabinieri, in cui Calì è stato definito "pregiudicato". Certo, se i carabinieri in un rapporto ufficiale consegnato alla Procura dicono che il medico catanese (peraltro non indagato per l'appalto di Mineo) ha "precedenti", a rigor di logica questo dovrebbe voler dire che si tratta di un "pregiudicato". Ma i Ros dicevano la verità? No. Hanno dato ai pm di Catania e all'opinione pubblica una notizia falsa: Calì ha un casellario giudiziario pulito. Mai una condanna, mai un giudizio. Quindi non è un pregiudicato. Ma ha almeno qualche indagine a suo carico? Neppure. E allora i Ros come si sono trovati il suo nome? Perché i colleghi dei Nuclei anti sofisticazione hanno trasferito loro degli appunti in cui il dottore catanese ricorreva come "direttore medico" dell'ospedale di Paternò, anni fa al centro di indagini della Procura per delle visite oculistiche. Calì non era stato indagato neppure. E tutta l'inchiesta è stata archiviata. Ma i Ros (e prima di loro i Nas) si erano preoccupati di verificare come fosse finita? Manco per sogno. Avevano dei nomi nelle loro banche dati e li hanno passati ai pm. In modo da "dare sostanza all'indagine", diciamo. Secondo il principio della "suggestione" che poi è lo stesso con cui i pm cercano di vincere i processi nei tribunali mediatici prima di arrivare a quelli veri. Gli investigatori, che si tratti di carabinieri o altri corpi, sono ormai stati contagiati. Cercano anche loro il colpo a effetto, in modo da confezionare report sostanziosi. Che poi nella "sostanza" non ci sia anche "verità", è ormai faccenda che nel nostro processo penale comincia ad essere trascurabile. Immigrazione: "sospese le regole sui rifugiati", lo schiaffo dell'Ungheria a Bruxelles di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 24 giugno 2015 Budapest: porte chiuse ai rimpatri. Calais, assalto dei migranti ai Tir diretti in Inghilterra. Fuori controllo a Calais, dove centinaia di persone ieri hanno dato l'assalto ai Tir diretti in Gran Bretagna, il problema dei migranti sembra sfuggire di mano in tutta Europa, proprio alla vigilia del vertice Ue di domani che avrebbe dovuto sancire una ritrovata solidarietà tra gli Stati. L'Ungheria ha annunciato la sospensione unilaterale e immediata degli accordi di Dublino sui rifugiati: non accetterà ulteriori trasferimenti da altri Paesi europei, anche di persone che siano state registrate inizialmente in Ungheria. Nel comunicato ufficiale diffuso in serata, il governo di Budapest spiega che il sistema di accoglienza dei rifugiati è al collasso con oltre 60 mila arrivi, e aggiunge una nota polemica: l'Ungheria ha finora applicato gli accordi di Dublino prendendo le impronte digitali e registrando tutti coloro che richiedono l'asilo politico, "ma basta guardare una cartina geografica per rendersi conto che un rifugiato dalla Siria o dall'Afghanistan che presenta domanda in Ungheria deve avere prima attraversato illegalmente almeno quattro Stati". La critica è rivolta ai Paesi già accusati in passato (l'Italia è tra questi) di lasciare passare i migranti senza prendere loro le impronte digitali, in modo da non doversene poi prendere carico. La Commissione europea ha reagito seccamente. "L'Ungheria ha informato i Paesi partner che la sospensione delle regole di Dublino era dovuta a delle ragioni tecniche - ha detto un portavoce di Bruxelles. La Commissione ha chiesto un chiarimento immediato sulla natura e ampiezza di queste ragioni tecniche e sulle misure prese per rimediare a questa situazione". Ma il chiarimento lo ha dato ai media austriaci il portavoce ungherese Zoltan Kovacs con quattro parole: "La barca è piena". L'Ungheria, che una settimana fa ha annunciato la costruzione di un muro di 175 chilometri al confine con la Serbia, ritiene di non potere fare di più. Accanto al nuovo fronte diplomatico, ieri c'è stato l'aggravamento della crisi a Calais, in Francia, dove migliaia di persone cercano con ogni mezzo di sfuggire ai controlli e imbarcarsi per l'Inghilterra. Uno dei punti scelti dai clandestini per provare a nascondersi a bordo dei Tir è lo spazio tra la cabina e il rimorchio. Oppure si rannicchiano sotto lo spoiler antivento. Altrimenti c'è la soluzione più banale, l'assalto di massa, in gruppi anche di 20 alla volta, forzando le porte del rimorchio e cercando poi di sparire tra le merci. I poliziotti francesi ne fermano molti ma è una questione di numeri: circa 300 agenti contro 3.000 migranti eritrei, sudanesi, afghani, siriani, che a ondate successive lasciano le tende del campo provvisorio di Calais e raggiungono l'autostrada. Gli agenti li respingono con lo spray urticante o minacciando manganellate ma il massimo che possono fare è ributtarli sul prato, al di là del guard-rail, da dove poco dopo i migranti ricominceranno da capo: sanno che almeno qualcuno di loro, magari al decimo tentativo, riuscirà a sfuggire ai poliziotti e ai camionisti e a raggiungere Londra, la terra promessa. Ieri i migranti hanno approfittato degli incolonnamenti provocati dallo sciopero dei marittimi della compagnia di traghetti MyFerryLink, appena venduta da Eurotunnel alla concorrente danese Dfds Seaways. Cinquecento posti di lavoro su 600 sono a rischio, così i dipendenti di MyFerryLink hanno bloccato l'autostrada e dato fuoco alle gomme sui binari del tunnel della Manica. Il traffico degli Eurostar è stato sospeso. Decine di Tir sono rimasti fermi per quasi tutta la giornata a Calais, un obiettivo ideale per quanti vogliono arrivare in Inghilterra aggirando il muro anti-immigrati in costruzione nella zona del porto con i finanziamenti - 15 milioni di euro - della Gran Bretagna. Immigrazione: l'Australia "appalta" i rifugiati al governo cambogiano di Tommaso Del Re Il Manifesto, 24 giugno 2015 Intervista a Suon Bunsak, segretario del Chrac (Cambodia Human Rights Action Committee). "Il governo cambogiano ha firmato l'estate scorsa un accordo con il governo australiano che prevede l'accoglienza dei rifugiati provenienti dall'Australia. Nell'accordo si specifica che verranno trasferite solo persone che accetteranno volontariamente e nessuno verrà forzato a prendere questa decisione. La domanda è: Come facciamo noi ad avere la certezza che non siano stati forzati dal governo Australiano ad accettare questa proposta?" A mio parere, nessuna di queste persone voleva effettivamente essere trasferita in Cambogia." Suon Bunsak è segretario generale del Chrac (Cambodia Human Rights Action Committee), una coalizione di 21 organizzazioni che da anni si batte per il rispetto dei diritti umani in Cambogia. Con lui parliamo della situazione riguardante i quattro rifugiati arrivati da Nauru. Qualche settimana fa infatti sono arrivati qui in Cambogia dall'Australia, due uomini e una donna di origini iraniane un uomo di etnia Rohingya proveniente dal Myanmar. Tutti e quattro scappavano dalla loro terra di origine e tutti e quattro avevano fatto rotta verso l'Australia per "rifugiarsi" in quella terra. Che la situazione non fosse per nulla chiara lo si era capito da qualche settimana. A Phnom Penh alcune associazioni che si battono per i diritti umani stanno cercando, attraverso richieste ufficiali al governo, di fare luce su questo caso. Ci può spiegare la situazione dei rifugiati qui in Cambogia? "La Cambogia aderisce alla International Refugees Convention: si impegna a rispettare le regole ratificate in questa convenzione. Per quanto riguarda i migranti arrivati dall'isola di Naru, sappiamo che sono stati presi in consegna dalle autorità durante la loro traversata, mentre si trovavano in acque australiane. Sono stati trasferiti sull'isola di Nauru, dove sono stati messi in un centro di accoglienza e posti in stato di fermo, in attesa di direttive del governo australiano, che poi ha deciso il trasferimento in Cambogia". Come sono arrivati e dove sono sistemati ora? "Sono arrivati con un normale volo di linea organizzato dal governo australiano. Sono ospitati in un palazzo che si trova qui nella capitale, a pochi passi da dove siamo ora, esattamente dall'altra parte del fiume. Il governo ha dato loro un alloggio di buon livello, un appartamento semi nuovo in un complesso vicino al Museo del Genocidio, vivono tutti insieme". Lei è al corrente di che attività svolgono durante il giorno? "So per certo che per ora stanno nell'appartamento, stanno facendo lezione di lingua e cultura cambogiana e sono in attesa di capire, come tutti, come procederà la loro vita qui". La popolazione come ha reagito a questo arrivo? "La scelta di questo tipo di alloggio ha fatto storcere il naso ad alcuni, qui a Phnom Penh. C'è chi addirittura li ha definiti "fortunati", perché almeno possono dormire in un posto dignitoso, cosa non concessa a tutti. Alcuni non hanno per nulla nascosto gelosia e invidia. Sia ben chiaro, nessuno qui sostiene che queste persone non debbano essere aiutate o ospitate, se in pericolo o difficoltà nei loro paesi di origine, ma molti pretendono di avere le stesse agevolazioni, vogliono ricevere lo stesso trattamento. Qui ci sono tantissime persone in difficoltà che non vengono in nessun modo aiutate dal governo, il che alimenta rabbia e frustrazione". Quanto è il contributo monetario pagato dall'Australia per questo accordo e qual è il loro stato? "Su questo non ci sono certezze, si dice però intorno ai 40 milioni di dollari Usa. Secondo l'accordo, questa cifra verrà utilizzata anche per progetti di sviluppo in Cambogia. Ma chi ha la sicurezza che verranno davvero investiti per lo sviluppo? La corruzione è diffusa e difficile da contrastare. Il loro status ad oggi non è ancora di rifugiati, stanno facendo la trafila per ottenere lo status, ma è palese che avranno molte meno difficoltà di qualsiasi altro rifugiato che cerca di entrare dal confine". Qual è la situazione di questi rifugiati se messa a confronto con quella di "normali" rifugiati che cercando di entrare nel territorio cambogiano dalla frontiera? "È profondamente diversa. In base all'accordo con l'Australia, i quattro migranti diventeranno a tutti gli effetti rifugiati, ma non sono partiti già come rifugiati da Nauru, lo stanno diventando qui. Sono come dire "coperti" dall'accordo che permetterà loro di avere questo status a breve e senza nessun tipo di problema: passeranno il test e diventeranno a tutti gli effetti cittadini cambogiani. Per questo dico che la loro situazione è completamente diversa. Poniamo che sia lei, dall'Italia, a chiedere asilo come rifugiato. La procedura prevedrebbe prima di tutto un'intervista con l'ufficio del ministero dell'Interno che si occupa di rifugiati; poi dovrebbe superare diversi test; alla fine, la percentuale di domande respinte resta molto alta. Il loro status, invece, è creato dall'accordo e non dalla procedura normale di valutazione con cui si certifica o meno lo status di rifugiato. Ad esempio, gli immigrati cinesi di etnia uigura o i vietnamiti che cercano di passare il confine per chiedere asilo, sono spesso rispediti nei loro paesi di origine senza neanche un'intervista. Questo perché la Cambogia ha sottoscritto alcuni accordi con Cina e Vietnam per la non accettazione di questi casi". Lei, come si pone verso questo accordo? "Io sono contrario a questo accordo, perché dall'esatto momento in cui la Cambogia si impegna ad accettare questi rifugiati, commette una violazione dei diritti umani. Il governo australiano ha già commesso una violazione, perché loro volevano vivere in Australia e stavano andandoci. Essendo parte della convenzione sui rifugiati, l'Australia doveva riservare un trattamento corretto a queste persone, invece non l'ha fatto. Sono stati accompagnati in questo centro a Nauru e lì sono rimasti, prima di essere spediti qui. L'Australia ha già commesso una violazione. Se la Cambogia offre collaborazione all'Australia, si rende partecipe di questa violazione. Il comitato che rappresento è contrario all'accordo, non vogliamo essere complici. Dal governo cambogiano vogliamo chiarezza sui termini dell'accordo e pretendiamo un trattamento equo per tutti i rifugiati. Ognuno deve avere le stesse possibilità di diventare rifugiato, lo status deve essere concesso sulla base della storia di una persona, non per un accordo tra due governi". Droghe: il Libro Bianco e due leggi sulla droga di Stefano Anastasia e Franco Corleone Il Manifesto Mercoledì 24 giugno a Roma alla Camera dei Deputati si presenta il sesto Libro Bianco dedicato agli effetti collaterali della legge antidroga e in particolare alle sue conseguenze sanzionatorie, amministrative, penali e nelle carceri. Il primo libro bianco in cui sia possibile registrare gli effetti della clamorosa bocciatura della legge Fini-Giovanardi da parte della Consulta per incostituzionalità. Promosso e redatto da La Società della Ragione, Antigone, Cnca, Forum Droghe e sostenuto da un ampio numero di associazioni, unite nel Cartello di Genova, anche quest'anno il nostro lavoro anticipa la relazione annuale del governo al Parlamento. Dobbiamo denunciare con amarezza che il Governo non ha colto l'occasione offerta dalla Corte Costituzionale e sostenuta dalla Cassazione per cambiare passo sulla politica delle droghe e così non è stato ancora individuato un responsabile politico per il Dipartimento politiche antidroga. Così oggi abbiamo in vigore la resuscitata Iervolino-Vassalli e alcune parti della Fini-Giovanardi non abrogate che già il programma del Governo Prodi del 2006 prometteva di superare. Certo alcune novità sono state introdotte soprattutto per rispondere alla situazione insostenibile del sovraffollamento delle carceri per cui l'Italia è stata condannata dalla Cedu, dall'introduzione della fattispecie autonoma per i fatti di lieve entità con una pena da sei mesi a quattro anni di reclusione (però senza distinzione tra le sostanze) all'ipotesi alternativa di irrogazione della pena del lavoro di pubblica utilità. Presentiamo i numeri degli ingressi in carcere per violazione dell'art. 73, dei presenti nelle carceri al 31 dicembre 2014, delle misure alternative e delle segnalazioni alle prefetture per consumo e le relative sanzioni amministrative. La diminuzione di 9000 detenuti nel corso del 2014 è determinata dal calo dei detenuti per detenzione e spaccio di stupefacenti di circa 5500 unità. È evidente il peso che l'abrogazione della legge Fini-Giovanardi, la differenziazione di pene per le cosiddette droghe leggere e il non ingresso in carcere per i casi di lieve entità hanno prodotto. Purtroppo, e lo denunciamo, l'Amministrazione penitenziaria e il ministero della Giustizia non sono in grado di fornire dati più dettagliati sugli effetti delle diverse fattispecie penali determinate dalla legge sulle droghe e su quelli della declaratoria di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi. Dopo la Conferenza di Genova "Sulle orme di don Gallo", un gruppo di lavoro promosso da La Società della Ragione ha proceduto alla elaborazione di due proposte di legge: un testo di riforma del 309/90 a partire dal risultato del referendum del 1993 e una proposta di regolamentazione della produzione, della vendita e dell'acquisto di canapa. Offriamo queste ipotesi all'attenzione dei parlamentari, in particolare a quelli che hanno costituito un intergruppo su questa questione non più rinviabile con la speranza di un fruttuoso confronto tra il mondo delle istituzioni e il movimento diffuso nelle città. Il 2016 sarà un anno decisivo sul piano internazionale perché è convocata a New York nel mese di aprile una sessione straordinaria dell'assemblea generale delle Nazioni Unite sulle droghe per approfondire i cambiamenti avvenuti in molte parti del mondo, ma soprattutto in Sud America, dalla Bolivia all'Uruguay. Vorremmo che l'Italia arrivasse a questo appuntamento avendo abbandonato definitivamente la compagine repressiva degli stati proibizionisti e essendo invece partecipe di un impegno europeo per la modifica delle Convenzioni internazionali. Il Libro Bianco è consultabile su fuoriluogo.it/librobianco. Siria: Ong; il regime usa le detenute come "armi da guerra", sottoponendole a torture Aki, 24 giugno 2015 Le donne detenute nelle carceri del regime siriano vengono usate come "armi da guerra". Lo denuncia una rete di gruppi per i diritti umani, l'Euro-Mediterranean Human Rights Network, documentando arresti "arbitrari", abusi sessuali e torture. "Le donne vengono sempre più usate come armi nella guerra sanguinosa che continua in Siria, con terribili ripercussioni sulla composizione sociale del Paese", ha scritto l'organizzazione in un rapporto diffuso in occasione della riunione del Consiglio dell'Onu sui diritti umani che si tiene oggi a Ginevra. Il presidente dell'organizzazione, Michel Tubiana, ha esortato la comunità internazionale a esercitare pressioni per aiutare queste donne. L'Osservatorio siriano per i diritti umani stima che siano oltre 200mila le persone, tra cui migliaia di donne, detenute nelle carceri siriane. Nel rapporto di 42 pagine, intitolato "La detenzione delle donne in Siria: un'arma di guerra e di tortura", si denunciano casi di donne incinte tenute in carcere e di madri in cella con bambini di età inferiore ai 18 anni. Nel testo si parla di "violazioni orrende contro le donne condotte da parte del governo siriano in modo sistematico e diffuso, nonché l'uso di donne come merce di scambio nelle trattative sugli ostaggi con gruppi armati non governativi". Le donne detenute nelle carceri del regime siriano sono soggette a "varie forme di privazioni, minacce, isolamento, oltre a varie forme di torture, compreso lo stupro e la molestia sessuale", denuncia l'ong. Il loro calvario continua molto tempo dopo che vengono liberate, con il rapporto che cita persone licenziate dai posti di lavoro, altre respinte dalle loro famiglie o costrette a divorziare. Laila, un'attivista di 38 anni e madre di due figli, ha ricordato il suo interrogatorio in carcere nel 2013 avvenuto "in una cella frigorifera piena di ratti", costretta a restare nuda mentre aveva le mestruazioni. Un'altra prigioniera, Sawsan, ha detto che è stata violentata da 10 membri delle forze di sicurezza, la prima volta di fronte a suo figlio sedicenne. Libano: Hezbollah accusata di aver diffuso i video delle torture del carcere di Rumiyeh Nova, 24 giugno 2015 Il ministro della Giustizia libanese, Ashraf Rifi, ha accusato le milizie sciite Hezbollah di aver diffuso i video che documentavano i casi di torture subite dai detenuti del carcere di Rumiyeh a Beirut. Dopo aver incontrato il ministro dell'Interno libanese, Nahad al Mashnuq, a Beirut, Rifi ha accusato Hezbollah di aver diffuso i video. Dei quattro video esistenti che riguardano le torture inflitte ai detenuti islamici del carcere solo due sono stati pubblicati su Facebook mentre ce ne sono altri due mai visti. "Gli unici che li posseggono questi filmati - ha aggiunto il ministro - sono gli Hezbollah". Isis: nuova ferocia in un video, cinque detenuti chiusi in una gabbia e lasciati annegare Nova, 24 giugno 2015 I jihadisti dell'Isis hanno giustiziato cinque prigionieri. Prima hanno legato loro le mani, in modo che non si potessero muovere, poi li hanno rinchiusi in una gabbia, li hanno calati in uno stagno e li hanno lasciati affogare. Le telecamere dello Stato islamico hanno testimoniato il momento dell'immersione e hanno filmato l'annegamento. Il video è stato pubblicato sul versione online del Mirror, quotidiano britannico. Oltre i cinque annegati ci sono state 16 vittime a Ninive, in Iraq. Alcuni prigionieri sono stati rinchiusi in un auto e sono stati fatti saltare in aria con un colpo di bazooka. Anche in questo caso, un filmato testimonia tutto. Altri detenuti, almeno sei, sono stati fatti saltare in aria con dell'esplosivo, legato al collo, dopo aver confessato di essere delle spie. Ancora una volta l'Isis, nei propri video, ha utilizzato una gabbia per richiudere il prigionieri prima dell'esecuzione. Lo scorso 3 febbraio il gruppo fondamentalista aveva pubblicato online un video in cui un pilota giordano veniva bruciato vivo dentro una gabbia.