Da Padova a Parma: il rispetto dei diritti in carcere è "discrezionale"? di Giovanni Donatiello (Casa di reclusione di Parma, Sezione AS1) Ristretti Orizzonti, 23 giugno 2015 Mi chiamo Giovanni Donatiello, sono detenuto nella sezione A.S1 della Casa di Reclusione di Parma dal 4 giugno di quest’anno proveniente dalla Casa di Reclusione di Padova. Porto la mia testimonianza a conforto del documento "Lettera aperta dei detenuti A.S1 di Parma" per portare a conoscenza la sperequazione esistente tra i due Istituti penitenziari già citati, sia sotto l’aspetto trattamentale sia sotto l’aspetto della garanzia dei diritti del detenuto, ma soprattutto della persona! Sono stato il primo, dei due detenuti già giunti da Padova cui il Garante comunale fa riferimento nel comunicato stampa del 17/06/2015. Mi trovo in carcere ininterrottamente dal luglio del 1986 (29 anni) e dal 2000 nelle sezioni EIV-A.S1. Nella sede di provenienza svolgevo una serie di attività che mi permettevano di impegnare il tempo utilmente e vivere una detenzione decente. Sono iscritto al secondo anno della Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Padova. Per motivi di studio ero autorizzato a detenere il proprio PC nella camera di pernottamento. L’Università di Padova, attraverso una fondazione, garantiva sia l’iscrizione gratuita sia tutte le spese occorrenti per un eventuale cambio di sede, come nel mio caso. Infatti, prima di arrivare a Padova ero iscritto presso l’Università di Pisa. Era previsto un servizio di tutoraggio eccellente, veniva assegnato ogni studente un tutor, che potevi incontrare puntualmente anche tutte le settimane. L’accesso dei tutor era consentito tutti i giorni fino alle ore 17:00. I testi per gli esami venivano forniti con puntualità. Un metodo che mi metteva nelle condizioni di studiare con più serenità. Facevo e faccio parte a pieno titolo della redazione della rivista "Ristretti Orizzonti". Partecipavo al progetto "Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere". Gli incontri con gli studenti, nella media di 70-80 ragazzi a ogni incontro, si svolgevano in un auditorium tre volte alla settimana per tutta la durata dell’anno scolastico. Frequentavo un corso di lingua Inglese. Ho frequentato un corso universitario di Diritto Privato, un corso di yoga e meditazione. Ero iscritto per seguire un corso universitario di Diritto del Lavoro. Ho partecipato a diverse partite di calcetto con scolaresche. Sono intervenuto in svariati incontri con professori universitari, i quali nella veste di relatori affrontavano tematiche di vario genere. Per ultimo, non per ordine di importanza, il 22 maggio sono intervenuto al convegno che si è tenuto presso la Casa di Reclusione di Padova intitolato "La rabbia e la pazienza" alla presenza di 600 persone giunte da tutta Italia. Tutte le attività svolte a Padova coprono un arco temporale di appena 17 mesi, il tempo di durata della mia permanenza in quel carcere. Il comunicato stampa del Garante elenca le attività presenti in questo istituto: veramente esigue e "possibili" più che reali. Se provassimo a fare una semplice comparazione tra le attività da me svolte a Padova e le attività svolte da tutti i detenuti presenti in questa sezione in tutto l’arco della loro permanenza in questo Istituto, credo che il confronto dovrebbe mettere in crisi chi amministra questo Istituto rispetto all’art.27 della Costituzione. Ma se le amministrazioni hanno come finalità il raggiungimento degli obiettivi prefissati, mi chiedo quali siano in questo Istituto, e se alla fine non rischino di essere solo quelli dell’annientamento delle persone, spesso lasciate marcire in cella per tutta la giornata, prova ne è che mi ritrovo rinchiuso per almeno venti ore al giorno in cella e per giunta in compagnia di un’altra persona, condizione degradante in particolare per chi è da anni in carcere e ritengo anche illegale in quanto lo spazio calpestabile è di gran lunga inferiore ai tre metri quadrati previsti dalla sentenza Cedu (Torreggiani V.S. Italia), nella quale viene ribadito il diritto di vivere una detenzione che sia rispettosa della dignità della persona. A me pare di palmare evidenza che in questo Istituto vengono violati i più elementari diritti garantiti all’art.3 e 27 della Costituzione; vengono ignorate le garanzie stabilite dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (V.S. Torreggiani); non si rispetta la prescrizione dell’articolo 27 comma 4 D.P.R. n°230/2000 della continuità trattamentale, che di fatto viene azzerata. In sintesi, ciò che voglio dire è che essere quotidianamente a contatto con un pensiero attivo, profondo e creativo, come viene praticato nel carcere di Padova, dovrebbe essere una condizione della detenzione fondamentale e continuamente alimentata, mentre in questa sede viene annientata! Ecco come il potere discrezionale con cui viene gestito ogni carcere, spesso non rispettando i principi di legalità, spesso si traduce in una violazione sistematica dei Diritti del detenuto, dimenticando che dietro ad una posizione giuridica vi è sempre una persona. Giustizia: quella legalità "à la carte" da dimenticare di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 23 giugno 2015 I grandi scandali offuscano i tanti comportamenti illeciti percepiti come "peccati veniali". C'è bisogno di un mutamento di mentalità: e il governo deve dettare le regole. Non sempre risulta chiara nella nostra cultura la distinzione tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, prevalendo in molti un'idea della legalità à la carte. Grandi scandali oscurano i piccoli casi di illegalità e spesso ciò che è formalmente vietato appare una leggerezza. I grandi scandali inevitabilmente oscurano i piccoli casi di illegalità diffusi nella società. Casi piccoli, peraltro, in relazione ai soggetti interessati e alle somme illecitamente percepite, ma spesso non altrettanto dal punto di vista del codice penale. L'ultima vicenda del genere è quella che ha coinvolto i dipendenti di un comune del Casertano, Orta d'Atella, i quali - in una percentuale che ha dell'incredibile (85 su 128) - si astenevano dall'andare al lavoro lasciando che a turno qualcuno firmasse il cartellino per gli altri. È facile prevedere che la notizia, riportata due giorni fa da questo giornale, sarà presto dimenticata di fronte alle ulteriori rivelazioni su Mafia Capitale, agli sviluppi della vicenda legata al finanziamento dell'ospedale Bambino Gesù o a qualche nuovo scandalo che ancora non conosciamo. Eppure, nella sua miserabile banalità (quante volte abbiamo letto di casi di assenteismo, di cartellini timbrati per conto d'altri e cose simili), la vicenda di quel piccolo comune del Casertano appare molto significativa. Anzitutto testimonia una arrogante presunzione di farla franca: tra gli indagati c'è anche chi rivolgeva un saluto beffardo alle telecamere che lo inquadravano mentre timbrava per i colleghi. Una presunzione che, in casi del genere, finisce con il rivelarsi spesso fondata, se pensiamo non tanto alla fase delle indagini o del dibattimento nelle aule giudiziarie ma a ciò che avviene dopo un'eventuale condanna, quando il licenziamento del dipendente infedele non è affatto scontato o, se avviene, è a volte seguito dal reintegro grazie alla sentenza di un tribunale. Quale messaggio ciò configuri agli occhi dei tanti italiani onesti è facile immaginarlo. Certo, si potrebbe ricondurre la truffa di cui sono accusati i dipendenti comunali di Orta d'Atella al tessuto civile e culturale particolarmente degradato di un comune in cui nel 2013 vennero sequestrate quasi 1.500 case fuorilegge e il cui sindaco tre mesi fa è stato arrestato per associazione mafiosa. Ma sarebbe giustificato solo in parte, visto che i casi di piccoli reati sembrano presenti anche in altre parti del Paese: dagli addetti al trasporto bagagli che negli aeroporti milanesi alleggerivano valigie e borse dagli oggetti di valore a quegli impiegati del 118 che, per ricaricarsi il cellulare, tenevano occupate le linee telefonando a se stessi. Del resto, di quanti piccoli reati, di quanta illegalità diffusa parla la recente inchiesta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella su Roma? Le migliaia di assunzioni inutili fatte attraverso le municipalizzate o i "premi regalati a chi non lavora" testimoniano appunto un disprezzo per le regole che coinvolge gli immediati beneficiari, ovviamente, ma anche politici e sindacalisti locali. E cosa testimonia il poco verosimile dato, sostanzialmente immutabile da decenni, secondo il quale un italiano su tre guadagnerebbe meno di 10 mila euro lordi l'anno? Testimoniano questi esempi, e i tanti altri che si potrebbero fare, prima ancora che una diffusa illegalità, una incerta percezione della necessità di rispettare leggi e regole. Le une e le altre sono in Italia troppe, spesso confuse e contraddittorie, è vero; ma lo è anche che non sempre risulta chiara nella nostra cultura la distinzione tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, prevalendo in molti un'idea della legalità à la carte. Spesso ciò che è formalmente vietato - ad esempio, non andare al lavoro facendosi timbrare il cartellino - appare solo una leggerezza. Lo stesso può dirsi per il mancato pagamento delle imposte che da sempre - complice anche una politica che, di destra o di sinistra, ha costantemente aumentato le tasse - è considerato come ampiamente giustificato (già nel 1962 un'indagine demoscopica registrava come, per la maggioranza degli interpellati, frodare il fisco si collocasse all'ultimo posto tra le azioni considerate negativamente). Ma di tutto questo la politica sembra non avere consapevolezza alcuna, e non va oltre le frasi retoriche sulla legalità che non costano nulla e a nulla servono. Avremmo invece bisogno di un governo consapevole di come la capacità di ripristinare regole e norme, finalmente ridotte di numero e semplificate, sia forse il primo problema italiano: con un'opera di bonifica culturale che pochi sembrano avere tutte le carte in regola per intraprendere, ma che sarebbe più importante della "buona scuola" o delle tante riforme puntualmente annunciate da ogni esecutivo. Giustizia: "ascoltare i detenuti", Rita Bernardini agli Stati Generali sull'esecuzione penale radicali.it, 23 giugno 2015 Parteciperà anche la segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini agli "Stati Generali sull'esecuzione penale", una procedura di consultazione pubblica voluta dal ministero della Giustizia che, come si legge nella lettera di invito, "mira a raccogliere il contributo di idee e proposte di avvocati, magistrati, docenti universitari, operatori penitenziari e sanitari, assistenti sociali, volontari, garanti delle persone detenute, rappresentanti della cultura e dell'associazionismo civile in prospettiva di un cambiamento profondo del sistema di esecuzione della pena". L'iniziativa si sviluppa attraverso 18 tavoli di lavoro, con un comitato di esperti nominato dal ministero e coordinato da Glauco Giostra, professore ordinario di Procedura penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza". Alla segretaria di Radicali Italiani va il coordinamento del tavolo sul "Mondo degli affetti e territorializzazione della pena". La prima riunione tra i coordinatori dei 18 tavoli tematici, unitamente al Comitato di esperti che segue lo svolgimento della complessiva consultazione, è prevista per mercoledì 1 luglio. "Come ho specificato al prof. Mauro Palma", scrive Rita Bernardini sul suo profilo Facebook, "chiederò colloqui anche presso alcune carceri per ascoltare direttamente la voce dei detenuti e del personale, anche volontario, che vive a stretto contatto con loro. È evidente, per i miei amici di Facebook, che sono particolarmente graditi tutti i suggerimenti che vorranno darmi. Preciso che questo lavoro è a titolo gratuito". Giustizia: sulla chiusura degli Opg incombe il rischio fallimento di Antonio Mattone Il Mattino, 23 giugno 2015 La data era fissata per lo scorso 31 marzo. A partire da quel giorno gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari avrebbero dovuto chiudere. L'annuncio fu dato con molta enfasi, si stava per compiere un evento storico. Con le strutture che in modo del tutto inappropriato contenevano follia e delinquenza, si chiudeva una pagina controversa e talvolta drammatica del sistema penale del nostro Paese. Oggi, a distanza di ottanta giorni, il clima di euforia è improvvisamente svanito. La realtà è del tutto diversa da quella auspicata e gli Opg non si sono affatto svuotati. In Campania attualmente sono presenti 122 internati, 67 ad Aversa e 55 a Secondigliano. Di questi circa la metà sono campani, gli altri provengono da altre regioni. Anche le Rems, le Residenze per l'Esecuzione delle Misure di Sicurezza che avrebbero dovuto sostituire gli Opg, non sono ancora pronte. Sempre in Campania ne erano previste due, a Calvi Risorta e S. Nicola la Baronia da 20 posti ciascuna. Se tutto andrà secondo i programmi stabiliti saranno completate entro l'estate, e saranno le prime funzionanti a livello nazionale. Nel frattempo sono state individuate tre Rems provvisorie, in totale 38 posti letto, di cui solo due sono già aperte, con una grande corsa ad accaparrarsi i posti disponibili. A Mondragone dove possono essere ospitati 8 internati, sono state fatte ben 15 assegnazioni, con un evidente scollegamento tra la magistratura e i servizi sanitari. Per di più le Rems non sono come il carcere che può contenere un numero di detenuti superiore alla soglia prevista. In queste strutture ulteriori ricoveri rispetto al tetto prestabilito determinerebbero di fatto una situazione di illegalità. Al momento regna una grande confusione che coinvolge gli operatori sanitari, quelli penitenziari e la magistratura. Cos'è allora che non ha funzionato? E se pensiamo che solo pochi anni fa gli internati ospitati negli istituti campani erano quasi 500, non ci troviamo tutto sommato in una situazione migliore? Indubbiamente sono stati fatti molti passi in avanti. Tuttavia la chiusura degli Opg, principio sacrosanto, non è stata accompagnata da azioni adeguate che avrebbero reso possibile questo delicato passaggio. Finito l'effetto spot dell'annuncio, emerge con grande chiarezza che il sistema Italia non era preparato. Basti pensare che la Campania che è forse la regione più virtuosa, si è trovata proprio per la sua efficienza in una situazione di grande difficoltà, dovendo assorbire nelle proprie Rems anche ricoverati non campani. Se alcune regioni scaricano su altre il peso delle loro inadempienze si creano quei corti circuiti che rischiano di rendere ingestibile questa svolta epocale. E a farne le spese sono soprattutto gli internati, come quel campano che per mancanza di posti è finito in una struttura della Sicilia, aggiungendo alla complicata condizione della malattia psichiatrica il disagio dell'allontanamento dal proprio territorio. La legge 81 del 2014 che definiva la chiusura degli Opg, se aveva l'intento di dare una decisa sterzata, palesava alcuni evidenti limiti, come il commissariamento previsto per le Regioni inadempienti. Con questo provvedimento, del resto non attuato pur talvolta essendoci le condizioni, il commissario avrebbe dovuto predisporre in un tempo ragionevole i piani per la definizione delle Rems, per riorganizzare i Dsm (dipartimenti di salute mentale) e avviare i progetti terapeutici individuali. E nel frattempo che fine far fare agli internati? Poi emerge un'altra criticità, la difficoltà dei Dsm a prendere in carico i pazienti più problematici, quello zoccolo duro che sono gli internati rimasti in Opg e quelli per cui fallisce la licenza finale di esperimento. Ma le incognite sul futuro riguardano soprattutto i nuovi ingressi che nel frattempo continuano ad essere predisposti nelle Rems, con un intasamento che nei prossimi mesi diventerà ingestibile. In questa situazione caotica sarebbero auspicabili protocolli di collaborazione tra magistratura e le Asl come previsto dalla legge 81 e, laddove possibile, l'adozione di misure di sicurezza non detentive come la libertà vigilata. Solo così si potrà cercare di attenuare il disagio che è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, resta sullo sfondo una grande domanda: come è possibile pensare di superare gli Opg senza modificare il codice penale e le misure di sicurezza? Giustizia: diritti umani, una sfida impossibile se non c'è "conoscenza" di Domenico Letizia Il Garantista, 23 giugno 2015 Radicali. Il 27 luglio a Roma la conferenza sullo stato di diritto con "Non c'è pace senza giustizia" e "Nessuno tocchi Caino". Il Partito radicale nonviolento, Non c'è Pace senza Giustizia e Nessuno tocchi Caino hanno convocato la seconda conferenza internazionale "Universalità dei diritti umani per la transizione verso lo stato di diritto e l'affermazione del Diritto alla Conoscenza", che si svolgerà il 27 Luglio a Roma, presso il Senato. Gli obiettivi di questa campagna sono fondamentali per la visione e il mandato delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni quali l'Unione europea e la Lega degli Stati Arabi. Gli ascoltatori di Radio Radicale, soprattutto quelli della conversazione settimanale della domenica pomeriggio con Marco Pannella, da qualche tempo hanno abituato il proprio udito a prestare attenzione alle dichiarazioni di Pannella sull'Onu. E hanno compreso quanto saranno determinanti, in questo campo, le analisi di conferenze che in futuro dovrebbero aversi a Bruxelles o Ginevra, la partecipazione a tali conferenze di Special Rapporteurs, di esperti indipendenti, di membri delle Ong. E ancora, militanti e simpatizzanti radicali avranno colto le novità provenienti dall'Ufficio dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Ci si interroga dunque su come proseguire la campagna all'Orni del Partito radicale per lo stato di diritto e il diritto umano alla Conoscenza. Ma l'altra domanda che in tanti dovremmo porci consiste neh' analizzare cosa il Partito radicale sta donando all'Onu. Il lavoro del Radicai party e di Marco Pannella è utile anche per un'analisi generale dei limiti e della forza dell'Orni? Negli anni Novanta le Nazioni Unite si fecero paladine dell'espansione delle Organizzazioni Non Governative, viste come una sorta di nuova forma di partecipazione democratica a livello planetario. Le Ong potevano essere una nuova forma di legittimazione dell'Organizzazione Onu, una valida alternativa alla frustrante subordinazione al volere dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Le Nazioni Unite diedero grande visibilità alle Organizzazioni Non Governative inaugurando la stagione delle grandi conferenze internazionali degli anni Novanta. Soprattutto, nel campo dei diritti umani e universali, l'attivismo delle Ong ebbe come risultato la creazione di una nuova agenzia: l'Alto Commissario Onu per i diritti umani, un'autorità indipendente nominata dal segretario generale e incaricata di trattare e segnalare agli organi politici le più gravi violazioni dei diritti umani da parte degli Stati nazionali. Ma i dolorosi fallimenti delle Nazioni Unite spinsero il segretario Kofi Annan, in carica fino al Dicembre 2006, ad avviare una grande riforma amministrativa dell'Orni. Annan provò, tra le altre cose, a seguire la strada di un ampliamento del diritto internazionale, con l'introduzione del concetto di "responsabilità a proteggere". L'espressione fu coniata nel 2001 da una commissione di studio del governo canadese, e dal 2004 è entrata nel lessico delle Nazioni Unite divenendo nel 2006 una delle fonti di risoluzione del Consiglio di Sicurezza. L'idea è quella di richiamare gli Stati alla responsabilità primaria nel garantire e proteggere la propria popolazione da gravi violazioni dei diritti umani, anche in presenza di un governo legittimamente in carica. Il ruolo dei Radicali L'analisi del Partito radicale, se vogliamo addentrarci nello sviluppare una riflessione sulla tematica, richiama l'attenzione sul principio di responsabilità, avanzando la proposta della "conoscenza" come argine all'illegalità internazionale. Lo stato di progressiva violazione della legalità ha, di fatto, trasformato le democrazie occidentali in "democrazie reali" come accadde per gli ideali socialisti, traditi di fatto da regimi di "socialismo reale". La progressiva e pervasiva violazione dei diritti umani è un processo che interessa tutti i Paesi, modificando i processi di riforme strutturali in meri meccanismi di assistenza tecnica, se non in veri e propri interventi militari. Testimonianza di questa erosione dei diritti umani è l'invasione dell'Iraq avvenuta nel 2003, decisa sulla base di informazioni false, manomissione della conoscenza accompagnata da una attualità di spionaggio costante da parte dell'Nsa a danno dei cittadini americani e l'uso crescente di tecnologie armate militarmente, quali i droni, in aperta violazione del diritto internazionale, poiché esportano e permettono l'applicazione della pena di morte senza neanche le garanzie di un giusto processo. Il crescente numero di casi che confermano la mancanza di rispetto per le norme internazionali e la continua violazione dei principi cardine dello Stato di diritto ha posto al centro delle problematiche politiche internazionali la necessità dei cittadini di accedere all'informazione. La codificazione del nuovo "diritto umano alla conoscenza" che la galassia radicale intende promuovere in seno alle Nazioni Unite potrebbe essere quella riforma globale che a partire proprio dall'Onu richiama l'Agenzia ad una precisa responsabilità della sua azione politica; e contemporaneamente potrebbe permettere l'estensione e l'universalità dei diritti umani minacciati da tendenze autoritarie, antidemocratiche, populiste e nazionaliste. Quest'anno, le Nazioni Unite compiono 70 anni (1945-2015): era il 26 giugno 1945 quando fu firmato lo Statuto delle Nazioni Unite; qualche mese dopo, il 24 ottobre, la sua entrata in vigore sancì la nascita dell'Orni, la principale Organizzazione sovranazionale mondiale cui aderiscono 193 Stati e che opera per favorire la soluzione pacifica delle controversie internazionali e il rispetto dei diritti umani. A ben vedere, l'azione del Partito Radicale e delle sue Ong è il miglior augurio di buon compleanno per le Nazioni Unite. Giustizia: il Parlamento europeo richiama al rafforzamento degli standard per il legal aid dall'Osservatorio Europa dell'Ucpi camerepenali.it, 23 giugno 2015 Il Parlamento europeo, nel rammentare che le persone che sono sospettate o accusate di un reato o sono state attinte da un Mandato di Arresto Europeo ma che non possono affrontare la spesa di un legale o comunque del processo, dovrebbero avere diritto ad accedere ad un fondo per l'assistenza legale previsto dallo Stato membro della Ue. Ciò per garantire il rispetto della direttiva sui diritti ad un giusto processo. Il "legal aid" dovrebbe essere garantito in ogni fase del processo penale e per ogni reato, ad eccezione di quelle che vengono definite "minor offences", che andranno tassativamente definite. Dennis de Jong, relatore della risoluzione, ha dichiarato che "per chi è privo dei necessari mezzi finanziari, solo il legal aid può garantire il diritto all'accesso a una difesa effettiva". Al riguardo, il Parlamento europeo segnala che la proposta di direttiva formulata dalla Commissione vorrebbe garantire solo il diritto al legal aid provvisorio e non ordinario-definitivo per le persone sospettate o accusate nei processi penali che siano private della libertà personale, e ciò dal momento in cui siano arrestate dalla polizia giudiziaria e in ogni altro caso similare, fino alla decisione finale sul loro diritto ad essere ammessi al legal aid e fino a quando questo acquisti effetto. Tale diritto viene garantito anche a coloro che siano attinti da un Mae. Nella risoluzione del Parlamento europeo si aggiunge anche l'invito agli Stati membri a considerare la singola situazione economica del richiedente il legal aid unitamente agli interessi della giustizia. Ciò significa, per esempio, valutare la complessità del singolo caso o la gravità dell'imputazione contestata. A tal fine, è importante mettere a conoscenza degli interessati, in modo facile e comprensibile, tutte le informazioni per l'accesso al legal aid. Altrettanto importante è che gli Stati membri prevedano e mantengano un sistema di "accredito" dei difensori abilitati al legal aid anche attraverso una formazione professionale continua al fine di assicurare la loro preparazione e indipendenza. Inoltre, i sospettati o accusati a cui venga assegnato un difensore in legal aid hanno il diritto di mantenerlo per tutto il corso del processo, salvi i casi eccezionali di sostituzione. Viene inoltre richiesto, dalla risoluzione del Parlamento, l'inserimento di una clausola di salvaguardia. Se infatti il sospettato o accusato si scopre successivamente non essere legittimato alla concessione del legal aid secondo la legge nazionale oppure se ha fornito intenzionalmente alle competenti Autorità false informazioni sulla sua personale situazione finanziaria, gli può ("may") essere richiesto, eccezionalmente, il rimborso dei costi di difesa affrontati dallo Stato. Il prossimo passo verso la conclusione dei negoziati prevede a breve un vero e proprio dialogo a tre ("trialogues") tra Parlamento, Consiglio e Commissione. Giustizia: D'Ascola (Ap); la "certezza della pena" appartiene al diritto penale del passato Ansa, 23 giugno 2015 "Più il sistema si sbilancia nella direzione di prevedere fatti illeciti qualificati nelle forme del reato, puniti con la pena detentiva, più il problema dell'affollamento carcerario è destinato a non risolversi". Ad affermarlo è il senatore Nico D'Ascola, responsabile giustizia Area Popolare, intervenuto al convegno sulle carceri nell'aula magna della facoltà di Architettura di Reggio Calabria. "Reato e pena - prosegue - non costituiscono più un collegamento assolutamente indissolubile. La certezza della pena appartiene ad un diritto penale del passato, non certo ad un diritto penale del presente. Sarebbe il caso ovviamente di prenderne atto allorquando ci ricordiamo di principi fondamentali che non trovano più un corrispettivo nelle attuali esigenze di un diritto penale che ormai, perlomeno da quarant'anni, si è trasformato in questa direzione. Tra l'altro non dobbiamo dimenticare una circostanza estremamente importante, che è dimostrativa di una sorta di cortocircuito nel quale versa questa difficile e complessa disciplina. Il punto serio della questione dovrebbe consistere nel comprendere, intanto, che l'affermazione della responsabilità penale andrebbe garantita da un sistema che, rispetto all'attuale, sia più in grado di selezionare la certa responsabilità del condannato rispetto ai casi di incerta responsabilità che dovrebbero esitare in sentenze dichiarative della non responsabilità dell'imputato". "Quindi - conclude D'Ascola - la garanzia andrebbe certamente riferita alle fasi dell'accertamento, a pene commisurate effettivamente alla gravità del fatto e che tengano conto del principio della rieducazione". Giustizia: le otto ragioni per cui le Procure hanno puntato i mirini sul governo Renzi di Renzo Rosati Il Foglio, 23 giugno 2015 Incarichi extragiudiziari, responsabilità civile, cantonismo, intercettazioni e segnali minacciosi. Oggi la Consulta. Oggi la Corte costituzionale decide la legittimità del blocco degli stipendi pubblici: sono in palio 35 miliardi, due volte il costo del verdetto sulle pensioni, soldi che Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan non saprebbero dove prendere. E anche se l'esecutivo riuscisse a ridurre l'impatto come appunto per i pensionati, si aprirebbe la breccia al ritorno sulla punta delle baionette giudiziarie-sindacali dell'automatismo della paga: bye bye alla meritocrazia promessa dalla riforma della Pubblica amministrazione. Certo, la Consulta può rigettare i ricorsi o accoglierli senza effetti retroattivi, come per la Robin tax, invocando l'articolo 81 della Costituzione che impone il rispetto dell'equilibrio dei conti pubblici. Ma il presidente Alessandro Criscuolo dice che evitare il dissesto "è compito di altri organi dello stato". Dunque tutto è possibile. Come se servissero ulteriori dimostrazioni di una magistratura che, ai suoi massimi livelli, stringe l'esecutivo per, diciamo, le parti basse. Con i giudici civili, penali e amministrativi, i fronti aperti sono molti; se ne possono individuare otto principali, dalla Consulta a Mafia Capitale, dagli effetti della scelta renziana di investire Raffaele Cantone quale zar della legalità, e da lì il proliferare del cantonismo in tutte le amministrazioni, alla stretta annunciata sulle intercettazioni; fino ai tentativi di Renzi di rottamare i privilegi della casta giudiziaria: il taglio ai 45 giorni di ferie, l'introduzione della responsabilità civile delle toghe, il divieto di incarichi extragiudiziari (arbitrati e simili), la pensione a 71 anni come per tutta l'élite dei civil servant. Norme, riforme e svolte, però, non sostenute finora con la tempra e le modalità anche esteriori che ci si aspetta, se sei il primo premier-segretario di sinistra che si dice garantista e affronti una questione epocale quale la giustizia in Italia. Neppure dal Renzi 1 che ora il Renzi 2 rimpiange. Si potevano forse liquidare via tweet le extra-ferie. Ma la responsabilità civile - inattuata dal referendum del 1987, auto applicata all'acqua di rose dal Consiglio superiore della magistratura - meritava un intervento forte in Parlamento, che riscrivesse decenni di errori e persecuzioni giudiziarie, magari non limitandosi alla memoria nobile di Enzo Tortora ma affondando nel vivo delle vicende De Magistris, Ingroia, Mastella (sì, anche Mastella). Così come meriterebbe qualcosa di più, rispetto a una comunicazione in sala stampa, la riforma delle intercettazioni telefoniche, qualcosa che spiegasse seriamente (sempre da sinistra) perché la gogna telefonica-mediatica è stata per numero, costi ed etica una grande anomalia dell'Italia nel contesto del mondo civile. Certo, per questo ci vuole visione circolare per chi ha appunto voluto Cantone e poi si è ritrovato il cantonismo a pioggia tra assessori - compresi quelli del Campidoglio sui quali imperversa Mafia Capitale - e codici etici che adesso deve smontare, tipo alla Cassa depositi e prestiti dove il candidato governativo a amministratore delegato, Fabio Gallia, è rinviato a giudizio dalla procura di Trani per questioni di derivati. Che si fa, si mettono toppe qua e là, o si dice dal banco del presidente del Consiglio "signori, ricollochiamo i poteri al loro giusto posto, con rispetto reciproco"? Se sulla questione giustizia il Renzi 2 non torna al Renzi 1, nella sostanza prima che nella forma, poi appunto la tenaglia si stringe a morsa come a Roma, dove il premier-segretario del Pd vuol liberarsi di Ignazio Marino parandosi dietro indimostrabili accuse di mafia, e non caso mai all'incapacità amministrativa. Forse a Renzi sarebbe tornato utile ricordare il precedente di Flavio Delbono, sindaco di Bologna quando lui era sindaco di Firenze. Indagato per peculato, abuso, truffa con tanto di "disegno corruttivo", tra appalti e tabulati telefonici, condotto al patteggiamento, commissariato: infine tutto archiviato un anno fa. Ma il carrozzone del circo mediatico giudiziario, fatti i danni, era già passato oltre. Oggi staziona accanto al seggio del senatore di Ncd Antonio Azzollini, quel circo mediatico giudiziario, e lascia intendere che prima del voto per consentirne l'arresto non sia necessario nemmeno leggere le carte. Esempi insomma non mancano per corroborare una linea garantista di alto profilo, parlandone alla gente meglio che con le slides. Ma se non lo fai, la tenaglia che morde a Roma stringe in maniera più soft ma più subdola in Parlamento, dove il presidente della Corte dei conti va in commissione a contestare la riforma della responsabilità dei dirigenti pubblici "che non tutela l'autonomia dei giudici contabili" (cioè la sua). Dove il procuratore nazionale antimafia ha "messo in guardia sull'efficienza e la continuità delle attività intercettative" causa il taglio dei guadagni finora riconosciuti alle compagnie telefoniche (ovvero, meno business meno intercettazioni). Dove sarebbe già pronta una leggina per mantenere in servizio i magistrati - tutti, non solo nelle procure di frontiera - fino ai 73 o 74 anni. È evidente: o ti fai rispettare, oppure ti prendono le misure. Giustizia: inizia protesta magistrati "riformare la prescrizione e più fondi dal governo" Il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2015 Subito riforme "coraggiose ", a partire da quella della prescrizione, per bloccarne il decorso "almeno dopo la sentenza di primo grado"; investimenti adeguati e interventi organizzativi che restituiscano alla giustizia "efficienza e dignità". Contro la "grave crisi" di funzionalità del sistema, che mette pesantemente a rischio lo stesso principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, i magistrati rispolverano l'arma della protesta. E mettono sotto accusa "una politica da troppo tempo disattenta e incoerente". I giudici non incrociano le braccia, né fanno uno sciopero bianco, attenendosi rigorosamente alle loro mansioni. Ma da ieri e sino a mercoledì prossimo attuano la sospensione dimostrativa delle attività di supplenza, di quei compiti cioè di cui si sobbarcano quotidianamente a causa della carenza del personale amministrativo, allo scopo di far andare avanti la macchina. Come per esempio la verbalizzazione delle attività che sono costretti a fare in prima persona per la mancanza dei cancellieri. Nessun impatto significativo è previsto sui processi: l'attività giudiziaria sarà temporaneamente sospesa solo in concomitanza di assemblee che sono state convocate in alcuni tribunali (a Napoli domani, mentre a Roma ci sarà una conferenza stampa) per evidenziare le conseguenze delle carenze del sistema, come la difficoltà di assicurare che i testimoni non comunichino tra loro e con vittima e imputato, in assenza degli ufficiali giudiziari; dibattiti aperti a avvocati e personale amministrativo che serviranno a richiamare l'attenzione anche sull'emergenza sicurezza dei tribunali, evidenziata tragicamente dai fatti di Milano e Lodi. La mobilitazione arriva lo stesso giorno in cui il massimo organo della giustizia italiana, cioè la Cassazione, avverte che la paralisi delle proprie attività "non è lontana", anche per effetto della norma voluta dal governo sulla pensione dei magistrati a 70 anni che decapiterà i suoi vertici. Giustizia: incentivi alla negoziazione, benefici per chi sposta la causa dall'aula all'arbitrato di Antonio Ciccia Italia Oggi, 23 giugno 2015 Incentivi fiscali per la negoziazione degli avvocati e per gli arbitrati. Il decreto legge con misure per la giustizia civile, atteso in consiglio dei ministri, avvicina la negoziazione assistita alle conciliazioni gestite dagli organismi di mediazioni ed estende il beneficio fiscale a chi sposta a un arbitrato una causa pendente in tribunale. È previsto per le parti un credito di imposta massimo pari a 250 euro per i compensi corrisposti agli avvocati abilitati. L'articolo 22 del provvedimento, stando al testo provvisorio, modifica il decreto legge 132/2014, che ha introdotto una speciale forma di risoluzione delle controversie. Si tratta della negoziazione assistita, che vede protagonisti i legali. Per tutte le controversie civili e commerciali, anziché iniziare un contenzioso avanti al giudice, si può instaurare una trattativa ufficiale, che, se va bene, si conclude con un accordo, che ha il valore di una sentenza (vale come titolo esecutivo per i pignoramenti). Per alcune controversie la negoziazione assistita è obbligatoria, nel senso che non si può nemmeno iniziare la causa se non si è tentato l'accordo: si tratta dei recuperi di crediti fino a 50 mila euro (in materie diverse da quelle soggette a mediazione obbligatoria) e per i risarcimenti danni da circolazione di veicoli e natanti. Con riferimento alla negoziazione si era messo in evidenza che il decreto 132/2014 non aveva previsto alcun incentivo fiscale. Il dl colma questa lacuna e prevede meccanismi di incentivazione fi scale della negoziazione assistita e anche dell'arbitrato, attraverso l'adozione del modello del credito di imposta già previsto per la mediazione dal dlgs 28/2010. La norma premia in primo luogo le parti che si mettono d'accordo nella negoziazione assistita. La norma, però, riconosce il beneficio anche a chi trasferisce una causa dal tribunale all'arbitrato, secondo la procedura prevista dallo stesso decreto 132/2014. In questo caso alle parti che corrispondono il compenso agli arbitri, il credito di imposta, commisurato al compenso fino a concorrenza di euro 250, è riconosciuto, in caso di conclusione dell'arbitrato con lodo. In quest'ultima ipotesi, quindi, non si pretende che le parti si concilino, ma si vuole solo liberare i giudici del carico pendente. La norma in commento cerca di avvicinare le diverse procedure di soluzione stragiudiziale delle liti. Anche se per la mediazione il legislatore ha previsto misure più generose: in caso di successo della mediazione, le parti hanno diritto a un credito d'imposta fi no a un massimo di 500 euro per il pagamento delle indennità complessivamente dovute all'organismo di mediazione; in caso di insuccesso della mediazione, il credito d'imposta è ridotto della metà. Il dl rinvia a un decreto del ministro della giustizia le modalità e la documentazione da esibire a sostegno della richiesta del credito di imposta. Peraltro il decreto legge anticipa che sarà il ministero della giustizia a comunicare all'interessato, entro il 30 aprile di ogni anno, l'importo del credito d'imposta effettivamente spettante in relazione a ciascuno dei procedimenti, nei limiti delle risorse stanziate. Il credito d'imposta dovrà essere indicato, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi e sarà utilizzabile a decorrere dalla data di ricevimento della comunicazione ministeriale. Giustizia: ddl diffamazione, sparisce il carcere per i giornalisti ma restano le maxi multe Il Giornale, 23 giugno 2015 Lo spettro del carcere per i giornalisti si allontana. È la novità più rilevante del disegno di legge sulla diffamazione a mezzo stampa discusso ieri alla Camera e verrà votato oggi in Aula. Una vecchia battaglia cavalcata anche dal Giornale, dopo la condanna il 17 giugno 2011 della Corte d'appello di Milano al direttore Alessandro Sallusti, chiamato a scontare 14 mesi di reclusione per un corsivo pubblicato sotto lo pseudonimo Dreyfus nel febbraio 2007, giudicato lesivo nei confronti del giudice di Torino Giuseppe Cocilovo. Sallusti dietro le sbarre none malandato, perché il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è intervenuto commutando la reclusione in pena pecuniaria. Ma nell'occasione la stessa opinione pubblica si è resa conto della necessità di cambiare le norme. "Il testo che abbiamo elaborato in commissione è incisivo, innovativo ed equilibrato", spiega relatore e capogruppo del Pd in Commissione Giustizia, Walter Verini. Resta fuori dal testo il tema della diffamazione nei blog che non poteva essere affrontato con un semplice emendamento, e che secondo i blogger è una forma di intimidazione mascherata e soprattutto rimane il nodo dei maxi risarcimenti ai giornalisti che possono arrivare fino a 50mila euro in caso di condanna. Ora il testo deve tornare al Senato. "La cancellazione del carcere peri giornalisti - sottolinea Verini - ristabilisce un principio generale di civiltà. Al contempo il cittadino diffamato ha diritto ad una rettifica che è causa di non punibilità: ma, nel caso in cui non ci fosse, ci sarà una giusta sanzione pecuniaria". L'obiettivo è dare un colpo alle cosiddette "querele temerarie", quelle fatte per intimidire i giornalisti. Se si agisce con malafede o colpa grave, il giudice potrà condannare il richiedente al pagamento di una somma fìno alla metà del risarcimento richiesto. Nel testo infine passa anche il cosiddetto "lodo Unità"; se un giornale - come il quotidiano Pd, che dovrebbe tornare in edicola a giorni - fallisce, direttori e giornalisti non saranno più lasciati soli a risarcire chi viene danneggiato dalla diffamazione ma possono rivalersi sulla proprietà fallita. Giustizia: uffici giudiziari verso una proroga dei vertici di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2015 Un anno in più per la sostituzione dei vertici degli uffici giudiziari. La proroga a tutto il 2016, ma già si sostiene che nel corso dei lavori parlamentari verrà aggiunto un anno, dovrebbe rappresentare uno degli ultimissimi innesti nel testo del decreto legge sulla giustizia civile che stamattina sarà all'esame del preconsiglio per andare nella serata al Consiglio dei ministri. La versione finale del provvedimento, rispetto a quella di pochi giorni fa, ha perso per strada tutta la parte sul processo telematico, quella sull'organizzazione giudiziaria e anche il credito d'imposta per incentivare negoziazioni e arbitrati. Sono invece rimaste le parti che riscrivono la Legge fallimentare e il Codice civile sul versante delle esecuzioni. Tra i nodi veri che ancora restano da sciogliere, e a farlo potrà essere solo la riunione di questa mattina, c'è quello dell'articolo 1 del decreto, dedicato alla finanza interinale. Una misura che appare molto sbilanciata a favore degli istituti di credito, estendendo l'area della prededucibilità. La norma prevede infatti che il debitore che presenta domanda di ammissione al concordato preventivo anche in assenza di piano oppure una richiesta di omologazione di accordo di ristrutturazione dei debiti può chiedere al tribunale l'autorizzazione a contrarre finanziamenti urgenti assistiti dal beneficio della prededucibilità. I finanziamenti devono essere funzionali e indispensabili per la prosecuzione dell'attività d'impresa. Il ricorso deve specificare la destinazione dei finanziamenti, che il debitore non è in grado di trovare altrove le risorse e che, in assenza di questo afflusso, ne risulterebbe pregiudicata in maniera irrimediabile l'attività dell'azienda. Il tribunale, dopo avere assunto informazioni sommarie anche dai creditori, provvede entro 10 giorni dalla richiesta. Nel resto del decreto legge c'è spazio per alcune novità di spessore soprattutto alla disciplina del concordato preventivo. È infatti prevista innanzitutto la possibilità di presentazione di offerte concorrenti, tutte le volte in cui il piano di concordato comprende un offerta da parte di un soggetto già individuato su asset aziendali o sulla totalità dell'azienda. Il commissario deve valutare, motivando il giudizio, la congruità dell'offerta, tenendo conto dei termini, delle condizioni, del corrispettivo e delle caratteristiche di chi l'ha presentata. In caso di valutazione negativa, anche alla luce di contestuali e alternative manifestazioni di interesse per i medesimi beni, sulla convenienza dell'offerta per i creditori, il commissario può chiedere l'apertura di un "procedimento competitivo" per mettere a confronto una pluralità di proposte e scegliere poi la migliore. Medesima è la logica che sottostà alla possibilità, introdotta anch'essa dal decreto legge, di presentazione di proposte concorrenti. Qui non si tratta più di offerte, ma di piani complessivi di concordato che potranno essere presentati anche da un "pacchetto" di creditori rappresentativo di almeno il 10% del totale dei crediti. La proposta o le proposte alternative sono peraltro ammesse solo quando quella presentata dal debitore non prevede il pagamento di almeno il 40% dei creditori chirografari. Nel caso di voto su più proposte concorrenti, a prevalere è quella che ha ottenuto la maggioranza più elevata dei crediti ammessi al voto. Nel decreto legge sono poi inserite misure per agevolare la chiusura del fallimento e la presentazione del programma di liquidazione, mentre alcune disposizioni incidono direttamente sulla figura del curatore. Se ne regolamenta in maniera più stringente l'ipotesi di conflitto d'interessi, si vincola il giudice a rendere esplicite le ragioni di assegnazione dell'incarico, si istituisce un Registro nazionale nel quale andranno a confluire i provvedimenti di nomina, quelli di chiusura del fallimento e di omologazione del concordato e l'ammontare dell'attivo e del passivo delle procedure chiuse. Giustizia: la disfida sulle cause perse, difficile convivenza tra Avvocatura e Palazzo Chigi di Liana Milella Affari & Finanza, 23 giugno 2015 A via dei Portoghesi, prestigiosa sede romana dell'Avvocatura dello Stato, nel triangolo tra palazzo Chigi, la Camera e il Senato, sono in molti a giurare che Renzi abbia pronunciato un brutta frase contro la categoria che suona così: "Tutti possono scegliersi il proprio avvocato, anche i mafiosi, anche Totò Rima, meno che il premier". Battuta rivelatrice, sostiene chi giura sull'autenticità, dell'attuale clima ostile ira palazzo Chigi e l'Avvocatura dello Stato, tra 2 cliente più importante e quello che dovrebbe essere l'avvocato di fiducia. Un fatto è documentabile: dalla nascita del governo Renzi, la luna di miele tra Avvocatura e palazzo Chigi è un ricordo. Il feeling tra un sottosegretario alla Presidenza come Gianni Letta e un avvocato generale come Ignazio Francesco Caramazza, che ha portato quest'ultimo, nell'autunno 2014, a essere il candidato di Forza Italia alla Corte costituzionale, è impensabile. Proprio per via della "guerra" tra il governo e l'Avvocatura. "Guadagnano un sacco di soldi e ci difendono male", dicono a palazzo Chigi. "Ci scaricano le cause all'ultimo minuto, non ci danno le carte e poi se la prendono pure con noi. Ci tagliano gli onorari e l'età pensionabile, mettono un tetto massimo agli stipendi (240mila euro, ndr)" dice l'altra campana. Ricorsi a raffica contro il governo. Polemiche e malumori. Nella lunga vita dell'Avvocatura dello Stato - sulla carta 370 toghe tra avvocati e procuratori, in servizio effettivo 300, una sede centrale a Roma con un terzo dell'organico, 25 sedi dislocate nelle città dove c'è una Corte di appello, nel portafoglio clienti istituzioni come il Quirinale, i ministeri, gli enti pubblici, le Regioni - questo è il momento più grigio. L'ex avvocato generale Luigi Mazzella, per 9 anni alla Consulta indicato da Berlusconi di cui è stato ministro della Funzione pubblica, fotografa così la situazione: "L'Avvocatura dello Stato è un membro della famiglia ripudiato dal suo principale datore di lavoro". Il primo esempio citato è quello di Giustina Noviello, l'avvocato che ha rappresentato il Mef davanti alla Consulta nel caso pensioni. Accusata dal governo di non aver presentato le possibili conseguenze economiche, magari per un pregiudizio politico visti i suoi tweet anti-Renzi, al punto da chiedere per lei una misura disciplinare. Difesa con convinzione da chi la definisce come "uno dei migliori e più scrupolosi avvocati, cui il Mef non ha dato il materiale necessario". "Guadagnano un sacco, sono una casta, si credono intoccabili, ci fanno perdere le cause" è il mantra del governo. Tant'è che, già l'anno scorso, Renzi non solo ha tagliato per decreto il tetto dell'età pensionabile, portato a 70 anni come per tutti i magistrati, ma ha pure soppresso gli onorari e la possibilità di accettare arbitrati, Immediata la replica: non solo uno sciopero di tre giorni per via degli onorari, ma pure ricorsi in ben 5 città per l'anno di pensionamento, e poi per gli onorari. Un paradosso, gli avvocati dello Stato contro lo Stato. Proprio sugli onorari lo scontro è epocale. Dice Mazzella: "Renzi ha sbagliato, perché servivano come stimolo per vincere le cause. Giusto togliere la piaga degli arbitrati, ma cancellare gli onorari è un errore". Come introito sopprimere l'onorario è una botta pesante: 90 milioni di euro tra 2012 e 2013, circa 130 mila euro a testa. L'ex avvocato generale Ignazio Francesco Caramazza spiega così il meccanismo: "L'avvocato che vince una causa porta a casa le spese di giudizio cui la controparte è stata condannata da ripartire tra tutti, per una metà in parti uguali, per l'altra in proporzione allo stipendio, compreso il personale amministrativo". Un ricordo ormai. Come quello dei ricchi arbitrati e anche del tetto dello stipendio, inesorabilmente bloccato a 240mila euro. Punita nel portafoglio, per questo l'Avvocatura perde le cause? O, all'opposto, è colpa di ministeri ed enti che scaricano sull'Avvocatura le cause senza curarsene? Dice Caramazza, avvocato dello Stato per ben 48 anni, protagonista delle battaglie davanti alla Consulta sul segreto di Stato in difesa di palazzo Chigi e del Quirinale sulle intercettazioni di Napolitano nel processo Stato-mafia, e ancora del Colle nel conflitto sulla concessione della grazia tra l'ex Guardasigilli Castelli e l'allora presidente Ciampi: "Dalle amministrazioni che funzionano bene l'avvocato dello Stato riceve un rapporto sui fatti. Chi può contare su buoni uffici legislativi invia anche una griglia giuridica". Caramazza cita, come buon "cliente", il ministero della Giustizia. Ma assai spesso non funziona così. Racconta un avvocato dello Stato che chiede l'anonimato: "Altro che accusarci di non essere bravi e preparati. Qui abbiamo a che fare con ministeri che ci avvertono della causa all'ultimo momento, che non ci mandano alcuna documentazione. Spesso andiamo allo sbaraglio e vederci accusati di non essere professionali è davvero insopportabile". Al punto che c'è perfino chi si pente di aver fatto il concorso per avvocato dello Stato. Dopo il caso pensioni la "casta" di via dei Portoghesi si è indebolita. Né può difenderla l'attuale avvocato generale, Massimo Massella Ducci Teri, scelto da Renzi dopo ben 4 mesi di vacatio e soprattutto dopo il tam tam che in realtà avrebbe preferito un esterno. Giustizia: scuse dal killer del tribunale di Milano? "non perdono chi ha ucciso mio figlio" di Nino Materi Il Giornale, 23 giugno 2015 Il killer del tribunale di Milano chiede scusa, proprio come l'aggressore del machete. Ma le mamme non ci stanno: parole ipocrite. Mamme che non perdonano. E poco importa se sono le madri delle vittime o dei carnefici. Accomunate da scuse stonate. Scuse magari finalizzate a un opportunistico sconto di pena. Come, forse, quelle appena chieste da Claudio Giardiello e da Josè Martinez. Il primo è il 57enne italiano che lo scorso 9 aprile ha fatto irruzione nel tribunale di Milano uccidendo tre persone (e ferendone altre due); il secondo è 19enne salvadoregno che due settimane fa, con un colpo di machete, ha quasi staccato un braccio a un capotreno "colpevole" di avergli chiesto il biglietto. Giardiello, uomo di mezza età, e Martinez, poco più che adolescente, dopo le loro "imprese" - in fase di "rielaborazione del gesto", direbbero gli psicanalisti - hanno usato le stesse parole: "Chiediamo scusa per quanto abbiamo fatto...". Attenzione, non hanno detto: "siamo pentiti", ma "chiediamo scusa". Non è una differenza da poco. Considerato che il pentimento ha a che fare con il peso grave dei drammi, mentre le scuse si riservano per lo più al peso lieve della marachella. I familiari delle vittime di Giardiello hanno mostrato di comprendere appieno la differenza e infatti si sono indignati all'unisono: "Si chiede scusa se una persona ti schiaccia inavvertitamente un piede, non se ti uccide senza motivo il figlio, il marito o la madre...". Stessa reazione da parte dei cari del controllore mutilato da Martinez: "Quel ragazzo ha detto che voleva solo spaventarlo, non fargli del male... e se voleva fargli del male, cosa faceva, lo decapitava?". Oggi Giardiello dice di sentire "un vuoto dentro". Ma "il vuoto" che ha provocato in tre famiglie lo ha già dimenticato? La moglie del giudice ucciso, la madre dell'avvocato ammazzato e il figlio dell'imputato trucidato, dopo il lutto che ha irrimediabilmente sconvolto le loro esistenze, si sono comportati con una dignità esemplare. Dalle loro bocche non è mai uscita una parola di rabbia (che pure sarebbe stata giustificata); ma farsi prendere in giro col formalismo delle "scuse" di facciata, no: questo proprio no. "Se Giardiello - dicono - è sinceramente pentito, siamo felici per lui: il pentimento è un balsamo sulle piaghe del rimorso. Noi, in futuro, potremmo perfino pensare di perdonarlo, anche se col suo gesto ci ha strappato l'anima. Pretendiamo però che il nostro dolore venga rispettato. Ma quel "chiederci scusa" è l'esatto contrario...". Sul punto sembrano d'accordo perfino i familiari più stetti dei due "colpevoli", Giardiello e Martinez. La moglie di Giardiello è dura col marito: "Per ciò che ha commesso, chiedere scusa non basta di certo. Claudio deve pagare, sia in termini giudiziari sia sotto il profilo del rimorso umano". Neppure la mamma di Martinez fa sconti al figlio: "Con quella pazzia ha rovinato un pezzo importante della sua vita. È giusto che la società gli offra l'occasione di redimersi, ma dopo aver fatto i conti con la legge e, soprattutto, con la propria coscienza". E che Dio abbia pietà di loro. Giustizia: guarire il rancore è un dono, ma senza dichiarazioni alla stampa e tweet di Luca Doninelli Il Giornale, 23 giugno 2015 Se la legge fa il suo corso e il colpevole non chiede sconti, chi ha subito un lutto può superare dolore e risentimento. Su questo tema è bene essere il più possibile piatti e senza sfumature. Per prima cosa, il perdono è il gesto più grande che un essere umano possa fare. Esso è libero e gratuito, e riguarda due soli soggetti: colui che perdona e colui a cui viene perdonato. Perciò niente dichiarazioni alla stampa, niente tweet. In secondo luogo, che un individuo colpevole di un crimine domandi scusa può andar bene, se è fatto - anche qui - personalmente. Però dev'esser chiaro fin da subito che questo non ha nulla a che vedere con i procedimenti giudiziari. In altre parole, occorre che sia chiaro che perdonare, esser perdonati e domandare scusa non sono cose da ascrivere ai meriti di una persona, a meno che non sia Dio a farlo. Preferisco di gran lunga la vecchia formula: la giustizia deve fare il suo corso. E per farlo fino in fondo devono esserci almeno due condizioni: la prima (sulla quale non mi soffermo) è che chi amministra la giustizia la amministri per tutti: non solo assicurare che i colpevoli siano puniti ma anche che le vittime siano in qualche modo risarcite o quantomeno rispettate. Ma è l'altra condizione che m'interessa di più, ed è questa: la giustizia può fare il proprio corso solo se fa il suo corso anche nel cuore di chi ha commesso (e di chi ha subito) l'ingiustizia. In altre parole: un assassino che si riconosce colpevole oltre che chiedere perdono (o scusa, non sottilizziamo) dovrebbe desiderare ardentemente di pagare fino in fondo il proprio debito con sé stesso, con le sue vittime, con la società e con la giustizia, senza aspettarsi sconti. Questo dovrebbe pensare, chiedere e fare un criminale. Poi la giustizia valuti nel modo opportuno, con le attenuanti del caso: ma che siano attenuanti oggettive. Ma il perdono non può essere materia per avvocati e patteggiamenti: esso appartiene alla sfera soggettiva, alla libertà individuale, e io penso che se ne dovrebbe parlare il meno possibile sui media, perché a parlarne troppo non si fa che accrescere la confusione che già regna sovrana. Giustizia: la Cassazione sul processo Crespi e il giallo del falso in bilancio di Liana Milella La Repubblica, 23 giugno 2015 A distanza di cinque giorni dalla decisione della Cassazione sul processo Crespi e sulla scelta di cancellare la condanna, ci sono due questioni ancora non chiarite. La prima: perché i giudici hanno rinviato di alcuni giorni la camera di consiglio, e quindi la decisione, in attesa che entrasse in vigore la nuova legge sul falso in bilancio. Fatto anomalo, se si pensa che le camere di consiglio abitualmente non si interrompono, e soprattutto non si fermano per molti giorni. La seconda questione riguarda il merito: perché le supreme toghe hanno ritenuto che le "valutazioni" volutamente errate non potessero essere punibili come un effettivo falso in bilancio. Espressamente citate nella legge del 2002 di Berlusconi, sono state escluse in quella di Orlando del 2015. Che pure raddoppia o triplica le pene, prevede la perseguibilità d'ufficio, elimina le soglie di non punibilità. Dunque una legge ben più severa, ma che alla prima prova in aula ha fallito. Scatenati i partiti d'opposizione come M5S e Forza Italia che avevano proposto di inserire comunque "le valutazioni" ma si sono visti bocciare l'emendamento. L'insistito retroscena è che, nel governo, abbia fatto pressioni il ministro dello Sviluppo economico Guidi, ex esponente di Confindustria, e abbia imposto il no alle valutazioni vincendo sul Guardasigilli Orlando. In modo da salvare vecchi e nuovi processi. Ma c'è un dato finora non messo nella giusta evidenza. L'audizione, alla Camera, del procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco. Ecco alcuni passaggi significativi: "Anch'io formulo un giudizio complessivamente positivo su questo disegno di legge. Ci sono sicuramente alcuni problemi, ma penso siano superabili con l'interpretazione. Pertanto, non credo che sia particolarmente necessario intervenire con delle modifiche". E ancora: "La nozione di "fatti" era contenuta nel codice del 1942. Eppure già allora, e per tutta l'elaborazione che c'è stata successivamente - cito Antolisei, Conti, Pedrazzi e Bartoli, i più grandi giuristi sul punto - la dottrina più avveduta non aveva dubbi sulla circostanza che l'interpretazione sistematicamente corretta del riferimento ai fatti come oggetto di falsità autorizzasse comunque a comprendere anche le componenti valutative". Infine: "Io ritengo che, in base alla giurisprudenza e anche alla dottrina che si sono sedimentate sul falso in bilancio dal 1942 a oggi, questo problema, in realtà, non dovrebbe sussistere. Tra l'altro, sarebbe veramente singolare che si decidesse di riaprire la porta principale al falso in bilancio e di escludere le valutazioni. Il 99% delle poste del falso in bilancio sono valutazioni". E dunque perché mai i giudici della Cassazione, interrompendo in modo singolare una camera di consiglio, hanno assolto in presenza di valutazioni? Detto questo, nella legge Grasso, le valutazioni erano espressamente inserite. Il governo, anziché toglierle, avrebbe fatto bene comunque a prevederle. Se non altro per non "sporcare" questa legge, come di fatto è avvenuto. Adesso farebbe bene a introdurle subito. Ma i giudici - se Greco ha ragione, come sicuramente ha ragione visto che è considerato il maggior esperto in Italia su questi temi - avrebbero fatto bene a concludere altrimenti il processo. Giustizia: Touil "macché terrorista, con quella strage non c'entro niente, l'Italia mi aiuti" di Paolo Berizzi La Repubblica, 23 giugno 2015 Parla dal carcere Abdel Majid Touil, il giovane marocchino arrestato su mandato tunisino per la presunta complicità nell'attacco al museo del Bardo Sta seduto in fondo al letto, a sinistra. Sopra uno scaffale di plastica marrone - il mobile appoggiato al muro che separa la latrina in acciaio dal resto della cella - fogli di carta scritti a mano, la televisione spenta, due bottiglie di acqua, un succo di frutta, una baguette ancora intera. Non mangia? "Sto facendo il Ramadan. Spero che Dio, e la giustizia italiana, mi aiutino a uscire da questa storia assurda" Sono passati 34 giorni dall'arresto di Abdel Majid Touil a Gaggiano: terrorismo internazionale. L'uomo che, secondo la magistratura tunisina, avrebbe fornito il supporto logistico ai carnefici della strage al museo del Bardo (18 marzo, 24 morti di cui quattro italiani, 45 feriti) non è più un fantasma. Adesso parla. "Perché non mi credono? Che cosa posso fare qui per dimostrare la mia innocenza? Aiutatemi, vi prego". Carcere di Opera, sezione "accoglienza" (riservata a una decina di detenuti "sotto osservazione"). Il ventiduenne marocchino ha l'aria spaesata, il tono di chi ha il destino in bilico tra due Stati: uno, la Tunisia, lo accusa; l'altro, l'Italia, si adegua (per ora). Maglietta bianca, pantaloni azzurri della tuta, ciabatte blu. Touil si esprime sempre e solo nella sua lingua, quella con cui è cresciuto nella periferia di Béni Mellal, città nota agli archivi delle questure italiane, in particolare alle sezioni che si occupano di spaccio di strada. Non una parola in arabo, niente francese, niente italiano. L'incontro con Antonio Misiani, deputato del Pd in visita a Opera, è mediato da un interprete. Repubblica riporta il contenuto del colloquio: il primo di Touil da quando è in cella (prima era recluso a San Vittore). In neretto le domande di Misiani (il regolamento del Dap vieta di rivolgere quesiti inerenti l'inchiesta giudiziaria in corso). In chiaro le risposte del detenuto. Come sta? "Abbastanza bene, anche se non capisco ancora perché sono stato arrestato. Lo chiedo ogni giorno al mio avvocato (ai giudici che si occupano del procedimento di estradizione il legale Silvia Fiorentino ha spiegato che il carcere è una "misura esageratamente afflittiva" per il suo assistito e che "non c'è pericolo di fuga"; ma la Corte d'appello ha respinto la proposta di sostituire la misura cautelare in carcere con l'obbligo di soggiorno nel comune di Gaggiano, dove il marocchino abitava con la madre e i fratelli, ndr )". Nei primi giorni di detenzione rinunciava all'ora d'aria. Adesso? "La faccio. Con un detenuto italiano. Qui sono trattato bene. In generale in Italia non ho mai avuto problemi, ho sempre avuto un buon rapporto con tutti, a scuola, con gli amici, sul posto di lavoro". Parla di scuola e di lavoro. Perché? "Frequentavo la scuola italiana due volte la settimana. Anche se purtroppo ho avuto poco tempo per imparare. Poche parole, "grazie", "prego", "buongiorno". E le lettere dell'alfabeto. Tutto qua. In Marocco invece ho terminato gli studi". E il lavoro? "A Milano avevo trovato un impiego. In un ristorante italiano. Qualche ora al giorno. Quando mi hanno arrestato a Gaggiano era il mio primo giorno di lavoro al ristorante. È stato uno shock". Era il 19 maggio. E ora? "Spero solo di uscire presto dal carcere. Spero si accorgano che si sono sbagliati. Continuo a avere grande fiducia nella giustizia italiana. Il mio desiderio è quello di continuare a vivere in Italia. Vorrei tornare a abitare a Gaggiano con la mia famiglia. In Marocco non voglio più tornare". Perché? "Perché sto bene qui. Anzi, stavo bene. Sono venuto per studiare e per lavorare. Per fare la mia vita in Italia, coi miei". Può raccontare la sua storia? "Sono nato nel 1993". Quando, scusi, esattamente? "L'1-1". Secondo alcuni esperti della complessa realtà migratoria maghrebina - e più in generale araba e africana - "1-1" è il modo con cui gli immigrati declinano le proprie generalità quando hanno una situazione di documenti non del tutto risolta. Ricordiamo che nel "giallo Touil" l'elemento centrale delle indagini è il passaporto: "Smarrito nel Mediterraneo durante l'attraversata", secondo la versione iniziale della madre Fatima. "Venduto in Libia prima di partire", secondo una confessione fatta alla mamma dal figlio. Un modo per pagarsi il viaggio. Se reggesse questa ipotesi, il Touil inseguito dai tunisini potrebbe essere un altro: quello "falso" che si sarebbe impossessato dell'identità di Abdel acquistando il documento venduto. Come è arrivato in Italia dal Marocco? "Ho viaggiato dal Marocco alla Tunisia in aereo. Poi dalla Tunisia alla Libia via terra. Da lì mi sono imbarcato per l'Italia e sono sbarcato a Porto Empedocle (il 17 febbraio, è accertato, ndr ). Poi ho raggiunto la mia famiglia a Gaggiano". E non se n'è più andato? "No. Da quel giorno sono sempre rimasto in Italia (è accertato anche che il 18 marzo - giorno della strage al Bardo - nei due giorni precedenti e nei due successivi, Touil si trovava a Milano, ndr)". Qual è il suo pensiero ricorrente? "Che sono in carcere da innocente. Non sono un terrorista, non c'entro niente con la strage del Bardo. Chiedo aiuto all'Italia". Durante il colloquio Abdel Majid Touil s'interrompe spesso. E piange. Chi viene a trovarla? "Mia madre. Una volta la settimana (ha diritto a quattro colloqui al mese). Lei e i miei fratelli sanno benissimo che non ho fatto niente". A mezzogiorno la porta di ferro della cella di Touil si richiude. Il tramonto, termine quotidiano del Ramadan, è lontano. Lui dice che più tardi berrà dell'acqua. E saluta. Inosservanza dello straniero dell'invito a presentarsi all'ufficio immigrazione della Questura Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2015 Sicurezza pubblica - Provvedimenti di polizia - Invito a comparire dell'autorità di P.S. - Inosservanza da parte di cittadino illegalmente presente sul territorio dello Stato dell'invito a presentarsi presso l'ufficio immigrazione della Questura in vista dell'espulsione - Configurabilità del reato di cui all'articolo 650 cod. pen. - Esclusione - Ragioni. Non risponde del reato previsto dall'articolo 650 cod. pen. lo straniero che non ottemperi all'invito a presentarsi presso l'Ufficio immigrazione della Questura ai fini dell'espulsione dal territorio nazionale in quanto l'ordine di allontanamento del Questore e la relativa sequenza procedimentale stabilita in materia dall'articolo 14 D.Lgs. n. 286/1998, non possono essere surrogati da altri atti. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 20 novembre 2014 n. 48270 Sicurezza pubblica - Provvedimenti di polizia - Invito a comparire dell'autorità di P.S. - Inosservanza dell'invito a presentarsi presso un ufficio di P.S. in vista dell'espulsione - Configurabilità del reato di cui all'articolo 650 cod. pen. Esclusione - Ragione. Non risponde del reato previsto dall'articolo 650 cod. pen. lo straniero che non ottemperi all'invito a presentarsi presso un ufficio di P.S. ai fini dell'espulsione dal territorio nazionale, in quanto l'ordine di allontanamento del questore e la relativa sequenza procedimentale stabilita dall'articolo 14 del D.Lgs. n. 286/1998 non possono essere validamente surrogati da altri atti. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 11 giugno 2013 n. 25606 Contravvenzioni concernenti l'inosservanza dei provvedimenti di polizia - Inosservanza del cittadino extracomunitario all'invito a presentarsi in Questura per regolarizzare la posizione di soggiorno - Configurabilità del reato - Esclusione. Non integra la contravvenzione di cui all'articolo 650 cod. pen. l'inottemperanza del cittadino extracomunitario all'invito a presentarsi presso la Questura per regolarizzare la propria posizione di soggiorno sul territorio nazionale. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 4 gennaio 2012 n. 17 Contravvenzioni concernenti l'inosservanza dei provvedimenti di polizia - Inosservanza, da parte di cittadino straniero, dell'ordine della Polizia ferroviaria di comparire in Questura per regolarizzare la posizione di soggiorno - Configurabilità del reato di cui all'articolo 650 cod. pen., anche a seguito della depenalizzazione dell'articolo 15 R.D. n. 773/1931 - Ragioni. Integra gli estremi del reato di cui all'articolo 650 cod. pen. l'inosservanza da parte del cittadino straniero dell'ordine della polizia ferroviaria di comparire in questura per regolarizzare la posizione di soggiorno, in quanto anche a seguito della depenalizzazione dell'articolo 15 del R.D. n. 773 del 1931, intervenuta ad opera dell'articolo 1 D.Lgs. n. 480/1994, la condotta consistente nell'inottemperanza all'invito a presentarsi all'autorità di P.S., costituisce illecito penale, ai sensi dell'articolo 650 cod. pen., qualora detto invito sia dato per ragioni di sicurezza pubblica, come nella specie, considerato che il controllo del soggiorno degli stranieri rientra nell'ambito delle esigenze attinenti alla sicurezza pubblica. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 20 ottobre 2004 n. 41101 Alba (Cn): i parlamentari del Movimento 5 Stelle con il Sappe in visita al penitenziario targatocn.it, 23 giugno 2015 "Un incremento di poliziotti penitenziari per sanare le carenze degli organici del Reparto di Alba, lo stanziamento di fondi per favorire nuovi acquisti al parco macchine della Polizia Penitenziaria e vestiario per gli Agenti in servizio, una nuova organizzazione del lavoro interno partendo dal fallimento della vigilanza dinamica e delle celle aperte. È quello che abbiamo chiesto alla delegazione del Movimento 5 Stelle, composta dalla parlamentare Fabiana Dadone e dal Consigliere Comunale di Alba Ivano Martinetti, che abbiamo incontrato questa mattina nel corso di una visita nella Casa di Reclusione albese". Ne da notizia Vicente Santilli, segretario regionale per il Piemonte del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che ha incontrato nel carcere di Alba i politici del Movimento 5 Stelle insieme al Segretario Provinciale Sappe Antonio Amodeo ed al Segretario Locale SAPPE della Casa di Reclusione Domenico Profeta. Dadone e Martinetti, rispettivamente cittadini eletti alla Camera dei Deputati e al Consiglio Comunale di Alba per il Movimento 5 Stelle, hanno visitato con la delegazione del Sappe la Casa di Reclusione ed incontrato prima il Personale di Polizia Penitenziaria in servizio e poi il direttore del carcere Giuseppina Piscioneri e il Funzionario Comandante il Reparto di Polizia Penitenziaria Giuseppe Colombo, ai quali sono state rappresentate le criticità rilevate nel corso della visita. "Abbiamo criticità connesse alla carenza di poliziotti, come la gestione trattamentale dei detenuti collaboratori di giustizia", denunciano i dirigenti del Sappe. "Abbiamo automezzi per il trasporto dei detenuti con più di 350mila chilometri. Manca il vestiario per gli Agenti, i sistemi elettronici di sicurezza non funzionano e la stessa organizzazione del lavoro è condizionata dalla fallimentare politica della vigilanza dinamica e delle celle aperte, che ha determinato in carcere tensione e violenze favorite dall'eccessiva libertà di movimento dei detenuti nelle sezioni detentive". "Alla data del 31 maggio scorso, ad Alba, erano detenute 124 persone: 3 sono gli imputati e 121 i condannati. La situazione penitenziaria, ad Alba e nel Piemonte tutto, resta grave e questo determina per i poliziotti penitenziari pericolose condizioni di lavoro e un elevato indice di stress", denuncia da Roma il segretario generale del Sappe Donato Capece. "I numeri degli eventi critici accaduti nei dodici mesi del 2014 ad Alba sono allarmanti: si sono infatti registrati 3 tentati suicidi di detenuti, sventati in tempo dai poliziotti penitenziari, 38 episodi di autolesionismo, 5 colluttazioni e 6 ferimenti. L'incontro in carcere con la deputato Dadone ed il consigliere comunale Martinetti ci fa sperare che le cose possano cambiare, in meglio, per dare maggiore sicurezza alla Polizia Penitenziaria che lavora ad Alba e nelle altre carceri piemontesi". L'auspicio di rendere edotti i vertici regionali e nazionali dell'Amministrazione Penitenziaria sulle criticità della Casa di Reclusione di Alba e del Personale di Polizia che in essa lavora sono state condivise anche dalla rappresentanza istituzionale del carcere. Roma: a Rebibbia a lezione di musica (per imparare la poesia e la matematica) Il Velino, 23 giugno 2015 Che cosa hanno in comune la razionalità della matematica e la fantasia di una composizione musicale? Che cosa lega Pitagora a una poesia in metrica? E le leggi di Keplero con la chiave di violino? A indagare la relazione fra numeri, note e letteratura è un seminario organizzato a Rebibbia per i detenuti che frequentano i corsi universitari. Un'occasione di approfondimento per gli studenti di Giurisprudenza, Economia, Lettere e Filosofia, nata anche grazie all'iniziativa del gruppo universitario "Liberi di studiare onlus", attivo all'interno del carcere romano. L'intenzione degli organizzatori - che hanno sottoposto il progetto alla direzione e agli educatori - è quella di prevedere alcuni incontri di approfondimento delle tematiche studiate, riempendo inoltre di "contenuti costruttivi" quei momenti di aggregazione concessi dietro le sbarre. Tre gli appuntamenti presenti nel programma. Sabato 20 giugno Salvatore Cataldo, docente di economia e finanza, ha tenuto la prima lezione davanti a una quarantina di detenuti parlando di melodia e armonia. Sabato 4 luglio terrà la seconda parte della conferenza. Gli interventi del docente, che alla specializzazione per la finanza unisce la passione per la musica e un diploma al conservatorio, saranno inframmezzati da una lezione sulla letteratura. Si terrà sabato 27 giugno e avrà come filo conduttore il viaggio. A tenerla il professore dell'Università di Studi di Tor Vergata Fabio Pierangeli, coordinatore didattico del progetto "Università in carcere" del corso di laurea in Lettere e Filosofia. Moderatrice e coordinatrice degli incontri Serena Cataldo, una dei tutor che organizza l'attività di studio dei detenuti, facilitatore Ulrico Del Curatolo. Taranto: sottoscritta dal carcere una convenzione per progetti di giustizia riparativa di Vito Piepoli noinotizie.it, 23 giugno 2015 Convenzione per progetti di giustizia riparativa: ora anche nel capoluogo. Già attiva a Crispiano, Martina Franca, Maruggio e San Giorgio Ionico. Nei giorni scorsi, nel foggiano, detenuti protagonisti della pulizia della pineta, a Marina di Lesina. Un importante progetto di riabilitazione sociale di chi si trova in carcere. Ora, una convenzione anche a Taranto, dopo che nella provincia già altri centri hanno dato vita a progetti di giustizia riparativa. Una convenzione per progetti di giustizia riparativa che coinvolgerà diversi detenuti è stata sottoscritta nel carcere di Taranto. Un'intesa che riguarda una attività di utilità sociale per il territorio ionico. Alla firma è stato presente il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, il direttore della Casa Circondariale, Stefania Baldassari e il presidente del Tribunale di Sorveglianza, Massimo Brandimarte. Il sindaco Stefàno ha osservato: "Il carcere deve offrire una vera possibilità di redenzione, di ritornare alla norma per poter comprendere bene i vantaggi del rispetto delle regole perché le regole esistono per offrire garanzie ai cittadini e soprattutto ai più fragili. Quando i cittadini si rendono conto che rispettare le regole vuol dire tutelare se stessi e i più fragili sono fortemente motivati al rispetto delle istituzioni e ad essere solidali con gli altri". Stefania Baldassari ha parlato di questa iniziativa di giustizia riparativa ovvero di possibilità di utilizzare detenuti presso i comuni del territorio provinciale nell'ambito di una iniziativa che coinvolge già altri comuni della provincia. "La presenza del presidente Brandimarte che è qui con noi alla stipula proprio della convenzione in questa giornata - ha riferito - rappresenta la sensibilità che la Magistratura di Sorveglianza tarantina ha sempre rivolto alla popolazione detenuta". Particolarmente proficua risulta la collaborazione con il presidente del Tribunale di Sorveglianza, Massimo Brandimarte. Intanto la convenzione è già attiva a San Giorgio Ionico, Maruggio, Martina Franca e Crispiano dove i detenuti che hanno possibilità di lavorare all'esterno, svolgono attività lavorativa a titolo gratuito. In conclusione il presidente Brandimarte ha sottolineato che: "Prima di tutto si tratta di un dovere civico di riabilitazione poi possiamo metterci anche altri valori come quello della solidarietà, della carità, tutto quello che vogliamo ma innanzitutto è un dovere della società tendere al recupero di queste persone. Dobbiamo garantire anche ai detenuti possibilità di lavoro. L'articolo 1 della costituzione non riguarda soltanto una parte della popolazione ma riguarda la popolazione intera". Trapani: lavori socialmente utili, i detenuti rimuovono la vernice rossa della pista ciclabile monitortp.it, 23 giugno 2015 I lavori sono iniziati oggi in virtù di un accordo tra l'Amministrazione comunale di Erice e la Casa Circondariale di San Giuliano. Sono iniziati oggi i lavori di pubblica utilità svolti da detenuti, in fase ultima di espiazione della pena. In pratica tre persone stanno togliendo la vernice rossa che delimitava la pista ciclabile di Erice. "Abbiamo simbolicamente voluto impiegare Vito, Marco e Sandro (i primi tre detenuti impiegati a costo zero in lavori di pubblica utilità) - dichiara il Sindaco Giacomo Tranchida - consentendogli di rendersi utili e di cominciare a reintegrarsi nel cotesto sociale. Nello specifico cominciando col rimuovere il "rosso vergogna", ovunque spalmato dalla maldestra ditta favarese impegnata nei lavori della ciclabile - a cui non solo abbiamo revocato l'appalto, ma l'abbiamo chiamata in giudizio e per molte centinaia di migliaia di euro". Gli stessi detenuti saranno impiegati, altresì, per lavori di scerbatura e arredo urbano nel quartiere di San Giuliano, nonché per piccole manutenzioni. A carico del Comune solo l'assicurazione Inail, oltre alla fornitura dei dispositivi di sicurezza (tute, scarpe, etc. Per quanto riguarda la pista ciclabile, dopo la rimozione della striscia rossa si procederà con gli ulteriori lavori. "È in fase di appalto il progetto di completamento - rileva il sindaco - come originariamente voluto dall'Amministrazione Tranchida e finanziato dal Ministero dell'Ambiente, rispetto alle distorsioni esecutive della maldestra impresa e del disattento infedele direttore dei lavori comunale, rimosso dall'incarico". Siena: detenuti semiliberi spacciavano cocaina, uscivano dal carcere e vendevano droga La Nazione, 23 giugno 2015 Tre arresti per spaccio di cocaina da parte dei carabinieri del nucleo investigativo. Le indagini sono state dirette dal pm Giuseppe Grosso e coordinate dal procuratore capo Salvatore Vitello. Stando agli accertamenti alcuni albanesi insieme ad italiani consumatori di droga avevano realizzato un fiorente smercio di cocaina in vari centri della provincia. In particolare gli extracomunitari si avvalevano di un insospettabile gruppo di connazionali detenuti nel carcere di Volterra (Pisa) per omicidio che, ammessi al regime di semilibertà o a permessi premio, avevano sfruttato le ore fuori dalle celle per trafficare in cocaina. La droga, proveniente principalmente da Firenze e Pisa, veniva immediatamente distribuita al dettaglio in provincia di Siena già durante il percorso di rientro a casa degli spacciatori, verosimilmente allo scopo di ridurre al minimo la perdita della droga in caso di controlli da parte delle forze dell'ordine. Lo smercio settimanale era di circa 50 grammi di cocaina. L'operazione, denominata "On the road" aveva già condotto nei mesi scorsi all'arresto C.E., 20 anni, di origine albanese, disoccupato, del suo connazionale G.P., 21 anni. I due bloccati a Pontedera erano stati trovati in possesso di 7 grammi di cocaina, suddivisa in dosi, di marijuana e di 6000 euro in contanti e di H.V., 20 anni, ucraino residente a Lajatico (Pisa) che era stato trovato in possesso di 25 grammi di marijuana e 2 di cocaina, bilancino di precisione, e 1.050 euro. Con le ultime misure cautelari sono finiti nei guai D.V. 37 anni originario dell'Albania residente ad Asciano (arrestato) K.F, 33 anni anche lui albanese residente Sovicille e V.M., 40 anni. di Sovicille. Per questi ultimi due è stata applicata la misura dell'obbligo di presentazione quotidiana alla polizia giudiziaria. Cremona: Sappe; droga in un pacco per un detenuto, intercettato da Polizia penitenziaria laprovinciacr.it, 23 giugno 2015 Un pacco contenente droga e destinato ad un detenuto è stato intercettato e sequestrato dalla polizia penitenziaria. Il pacco era destinato ad un giovane detenuto rumeno del carcere di Cremona e il contenuto sembrava non destare sospetti, essendovi capi di abbigliamento. In realtà, in un paio di pantaloni erano nascosti 20 grammi di hashish, abilmente occultati. L'incauto tentativo non è però sfuggito agli attenti controlli degli appartenenti alla polizia penitenziaria, che hanno sequestrato pacco postale e sostanza stupefacente. È accaduto qualche giorno fa nel carcere di Cremona e darne notizia è il Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Donato Capece, segretario generale del Sappe, commenta: "Questo ennesimo rinvenimento di stupefacente destinato a detenuti, scoperto e sequestrato in tempo dall'alto livello di professionalità e attenzione dei baschi azzurri di Cremona, a cui vanno le nostre attestazioni di stima e apprezzamento per l'alta professionalità dimostrata, evidenzia una volta di più come sia reale e costante il serio pericolo che vi sia chi tenti di introdurre illecitamente sostanze stupefacenti in carcere. Ogni giorno la polizia penitenziaria porta avanti una battaglia silenziosa per evitare che dentro le carceri italiane si diffonda uno spaccio sempre più capillare e drammatico, stante anche l'alto numero di tossicodipendenti tra i detenuti. L'hashish, la cocaina, l'eroina, la marijuana e il subutex - una droga sintetica che viene utilizzata anche presso il Sert per chi è in trattamento - sono quelle che più diffuse e sequestrate dai baschi azzurri. Ovvio che l'azione di contrasto, diffusione e consumo di droga in carcere vede l'impegno prezioso della Polizia penitenziaria, che per questo si avvale anche delle proprie unità cinofile. Questo fa comprendere come l'attività di intelligence e di controllo del carcere da parte della Polizia Penitenziaria diviene fondamentale. Questo deve convincere sempre più sull'importanza da dedicare all'aggiornamento professionale dei poliziotti penitenziari, come ad esempio le attività finalizzate a prevenire i tentativi di introduzione di droga in carcere, proprio in materia di contrasto all'uso ed al commercio di stupefacenti". "E che questo sia avvenuto nel carcere di Cremona - conclude il leader nazionale del Sappe -dove da mesi denunciamo le responsabilità dei vertici amministrativi e di polizia del carcere di Cremona per una organizzazione del lavoro fallimentare e per livelli di sicurezza al di sotto del minimo, evidenzia ancora di più l'alta professionalità, l'abnegazione e l'attenzione dei poliziotti penitenziari in servizio nel carcere di via Palosca, ai quali va la nostra riconoscenza ed il nostro apprezzamento". Genova: Uil-Pa; al carcere di Marassi detenuto aggredisce agente con un manico di scopa genovatoday.it, 23 giugno 2015 Un detenuto italiano ha aggredito e ferito con un bastone di una scopa un agente in servizio nella sesta sezione del carcere di Marassi. A darne notizia è il segretario regionale della Uil-pa Penitenziari, Fabio Pagani. "Nella mattinata di ieri un detenuto italiano ha aggredito e ferito con un bastone di una scopa un agente in servizio nella sesta sezione del carcere di Marassi, l'ultimo di una lunga serie di aggressioni. L'episodio è avvenuto intorno alle 13.30. L'agente trasportato al pronto soccorso ha riportato ecchimosi varie e una prognosi di 4 giorni". A darne notizia è il segretario regionale della Uil-Pa Penitenziari, Fabio Pagani, che aggiunge "se chi opera nelle sezioni detentive è praticamente isolato e abbandonato ovvero carne da macello per detenuti cosiddetti violenti, i fattori di rischio e le aggressioni nei confronti della polizia penitenziaria non fanno altro che aumentare esponenzialmente, pur apprezzando lo sforzo di rinnovamento della politica gestionale della detenzione essa non può, in ogni caso, scaricarsi sulle già fragili spalle dei poliziotti penitenziari - continua Pagani - già oberate da carichi di lavoro insostenibili". "Comunque quella delle aggressioni in danno dei baschi blu - conclude Fabio Pagani - è una delle questioni più urgenti e cogenti sul tappeto. Nel momento in cui ogni sforzo è proiettato a un nuovo modello di sorveglianza, se non si ha la capacità di gestire tale deriva violenta ogni tentativo di innovazione è destinato al fallimento". "Non possiamo, quindi, che ribadire come i circa 100 agenti penitenziari feriti dal 1 gennaio 2015 (dove vede la casa Circondariale di Marassi ai primi posti) rappresentano non solo un grave bilancio di sangue ma anche una sconfitta dello Stato e di chi lo Stato rappresenta nelle sezioni detentive". Muri di ieri, muri di oggi di Dunja Badnjevic (scrittrice e traduttrice) Il Manifesto, 23 giugno 2015 La costruzione della grande muraglia cinese fu iniziata nel 700 a. C. per concludersi nel 206 a.C. per volere dello zar Qin Shi Huang. Serviva a difendersi dalle incursioni dei popoli confinanti, soprattutto dai mongoli. Ma non risultò molto efficace - anche se misurava 6.350 metri, si trovava sempre un punto valicabile e non coperto. In piccolo fu nei secoli imitata da molte fortezze e castelli sempre per impedire l'entrata ai non desiderati o ai nemici. Dopo la seconda guerra mondiale un muro venne eretto a Berlino per separare le due Germanie. Fu abbattuto con grande giubilo il 9 novembre del 1989 e la Germania tornò ad essere di nuovo una sola. Oggi l'Europa sta erigendo nuovi muri. L'Europa comunitaria, l'unica che si ritiene degna di portare questo nome. Altri paesi - per lo più quelli formatisi dopo la dissoluzione della Jugoslavia, eccezion fatta per la Slovenia e la Croazia, - non sono più "Europa", sono un continente nuovo ancora senza nome. Tra poco anche la Grecia, la culla democratica di tutti gli altri, il paese dove la democrazia è nata mentre nei paesi oggi "sviluppati" gli uomini vivevano ancora sugli alberi, non sara più "Europa", con buona pace del Fondo monetario internazionale. Anche la grande Russia sembra non essere più Europa - il muro verso di lei sono le sanzioni - che danneggiano più noi che i russi - e la Nato che la circonda da tutte le parti approfittando dell'ospitalità dei paesi "vendicatori". (Ricordiamoci il terrore quando la marina sovietica si era avvicinata alle coste di Cuba!). L'Ungheria, un paese di estrema destra, chiede che si costruisca un muro tra il suo confine e quello della Serbia. L'esempio sono i muri in Texas verso il Messico, quelli a Belfast ovest che dividono i cattolici dai protestanti, di Nicosia, i turchi dai greci e soprattutto il muro che Israele ha eretto a Ramallah per separare i territori palestinesi dai "propri". Muri che servono a difenderci dagli "infetti" che noi abbiamo contaminato. Sono di Belgrado, ma vivo da italiana in Italia da quasi cinquant'anni. Ho militato in un partito che oggi non esiste più (il Pci), sono stata l'interprete anche di Enrico Berlinguer. Ho cercato di diffondere la cultura del mio paese (allora la Jugoslavia) traducendo le opere degli scrittori più importanti. Avendo parenti in tutte le regioni delle ex repubbliche, sono etnicamente "sporca" come si direbbe oggi. Ma sono contenta, il mio mondo è il Mondo anche se le radici contano. I grandi paesi come la Francia e l'Inghilterra (per non parlare degli Stati Uniti e del disastro provocato negli anni recenti in Iraq, Libia ecc.) non vogliono la nuova ondata degli immigrati dopo aver sfruttato fino all'osso le colonie. Al confine di Ventimiglia arrivano centinaia di stranieri al giorno: sono sbarcati con le loro misere cose in Italia (purtroppo la sua geografia lo permette) ma vogliono andare oltre; spesso hanno già i parenti in altri paesi europei con i quali si vorrebbero congiungere. Nel periodo dei bombardamenti "umanitari" della Serbia per raggiungere la famiglia che viveva a Belgrado, si andava a Budapest e poi con un pullman sgangherato si proseguiva per la capitale. Al confine i finanzieri non erano proprio gentili, spesso si doveva dar loro qualcosa per essere lasciati in pace. Dicevano: "Avete vissuto bene sotto Tito, ora siete voi ad avere bisogno!". Asotthalom è una cittadina ungherese al confine con la Serbia. È qui soprattutto che si assiepano immigrati da diversi paesi africani e asiatici in fuga dalle guerre e dalla miseria. Qualche contadino ungherese porge loro un bicchier d'acqua e un po' di pane. Sono esausti sotto il sole di giugno dopo aver fatto migliaia di chilometri a piedi e negli scafi strapagati dove hanno visto morire i propri compagni. Cimitero azzurro è il poema del serbo Milutin Bojic dedicato ai caduti serbi nel Mediterraneo nella prima guerra mondiale. Il sindaco dice che la cittadina ha 4.000 abitanti e che da qui hanno transitato 40 mila illegali. Arrivano in Serbia dall'Albania e dal Kosovo e poi capiscono che non c'è molto da aspettarsi da un paese già povero. E ora sono qui a cercare di andare oltre, oltre e ancora oltre. Spesso non sapendo nemmeno dove, per riprendere anche un briciolo della vita che hanno perduto. Sono stati abbattuti i muri dei campi di concentramento e internamento, ci siamo tutti sentiti più uomini. Ma i nuovi muri ci riportano indietro. Capisco anche la gente che ha paura dell'"altro": rubano, puzzano, sono violenti. Ma dopo giorni e settimane senza mangiare, noi saremmo diversi? Ora che l'unico di sinistra sembra essere papa Francesco, che ci richiama a scoprire un po' di umanità in noi, come convincere i grandi ad aiutare i "piccoli" che spesso non considerano nemmeno umani? Una scrittrice croata molto polemica (Vedrana Rudan) profetizza che un giorno guarderemo i bambini americani star male e non ci dispiacerà dopo aver visto i volti dei bambini palestinesi, siriani, ivoriani, nigeriani… Certo, un mondo così ingiusto dovrà esplodere. E allora si dovrà ricominciare. Purtroppo non sarò in grado di dare il mio contributo. L'Europa salpa verso la Libia e rifiuta le quote di ripartizione dei migranti di Luca Fazio Il Manifesto, 23 giugno 2015 Immigrazione. Mentre continuano gli sbarchi dei migranti sulle nostre coste (solo ieri 1.436 persone), i ministri degli esteri della Ue hanno approvato la prima fase della missione di pattugliamento al largo della Libia. Nella bozza del documento che verrà discusso al vertice di giovedì e venerdì prossimi c'è anche il poco onorevole compromesso che l'Europa ha raggiunto sulla ripartizione dei migranti: si parla di 40 mila richiedenti asilo che verranno distribuiti su base volontaria e non sotto il vincolo di quote obbligatorie. Nella più totale confusione, mentre nel Mediterraneo succede di tutto, l'Europa continua ad annaspare. Si imbarca in una missione militare dai contorni poco chiari (manca ancora il via libera dell'Onu) e finge un onorevole compromesso sulla ripartizione di pochi migranti nei vari paesi. Un nulla di fatto che qualcuno spaccia per svolta epocale (il passo avanti). Ieri, all'unanimità, i ministri degli esteri della Ue hanno dato il via libera alla prima fase della missione navale EuNavForMed per tentare di bloccare le partenze dei migranti dalla Libia colpendo gli scafisti (non si sa come e con quali regole di ingaggio). Si presume a terra, nei porti, perché altrimenti si colpirebbero i migranti. Nella prima fase, che sarà operativa tra una settimana, 5 navi militari, 2 sottomarini, 3 aerei da ricognizione, 2 droni, 3 elicotteri e "un migliaio" di soldati si limiteranno a rinforzare il pattugliamento in alto mare e allo "scambio di informazioni". I militari specificano che "lo scopo principale non è il salvataggio ma la lotta contro i trafficanti di esseri umani". Le navi, in ogni caso, saranno tenute a salvare i migranti già salpati verso la Sicilia. Solo in una fase successiva, fase due, dovrebbero essere distrutti i barconi degli scafisti, una opzione che l'Europa non può dare per scontata perché l'uso della forza in acque libiche - per non dire di operazioni di terra già ipotizzate in precedenza - deve necessariamente essere ratificata da una risoluzione Onu. E in quella sede una seconda catastrofica avventura in Libia incontrerà sicuramente molte difficoltà. Si tratterebbe infatti di un'azione di guerra, in un tratto di mare dove proprio ieri un gommone pieno di migranti sarebbe stato bersagliato con colpi di arma da fuoco sparati da una motovedetta libica (c'è un morto, e la smentita del governo libico). Facile immaginare cosa potrebbe accadere se e quando la missione prenderà i contorni di un'aggressione militare con tanto di blocco navale. Questo non rientra nei piani dell'Europa? Allora non bisogna essere esperti di Risiko per comprendere che limitarsi a pattugliare uno spicchio di Mediterraneo sarebbe come galleggiare nell'impotenza d fronte a carrette piene di disperati da salvare. Ecco perché l'Unione europea in tuta mimetica non può aver fatto altro che approvare un maldestro tentativo di bloccare le partenze facendo muro con navi da guerra. Per l'alto rappresentante Ue per la politica estera, Federica Mogherini, invece "è la prima volta che l'Unione europea affronta il tema dell'immigrazione seriamente". Anche la ministra della Difesa, Roberta Pinotti, è soddisfatta ma non troppo: "Il tema della sicurezza del Mediterraneo ora è condiviso. Non è ancora quello che vogliamo, non percepiamo ancora un'Europa solidale come la vorremmo". La riflessione è condivisibile se si legge tra le righe del compromesso che, sempre ieri, l'Europa ha raggiunto sulla redistribuzione dei migranti. Nella bozza, che diventerà documento ufficiale nel vertice di giovedì e venerdì prossimi, ci sarebbe un accordo per la distribuzione di 40 mila rifugiati "in chiara necessità di protezione internazionale" che attualmente sono in Italia e Grecia. Succederà "entro la fine di luglio", quando gli stati dovranno mettersi d'accordo sul meccanismo di distribuzione definito comunque "temporaneo ed eccezionale". Significa che i paesi rifiutano il meccanismo delle quote obbligatorie, dunque non esiste un piano complessivo per una nuova politica dell'immigrazione capace di far fronte a un fenomeno che è strutturale e non emergenziale. Risolti i problemi per questi 40 mila rifugiati, il "problema" si porrà nuovamente tale e quale. Lo aveva già detto senza giri di parole il presidente francese Hollande in visita all'Expo mentre Renzi faceva lo spiritoso con la baguette alla nutella: "La formula delle quote non è presa in considerazione, crea confusione, serve un'altra formula". Dunque, in questa Europa, non esisterà alcun accordo che obbligherà gli stati ad accogliere i migranti. Nella bozza in discussione al prossimo vertice c'è dell'altro, ovvero "la creazione di zone di frontiera e servizi strutturati negli stati in prima linea". In Italia e in Grecia. Sono i cosiddetti "hotspots", nuovi centri di identificazione che per non trasformarsi in nuovi centri di detenzione dovranno essere organizzati e governati come mai l'Italia è stata capace di fare, dal 1998 fino ad oggi. Per quanto tempo potranno essere "ospitati" i richiedenti asilo? Come comportarsi con chi è sprovvisto di documenti? Potranno muoversi liberamente? Vista la gestione para mafiosa di altri centri di raccolta, chi gestirà questi nuovi centri? Questi sono dettagli di poco conto per i ministri della Ue, per ora si sa solo che verranno finanziati anche dall'Europa. Sarebbe questa elemosina l'unico aiuto concreto che il governo Renzi è riuscito a strappare. Ne è previsto uno in Sicilia, e non sarà l'unico. Non è abbastanza. Perché nel frattempo, mentre i vertici posizionano navi da guerra e partoriscono non soluzioni, migliaia di esseri umani ogni giorno costringono l'Europa a fare i conti con la realtà. Solo ieri, 914 persone salvate da una nave militare inglese sono sbarcate nel porto di Taranto. Altre 522, tratte in salvo da una nave tedesca, hanno raggiunto Salerno. In tutto, informa in serata la Guardia Costiera di Roma, lunedì sono state salvate al largo della Libia 2.518 persone in 15 imbarcazioni. A Ventimiglia, intanto, prosegue la protesta dei migranti sugli scogli. L'istantanea più potente del declino dell'Europa. Brasile: Orlando sul caso Pizzolato "datemi elementi per provare a fermare l'estradizione" La Gazzetta di Modena, 23 giugno 2015 "Farò di tutto per impedire l'estradizione di Pizzolato. Datemi però degli elementi nuovi per supportare la nostra richiesta". Con queste parole incoraggianti il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha salutato la moglie di Enrique Pizzolato, la signora Andrea Haas, i suoi legali e i volontari del Gruppo Carcere Città al termine di un incontro che hanno avuto a margine della partecipazione del Guardasigilli alla festa del Pd di Sassuolo. Pizzolato, di origine brasiliana con cittadinanza italiana, rischia di dover lasciare nei prossimi giorni il carcere di Sant'Anna a Modena - dove sta scontando una pena di più di 12 anni per corruzione e riciclaggio - per essere trasferito e rinchiuso a Papuda, una delle galere più violente e degradate del Brasile, paese in cui le carceri versano in condizioni gravissime e disumane, come denunciato da numerose organizzazioni internazionali. E proprio questo hanno ricordato la moglie di Pizzolato, i suoi legali e il Gruppo Carcere Città che la accompagnavano. "Ho chiesto spiegazioni al ministro - ha spiegato la signora Haas - Gli ho chiesto perché ha deciso di estradare Enrique. Non era mai successo che l'Italia inviasse un suo cittadino in Brasile sapendo che in questo modo lo avrebbe mandato incontro a un carcere durissimo in cui rischierà la sua vita e la sua integrità fisica. Io temo che mio marito sia torturato, maltrattato e sottoposto a violenze". "La speranza non manca mai - ha proseguito uno dei legali. Il ministro ci ha accolto con molta cortesia ci ha ascoltati. Speriamo che la sua disponibilità a valutare elementi nuovi possa concretizzarsi con il blocco temporaneo dell'estradizione affinché sia rifatto il processo davanti alla corte europea dei diritti di Strasburgo". Stati Uniti: detenuti morti per overdose di narcotici, il primato spetta alla California Ansa, 23 giugno 2015 Il numero di reclusi morti nelle prigioni statali della California per overdose di narcotici, è quasi il triplo della media federale e non è chiaro se le misure di prevenzione in merito hanno dato un qualche risultato, e comunque sono state diverse le proteste dei difensori dei diritti civili. Il Dipartimento delle carceri ha speso quest'anno otto milioni di dollari per apparecchiature di rilevamento delle droghe e in una nuova unità di cani da sniffo. I funzionari del Dipartimento sono convinti che i mezzi resi più stringenti stiano facendo rallentare il contrabbando, ma i dati disponibili non collimano con questa convinzione: sono stati realizzati più di 6.000 controlli con specifiche apparecchiature sui visitatori e impiegati delle 11 prigioni, ma da dicembre non è stato scoperto neanche un grammo di droga. Fin ad ora non ci sono dati sulle persone arrestate dopo essere state sniffate da un cane antidroga, e solo da maggio ci sono i dati sui controlli coi nuovi procedimenti. Crescono le critiche sui commenti per i falsi risultati positivi sull'utilizzo dei nuovi macchinari e sui cani, controlli che portano anche a fare controlli su persone che sono state completamente spogliate dei loro vestiti. "Ci sono molte preoccupazioni rispetto ai cani, i quali storicamente sono stati un emblema di intimidazione per molte comunità di persone di razza negra, principalmente durante i movimenti per i diritti civili". Nessuno vuole vedere morti per overdose di droga, per cui si fa pressione per sapere quali dei nuovi programmi siano efficaci. Più di 150 condannati in California sono morti per overdose dal 2006, con un massimo di 24 nel 2013. Inoltre, la condivisione di siringhe per uso endovenoso propaga anche le infezioni di epatite C, malattia che ha causato la morte di 69 persone nel 2013. Il segretario del Dipartimento, Jeffrey Beard, ha di recente fatto sapere ai parlamentari che il consumo di droghe "è in crescita nelle carceri". "Siamo valutando di inviare un messaggio a chi intende contrabbandare droghe in carcere. Se non lo facciamo avremo tanta gente che morirà e continueremo ad avere violenza nelle carceri". Florida, Georgia, Illinois, Ohio e Texas hanno una media di un morto all'anno ogni 100.000 reclusi nel periodo 2011-2012, secondo recenti dati federali. Il Maryland ha registrato il numero più alto con 17 morti ogni 100.000 reclusi. Medio Oriente: Onu; crimini di guerra a Gaza, intervenga la Corte penale internazionale di Michele Giorgio Il Manifesto, 23 giugno 2015 Margine Protettivo. Reso pubblico ieri il rapporto della Commissione incaricata dal Consiglio dell'Onu per i Diritti Umani di indagare sui 51 giorni di conflitto tra Israele e Hamas nel 2014. La giudice Mary McGowan Davis ha riferito delle responsabilità di Israele ma ha messo sotto accusa anche il movimento islamico. Intanto suscita sdegno nella Striscia la fuga di Mahmoud Salfiti, uno degli assassini di Vittorio Arrigoni. È un'inchiesta di eccezionale importanza quella pubblicata ieri dalla Commissione nominata dal Consiglio dell'Onu per i Diritti Umani per indagare sull'offensiva israeliana "Margine Protettivo" e il conflitto a Gaza della scorsa estate. Un'inchiesta che sarà la base di possibili iniziative della Corte penale internazionale. Tuttavia in essa si scorgono i riflessi delle pressioni diplomatiche esercitate dallo Stato di Israele che, peraltro, una decina di giorni fa si è autoassolto con un rapporto sulla guerra di Gaza in cui addossava ogni responsabilità ad Hamas. Rapporto preceduto da una dichiarazione di "non colpevolezza" di Israele firmata da ex capi di governo, ministri e comandanti militari occidentali, tra i quali due italiani, l'ex capo di stato maggiore Camporini e l'ex responsabile degli esteri Giulio Terzi. Se da un lato il team guidato dalla giudice americana Mary McGowan Davis non manca di riferire le conseguenze delle ampie operazioni militari israeliane, dall'altro di fatto mette sullo stesso piano gli attacchi contro Israele lanciati dal movimento islamico Hamas e da altre fazioni palestinesi. "Sono credibili le accuse di crimini di guerra commessi sia da Israele che dai gruppi armati palestinesi" è scritto nel rapporto, in cui "si invita la comunità internazionale a sostenere il lavoro della Corte penale internazionale sui Territori occupati". McGowan Davis ha sottolineato che la sofferenza umana a Gaza è stata senza precedenti e "avrà un impatto sulle generazioni future". Ha quindi parlato di un uso sproporzionato della forza da parte di Israele e riferito che l'inchiesta ha accertato che in 51 giorni di operazioni militari "sono stati uccisi 1462 civili palestinesi, un terzo dei quali erano bambini". "Il conflitto - ha affermato - ha visto un enorme aumento del fuoco usato a Gaza, con oltre 6000 raid aerei e circa 50 mila colpi da terra. Il fatto che Israele non rivide la pratica dei raid aerei, neanche dopo che i loro effetti sui civili divennero evidenti, solleva la questione se questa fosse parte di una politica più ampia approvata, almeno tacitamente, dai più alti livelli del governo israeliano". Il rapporto però non avvalora in modo esplicito la denuncia palestinese sul fuoco indiscriminato fatto dalle forze armate israeliane sui centri abitati. Al contrario la Commissione sembra addossare l'accusa di intenzionalità soprattutto ai gruppi armati palestinesi. Questi ultimi, ha spiegato McGowan Davis, hanno lanciato 4881 razzi e 1753 colpi di mortaio su Israele, uccidendo 6 civili e ferendone 1600. Il "lancio indiscriminato" di migliaia di razzi e colpi di mortaio, secondo la Commissione, aveva "l'obiettivo di diffondere il terrore tra i civili israeliani". I residenti vicino alla Striscia, prosegue il rapporto, "sono stati traumatizzati" dalla scoperta di 14 tunnel da Gaza per Israele e "dal timore di poter essere attaccati in qualsiasi momento da uomini armati che sbucavano dal terreno". Pur essendo poco credibile la spiegazione data dai dirigenti di Hamas, che hanno parlato di razzi e colpi di mortaio indirizzati sempre verso postazioni e basi militari israeliane ma caduti ovunque perché le armi palestinesi non sono sofisticate, allo stesso modo il rapporto sopravvaluta l'intenzionalità palestinese e ridimensiona quella israeliana. Eppure molte decine di testimonianze raccolte dall'Ong israeliana "Breaking the Silence" tra ufficiali e soldati che hanno partecipato a "Margine Protettivo" dicono proprio il contrario. La Commissione d'inchiesta non sembra aver dato il giusto peso all'immensa differenza di potenza di fuoco tra le due parti, che pure è confermata dalle distruzioni e dal numero delle vittime civili: 1462 palestinesi e sei israeliane (oltre a un lavoratore asiatico, gli altri 66 morti israeliani sono soldati caduti in combattimento). Per Israele in ogni caso il rapporto è totalmente sbilanciato. Il Consiglio dei diritti dell'uomo di Ginevra, si afferma in un comunicato, soffre "di una singolare ossessione per Israele". Benyamin Netanyahu ha negato che il suo Paese abbia commesso crimini di guerra a Gaza perché, ha detto il premier, "Israele si difende dal terrorismo". L'Anp di Abu Mazen, da parte sua, sostiene che il rapporto dell'Onu debba essere sottoposto alla Corte penale internazionale. Anche Hamas nega di aver commesso crimini di guerra ma un suo portavoce, Sami Abu Zuhri, assicura che esperti del movimento islamico si riservano di valutare in dettaglio i risultati dell'inchiesta. Il rapporto della Commissione dell'Onu è stato pubblicato mentre a Gaza si diffondeva un'altra notizia, molto inquietante. Uno degli assassini dell'attivista e reporter Vittorio Arrigoni sarebbe scappato per rifugiarsi in Siria, o in Libia secondo un'altra versione, e per combattere assieme allo Stato islamico. Mahmoud Salfiti, membro di una cellula del gruppo salafita Tawhid wal Jihad - condannato all'ergastolo e poi in appello a 15 anni di reclusione - aveva ottenuto un permesso per lasciare il carcere durante il mese di Ramadan. Sarebbe scomparso qualche ora dopo il suo rilascio e avrebbe lasciato la Striscia attraverso un tunnel o addirittura per il valico di Rafah con l'Egitto grazie a un passaporto falso. Non è però escluso che Salfiti sia ancora a Gaza e che i suoi complici abbiamo riferito della sua fuga dalla Striscia per depistare la polizia. Le autorità di Hamas ieri sera non avevano ancora commentato o confermato la notizia. Indonesia: francese condannato a morte, respinto appello finale presentato dai suoi legali Ansa, 23 giugno 2015 Parigi: "Siamo totalmente mobilitati per salvare Serge Atlaoui". Si affievoliscono le speranze per Serge Atlaoui, il francese condannato a morte in Indonesia per reati di droga. Il tribunale amministrativo di Giakarta ha respinto oggi l'appello finale presentato dai suoi legali, affermando che non ribalterà il rifiuto di clemenza pronunciato dal presidente, Joko Widodo. Nonostante gli appelli caduti nel vuoto e lo sdegno della comunità internazionale, otto trafficanti di droga, di cui sette stranieri, inizialmente parte dello stesso gruppo di detenuti di Atlaoui, erano stati fucilati a fine aprile. "Siamo totalmente mobilitati per il nostro connazionale", ha assicurato oggi in una nota il ministro degli Esteri della Francia, Laurent Fabius, precisando di essere "in contatto con la famiglia e gli avvocati". E ancora: "Parlerò molto rapidamente con la moglie e ricordo la ferma opposizione della Francia alla pena di morte in tutti i luoghi e in tutte le circostanze". "La mobilitazione della diplomazia francese è totale", gli ha fatto eco il segretario di Stati agli Affari europei, Harlem Desir. I legali di Atlaoui dicono di essere al lavoro per "trovare altre vie di ricorso" per salvare il loro cliente dal plotone di esecuzione, ma non hanno fornito ulteriori dettagli. Da parte sua, la procura generale indonesiana, che gestisce le condanne a morte, saluta la decisione dei giudici amministrativi, ma precisa che nuove esecuzioni non sono previste nel calendario di breve termine. Incarcerato da dieci anni in Indonesia, Serge Atlaoui, 51 anni, doveva essere inizialmente giustiziato il 29 aprile scorso, insieme agli altri otto condannati per traffico di droga. Ma il suo nome venne rimosso in extremis dalla lista. Le persone giustiziate sono l'indonesiano Zainal Abidin, gli australiani Andrew Chan e Myuran Sukumaran, il brasiliano Rodrigo Gularte, i nigeriani Sylvester Obiekwe Nwolise, Raheem Agbaje Salami e Okwudili Oyatanze, e il ghanese Martin Anderson. Una nona persona condannata a morte, la filippina Mary Jane Fiesta Veloso, è stata graziata perché scagionata da una donna che all'ultimo si consegnò alla polizia confessando di averla assoldata come corriere e di essere quindi lei colpevole di traffico di droga. Nel corridoio della morte dal 2007, Atlaoui, saldatore di professione, si è sempre difeso dicendo di aver solo installato dei macchinari industriali in quella che pensava essere una fabbrica di acrilico, mentre in realtà era un laboratorio clandestino di ecstasy. "Quando è arrivato non sapeva assolutamente di cosa si trattasse, quando ha saputo delle attività illegali voleva andarsene, ma non aveva più soldi né biglietto aereo", assicura in tv la moglie Sabine. Sulla questione, Occidente e Indonesia la vedono in maniera opposta. Se la sproporzione tra reato e pena - con in più i tanti anni in carcere per redimersi - provoca orrore in molti stranieri, nell' arcipelago al 90% musulmano il consenso per la linea dura scelta dal presidente Widodo è elevato. A neanche un anno dall' elezione, il leader paradossalmente venuto dal basso con la fama di "buono" era già in crisi di consensi: probabile che la terapia shock contro "l'emergenza nazionale" della droga sia stata voluta anche per rilanciarsi in patria. E le prime sei fucilazioni - tra cui cinque stranieri - già decretate a gennaio avevano già fatto capire che a Giakarta il vento è cambiato. Egitto: "al Jazeera" conferma rilascio giornalista Ahmed Mansour detenuto in Germania Nova, 23 giugno 2015 La procura generale tedesca ha rilasciato il giornalista di "al Jazeera" Ahmed Mansour. Lo riferisce la stessa emittente satellitare qatariota e lo ha confermato Mansour sul suo profilo Facebook. Le autorità tedesche avevano espresso serie perplessità sulla possibilità di estradare Mansour in Egitto, temendo per la legalità del processo a suo carico. "Nessuno dovrebbe essere estradato dalla Germania se rischia di essere condannato a morte", ha detto il portavoce del ministero degli Esteri. La notizia era stata battuta questa mattina dai media egiziani secondo cui le autorità tedesche avrebbero offerto al giornalista la possibilità di essere rilasciato in cambio di informazioni sui leader del Fronte al Nusra e i comandanti dello Stato islamico. Lo scorso 20 giugno l'ufficio egiziano dell'Interpol ha inviato alle autorità tedesche una richiesta ufficiale di estradizione di Mansour. Sul giornalista egiziano con passaporto britannico era stato emesso un "avviso rosso" dell'Interpol, provvedimento per segnalare ricercati nei 181 paesi membri dell'organizzazione investigativa internazionale. Nel 2014, Mansour è stato condannato in contumacia a 15 anni di carcere dal tribunale penale del Cairo con l'accusa di aver aggredito e torturato un avvocato in piazza Tahrir nel corso della rivolta 2011. L'arresto del giornalista di "al Jazeera" ha suscitato forti critiche da parte delle organizzazioni della stampa, che chiedono una rapida indagine sul caso. Ieri il presidente dell'Associazione dei giornalisti tedesca (Djv) ha invitato le autorità a non estradare il reporter in Egitto. Tale posizione è condivisa anche dal responsabile di Reporter senza frontiere, Christian Mihr che ha dichiarato la necessità di aprire un'indagine sull'accaduto, sottolineando le motivazioni politiche che potrebbero celarsi dietro la condanna inflitta contro Mansour e il suo arresto in Germania. Le istituzioni egiziane accusano "al Jazeera" di essere un portavoce dei Fratelli musulmani, movimento considerato fuori legge in Egitto. L'emittente qatariota, peraltro, ha avviato una causa legale contro il Cairo per chiedere un risarcimento danni di 150 milioni di dollari circa. I giornalisti di "al Jazeera" Mohamed Fahmy, Baher Mohamed e Peter Greste sono stati liberati a febbraio, dopo essere stati condannati con l'accusa di aver trasmesso notizie false allo scopo di mettere in pericolo la sicurezza nazionale e aiutare i Fratelli musulmani. Fahmy e Baher sono stati rilasciati dopo 413 giorni di carcere. Fahmy, naturalizzato canadese, è stato rimesso in libertà dopo il pagamento di una cauzione di 33 mila dollari. L'uomo si è licenziato dall'emittente televisiva e ha annunciato una causa legale contro la tv, accusata di perseguire "una strategia per diffamare l'Egitto".