Come ci si confronta con le persone detenute e con la società? di Ornella Favero (Direttrice di Ristretti Orizzonti) Ristretti Orizzonti, 22 giugno 2015 Forse gli Stati Generali possono imparare qualcosa incontrando Ristretti Orizzonti. "Gli Stati Generali non avrebbero senso se noi, in questa ampia consultazione, non consultassimo anche i soggetti che sono poi destinatari di questo percorso. Per questo i tavoli avranno l'indicazione di organizzare una discussione con i detenuti stessi, individuando, a seconda della specificità del tavolo, quale possa essere il luogo dove andare a realizzare questo tipo di dibattito. Spetterà poi a tutti quanti noi saperlo adeguatamente organizzare e saper avere poi il ricavato di queste discussioni in termini positivi. Sappiamo però che si può contare su quella specificità italiana, che è quella di questa forte presenza di un esterno che entra all'interno del carcere, forse la presenza che ci manca è che questa voce di questo esterno che entra in carcere riesca anche a entrare all'interno dei circoli culturali, dei circoli dell'intellettualità italiana che continuano ancora a discutere del carcere con tutt'altre parole" (Mauro Palma all'Assemblea della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, 6 giugno 2015). Certo è positivo che Mauro Palma, consigliere del ministro della Giustizia e uno dei massimi esperti di esecuzione della pena, abbia detto che gli Stati Generali non avrebbero senso se non fossero consultati anche i detenuti, quello che ci convince meno è il modo in cui verranno "consultati". Noi di Ristretti Orizzonti per mesi abbiamo chiesto di fare davvero questi Stati Generali e di essere coinvolti, e non perché siamo dei megalomani, ma perché rappresentiamo una delle poche realtà dove le persone detenute sono direttamente protagoniste di un profondo lavoro di studio e di elaborazione sui temi delle pene e del carcere. Ogni giorno, tra l'altro, forniamo a tutti gli addetti ai lavori una Rassegna Stampa, che tantissimi dirigenti e operatori del DAP ritengono uno strumento di lavoro di grandissimo valore, però quando si tratta di chiamarci a collaborare alla realizzazione degli Stati Generali, al massimo si può chiedere a me, Ornella Favero, volontaria che opera con le persone detenute, di far parte di un tavolo, magari di quello sugli affetti. Quegli affetti per cui da anni ci battiamo e siamo arrivati a far illustrare direttamente a tanti figli delle persone detenute la nostra proposta di Legge su questi temi, che ora è in Commissione Giustizia alla Camera, e la Commissione ha deciso di fare una audizione della nostra redazione via Skype. Ma forse possiamo dire qualcosa di importante anche su altri temi, ed esemplare da questo punto di vista è la battaglia che stiamo conducendo per una maggior trasparenza sul regime del 41 bis, sui circuiti di Alta Sicurezza, sulle declassificazioni: se questa battaglia ha portato finalmente a una circolare nuova sulle declassificazioni, che ha accolto molte delle nostre sollecitazioni, non pensate che sia davvero utile, allora, "consultare" le persone detenute, e consultare in particolare chi su queste questioni lavora da anni? I tavoli saranno giustamente composti da docenti universitari, magistrati, addetti ai lavori, quello che ci sembra meno giusto è che sia affidata a loro la scelta delle modalità con cui confrontarsi con i detenuti, e non si capisce proprio con quali detenuti dialogheranno e in quale momento dei lavori. E poco chiaro è anche il modo in cui dovrebbe essere coinvolta la cosiddetta "società civile". Il Ministro Orlando ha detto "La nostra ambiziosa scommessa è che attraverso gli Stati generali su questi temi si apra un dibattito che coinvolga l'opinione pubblica e la società italiana nel suo complesso": ma il dibattito come si aprirà, mandando gli esperti a parlare in giro per "la società"? Forse anche su questo terreno noi di Ristretti Orizzonti possiamo dire delle parole nuove, dal momento che ogni anno incontriamo in carcere e nelle scuole settemila e più studenti, e con loro le persone detenute hanno il coraggio e la forza di parlare di come sono arrivate a commettere reati, e di assumersi la responsabilità del male fatto. Noi che abbiamo avviato un doloroso percorso di confronto con tante vittime e abbiamo imparato le parole per non offenderle, per non creare ulteriore dolore. E che ogni anno organizziamo un seminario di formazione per più di cento giornalisti all'interno del carcere, e ragioniamo con loro sulle pene, sul carcere e sul modo di raccontarli. Se alla presentazione degli Stati generali alla voce "detenuti" c'è stato il vuoto, perché non provare a riempire questo vuoto non affidando a ogni tavolo la generica iniziativa di consultare "i detenuti", ma accettando l'invito di Ristretti Orizzonti a venire nella Casa di reclusione di Padova a parlare proprio di questi temi: come si coinvolgono le persone detenute nella discussione sulla riforma della Legge penitenziaria e come si coinvolge la società in un dibattito serio sulle pene e sul carcere? Gli "irrecuperabili" e la sfida di non buttar via nessun essere umano Il Mattino di Padova, 22 giugno 2015 Nelle sezioni di Alta Sicurezza delle carceri ci stanno "i mafiosi", e tutti o quasi sono convinti che con loro non ci sia niente da fare, e nemmeno con le loro famiglie: bisogna trattarli duramente, perché tanto non c'è possibilità di recuperarli. È una bella sconfitta delle Istituzioni, pensare che ci siano uomini che si possono "buttare via" perché non c'è speranza di cambiamento. E chi pensa il contrario viene ritenuto un ingenuo, un "buonista", uno che non ha il senso dello Stato. Ma le cose stanno per forza così? Nell'esperienza della redazione di Ristretti Orizzonti le sfide non fanno paura, e memori di quello che Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse, dice sempre, che "non bisogna buttare via nessuno", e di quello che sostiene il Papa, quando combatte contro le pene che non danno speranza come l'ergastolo, abbiamo deciso di coinvolgere anche i detenuti "irrecuperabili" nei nostri percorsi. Ora stanno smantellando le sezioni di Alta Sicurezza di Padova, e noi riportiamo due testimonianze molto particolari: una di Giovanni, che purtroppo è stato trasferito a Parma, ma noi speriamo che possa tornare, e che aveva scritto una lettera aperta a una studentessa, che durante un incontro in carcere era particolarmente emozionata e turbata da quel confronto con le persone detenute. Una lettera che dimostra quanto un progetto di confronto con le scuole possa emozionare e far riflettere anche "i cattivi per definizione". La seconda testimonianza è di un detenuto che noi speriamo sia declassificato e possa restare a Padova, che racconta come vivono quelle donne del sud che hanno un famigliare in carcere, e quanto importante sarebbe che le istituzioni, invece di trattare i famigliari come colpevoli, avessero per loro un'attenzione diversa. Perché è solo così che si fa crescere la fiducia nelle istituzioni stesse, e le persone possono prendere le distanze dal loro passato criminale. È una posizione ingenua la nostra? Può darsi, ma vale la pena di tentare strade nuove, e Papa Francesco ce lo insegna ogni giorno, lo insegna a chi crede, ma anche a chi non crede. Lettera ad una figlia Oggi, come accade da alcuni mesi a questa parte, ho partecipato a un incontro con gli studenti. Vorrei chiamarti Valeria come mia figlia se me lo permetti. La prima cosa che mi ha colpito di te e della tua amica è stata la risolutezza nel sedervi ai primi posti, cosa che tutti evitano. Non credo per pregiudizio, ma credo che l'impatto con il carcere e i detenuti sia forte. Tu invece non hai avuto questo timore e sei stata lì in prima fila ad ascoltare attentamente. Ogni tanto incrociavo il tuo sguardo e quando mi sono accorto delle tue emozioni così forti per me è stato un tonfo al cuore. Ho rivisto in te mia figlia quando alla tua stessa età frequentava la scuola, mi sono chiesto chissà la mia Valeria quante volte avrà attraversato gli stessi momenti, perché è difficile per una figlia confidare al padre le proprie esperienze, soprattutto quando si ha un padre lontano per tanto tempo, come lo sono io che sto in carcere da ventinove anni. Non vorrei essere invadente, anche se forse lo sono già stato con questo mio intervento, ma vorrei esprimerti tutta la mia solidarietà e se ne avrai voglia e ti potesse essere in qualche modo di sostegno scrivi alla redazione, e noi tutti saremmo felici se potessimo in qualche modo fare qualcosa per te. Il carcere è un luogo arido, ma qui dentro ci sono delle persone che hanno sentimenti, passioni e sono pronte a metterle a disposizione per l'altro. E credimi non lo fanno per un senso solo di altruismo, ma soprattutto lo fanno per sentirsi una persona come tutti gli altri. Diversamente dagli altri incontri, oggi, non sono riuscito ad intervenire, ero emozionato, ma la mia preoccupazione era quella che magari avrei potuto causarti altro dispiacere con qualche mia osservazione, non me lo sarei perdonato. Mi potrai obiettare: ma chi sei tu per pretendere tanto? Non avrei altro da fare che scusarmi e ringraziarti ugualmente dell'esperienza che mi hai fatto vivere oggi, dell'avermi fatto pensare a mia figlia, a quanto l'ho fatta soffrire. Nello stesso tempo vorrei solo dirti, qualunque possa essere il tuo problema, di essere te stessa e farti forza, hai una vita davanti a te e certamente avrai le tue soddisfazioni, i momenti brutti quando ci sono bisogna affrontarli con determinazione e in particolare quando la causa non sei tu. In questi casi volgi lo sguardo verso l'altro, prova a comprenderlo. Sappi solo che l'altro ha sicuramente bisogno di te. Un caro saluto. A te il meglio che desideri. Giovanni Donatiello Una storia ordinaria di una vedova bianca Avrei tante storie da scrivere su di loro; molte di loro diventate mamme giovanissime come una delle mie due figlie, rimasta incinta all'età di sedici anni. Diverse di loro invece sono rimaste vedove giovanissime, alcune, le più fortunate, si sono ritrovate con il marito in carcere a scontare una pena temporanea. Vi voglio parlare delle più sfortunate, soprannominate vedove bianche, quelle con i mariti condannati all'ergastolo ostativo. Queste donne sono più sfortunate di quelle rimaste realmente vedove. Moltissime di loro al momento dell'arresto del loro compagno erano giovanissime e con più figli da crescere come nel caso di mia moglie. Il loro futuro sarà girare l'Italia per poter fare i colloqui con il proprio marito e la maggior parte di loro per tanti anni vedrà il proprio compagno dietro un vetro blindato, senza poter ricevere una carezza di incoraggiamento dal proprio uomo. Sono donne che si trovano sulle spalle la grande responsabilità di dover crescere i propri figli da sole. Stupidamente molte volte ho dato la colpa a mia moglie se una delle mie figlie aveva fatto qualche scelta che non condividevo, dimenticando il sacrificio a cui queste donne sono chiamate quotidianamente. Molte di loro nel vedere il proprio compagno schiacciato da una pena disumana, quale è l'ergastolo ostativo, e nel vederlo per anni dietro un vetro, si fanno prendere dalla rabbia che spesso viene trasmessa ai loro figli; creature che purtroppo cresceranno con quell'odio verso tutti e tutto. Alcune di loro, rendendosi conto del rischio di una influenza negativa verso i loro figli, hanno preferito dare di nascosto sfogo alla rabbia e ai loro lunghi pianti. È merito di queste donne se hanno mantenuto in piedi le famiglie, tenuto vivo il legame affettivo tra il detenuto e i propri figli. Lo hanno fatto parlandogli del proprio padre. Questo perché molti di quei figli non hanno nessun ricordo del proprio padre. Come nel mio caso, quando venni arrestato, le mie figlie gemelle erano piccolissime, avevano appena un anno. Purtroppo queste donne spesso non hanno nessun aiuto dalle istituzioni, devono affrontare tutto da sole. Anzi, mi viene in mente che, dopo due anni dal mio arresto, mia moglie ad un colloquio era disperata perché ogni settimana le facevano una perquisizione spaventando le bambine. Per porre fine a questo mi rivolsi all'avvocato. Lo invitai a recarsi in questura per sapere il motivo di tutte quelle perquisizioni. Gli venne risposto: "Dite al vostro cliente di presentarsi". Il mio avvocato li informò che ero da due anni in carcere. Si sono scusati spiegando che nel loro terminale risultavo ancora latitante. A tutt'oggi sono ventidue anni che mia moglie non subisce una perquisizione, a dimostrazione che l'autorità è consapevole del sano percorso quotidiano dei miei familiari. A loro però non viene data quasi nessuna attenzione dalle istituzioni, che pure dovrebbero sapere che, se viene spezzata la catena dell'odio, è proprio merito di queste donne che crescono i propri figli senza rabbia ed odio verso lo Stato. Quello stesso Stato che si ostina a mantenere una pena così disumana, l'ergastolo ostativo, definita dal Papa la pena di morte nascosta. Non sono stati i molti anni di detenzione, quanto piuttosto l'esperienza di carcere più umano fatta qui a Padova, a spingermi a maturare la consapevolezza di come, con le mie scelte di vita, ho pesantemente condizionato quelle di mia moglie e delle mie figlie. Egoisticamente le ho incatenate a me e trascinate nel baratro più profondo, "l'Ergastolo ostativo". Tommaso Romeo Giustizia: Messa alla prova, si va. Lavori sociali più facili per i detenuti di Marzia Paolucci Italia Oggi, 22 giugno 2015 D'ora in avanti sarà più facile per un detenuto fare ricorso ai lavori di pubblica utilità e per un laureato ricevere un compenso per uno stage presso un ufficio giudiziario. In entrambi i casi, a sbloccare la situazione è arrivato il regolamento e il decreto attuativo delle rispettive normative di riferimento. Detenuti e lavori di pubblica utilità: cosa dice il regolamento Il ministro della giustizia Andrea Orlando ha firmato il regolamento ministeriale di attuazione della legge 67/2014 (Deleghe al governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) con cui si amplia al detenuto la possibilità di far ricorso al lavoro di pubblica utilità. Già oggi gli imputati di reati puniti con la sola pena pecuniaria o con una pena detentiva non superiore a 4 anni possono chiedere la sospensione del processo con messa alla prova e conseguente avviamento a lavori di pubblica utilità ma con questo regolamento, si rafforza questa possibilità offrendo agli uffici giudiziari la possibilità di sfruttare al meglio le finalità deflattive dell'istituto. Il come sarà illustrato via via sullo stesso sito giustizia.it con una descrizione dettagliata punto per punto delle diverse convenzioni in materia di lavori di pubblica utilità che il ministero o i presidenti dei tribunali competenti andranno a stipulare con stato, enti locali e organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Il regolamento prevede che la prestazione lavorativa non sarà retribuita, verrà svolta in favore della collettività, non sarà inferiore ai dieci giorni né superiore alle otto ore giornaliere e dovrà tener conto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative dell'imputato. Il decreto ministeriale elenca inoltre le mansioni a cui i richiedenti potranno essere adibiti: prestazioni sociali e socio-sanitarie a favore di tossicodipendenti, alcolisti, disabili, minori, anziani e stranieri, in materia di protezione civile, previsto anche il soccorso alla popolazione in caso di calamità naturali. Per la tutela del patrimonio ambientale e culturale, i detenuti potranno occuparsi della custodia di musei, biblioteche e pinacoteche e per la manutenzione di immobili, servizi pubblici e beni demaniali, l'attività prevista è quella della pulizia e cura di ospedali, case di cura, giardini, ville e parchi. Nessun onere è previsto a carico del ministero della giustizia perché saranno sostenuti dalle amministrazioni, dagli enti locali e dalle organizzazioni presso i quali viene svolta l'attività gratuita in favore della collettività. Le amministrazioni, gli enti e le organizzazioni che prendono in carico il soggetto, devono garantirgli lo svolgimento del lavoro programmato mettendo a sua disposizione le strutture necessarie al lavoro, indicando un referente che coordini la prestazione e dia istruzioni in merito. A controllare che tutto proceda secondo i piani, c'è sempre l'Uepe - Ufficio di esecuzione penale esterna che fa da cerniera tra il giudice che ha emesso il provvedimento e l'ente ospitante a cominciare dalla facilitazione dei contatti tra enti e organizzazioni in convenzione e uffici giudiziari. Le convenzioni, raggruppate per distretto di Corte d'appello, saranno di volta in volta rese pubbliche attraverso l'inserimento in un'apposita sezione del sito, raggruppate per distretto di Corte d'appello. Laureati: stage pagati dal ministero Per la prima volta il Ministero stanzia fondi fino a otto milioni di euro per i laureati in aiuto agli uffici giudiziari e lo fa attingendo alle risorse del Fondo unico Giustizia del 2015. In questo caso, la firma del 22 maggio scorso del decreto interministeriale di attuazione delle "Misure urgenti per il rilancio dell'economia" contenute nel decreto legge 69 2013 uscito a giugno e convertito in legge ad agosto dello stesso anno, rappresenta la boccata di ossigeno che università da un lato e magistrati dall'altro si aspettavano per meglio garantire ai giovani una formazione sul campo ma anche il funzionamento della macchina giudiziaria e amministrativa degli uffici a corto di personale amministrativo colpito dalla perdurante assenza di concorsi di reclutamento. Giustizia: braccialetti elettronici finiti; niente arresti domiciliari i detenuti restano in cella di Martino Villosio Il Tempo, 22 giugno 2015 Non ascoltato l'allarme lanciato un anno fa dal Capo della Polizia Pansa. La gara d'appalto per la nuova partita non è stata svolta: mancano i fondi. Era il 19 giugno 2014 quando con una circolare inviata ai vertici del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria il Capo della Polizia Alessandro Pansa accendeva i riflettori sull'emergenza braccialetti elettronici ormai dietro l'angolo: entro la fine del mese corrente, annunciava il prefetto nel documento recapitato al Dap, la scorta di 2.000 apparecchi diventata largamente insufficiente dopo le nuove leggi dei governi Letta e Renzi in materia di sorveglianza sugli stalker, decongestionamento carcerario e misure alternative alla detenzione per le pene inferiori ai tre anni, sarebbe finita. Per i nuovi braccialetti, osservava ancora Pansa, si sarebbe dovuto attendere fino ad aprile del 2015, vista la necessità di predisporre un capitolato per una gara europea di fornitura. Dopo un anno e due giorni di fatalista e inerte attesa, oggi quell'allarme si trasforma nel disastro ampiamente annunciato sotto gli occhi del governo. Perché non solo la circolare di Pansa in allora è caduta nel vuoto ma nel frattempo nemmeno la gara europea fissata per la primavera di quest'anno è stata ancora fatta. Ed è così che negli ultimi mesi a più di un detenuto ospite delle patrie galere è stata offerta l'ennesima variazione sul tema dei diritti umani calpestati: sapere che un giudice ha firmato l'ordinanza che ti permette di tornare a casa, ai domiciliari, ed essere nonostante questo costretto a rimanere in cella a oltranza perché il braccialetto che dovrà sorvegliarti non c'è. L'ultima tragicomico obbrobrio prodotto dal sistema giudiziario e dall'universo carcerario italiano è cristallizzato in una nuova lettera, stavolta scritta da un magistrato e inviata proprio al Capo della Polizia che un anno fa sollecitava il ministero della Giustizia, quasi a sottolineare plasticamente l'ennesimo rimpallo di competenze dal sapore inconfondibilmente nostrano. A fine aprile, mentre si vedeva obbligato a trattenere dentro le sbarre un carcerato che a suo parere meritava l'attenuazione della misura cautelare, un gip romano ha infatti scritto al prefetto Alessandro Pansa ricordando "la scarsezza degli strumenti e sollecitando l'adozione di opportune iniziative atte ad evitare che il perdurare della condizione di detenzione del sopracitato imputato dipenda dalla occasionale inadeguatezza di strumenti tecnici". Il detenuto, nella circostanza, è stato scarcerato solo un mese dopo la firma del magistrato. Un destino che riguarda centinaia di altri carcerati che rimangono in cella a oltranza anche se il gip ha concesso l'attenuazione della misura. Ogni nuova attivazione al momento dipende infatti dal termine di un'altra custodia cautelare. Il contratto firmato nel 2004 tra Viminale e Telecom per la fornitura, l'installazione e il monitoraggio di 2.000 braccialetti elettronici scade a fine 2018. Già un anno fa la stessa Telecom aveva avvisato il ministero retto da Angelino Alfano che i braccialetti non sarebbero bastati. La risposta è stata che si sarebbe fatta una nuova gara (quella prevista per l'aprile scorso) che però non è stata ancora indetta. Il capitolato è pronto, si è appreso da fonti del Viminale. A mancare sarebbero però i soldi, ovvero i necessari stanziamenti del Ministero dell'Economia che permetterebbero di tamponare una situazione di crisi la cui potenziale esplosività era nota a tutti gli attori da tempo. Per un decennio il braccialetto è rimasto un oggetto misterioso e trascurato, poi due anni fa il gip del tribunale di Roma Stefano Aprile impose alla questura di Roma di utilizzare sistematicamente gli apparecchi disponibili visto che il sistema risultava regolarmente attivato. In pochi mesi il braccialetto elettronico ha preso piede anche in altre procure e tribunali d'Italia. Ci hanno pensato poi gli ultimi governi a trasformare l'apparecchio in uno strumento cardine nella politica di alleggerimento dei penitenziari: solo dieci giorni dopo l'allarme lanciato da Pansa lo scorso anno, infatti, il 28 giungo 2014 è entrato in vigore il decreto 92. In base alla norma ogni nuovo arrestato, ma anche chi è già detenuto in attesa di giudizio o con una sentenza non ancora definitiva, deve essere inviato agli arresti domiciliari se il giudice competente prevede per lui una pena non superiore ai tre anni. Prima ancora c'erano stati il decreto sul femminicidio, che nell'estate del 2013 ha introdotto il braccialetto come strumento di controllo per gli stalker. E poi la svuota carceri varata nell'inverno 2014, che li fece diventare praticamente obbligatori per i detenuti assegnati agli arresti domiciliari. Il gip lo manda ai domiciliari. In cella un altro mese Detenuto in attesa di scarcerazione. A distanza di 44 anni dal film di denuncia di Nanni Loy, da quel "Detenuto in attesa di giudizio" in cui Alberto Sordi viaggiava attraverso i soprusi e i meccanismi infernali della giustizia e del sistema penitenziario italiani sviscerandoli impietosamente con una delle sue massime prove d'attore, dall'arcipelago carcerario italiano spuntano nuovi e aggiornati capolavori di kafkiana assurdità. Sarebbe dovuto uscire di prigione subito, dopo che il gip di Roma lo scorso 21 aprile gli aveva concesso i domiciliari a una condizione: data la sua potenziale pericolosità, gli doveva essere applicato il braccialetto elettronico. Invece un uomo detenuto a Roma, condannato in primo grado per rapina e sottoposto a custodia cautelare, prima di poter lasciare il penitenziario come deciso dallo Stato è stato costretto (sempre dallo Stato) a rimanere un altro buon mesetto dietro le sbarre a causa della penuria di braccialetti elettronici che sta mettendo a dura prova l'applicazione concreta delle già contestate misure "svuota-carceri" varate dagli ultimi due governi. La vicenda viene denunciata in una lettera spedita al ministero dell'Interno proprio dal gip che aveva concesso i domiciliari vincolati all'impiego del braccialetto. "Ritengo doveroso rappresentare la grave situazione che si verifica a seguito della indisponibilità dei dispositivi in oggetto", esordiva il giudice il 30 aprile scorso nella missiva spedita al Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Viminale. "A distanza di alcuni giorni dall'ordinanza", denuncia il magistrato, "senza avere avuto alcun riscontro in merito all'esecuzione dell'ordinanza, con nota 27 aprile 2015 si sono richieste informazioni alla casa circondariale". È così che il gip ha scoperto che il suo provvedimento non aveva avuto applicazione. Infatti il commissariato di Spinaceto informava che il sopralluogo nel domicilio del detenuto per l'installazione dell'apparecchiatura si era concluso positivamente. Il problema, però, è che si era in attesa della "conferma di disponibilità dell'apparato". Tenendo conto delle rassicurazioni fornite "anche in sede parlamentare", chiosava il gip, "si sollecita l'adozione di opportune iniziative atte ad evitare che il perdurare della condizione di detenzione del sopra citato imputato dipenda dalla occasionale inadeguatezza di strumenti tecnici". Parole rimbalzate nel vuoto. Prima di lasciare il carcere, l'uomo ha dovuto attendere altri 20 giorni prima che venisse il suo turno di indossare uno dei preziosi e contesi braccialetti disponibili nella seleziona "parure" del Viminale. Giustizia: riforma del reato di diffamazione, sì alla norma per i cronisti senza editore di Sebastiano Messina La Repubblica, 22 giugno 2015 Viene confermata l'abolizione del carcere. Scompare la possibilità di chiedere la cancellazione da Internet degli articoli ritenuti diffamatori. Vengono inasprite le sanzioni per le querele e le azioni civili "temerarie". E viene finalmente prevista una norma per i giornalisti che devono affrontare processi civili e penali dopo il fallimento dell'editore. Sono queste le novità principali della riforma della diffamazione a mezzo stampa, che torna oggi a Montecitorio. "Abbiamo fatto un lavoro serio - dice Walter Verini, Pd, relatore del provvedimento - confermando la cancellazione del carcere per il reato di diffamazione. E la clausola di non punibilità, se il giornale pubblica la rettifica richiesta, tutela il diritto dei cittadini a non essere diffamati e la libertà dei giornali". Ma proprio sulle multe e sulla rettifica obbligatoria si concentrano le critiche: le sanzioni penali potranno arrivare fino a 50 mila euro, mentre le rettifiche potranno essere chieste al giornale da chiunque ritenga leso "il proprio onore o la propria reputazione" da un articolo, e dovranno essere pubblicate "gratuitamente, senza commento, senza risposta e senza titolo". Secondo Enzo Iacopino, presidente dell'Ordine dei Giornalisti "queste multe non tengono conto della potenzialità economica del condannato, e le rettifiche senza limiti rischiano di trasformare i giornali in buche delle lettere". Sulla stessa linea il segretario della Fnsi, Raffaele Lorusso, che contesta l'assegnazione dei processi per diffamazione contro i siti internet al giudice della città del querelante ("Costringere una piccola testata a difendersi in cento tribunali diversi diventa una forma indiretta di intimidazione") e avverte: "L'abolizione del carcere non può diventare un paravento per una resa dei conti contro i giornalisti". La commissione Giustizia ha introdotto una novità importante: "Si è pensato - dice Verini - ai casi di fallimento delle proprietà dei giornali, nei quali direttori e giornalisti vengono lasciati soli a risarcire il danneggiato per diffamazione". È quel che è successo a molti giornalisti e cominciare dagli ex direttori dell'Unità (De Gregorio, Sardo e Landò) chiamati ad affrontare oltre 50 processi, pagando di tasca loro anche centinaia di migliaia di euro, e dagli ex direttori di E-Polis, Enzo Cirillo e i fratelli Antonio e Gianni Cipriani, coinvolti in 92 processi penali e in 44cause civili. La nuova norma - che non riguarderà i processi già arrivati a sentenza - consentirà ai giornalisti che pagheranno i risarcimenti di essere inseriti tra i creditori privilegiati dell'editore fallito (o della società in liquidazione). In pratica, dovranno continuare a pagare di tasca loro, ma poi potranno chiedere all'editore "sparito" di versare la sua parte. Per la prima volta, passa un principio: l'editore non può abbandonare i giornalisti al loro destino giudiziario. Giustizia: imprese & legalità, c'è chi dice no alla corruzione di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2015 Le cronache locali riportano con frequenza notizie che quasi mai trovano poi posto sul palcoscenico dell'informazione nazionale. Notizie obiettivamente "piccole", ma che registrano l'impegno e le difficoltà di quanti, senza clamori né riconoscimenti, fanno argine giorno dopo giorno alle pretese criminali, corruttive (o entrambe) e a ogni tipo di distorsione della concorrenza. Sempre mettendoci la faccia, con un coraggio che in alcune aree può essere anche pericoloso. Verso fine aprile, in Puglia, i carabinieri ammanettano 60 persone di un potente clan locale, per aver tra l'altro imposto a diverse imprese edili di acquistare il calcestruzzo da impianti legati alla cosca. Il prodotto era volutamente di scarsa qualità (con meno cemento) e veniva così immesso sul mercato a prezzi più bassi, per coinvolgere i costruttori con il richiamo della convenienza. Se i clienti del calcestruzzo depotenziato siano vittime o collusi, lo stabiliranno le indagini. "Ringrazio per quest'operazione le forze dell'ordine e la magistratura: stanno facendo un grande lavoro" ha immediatamente dichiarato il presidente dell'Ance Bari-Bat, il quarantottenne Domenico De Bartolomeo, che pochi anni fa aveva fatto arrestare i "suoi" estorsori. Ma il giovane presidente ha anche voluto aggiungere: "Siamo noi imprenditori che dobbiamo fare di più di quanto abbiamo fatto finora. Le denunce sono aumentate, ma non abbastanza". Negli stessi giorni, nel palermitano, finivano in galera un po' di picciotti di vario calibro della famiglia Camporeale: la Direzione distrettuale antimafia di Palermo, che ha istruito il processo, ha potuto ricostruire alcuni casi di estorsione "anche grazie alla collaborazione di tre imprenditori che si sono ribellati" ai grassatori e alle loro minacce perché non smettessero di pagare il solito 3% sugli appalti pubblici, ma anche su quelli privati. Davanti a notizie così edificanti non va tuttavia commesso l'errore (purtroppo diffuso) di esprimere ammirazione per il coraggio dei protagonisti e tornare quindi placidamente agli affari propri, delegando ai "coraggiosi" la prosecuzione del contrasto. La strada è ancora lunga, come dimostrano altre cronache. A Salerno, per dire, è ormai senza ritorno il duro braccio di ferro tra Ance nazionale e il presidente dell'associazione costruttori locale, il quale (pur essendo sotto processo per bancarotta) respinge a suon di carte bollate le sanzioni previste dal codice etico rafforzato, in vigore da pochi mesi. Altrettanto recente, a Reggio Calabria, la risentita e pubblica reazione della Confindustria locale, ritenutasi offesa da Ivan Lo Bello perché - in occasione di un seminario e avendo accanto il procuratore Cafiero de Raho - il vicepresidente di Confindustria ha ripetuto ciò che dicono De Bartolomeo a Bari, l'aggiunto di Milano Ilda Boccassini o il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti: gli imprenditori devono collaborare di più con le istituzioni. Dunque una strada tortuosa e in salita, ma certamente già imboccata dal sistema delle imprese, come dimostra il fatto che - giusto oggi - lo stesso Lo Bello sarà votato presidente di Unioncamere, l'associazione delle 105 Camere di commercio italiane. Il suo profilo personale e il suo impegno antesignano tra gli imprenditori siciliani è troppo noto perché la scelta unanime delle Cdc non abbia un chiaro significato di prospettiva sul terreno della legalità. In definitiva, sono tante le pennellate di cronaca che alludono a un quadro incoraggiante, dal quale volutamente, per una volta, lasciamo fuori gli episodi anche clamorosi di segno opposto. Poco importa se ci sarà qualcuno - come già c'è - che taccerà di "protagonismo" chi denuncia esponendosi in prima persona, o che punterà il dito contro l'"antimafia dei poteri forti" criticandone l'ansia di visibilità, o (bizzarramente, sia consentito) l'eccessiva contiguità con le istituzioni. Di queste critiche - a volte intrise di ingenua buona fede, a volte meno - le persone impegnate in prima linea non possono che portare pazientemente il peso, per non pregiudicare l'obiettivo di un'idea di legalità condivisa tra segmenti di società diversi e, a volte, tra loro culturalmente distanti. Procedimento per decreto: prosciolto l'imputato dal Gip solo in casi tassativi di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2015 Corte di Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 13 aprile 2015 n. 14988. Il giudice per le indagini preliminari può, qualora lo ritenga, prosciogliere la persona nei cui confronti il pubblico ministero abbia richiesto l'emissione di decreto penale di condanna solo per una delle ipotesi tassativamente indicate nell'articolo 129 del Cpp, e non anche per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova ai sensi dell'articolo 530, comma 2, del Cpp, alle quali, prima del dibattimento - non essendo stata la prova ancora assunta - l'articolo 129 non consente si attribuisca valore processuale. È questo il principio espresso dalla sezione III penale della Cassazione con la sentenza 2 dicembre 2014-13 aprile 2015 n. 14988. Di conseguenza, per l'effetto, il giudice, qualora non possa pronunciare una sentenza di proscioglimento a norma dell'articolo 129 del Cpp, e non intenda accogliere la richiesta di emissione del decreto penale, può solo restituire gli atti al pubblico ministero(articolo 459, comma 3, del Cpp) : tale restituzione degli atti, nella scansione logica e procedurale prevista dalla norma, presuppone l'impossibilità di emettere, rebus sic stantibus, sentenza di proscioglimento e sanziona l'incompletezza delle indagini che non consente al giudice di determinarsi in un senso (accoglimento della richiesta) o nell'altro (pronuncia di sentenza di proscioglimento). Le conseguenze della decisione - Da queste premesse la Corte, accogliendo il ricorso del procuratore generale, ha annullato con rinvio la sentenza ex articolo 129 del Cpp emessa dal giudice per le indagini preliminari, richiesto di emettere decreto penale di condanna per il reato di cui all'articolo 2 del decreto legge 2 settembre 1983 n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983 n. 638, con la motivazione che fosse "verosimile" che la condotta ascritta dall'imputato - omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti - non fosse sorretta dall'elemento psicologico richiesto dalla norma incriminatrice; la Corte ha rilevato come non vi fosse spazio per una sentenza di proscioglimento motivata solo esprimendo un giudizio di verosimile insussistenza del dolo, che, piuttosto, attestava di un giudizio di insufficienza probatoria che avrebbe dovuto comportare, semmai, la restituzione degli atti al pubblico ministero. Le motivazioni dei giudici della Cassazione - La decisione è in linea con i principi espressi dalle sezioni Unite (sentenza 9 giugno 1995, Pg in proc. Cardoni) in forza dei quali il giudice per le indagini preliminari richiesto di emettere un decreto penale può prosciogliere l'imputato solo per una delle ipotesi tassativamente indicate nell'articolo 129 del Cpp, di cui deve emergere l'evidenza probatoria, ma non anche per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova ai sensi dell'articolo 530, comma 2, del Cpp, nel qual caso deve, semmai, restituire gli atti al pubblico ministero ex articolo 459, comma 3, del Cpp, per il necessario approfondimento probatorio. La Corte ha argomentato in tal senso valorizzando esattamente il fatto che, nella vicenda sub iudice, la motivazione liberatoria, basata sulla assenza del dolo, non si esprimeva in termini di certezza, ma solo in termini di verosimiglianza, con la conseguenza della illegittimità di una pronuncia liberatoria ex articolo 129 del Cpp. Resta da dire che la Cassazione non ha affatto negata la fondatezza di quell'orientamento giurisprudenziale che, rispetto al reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (articolo 2 del decreto legge 12 settembre 1983 n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983 n. 638), ha ritenuta immune da censure la decisione assolutoria che aveva valorizzato l'episodicità e l'importo contenuto delle inadempienze e, per l'effetto, ravvisata la colpa e non il dolo del reato (si veda sezione III, 19 settembre 2012, Pg in proc. Bottero): tale orientamento giurisprudenziale, infatti, si era formato nell'ambito di un giudizio fondato su un più ampio accertamento del fatto e non poteva essere trasferito automaticamente in una vicenda in cui il giudice era stato richiesto di emettere un decreto penale di condanna e non risultava evidente (ma solo verosimile) l'assenza del dolo del reato. Conducente ubriaco punito anche se non causa incidenti di Filippo Martini Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2015 Le cronache quotidiane danno conto con sempre maggior frequenza del fenomeno degli incidenti stradali provocati non solo dall'imprudenza, ma anche da conducenti che si mettono alla guida in uno stato psicofisico alterato dalla precedente assunzione di sostanze alcoliche o da stupefacenti. Invero, mentre è all'esame del Parlamento un disegno di legge che si propone di introdurre lo specifico reato di omicidio stradale, già oggi la giurisprudenza di merito è assai severa nel giudicare chi si metta alla guida in uno stato tale da costituire pericolo per sé e per la collettività. Alcune recenti sentenze confermano la portata delle sanzioni piuttosto severe che vengono comminate per la guida del veicolo in stato alterato (articolo 186 del Codice della strada). L'utilizzo dello strumento di indagine così detto "alcoltest" è ad esempio considerato dalla giurisprudenza sempre idoneo a determinare la quantità assunta di sostanze alteranti in base alla quale, si rammenta, viene comminata la sanzione più o meno grave. L'esito dell'alcoltest costruisce piena prova dell'illecito al punto che sul conducente grava l'onere di provare, come affermato dal Tribunale penale di Ivrea nella sentenza 765 del 23 gennaio scorso, che tale strumentazione era viziata o che vennero commessi errori nella procedura di rilevamento da parte dei pubblici ufficiali. In modo analogo ha deciso in altra sentenza la Corte di Appello di Taranto (la 140 del 17 febbraio scorso) la quale, nel confermare la condanna di un automobilista trovato positivo all'alcoltest durante un controllo di routine, arriva a comminargli, oltre alla sospensione della patente per un anno, anche la sanzione amministrativa di 23mila euro. In altra sentenza (Tribunale di Ivrea 792 del 28 gennaio 2015 ) è stato affermato che l'aggravante della guida in stato di ebbrezza alcolica non implica necessariamente la produzione di danni a terzi, mentre è sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la consapevole assunzione eccessiva di sostanze alcoliche e la successiva decisione di mettersi comunque alla guida del proprio veicolo. In questo caso, per un tasso alcolimetrico accertato in misura superiore alla soglia di 1,5 grammi/litro, al conducente, oltre alla pena di quattro mesi di arresto e all'ammenda di 1.500 euro, è stata applicata la pena accessoria della revoca della patente e della confisca del veicolo di proprietà. In pratica, la legge punisce il conducente ubriaco che, consapevole dell'assunzione di sostanze alteranti, abbia scelto comunque di mettersi alla guida del veicolo cosi determinano uno stato di pericolo per la collettività. La conduzione del proprio veicolo in uno stato psicofisico alterato, cosa che spesso è concausa dei sinistri più gravi, costituisce dunque da tempo una forma di sanzione sulla quale le norme del Codice della Strada e la magistratura (come si è visto nelle decisioni citate) operano in modo particolarmente severo, con ciò allineandosi alle discipline normative dei Paesi comunitari e dell'America del nord. Valida la sentenza pronunciata anche se manca la data di deposito di Mario Piselli Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 29 maggio 2015 n. 11176. La sentenza pronunciata ai sensi dell'articolo 281-sexies del Cpc, integralmente letta in udienza e sottoscritta dal giudice con la sottoscrizione del verbale che la contiene, è da intendersi pubblicata e non può essere dichiarata nulla, anche se il cancelliere non abbia dato atto del deposito in cancelleria e non via abbia apposto la data e la firma immediatamente dopo l'udienza. È questo il principio espresso dai giudici della sezione III civile della Corte di cassazione con la sentenza 29 maggio 2015 n. 11176. La questione - Com'è noto il termine di cui all'articolo 327, comma 1, del Cpc per proporre impugnazione avverso la sentenza pronunciata ex articolo 281-sexies del Cpc decorre dalla data dell'udienza, quando la sentenza sia stata pronunciata al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione e con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene (o al quale è allegata). La Corte si è interrogata quindi sulla funzione che si è voluta perseguire prevedendo la norma che la sentenza sia "immediatamente depositata in cancelleria". Le motivazioni della Cassazione - Il giudice di legittimità ha affermato che l'eventuale separazione temporale che si crea con l'apposizione di una data di deposito diversa dalla data dell'udienza di discussione e di pronuncia non può comportare il trasferimento dell'effetto pubblicazione dal giudice al cancelliere. Il deposito immediato richiesto dalla norma è solo finalizzato al compimento di adempimenti da parte del cancelliere e al fine di consentire alle parti di chiedere il rilascio di copia della decisione munita di numero identificativo. Tale attività è sempre necessaria anche nei processi regolati dalle disposizioni del processo civile telematico perché se è vero che le parti potranno estrarre copia della decisione, direttamente certificata conforme dal difensore, è anche vero che il compimento di tali formalità di deposito da parte del cancelliere è sempre necessario. Divorzio "breve", con le prassi della Procura Milano iter più snello di Giuseppe Finocchiaro Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2015 Procura di Milano - Linee guida su Convezione di negoziazione assistita: legge 55_2015 - 9 giugno 2015. Come ben noto, il 26 maggio scorso è entrata in vigore la legge 6 maggio 2015 n. 55, recante "Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi", cosiddetta legge sul "divorzio breve", che ha drasticamente ridotto il periodo che deve intercorrere dalla separazione personale dei coniugi per poter ottenere il divorzio. Mentre in passato era necessario il decorso di 3 anni dalla comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale, in virtù delle nuove disposizioni (che hanno modificato in parte l'articolo 3, lettera b), della legge 1° dicembre 1970 n. 898), è sufficiente che siano trascorsi "dodici mesi dall'avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale". L'aggiornamento delle Linee guida della Procura di Milano - Prontamente, con provvedimento del 9 giugno scorso, la procura della Repubblica presso il tribunale ordinario di Milano ha aggiornato le proprie "Linee guida", rivolte agli avvocati per la predisposizione e presentazione degli accordi conclusi all'esito del procedimento di negoziazione assistita in materia, provvedendo a dare indicazioni più specifiche altresì su alcune delle questioni applicative di maggiore frequenza nella prassi. Si tratta di un opportuno aggiornamento e approfondimento delle Linee guida già adottate in precedenza (in particolare il 16 dicembre 2014 e delle quali si è dato conto su "Guida al Diritto"n. 6 del 31 gennaio 2015, pagine 13 e seguenti): il provvedimento merita plauso, oltre che per la già elogiata tempestività, per la condivisibile finalità di chiarire i punti rimasti ancora in ombra della nuova disciplina e per l'apprezzabile spirito di collaborazione tra uffici giudiziari e avvocatura da cui è animato, nel rispetto del principio di cooperazione sancito, oggi espressamente soltanto dall'articolo 2, comma 2, del codice del processo amministrativo, ma sicuramente applicabile in ogni ambito processuale. In larghissima misura le nuove Linee guida si limitano a riprodurre le indicazioni che erano già state fornite in precedenza, sicché nel prosieguo si concentrerà l'attenzione esclusivamente sugli aspetti che presentano dei profili di novità. L'abbreviazione del termine per il divorzio - Con specifico riguardo alla novità normativa introdotta dalla legge n. 55 del 2015 e che si è già richiamata sopra, le Linee guida correttamente (e ovviamente) precisano che il nuovo termine di 6 mesi si applica non soltanto al caso di separazione consensuale (così iniziata o trasformatasi tale) con decorrenza dalla comparizione dei coniugi avanti al Presidente del tribunale, ma altresì con riguardo: - all'accordo di separazione concluso all'esito della negoziazione assistita, con decorrenza dalla data certificata nell'accordo medesimo a opera degli avvocati; - all'accordo di separazione concluso dinanzi all'ufficiale dello Stato civile, con decorrenza dalla comparizione dei coniugi avanti a questi. Il termine per la presentazione dell'accordo alla procura della Repubblica - Rispetto alle precedenti, le nuove Linee guida si soffermano nel precisare, da un lato, che l'accordo deve essere presentato alla procura della Repubblica, a pena di irricevibilità, nel termine di 10 giorni dalla conclusione del medesimo, cioè dalla data in cui gli avvocati hanno certificato l'autografia delle sottoscrizioni delle parti, dall'altro lato, che l'eventuale modificazione della data che non sia stata espressamente approvata dalle parti è causa di rigetto dell'istanza di autorizzazione o nullaosta. Entrambe le precisazioni devono essere condivise. Con particolare riguardo alla prima, secondo cui il mancato rispetto del termine di 10 giorni è causa di irricevibilità dell'istanza, deve osservarsi che l'articolo 6, comma 3, del Dl n. 132 del 2014, espressamente stabilisce tale termine, ma senza comminare alcuna sanzione per la sua inosservanza. Per stabilire le conseguenze della tardiva presentazione dell'istanza, a ragione del carattere generale che viene ordinariamente riconosciuto al codice di rito civile in materia, si devono ritenere applicabili le disposizioni dettate in materia di termini dagli articoli da 152 a 155 del Cpc. In particolare, ai sensi dell'articolo 152, comma 2, del Cpc, "I termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge li dichiari espressamente perentori". La circostanza che il termine sia da qualificarsi come ordinatorio, peraltro, non esclude che il suo mancato rispetto comporti la decadenza. Senza considerare che comunque sarebbe irragionevole che il legislatore fissi un termine senza stabilire che dal suo mancato rispetto discenda una qualche conseguenza. Correttamente, poi, trattandosi di un procedimento "degiurisdizionalizzato", seppure con il coinvolgimento dell'ufficio giudiziario della procura della Repubblica, quest'ultima ha indicato la sanzione della decadenza come "irricevibilità", figura non contemplata da nessuna disposizione del codice di rito (ma in questo neppure è previsto che la procura della Repubblica operi un controllo sugli accordi delle parti!). In ordine alla seconda precisazione, secondo cui è precluso ai difensori modificare la data di conclusione dell'accordo, vale ricordare che gli avvocati che assistono le parti nella negoziazione assistita (almeno uno per parte in quella in materia di separazione, divorzio e modificazione delle relative condizioni), devono certificare le sottoscrizioni. Ovviamente, poiché si tratta di una certificazione idonea ad attribuire certezza ex articolo 2704 del Cc alla data di conclusione dell'accordo, deve escludersi che la data medesima possa essere liberamente modificata dai difensori delle parti. L'alterazione della data (come indicato nelle Linee guida, "per interlineatura o sbianchettamento") è da ritenersi rilevante non soltanto sotto il profilo deontologico, ma anche penale. Assai importante, in una prospettiva pratico applicativa, è la specificazione secondo cui è ammissibile che le parti confermino nuovamente l'accordo già concluso in precedenza, così attribuendo una nuova data al proprio accordo. Esclusione dell'applicazione della sospensione dei termini nel periodo feriale - Sempre a margine del rispetto del suddetto termine di 10 giorni, vale sottolineare che il medesimo non rimane sospeso nel periodo feriale decorrente dal 1° al 31 agosto di ciascun anno, di cui all'articolo 1 (come modificato dall'articolo 16, Dl n. 132 del 2014) della legge 7 ottobre 1969 n. 742. Tale precisazione, imposta dalla considerazione che il procedimento di negoziazione assistita è per definizione "degiurisdizionalizzato", cioè alternativo e diverso rispetto al processo (al quale, invece, tale disposizione è soltanto applicabile), è stata tra l'altro fatta propria espressamente anche dal ministro della Giustizia, con la circolare del 16 marzo 2015. Rilascio del provvedimento - Con riguardo a questo aspetto, l'aggiornamento delle Linee guida non presentano novità rilevanti in una prospettiva pratica, ma non si possono non segnalare due assai significative differenze.Nella versione del 16 dicembre 2014, si stabiliva che "Sempre in attesa della dotazione della PEC sarà cura di almeno uno degli avvocati, che hanno sottoscritto l'atto (o di un loro delegato), provvedere al ritiro di una copia dell'accordo (l'originale rimarrà agli atti dell'Ufficio)". Prima differenza risiede nell'assenza nell'aggiornamento del riferimento alla futura dotazione della Pec, sicché è rimasta semplicemente la prescrizione che onera almeno uno degli avvocati o un suo delegato a provvedere al ritiro. Le considerazioni al riguardo non possono non essere sconsolate in ordine alla situazione dell'Italia, che si conferma essere un paese in cui, da un lato, nulla è più perenne del provvisorio e, dall'altro lato, le soluzioni più semplici sono precluse: è, infatti, palese che l'applicazione delle comunicazioni via Pec nella specifica materia in esame è idonea non soltanto ad agevolare il compito dei difensori delle parti, ma anche delle procure. Stabilire che il ritiro del nulla osta o dell'autorizzazione avvenga - personalmente e materialmente - a cura di almeno uno degli avvocati (o di un loro delegato), infatti, non comporta soltanto che questi debba recarsi presso la procura per verificare se l'atto richiesto è stato rilasciato e in caso negativo tornare periodicamente, ma anche che il personale della procura debba assolvere a questo adempimento di "sportello". La seconda differenza emergente dall'aggiornamento concerne la notizia che verrà posto un quesito al ministero della Giustizia circa la necessità per gli uffici di procura di conservare gli originali degli accordi presentati per il rilascio del nulla osta o dell'autorizzazione. Può facilmente immaginarsi che la ragione per cui il quesito verrà sollevato è da rintracciarsi nella difficoltà di conservare in archivio un gran numero di accordi: anche questa difficoltà pare suscettibile di essere ampiamente ridimensionata ove tutti gli atti di questo procedimento avvenissero in via telematica. Contributo unificato, imposta di bollo e diritti di cancelleria - L'aggiornamento delle Linee guida in esame, da ultimo, danno atto: • da un lato, della circostanza che il ministero della Giustizia con circolare del 13 marzo 2015 "ha escluso l'esigibilità del contributo unificato di iscrizione a ruolo per le procedure di cui all'articolo 6 della legge n. 162/2014"; • dall'altro lato, che "Con circolare 13 aprile 2015 il Dirigente della procura della Repubblica di Milano ha escluso l'esigibilità dell'imposta di bollo, ritenendo legittimo, invece, richiedere il solo diritto di certificazione (€ 3.68) relativo al provvedimento del pm". Lazio: l'allarme della Cisl, in arrivo gli ex internati negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari terzobinario.it, 22 giugno 2015 Apprendiamo che sono stati istituiti con Decreto del Ministero della Giustizia c/o le sedi degli Istituti Penitenziari di Roma- Regina Coeli, CC Velletri, NC Civitavecchia e NC CC Viterbo sezioni denominate "Articolazione per la tutela della salute mentale in carcere", dette sezioni sono destinate all'accertamento delle infermità psichiche di cui all'art. 112 del dpr 230/2000, all'accoglienza dei detenuti con infermità psichica sopravvenuta nel corso della detenzione di cui all'articolo 148 codice penale, e dei detenuti condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente di cui all'art. 11 comma 5 e 7 del dpr 230/2000. Detenuti i quali erano curati prima negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) ed ora con la loro chiusura gli stessi devono essere assistiti in istituti penitenziari creando non poche difficoltà tra le quali aggressioni a danno del personale tutto. La Fns Cisl Lazio auspica al fine di evitare tali aggressioni e/o altre criticità connesse che le Asl competenti predispongano necessari presidi psichiatrici dove sia garantito un numero adeguato di operatori sanitari per i detenuti sottoposti ad osservazione psichiatrica. Il Segretario Generale Aggiunto Massimo Costantino Milano: "il carcere ti resetta, qui mi vogliono bene", è cominciata la nuova vita di Corona di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 22 giugno 2015 Il legale gli ha consigliato di evitare colpi di testa e lui resta lontano dalle finestre dove lo attendono gli obiettivi di tre paparazzi I motori rallentano. Gli occhi puntano alle finestre. Tapparelle quasi abbassate, dentro si sentono voci di uomini. "C'è Fabrizio? Dai Fabri esci!", gridano dalla strada. Via Silvio Pellico 10, palazzo a due piani, un piccolo giardino, una veranda, il barbecue. Dietro c'è il capannone di quella che un tempo era un'officina. Oggi è la comunità Exodus più famosa dell'era social. Ospita nove ragazzi in tutto. Otto lavorano come giardinieri o addetti alle pulizie, hanno esperienze di carcere e tossicodipendenza alle spalle, una storia personale che nessuno in questo paese a ridosso di Malpensa sembra interessato ad ascoltare. Conta solo lui, Fabrizio Corona, arrivato 3 giorni fa dopo la scarcerazione. Deve scontare i 5 anni di condanna residui. Con un termine tipico del gergo burocratico-penitenziario dei detenuti, si definisce un "provvisorio", perché la misura dell'affidamento alla comunità di don Antonio Mazzi "dovrà essere rivista tra 6 mesi dal Tribunale". Corona parla al telefono, riceve gli amici e la madre, naviga in Rete. Non può uscire. Potrà farlo, magari per lavorare all'esterno, se così sarà stabilito dal suo programma riabilitativo. Ma il piano è ancora da definire. La sua stanza è un quadrato di 2 metri per 2 al primo piano: un letto a una piazza e mezza, lenzuola azzurre, un comodino con un notebook Apple, un piccolo armadio e una bacheca di sughero ancora disadorna. "Qui sto bene, i ragazzi mi vogliono bene", dice all'avvocato Ivano Chiesa. Il legale gli ha consigliato di evitare colpi di testa e lui, diligentemente, resta lontano dalle finestre dove lo attendono gli obiettivi di tre paparazzi. Passano i carabinieri: con una ramanzina allontanano ragazzini in bici e mamme con figli al seguito. "Il carcere ti cambia. Sono un uomo che vale cento volte di più. Io vivevo a duemila, avevo una moglie come Belen, le serate all'Hollywood, poi entri in carcere e trovi storie umane che ti resettano completamente", ha raccontato agli amici. Come quella di Carlos, l'ecuadoriano con il quale ha condiviso la cella 1, sezione B, al quarto piano del carcere di Opera: "Mi guardavano a vista, per paura di gesti autolesionistici". La vita nel carcere milanese è stata "dura" ma Corona è convinto di aver lasciato un buon ricordo: "Avevo fondato una squadra di calcio, i Coronàs. Stavo in porta, non ero male. Ho dato a tutti una maglietta della Coronàs. Poi il direttore non ha voluto". L'avvocato Chiesa ripete che la scarcerazione è frutto di una decisione "coraggiosa" del giudice che ha considerato il reato (estorsione aggravata) "non ostativo alla concessione dei benefici": "Un precedente anche per tutti gli altri reclusi". Corona ha ripreso a fumare, "ma solo all'aperto" in comunità è vietato: "Tre anni fa ero tossicodipendente. Avevo in banca milioni di euro e sono stato arrestato perché ho usato una banconota falsa. Ma vi sembra il comportamento di uno lucido?". Indossa una maglietta blu scollata, tatuaggi in vista. "Michele è lo chef. Ha imparato a cucinare in carcere. Il primo piatto che ho mangiato? Mezze penne integrali, ci teniamo in forma". Milano: "io, killer del tribunale chiedo perdono a tutti, sopravvivo ma ho un vuoto dentro" di Sandro De Riccardis La Repubblica, 22 giugno 2015 Incontro in carcere con Claudio Giardiello, l'imprenditore che il 9 aprile scorso uccise tre persone a Milano. Non parla con nessuno, non va all'ora d'aria, non legge e non guarda la tv, Sono passati due mesi e mezzo da quella mattina di sangue e terrore al Palazzo di giustizia di Milano, quando Claudio Giardiello scaricò un intero caricatore e tutta la rabbia contro chi pensava fosse la "causa di tutte le ingiustizie subite". Oggi la porta della cella 312 del carcere di Monza si apre di fronte a un uomo che da quel 9 aprile appare ancora svuotato dall'enorme tragedia che ha messo in atto. Assente, confuso, con gli occhi che guardano nel vuoto. Spenti. "Sono pieno di pensieri", dice al consigliere regionale della Lombardia che ieri è andato a trovarlo. "Ho un vuoto grande qui", e si batte lentamente il petto. Dopo due mesi di isolamento, da quattordici giorni il killer del tribunale condivide una piccola cella al terzo piano del carcere con un altro detenuto. Quattro mura color argento, un lavandino, il water, un letto a castello. Giardiello dorme su quello più basso, dove tiene i pochi libri che si è fatto portare dai familiari, ma che non ha mai aperto. "I miei due figli e la mia compagna vengono spesso a trovarmi", dice. Ed è l'unico momento in cui il viso sembra distendersi e la sua mente riconnettersi con il mondo. "Chiedo sempre perdono - continua sempre, ogni volta che li vedo". E alle famiglie delle vittime?, chiede chi lo ha incontrato. "Anche a loro" risponde. E muove la testa dall'altro verso il basso, in senso affermativo. Dal giorno della strage, Giardiello non ha mai spiegato come sia riuscito a entrare in Tribunale armato, come abbia beffato i controlli all'ingresso e sia arrivato indisturbato nell'aula dove si sarebbe celebrata l'udienza del processo in cui è imputato per la bancarotta della sua società, l'Immobiliare Magenta. Interrogato dalla procura, prima di Milano e poi di Brescia, dove è stata trasferita l'indagine, non ha mai aiutato pm e carabinieri del Nucleo investigativo di Milano a ricostruire la dinamica di quella mattina. Comparso nei fotogrammi delle telecamere dell'ingresso posteriore di via San Barnaba, presidiato dal metal-detector, Giardiello entra in tribunale già alle 8.40. Chi dovrebbe fermarlo non si accorge di quell'uomo in caduta libera, precipitato da un passato di milioni facili nella "Milano da bere" a un presente in cui elemosina - fino a pochi giorni prima della strage - un lavoro e una casa popolare al comune di Garbagnate Milanese. Il 9 aprile, dopo aver vagato tra i corridoi, raggiunge l'udienza. In aula litiga col suo avvocato, il legale annuncia davanti a tutti la rinuncia al mandato, ma la Corte lo invita a continuare nella difesa. È in questi secondi che qualcosa scatta nella mente del killer e scatena la sua furia omicida. Giardiello estrae la sua Beretta semiautomatica e fa fuoco contro il suo ex legale, il giovane avvocato Lorenzo Claris Appiani, 37 anni, chiamato a testimoniare proprio su insistenza dell'imputato, come nella pianificazione di una trappola. Appiani viene colpito a morte quando è ancora in piedi davanti al banco dei testimoni. Poi la sete di vendetta si sposta contro gli altri ex soci coimputati. Giardiello spara prima contro il nipote, Davide Limoncelli, 40 anni, che rimane ferito; poi ancora contro Giorgio Erba, 60 anni, centrato al petto e ucciso. Ma nella paranoica lista di morte, c'è anche il giudice fallimentare Ferdinando Ciampi: Giardiello, in un palazzo già sprofondato nel panico, scende di un piano e lo fredda con due colpi nel suo ufficio. Mentre scappa, incontra per caso il commercialista Stefano Verna, e lo gambizza sulle scale. Infine, ricercato in tutta la provincia, Giardiello va in scooter a caccia di un altro ex socio, salvo solo perché i carabinieri lo bloccano prima. Di questo killer, spietato pianificatore di morte, oggi non c'è più traccia. Vestito con un paio di jeans, camicia a righe e scarpe da ginnastica, con barba e capelli in ordine, Giardiello appare come un uomo disconnesso dal mondo, immerso solo nei suoi pensieri. Non esce per le ore d'aria, non guarda la tv, non legge, parla poco con gli assistenti sociali di questo carcere organizzato ed efficiente, non ha preso libri in biblioteca e non legge quelli che gli hanno portato i figli. "Non faccio niente, non me la sento di uscire, di parlare con qualcuno" dice agli agenti che hanno una stanza proprio di fronte alla cella. Disinteressato all'inchiesta che potrebbe costargli l'ergastolo e al processo sulla bancarotta, teatro della strage. E per il quale la Cassazione, il mese prossimo, deciderà sulla richiesta di trasferimento a Brescia. Nuoro: il Comune di Orotelli apre le porte al recupero sociale dei carcerati di Federico Sedda La Nuova Sardegna, 22 giugno 2015 Il detenuto "01" per tre mesi lavorerà in biblioteca L'iniziativa dopo il pellegrinaggio "Devotionis causae". Prima la decisione di sostenere, con un piccolo contributo di 200 euro, il pellegrinaggio lungo i santuari mariani del Nuorese promosso dal Capitolo sardo della confraternita di San Jacopo de Compostella e al quale parteciparono una decina di detenuti nel carcere di Badùe Carros e della colonia penale di Mamone. Ora l'approvazione del progetto di reinserimento sociale di un detenuto del carcere nuorese che lavorerà per tre mesi nella biblioteca comunale del paese. Orotelli mostra così il suo volto solidale verso le persone che hanno bisogno di essere inserite nella società e, in particolare, verso la rieducazione dei carcerati. Un progetto, quello dell'accoglienza del detenuto 01, come è indicato per motivi di privacy nella delibera approvata dalla giunta comunale, nato proprio nel corso del pellegrinaggio "Devotionis causae" lungo i santuari mariani della Barbagia, che si è tenuto dal 26 aprile al primo maggio scorso e al quale partecipo' anche il vice sindaco di Orotelli, Piero Mereu. Il progetto si deve alla sua sensibilità umana e sociale. "A tutti gli uomini - dice il vice sindaco di Orotelli - bisogna dare una seconda possibilità e un'occasione di riscatto". L'incontro tra il detenuto e l'amministratore comunale è nato durante il cammino lungo i santuari mariani partito dal santuario dei Martiri di Fonni e conclusosi a Bitti, passando per Gavoi, Sarule, Nuoro e Lula. "In quella occasione - dice Mereu - ho avuto modo di conoscere questo detenuto e di stabilire con lui un rapporto di amicizia". Tutto nel nome di San Jacopo de Compostela che, stavolta, in terra di Barbagia, ha fatto davvero un miracolo. Così, con la benedizione del santo famoso per i pellegrinaggi a piedi in terra spagnola di migliaia di pellegrini, il detenuto 01 avrà la possibilità di uscire dal carcere e reinserirsi in una comunità ospitale. "In seguito al pellegrinaggio - racconta Piero Mereu - sono stati organizzati incontri tra il settore dei servizi sociali del nostro Comune e la direzione del carcere. È stata ipotizzata la possibilità di mettere a punto un programma di inclusione sociale con impegni in lavori di pubblica utilità a Orotelli. Così abbiamo accolto l'invito della direttrice del carcere Ciavarella e dell'educatrice Cincotti, di collaborare al recupero sociale di una persona che, in passato ha commesso gravi errori, ma che ora è pronta per un'altra vita in società". Il detenuto 01, una volta ottenuta l'autorizzazione del giudice si sorveglianza, lascerà ogni giorno il carcere, dove rientrerà la sera, per lavorare nei progetti di pubblica utilità mandati avanti dalla biblioteca comunale. Il tutto per tre mesi. Il Comune si accollerà le spese di viaggio e di soggiorno con un contributo mensile di cento euro. Una piccola spesa per un grande progetto di solidarietà che è stato accolto con entusiasmo dall'intera amministrazione comunale del paese barbaricino. "Credo che le amministrazioni locali - conclude Piero Mereu - abbiano il dovere di favorire il recupero sociale di queste persone, anche perché, quando escono dal carcere, rientrano, comunque, nelle nostre comunità". Brescia: scoppia una lite tra detenute al carcere di Verziano, in 10 sono rimaste contuse bresciatoday.it, 22 giugno 2015 Cancelli aperti in via sperimentale: scoppia la rissa tra 4 detenute, coinvolte 10 persone. L'idea era quella di allentare un po' il peso della reclusione. E così venerdì sera nel carcere di Verziano, che conta circa un centinaio di detenuti, di cui 34 donne, si è provato ad aprire le porte tra due sezioni. Senza fare i conti però con l'insufficiente numero di agenti, problema ormai cronico delle strutture penitenziare italiane. Sembrava procedere tutto per il meglio fino a quando un banale bisticcio tra 4 detenute si è trasformato in una vera e propria rissa. Altre 6 sono rimaste coinvolte, probabilmente nel tentativo di separarle; tutte e 10 sono rimaste contuse. Antonio Fellone, segretario generale del Sinappe, un sindacato della Polizia Penitenziaria, dichiara: "Quanto avvenuto l'altra sera è da considerarsi episodio raro e grave, legato al fatto che al momento era presente solo un'agente della Polizia penitenziaria dato che la collega era in mensa. Una persona sola per oltre trenta detenute è troppo poco. Da sempre sollecitiamo l'adeguamento degli organici a Verziano". Nessun commento al momento da parte della Direzione del carcere, in attesa del rientro della direttrice Francesca Paola Lucrezi. Napoli: camorrista arrestato, il quartiere si ribella di Stella Cervasio La Repubblica, 22 giugno 2015 Dagli anni Ottanta il clan ai suoi ordini seminava morte e illegalità nella periferia orientale di Napoli. Quando i carabinieri hanno fatto uscire dal nascondiglio nel muro dietro un attaccapanni il boss "reggente" Luigi Cuccaro, il quartiere si è ribellato e voleva impedirne l'arresto con ogni mezzo. Le tre di notte e sessanta fedelissimi dei Cuccaro - tre fratelli, di cui ora due in galera e uno ancora latitante - premono all'ingresso del palazzo roccaforte del gruppo criminale titolare di una rete complessa e fruttuosa di estorsioni, spaccio di droga, usura e contrabbando. È finito in trappola il braccio esecutivo della triade che governa Barra e Ponticelli fino alle falde del Vesuvio e la notizia si sparge velocemente. Ma la "famiglia" non vuole rinunciare a lui. Grida e i lamenti come segnale per far uscire dalle case i sostenitori del boss. Un gruppo compatto che fa muro per impedire il passaggio degli uomini dell'Arma che lo stanno scortando. Per fortuna non succede niente e Luigi Cuccaro viene portato in caserma senza complicazioni. Ma si sono registrati momenti di tensione. La mattina dopo, stessa scena al momento del trasferimento in carcere: boss e affiliati si lanciano sonori baci. Un intero quartiere orfano di chi gli dà "lavoro". In cambio, l'offerta di una rete di solidarietà totale e incondizionata A carico di Cuccaro ci sono tre ordinanze di arresto su richiesta della Direzione distrettuale antimafia per omicidio, associazione mafiosa e finalizzata al traffico di droga e contrabbando. Il fratello di Luigi Cuccaro, Angelo, fu arrestato nel marzo 2014 dopo essere stato incluso nell'elenco dei cento più pericolosi latitanti. L'avevano avvistato in un video pubblicato dall'"Espresso" mentre seguiva la tradizionale processione, dei "Gigli" in Rolls Royce. Per lui, che era l'autorità riconosciuta del quartiere a est di Napoli, anche l'"inchino" delle "paranze" che organizzavano la manifestazione. Luigi condivide con la famiglia la passione per le celebrazioni, ed è proprio questo che l'ha tradito: la cattura è avvenuta alla vigilia del suo onomastico. San Luigi. Voleva festeggiarlo con la moglie e i suoi quattro figli, di età compresa fra i 2 e i 15 anni. "Questo arresto - spiega il comandante provinciale dei carabinieri, generale Antonio De Vita - dimostra che non esistono zone franche del territorio. Questo è il segnale forte della presenza dello Stato anche in quartieri cosiddetti a rischio. Mi preme comunque sottolineare - aggiunge il generale - che Barra e Ponticelli non sono solo quel centinaio di persone che hanno cercato di strapparci il latitante. Ma anche migliaia di cittadini onesti che hanno bisogno di segnali forti come quello che abbiamo dato con questo arresto". Napoli: l'auto-apartheid della camorra plebea di Isaia Sales Il Mattino, 22 giugno 2015 Alla luce dell'arresto del boss Cuccaro e delle notizie sui giovanissimi di Forcella che decidevano feroci regolamenti di conti nei migliori ristoranti di Napoli, dovremmo immergerci di nuovo nel ventre di Napoli e delle sue periferie. Dovremmo farlo per capire cosa sta succedendo, come si stanno o si sono già modificati vecchi equilibri sociali, modi di pensare e di agire che avevano permesso alla città di non esplodere, pur avendo al suo interno una bomba ad orologeria rappresentata dalla sovrappopolazione plebea e sottoproletaria, che nel corso della lunga trasformazione contemporanea non si è né ridotta né si è riusciti a integrare. Perché è fuori dubbio che la camorra napoletana è solo la spia violenta e tragica di una irrisolta e gigantesca questione sociale, che la rende diversa dalle altre forme criminali, a partire da quelle della provincia napoletana, casertana e salernitana. Per semplificare potremmo parlare di "camorra-massa" dominante a Napoli città, nelle sue periferie e nel suo immediato hinterland, rispetto a "camorra-impresa" dominante fuori dal recinto metropolitano. La camorra-impresa usa la violenza per inserirsi dentro i gangli dello Stato e mischiarsi con la società delle "persone perbene"; essa attacca di conseguenza gli uomini delle istituzioni che si oppongono a questo tentativo di integrazione. Questo tipo di criminalità usa, dunque, una "violenza di integrazione", per stare dentro lo Stato, dentro l'economia e nel resto della società, non fuori. La camorra-massa, invece, non sente questo bisogno di integrazione, perché la comunità sociale in cui vive e opera è abbastanza larga per dare a chi ne fa parte quella legittimazione e quel riconoscimento di cui ha bisogno. È, dunque, "violenza di separazione", di distanza dallo Stato e dalresto della società. L ambiente delinquenziale di riferimento sembra essere già una società auto sufficiente, fuori dalla quale questi giovani camorristi non hanno interesse ad inoltrarsi. Infatti, pur non essendo "integrati" (anzi rifiutandosi di farlo) contano, decidono, si arricchiscono, senza nessun problema. Arricchirsi senza integrarsi è il loro modo di vivere e operare. La loro reputazione e le loro relazioni non varcano i confini del mondo illegale da cui provengono e a cui appartengono, ma ciò non impedisce di avere gli agi dei ricchi senza cercare la rispettabilità e l'accettabilità sociale di cui comunque la ricchezza è portatrice. Non gliene frega niente di integrarsi, di essere accettati dal resto della società. La loro è ricchezza escludente, non ricchezza includente. Le bande di camorra non hanno paura di provocare con le loro azioni una maggiore presenza delle forze dell'ordine; non provano a evitare i furti, le rapine, gli scippi, né a ridurne l'impatto sul territorio controllato, non cercano la tranquillità per poter svolgere con più sicurezza le altre loro attività. Aizzano tutti gli istinti più violenti, non li controllano, né provano a mitigarli. Da tempo la camorra non è più criminalità d'ordine, e questo è un elemento di forte distinzione dalle altre mafie e dalla camorra di provincia. Questo fenomeno di minoranza sociale, che si auto-identifica in separazione e in contrapposizione con il resto della città (pur cercando tutti gli agi dei ricchi) è relativamente recente. Anche nella capitale borbonica, nella città post-unitaria, nella Napoli del secondo dopoguerra fino, grosso modo, al terremoto del 1980, la rapida socializzazione dell'illegalità era un dato di contesto nei quartieri del centro storico. Ma la promiscuità sociale e abitativa ne attutiva in qualche modo l'impatto. Si viveva a stretto contatto con le classi sociali più abbienti, più acculturate, più rispettate e spesso ammirate. Nei quartieri fungevano da modello gli artigiani che si realizzavano attraverso la loro abilità manuale, i professori e i professionisti che indicavano la strada dell'integrazione sociale attraverso lo studio e la scuola. Oggi nessuna di queste categorie funge da modello, e le classi sono più separate che nel recente passato. La borghesia napoletana, né tanto meno il mondo del lavoro sono modelli per quasi nessuno dei sottoproletari che vivono in città. Il modello sono i calciatori, le veline e i camorristi che vedono nei film e nelle fiction televisive, coloro che attraverso l'illegalità si arricchiscono e contano. Sul mercato napoletano si confrontano possibilità di fatica senza grandi guadagni e opportunità di ricchezza senza grande fatica. Il mercato illegale è più dinamico ed effervescente, propone guadagni di gran lunga migliori, ospita nuove leve, non si contrae, non si riduce, mentre il mercato legale è sempre meno elastico ed espansivo. E i giovani sottoproletari reclamano la loro parte di ricchezza al più presto possibile, spostando verso l'illegalità l'intraprendenza e il gusto del rischio con cui altri giovani in altri contesti aggrediscono la frontiera che porta al successo e alla fortuna. Sembra quasi che in alcuni quartieri gli emarginati siano i giovani che hanno studiano e hanno un lavoro onesto, anche se precario. Insomma, a Napoli città è chiusa definitivamente la fase storica in cui si affrontava il tema del sottoproletariato con le armi dell'integrazione (attraverso la scuola, il lavoro artigiano o industriale, con conseguenti modi di comportarsi diversi dall'ambiente di provenienza) o del contenimento. Se si esclude il lavoro dei preti, dei maestri di strada, di alcune scuole e di alcune associazioni di volontariato, chi delle istituzioni si pone più l'obiettivo dell'integrazione? E se alcuni se lo pongono quali strumenti e risorse hanno nelle loro mani? Oggi la camorra metropolitana è una comunità contro lo Stato e autonoma dal resto della società. E Napoli è una città a bassissima promozione sociale. Si vive e si muore nello stesso quartiere, nella stessa periferia, nello stesso mestiere o nell'assenza di un mestiere. Ci si sposa all'interno dello stesso quartiere e dello stesso ambiente sociale. Sembra quasi che non ci siano più matrimoni "promiscui", che fanno cambiare quartiere e condizione sociale. L'illegalità dà più promozione sociale rispetto a qualsiasi altra epoca. Ma questa promozione sociale non vuol dire aprirsi al resto della società, ma solo arricchirsi, perché l'arricchimento facile permette quegli alti consumi che sono l'unica chance di distinzione e di apprezzamento da parte degli altri. Siamo di fronte ad un vero e proprio auto-apartheid sociale dentro cui cresce un vero e proprio autismo criminale. Siamo sicuri che di queste cose si debbano occupare solo i magistrati? Salerno: detenuto 88enne evade dai domiciliari e finisce in cella ottopagine.it, 22 giugno 2015 Rigettata la richiesta di libertà presentata dal legale: secondo i giudici gode di ottima salute Niente arresti domiciliari per un detenuto di 88 anni, che più volte ha violato le prescirizioni che gli erano state imposte dal magistrato, e che quindi è stato trasferito in carcere, per continuare a scontare la sua pena. Un caso particolare, vista l'età del detenuto, che deve scontare una pena di dieci mesi per resistenza a pubblico ufficiale. Nei giorni scorsi il tribunale di Sorveglianza ha rigettato la richiesta di libertà, che era sta presentata dal legale dell'anziano. Stando a quello che è emerso, il giudice non ha ritenuto necessaria la misura dei domiciliari, visto che l'uomo non è affetto da nessuna patologia particolare, e quindi le sue condizioni di salute sono compatibili con il carcere. Torino: ieri Papa Francesco a pranzo con detenuti e immigrati, in dono foto e maglie Adnkronos, 22 giugno 2015 Foto e magliette. Sono alcune delle cose semplici donate al pontefice dai giovani detenuti, immigrati e senza fissa dimora che oggi hanno partecipato al pranzo con Papa Francesco in Arcivescovado a Torino. A quanto si apprende il pranzo si è svolto in un clima disteso e rilassato. Il catering era organizzato dal Sermig (Servizio missionario giovani). Al pasto con il Papa hanno partecipato una decina di giovani detenuti del carcere Minorile Ferrante Aporti di Torino e una ventina tra immigrati, senza fissa dimora è una famiglia Rom di sei persone. Il pontefice si è soffermato a salutare ognuno e ha ricevuto i doni che gli avevano portato, soprattutto fotografie e magliette. Il Papa si sposterà poi al Santuario della Consolata per una visita e preghiera private, prima di raggiungere la Basilica di Maria Ausiliatrice dove incontrerà i Salesiani le Figlie di Maria Ausiliatrice. A seguire l'incontro con gli Ammalati e i disabili al Cottolengo. La prima giornata torinese del pontefice si chiuderà con l'incontro con i giovani in piazza Vittorio Veneto. Immigrazione: il Papa "pace e libertà per chi fugge da guerre e persecuzioni" di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 22 giugno 2015 Il Papa a Torino ricorda e prega per rifugiati e profughi. Lo fa celebrando Messa in una piazza Vittorio stracolma di fedeli e, commentando le letture, richiama all'amore di Dio, "un amore fedele, un amore che ricrea tutto, un amore stabile e sicuro". Prima, in mattinata, l'incontro con il mondo del lavoro e il pellegrinaggio alla Sindone. Un amore roccioso che rende stabili e sicuri. Papa Francesco celebra Messa in una piazza Vittorio stracolma di fedeli e, commentando le letture, richiama all'amore di Dio, "un amore fedele, un amore che ricrea tutto, un amore stabile e sicuro". Un amore che "è per sempre, che non delude, che non viene mai meno". E che "fa nuove tutte le cose". Ma per farci rinnovare occorre "riconoscere i propri limiti, le proprie debolezze, è la porta che apre al perdono di Gesù, al suo amore che può rinnovarci nel profondo, che può ricrearci. La salvezza può entrare nel cuore quando noi ci apriamo alla verità e riconosciamo i nostri sbagli, i nostri peccati; allora facciamo esperienza, quella bella esperienza di Colui che è venuto non per i sani, ma per i malati, non per i giusti, ma per peccatori; sperimentiamo la sua pazienza, ne ha tanta, la sua tenerezza, la sua volontà di salvare tutti" Papa Francesco commenta il miracolo della tempesta sedata e spiega che "i discepoli hanno paura perché si accorgono di non farcela, ma Gesù apre il loro cuore al coraggio della fede. Di fronte all'uomo che grida: "Non ce la faccio più", il Signore gli va incontro, offre la roccia del suo amore, a cui ognuno può aggrapparsi sicuro di non cadere. Quante volte noi sentiamo di non farcela più! Ma Lui è accanto a noi con la mano tesa e il cuore aperto". E ricorre alla cultura dei suoi antenati, alle parole del poeta Nino Costa, che la nonna Rosa gli faceva imparare a memoria in dialetto torinese, per ricordare che i piemontesi sanno bene cosa significa essere roccia, cosa significa solidità e per chiederci "se oggi siamo saldi su questa roccia che è l'amore di Dio". Il Papa chiede di non farci paralizzare dalle paure, di non cercare sicurezze in cose che passano "o in un modello di società chiusa che tende ad escludere più che a includere. In questa terra sono cresciuti tanti Santi e Beati che hanno accolto l'amore di Dio e lo hanno diffuso nel mondo, santi liberi e testardi. Sulle orme di questi testimoni, anche noi possiamo vivere la gioia del Vangelo praticando la misericordia; possiamo condividere le difficoltà di tanta gente, delle famiglie, specialmente quelle più fragili e segnate dalla crisi economica. Le famiglie hanno bisogno di sentire la carezza materna della Chiesa per andare avanti nella vita coniugale, nell'educazione dei figli, nella cura degli anziani e anche nella trasmissione della fede alle giovani generazioni". E poi ancora una parola per gli esclusi, per i migranti - "Come allora sul lago di Galilea, anche oggi nel mare della nostra esistenza Gesù è Colui che vince le forze del male e le minacce della disperazione. La pace che Lui ci dona è per tutti; anche per tanti fratelli e sorelle che fuggono da guerre e persecuzioni in cerca di pace e libertà" - prima di affidare a Maria, alla Beata Vergine Consolata che si venera a Torino, "il cammino ecclesiale e civile di questa terra: Lei ci aiuti a seguire il Signore per essere fedeli, per lasciarci rinnovare e rimanere saldi nell'amore". Immigrazione: Cei, on line le schede per capire l'islam di Giacomo Gambassi Avvenire, 22 giugno 2015 Accade sempre più spesso che alle porte delle chiese bussino migranti musulmani che magari chiedono un aiuto per sé e per le loro famiglie. Oppure è frequente che negli oratori o nei campi estivi si registri un'ampia partecipazione di ragazzi di fede islamica che i loro genitori affidano con fiducia alla comunità parrocchiale. Altrettanta vicinanza "cristiana" si tocca con mano negli ospedali o nelle carceri dove sacerdoti e consacrati sono accanto a chi soffre. Nell'Italia dalle molteplici presenze religiose i luoghi dell'incontro fra cristiani o musulmani sono ormai dietro l'angolo. Ambienti quotidiani che possono diventare "cattedre" del dialogo fra le due fedi. Serve, però, un'attenta conoscenza dell'altro, del suo credo, delle sue tradizioni. Da qui il percorso che ha appena lanciato l'Ufficio nazionale per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei. Al centro una serie di schede pastorali (alcune sono già online su www.chiesacattolica.it) per approfondire la conoscenza dell'islam da parte dei cristiani. "Pur non avendo la pretesa di essere un progetto esaustivo - nota il direttore dell'Ufficio Cei, don Cristiano Bettega - coltiva la speranza di suscitare interesse e di contribuire a creare una mentalità di dialogo". La comprensione consente di vincere i pregiudizi. "È innegabile - spiega il vescovo Mansueto Bianchi, già presidente della Commissione episcopale per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso, che firma l'introduzione all'itinerario - che, almeno a livello emotivo e talvolta superficiale, nell'opinione pubblica i musulmani siano percepiti come la nuova realtà religiosamente connotata più problematica e spesso minacciosa. La dominante della mera paura istintiva e reattiva comporta il grande rischio per tutti dell'irrigidimento e della chiusura in cerchie autoreferenziali, falsamente rassicuranti e che scoraggiano o inquinano la relazione fra persone e comunità, unica autentica e praticabile via verso almeno la conoscenza e il rispetto reciproci". Certo, non aiutano, prosegue Bianchi, "le drammatiche condizioni delle minoranze cristiane in vaste aree del Medio Oriente, che lungi dal favorire e radicare ancor più diffidenza e conflittualità fra noi e i musulmani che risiedono nel nostro Paese, dovrebbero motivarci ulteriormente nel ricercare e rendere possibili forme diverse di interazione con essi". Le schede sono pubblicate online sul sito Cei e vengono curate da studiosi italiani. "Eviteranno un linguaggio accademico a beneficio di un linguaggio semplice, per essere il più possibile alla portata di tutti", sottolinea don Bettega. I temi saranno a vasto raggio: dalle basi dell'islam agli aspetti legati alla scuola, agli ospedali, alle carceri, passando per le feste islamiche, le regole alimentari, la questione della donna, il mondo del lavoro, l'atteggiamento da avere durante una visita in moschea o nel momento in cui in oratorio dovesse presentarsi un ragazzo musulmano. "I destinatari - afferma il direttore dell'Ufficio Cei - sono innanzitutto coloro che per ministero, professione o servizio incontrano regolarmente i fratelli musulmani nei più diversi contesti e tutti coloro che vogliono saperne di più su questo variegato mondo". Il dialogo con l'islam ha come punto di riferimento la dichiarazione conciliare Nostra aetate dove si evidenzia che la Chiesa guarda "con stima i musulmani che adorano l'unico Dio". Spiega il vescovo Bianchi: "Le esperienze della storia non vanno certamente ignorate né sottovalutate, tuttavia non possono né devono essere un pretesto per rimanere succubi del male che spesso ha prevalso. Del resto l'attenzione, l'ascolto e la condivisione non sono "altro" rispetto all'annuncio della salvezza portata da Cristo e all'inizio del Regno già in mezzo a noi. E che questa suprema opera di riconciliazione sia intrinsecamente evangelica, lo dimostrano anche le attuali circostanze nelle quali le identità religiose ideologicamente intese e politicamente strumentalizzate sono tutte minacciate nella loro intima e autentica dimensione spirituale e morale". Stati Uniti: "libertà per Leonard Peltier", nativo della tribù dei Lakota in cella da 40 anni di Doriana Goracci agoravox.it, 22 giugno 2015 Sono passati esattamente 40 anni: il 26 giugno 1975 avvenne nella riserva indiana di Pine Ridge il cosiddetto "incidente a Oglala", quando al termine di una lunga e terribile sparatoria morirono due agenti dell'Fbi e un nativo della tribù dei Lakota. In quegli anni gli indiani dell'American Indian Movement morivano come mosche, la tensione era altissima, soprattutto nel Sud Dakota, ma per quelle morti non vi erano né indagini né colpevoli o responsabili. Leonard Peltier da 39 anni e mezzo è invece nelle carceri di massima sicurezza degli Usa. Sta pagando il prezzo delle lotte di quegli anni dell'American Indian Movement quando una parte degli indiani cercò di reagire, un'ennesima volta, di fronte ai soprusi e alle ingiustizie del governo degli Stati Uniti e delle multinazionali pronte a espropriare e sfruttare le terre dei nativi. Gli stessi giudici ammisero alla fine che non vi erano prove che fosse stato Peltier ad uccidere i due agenti dell'Fbi, ma qualcuno doveva pagare, e Leonard Peltier con l'accusa di favoreggiamento entrò in carcere a 31 anni. Ora ne ha più di 70 e le sue condizioni di salute non sono certo buone. Secondo la legge statunitense potrebbe uscire a 92 anni. Quando Bill Clinton, a fine mandato, stava per firmare la sua liberazione, 500 agenti dell'Fbi manifestarono davanti alla casa bianca. Clinton non firmò. Solo una firma del presidente Obama può ridare la libertà a quest'uomo, il Nelson Mandela degli indiani d'America. I nativi di quel continente vivevano in equilibrio con la natura, furono massacrati, e tutte le ricchezze della terra e del sottosuolo furono preda degli uomini bianchi. Chiediamo a tutti voi che state leggendo di fare in modo che il nome di Leonard Peltier torni a essere noto. Che si rompa il silenzio che permette che questa ingiustizia continui. Libertà per Leonard Peltier, come per Mumia Abu-Jamal, malato grave, da 33 anni nelle carceri Usa. Indonesia: si avvicina l'esecuzione del francese condannato a morte per traffico di droga Agi, 22 giugno 2015 Un tribunale amministrativo indonesiano ha respinto l'appello del francese Serge Atlaoui, condannato a morte per traffico di droga ma che aveva contestato il rifiuto del presidente indonesiano di accordargli la grazia. In precedenza era già stato bocciato il ricorso del francese che aveva chiesto al tribunale di esaminare la fondatezza delle accuse. Si riavvicina dunque il rischio di finire sulla forca per il cittadino francese, in carcere da 10 anni e che si è sempre definito innocente. Ad aprile, l'uomo era finito a un passo dalla forca ma gli appelli internazionali alla clemenza erano riuscito all'ultimo minuto ad evitargli la condanna in attesa dell'esito del suo ultimo ricorso. Ad aprile per lui si era speso lo steso presidente, Francois Hollande, minacciando ritorsioni diplomatiche. Ma il presidente Joko Widodo ritiene che il traffico di droga sia una vera e propria emergenza nazionale e, da quando è arrivato al potere, ha avviato una politica di repressione che ha gia portato sulla forca decine di persone, tra cui anche diversi stranieri accusati di essere trafficanti. Libano: il ministro dell'Interno promette di punire i responsabili delle torture sui detenuti Nova, 22 giugno 2015 Le autorità libanesi avvieranno le procedure necessarie per punire tutti i responsabili delle torture contro i detenuti nel carcere di Roumieh. Lo ha detto il ministro dell'Interno, Nouhad Machnouk, dopo la diffusione di un video in cui due agenti di sicurezza picchiano dei prigionieri legati, disarmati e seminudi con delle sbarre di plastica. "Questi due ufficiali non erano soli", ha detto il ministro in una conferenza stampa tenuta poche ore dopo l'arresto dei due agenti che appaiono nel video. "Almeno altre quattro persone hanno commesso degli errori e ho informato di questo la magistratura", ha aggiunto l'esponente dell'esecutivo libanese. Nel video diffuso su You Tube vi sono "più uomini i cui volti non appaiono nel filmato", ha aggiunto il ministro. L'incidente ha avuto luogo quando le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nel carcere di Roumieh per sedare le rivolte dei detenuti lo scorso aprile. "Dobbiamo prendere in considerazione il fatto che circa 100 agenti delle forze di sicurezza sono entrati una struttura che ospitava almeno 1.000 detenuti. Quindi non è strano che quattro o sei ufficiali abbiamo commesso degli errori. Questi incidenti accadono, ma vorrei sottolineare che siamo l'unico stato arabo a denunciare gli ufficiali che maltrattano i prigionieri al tribunale militare", ha aggiunto Machnouk. Egitto: ufficio Interpol chiede estradizione giornalista "al Jazeera" arrestato in Germania Nova, 22 giugno 2015 L'ufficio egiziano dell'Interpol ha inviato alle autorità tedesche una richiesta ufficiale di estradizione di Ahmed Mansour, giornalista dell'emittente televisiva qatariota "al Jazeera" fermato nella notte all'aeroporto di Berlino. Lo ha reso noto l'agenzia d'informazione egiziana "Mena". Sul giornalista egiziano con passaporto britannico era stato emesso un "avviso rosso" dell'Interpol, provvedimento per segnalare ricercati nei 181 paesi membri dell'organizzazione investigativa internazionale. Nel 2014, Mansour è stato condannato in contumacia a 15 anni di carcere dal tribunale penale del Cairo con l'accusa di aver aggredito e torturato un avvocato in piazza Tahrir nel corso della rivolta 2011, fingendo di essere un'agente dell'Agenzia nazionale per la sicurezza. Le istituzioni egiziane accusano "al Jazeera" di essere un portavoce dei Fratelli musulmani, movimento considerato fuori legge in Egitto. L'emittente qatariota, peraltro, ha avviato una causa legale contro Il Cairo per chiedere un risarcimento danni di 150 milioni di dollari circa. I giornalisti di "al Jazeera" Mohamed Fahmy, Baher Mohamed e Peter Greste sono stati liberati a febbraio, dopo essere stati condannati con l'accusa di aver trasmesso notizie false allo scopo di mettere in pericolo la sicurezza nazionale e aiutare i Fratelli musulmani. Fahmy e Baher sono stati rilasciati dopo 413 giorni di carcere. Fahmy, naturalizzato canadese, è stato rimesso in libertà dopo il pagamento di una cauzione di 33 mila dollari. L'uomo si è licenziato dall'emittente televisiva e ha annunciato una causa legale contro la tv, accusata di perseguire "una strategia per diffamare l'Egitto".