Trasferire i detenuti è solo tortura di Francesca De Carolis Il Garantista, 21 giugno 2015 Qualcosa non va se dopo decenni in cella le Procure negano le declassificazioni, inchiodando le persone al loro reato. A che cosa serve trasferire i detenuti? L'impressione è che siano semplicemente delle pedine da spostare in un disumano gioco per riempire caselle. Come pacchi, come cose. Tutto molto coerente, a due la verità, con il processo di reificazione delle persone che, parole a parte, di fatto tende a incarnare il sistema carcerario. E invece ci sono i nomi, i volti, e le storie. Dovrà pure importare sapere che si tratta di persone in carcere da decenni e che spesso un percorso in questi anni l'hanno pure compiuto. Se ne parlava, se ne parlava da qualche tempo. La parola "trasferimento" aleggiava qua e là, anche quando non pronunciata, tra le righe. Poi mi arriva la lettera di Pasquale De Feo, che già a prenderla in mano si capisce che qualcosa non va. Non arriva più dal carcere di Catanzaro. Il mittente scrive da Massama. Oristano, per intenderci. Profonda Sardegna. "Cara Francesca, mi scrive, temo che quando verrai a Catanzaro per "l'incontro con l'autore" non mi troverai. Mi hanno deportato in Sardegna. Da una settimana sono solo in sezione, dovrebbero arrivare altri prigionieri. Non me l'aspettavo, anche perché non ho fornito pretesti". No, sono certa che Pasquale De Feo pretesti non ne abbia forniti. Ma certo inquieta non poco, il fatto che la prima cosa che abbia pensato sia una "punizione", di cui non trova logica spiegazione. Come è difficile trovare una logica, che sia accettabile, nei trasferimenti che si stanno compiendo in questi giorni. Per radunare tutti insieme i "cattivissimi" delle sezioni di Alta Sicurezza, chiudendo alcune sezioni AS1 sparse qua e là per l'Italia. Qualcuno è già andato a infoltire le fila dei "cattivi" di Opera. Qualcun altro è già stato spedito a Sulmona, il carcere dei suicidi, come lo chiamano. Molti, se il programma va avanti, finiranno in Sardegna, a riempire quelle carceri costruite apposta per loro, dalla nostra malsana italietta, in un periodo piuttosto discutibile. Il piano carceri del 2002-2003 del governo Berlusconi, ricordate? E il filo rosso che, niente di penalmente rilevante, per carità, ma teneva insieme alcune società nella realizzazione dei più rilevanti interventi pubblici in Sardegna degli ultimi anni. E dacché sono stati costruite, adesso andranno ben riempite, quelle carceri… a fare della Sardegna una grande Asinara, mi viene da pensare… E i detenuti? L'impressione è che siano semplicemente delle pedine da spostare in un disumano gioco per riempire caselle. Come pacchi, come cose. Tutto molto coerente, a dire la verità, con il processo di reificazione delle persone che, parole a parte, di fatto tende a incarnare il sistema carcerario. E invece ci sono i nomi, i volti, e le storie… A qualcuno dovrà pure importare di questi nomi, di questi volti, di queste storie. Dovrà pure importare sapere che si tratta di persone in carcere da decenni e che spesso un percorso in questi anni l'hanno pure compiuto. Come accade a Padova, ad esempio. Dove si sono compiuti percorsi molto interessanti, dove c'è un polo Universitario, dove qualcuno si è laureato, dove grazie alla redazione di Ristretti Orizzonti è stato possibile ricominciare a tessere relazioni, basta pensare agli effetti positivi degli incontri con le scuole…. Dove, in una parola, si cerca di realizzare quello che pure la Costituzione chiede, ossia il famoso "recupero". Che altro non può essere che riavvicinamento alla società… Alcuni di questi "cattivissimi" dell'Alta Sicurezza li ho conosciuti, con alcuni, qua e là per l'Italia, ci scambiamo lettere. Mi raccontano dei loro percorsi, delle difficoltà, delle letture, degli studi che comunque portano avanti. Nulla a che vedere, vi assicuro, con l'immagine stereotipata su cui insistono ( ahinoi) i media, del delinquente rozzo e analfabeta. Molti, a volte, mi mettono in difficoltà, perché tante cose io non le ho studiate… e non è facile confrontarsi con la nuova forza di chi nello studio ha scoperto nuove dimensioni, di chi nella storia cerca anche le ragioni della propria vicenda esistenziale… Perché in AS1 si incontra anche questo e non necessariamente, come ho letto in uno sbrigativo articolo sui futuri ospiti delle carceri sarde, "pericolosi criminali". Ma per i più rimane la condanna all'Alta sicurezza. Eppure, c'è qualcosa che non va, mi sono sempre detta, se dopo decenni di carcere le procure continuano a negare declassificazioni, inchiodando le persone al momento del reato. Ci sarebbe da chiedersi, se dopo lunghissime carcerazioni queste persone sono ancora così pericolose, se sono esattamente quello che erano quando sono entrate, cosa ha mai fatto il carcere? Non è questo un dichiarare il suo stesso fallimento? La sua inutilità? Personalmente penso che a volte le mancate declassificazioni siano anche il risultato di un'attività, e di una pigrizia, del tutto burocratica, che, per non assumersi responsabilità in merito, inchioda al passato persone che oggi nulla hanno a che vedere con quello che sono state, indipendentemente dal fatto che siano state o no collaboratori di giustizia. Che, diciamoci la verità, è scelta processuale e non testimonianza di vero pentimento. "Il problema rimane sempre lo stesso, mi scrive da Padova Giovanni Zito, sono convinti che se le persone non diventano collaboratori di giustizia non potranno cambiare… comunque sono ancora vivo e fiducioso". Giovanni Zito… che qualche anno fa ha scritto un bellissimo racconto, dal titolo "Sono Giovanni e cammino sotto il sole". Oggi, nella lettera che mi manda annota: "Giovanni ha smesso da tempo di camminare sotto il sole…" La verità, permettetemi, da quello che vedo, da quello che so, è che il carcere non vuole rieducare. Ma punisce e vessa. E continuo a pensare che tutto quello che non è privazione della libertà (non è in questo, e scusate se è poco, che deve consistere la pena carceraria? ), tutto quello che vi si aggiunge è solo tortura… E non è tortura spezzare percorsi faticosamente ricostruiti? Non è tortura dire, senza guardare in faccia nessuno, non mi interessa capire se sei cambiato, se recido i rapporti ricostruiti, se rendo ancora più difficile, allontanandoti, i rapporti con i familiari… Già, i familiari, ad esempio. Che fine faranno i rapporti familiari, già difficili e tormentati, per chi dovrà essere inseguito fino in Sardegna, ad esempio? E non è questa punizione che si aggiunge a punizione? Eppure l'ordinamento stesso riconosce l'importanza dei legami familiari e il principio della territorialità della pena… e bla bla bla… eppure, a Mario Trudu, sardo, in carcere da 36 anni, sardo che chiede di avvicinarsi ai suoi in un carcere della Sardegna, il trasferimento non è concesso… Ma come può mai insegnare la legalità uno stato che viola le sue stesse norme? Che riesce, mi ha scritto qualcuno, "ad essere più cattivo di noi". "Ma cosa deve fare un uomo per dimostrare che non è più ciò che è stato un tempo? (...) avevo incominciato a pensare, a sognare, e soprattutto a sperare, dando a mia volta speranza alla mia famiglia che da ormai ventiquattro anni mi segue in questo inferno senza fine (...)". Queste sono le parole di Giuseppe Zagari, trasferito qualche settimana fa da Padova al carcere dei suicidi, Sulmona, appunto… Scusate le tante domande e il tono da predica, ma da quando ho conosciuto qualcosa della realtà del carcere, me ne vergogno, e molto... Oggi mi vergogno molto di quest'ultima violenza che viene fatta a persone che con un colpo di penna rischiano di essere ributtate nel nulla. (Da Ristretti Orizzonti) Giustizia: il carcere è un malanno che contagia i poveri di Erri De Luca Il Garantista, 21 giugno 2015 Pubblichiamo qui di seguito la prefazione che Erri De Luca ha scritto per "Fuga dall'assassino dei sogni", il libro di Alfredo Fosco e Carmelo Musumeci pubblicato da Edizioni Erranti (278 pag., 14 euro) che può essere prenotato in libreria o richiesto all'indirizzo zannablumusumeci(et)libero.it. La sagoma della prigione s'imprime nell'infanzia. Il castigo di venire rinchiusi fa parte, o ne faceva, di un avviamento alle regole. Per me fu temperato dalla materia del muro: il tufo. Traspirava, attraverso i suoi pori mi arrivava la vita che si svolgeva fuori. Ingiurie, preghiere, richiami, risate, conversazioni: il tufo le faceva passare. Le prigioni presero all'inizio la via del mare, su navi dette appunto galere, con i forzati ai remi. Proseguirono con gli esiliati su isole lontane, rinchiusi dentro il cerchio delle onde. Gli Inglesi spedirono in Australia i condannati e si trovarono in cambio una nazione. Da noi nel Mediterraneo le isole si riempirono di sbarre. Nella mia infanzia è impressa la fortezza di Procida, sotto la quale passavano i battelli della villeggiatura. A Ischia visitavano il Castello Aragonese dove stettero incatenati al muro i napoletani ribelli ai re Borbone. Scrivo questi ricordi per dire che le prigioni non sono un pensiero remoto, ma un edificio al centro dell'educazione. Nella percezione corrente gli istituti di pena sono la botola della giustizia, aperta sotto i piedi dei soliti previsti. Non quelli che pesano di più fanno scattare il meccanismo, ma gli ultraleggeri, i luftmensch, persone fatte d'aria, senza zavorra di quattrini in tasca. Quelli che davanti alle vetrine illuminate, agli schermi accesi, restano a sentire il loro desidero crescere fino all'ira. Leggo in questo libro le parole di uno di loro, mio coetaneo perché della generazione che ha conosciuto le carceri della persecuzione. La pena erogata veniva eseguita con l'accanimento fisico permesso dall'estremismo repressivo dell'articolo 90, oggi modificato in 41 bis. Al vertice rovescio del sistema penitenziario speciale stava l'Asinara, luogo di demolizione della macchina uomo. Qui è detta, non descritta. Detta a voce a chi sta dirimpetto e la raccoglie per averla condivisa. Topi e isolamento, percosse e privazioni d'acqua, arbitrio puro di chi è autorizzato a opprimere: l'Asinara non meritava altra sorte di quella di essere chiusa dalla rivolta degli arrostiti. Asinara, Goli Otok, Tremiti, Pianosa, Santo Stefano: le isole del Mediterraneo anticipano il destino delle celle, che è di finire chiuse, abbandonate, vuote. Le isole tornano alla loro natura di passaggio per gli uccelli in volo. Le onde smettono di essere il fossato intorno alla fortezza, libere di andare e venire. E un medico di carcere non è più il falsificatore di cartelle cliniche, addetto alla cancelleria dei pestaggi. Leggo l'io narrante di una vita rinchiusa, gli effetti ristretti all'ora di colloquio, le fughe pensate per dare caloria al pensiero, le sue letture davanti al naso per cancellare i muri. È l'esistenza che serve allo Stato per dimostrare il suo diritto di pugno. Quando nel corpo spunta un dolore, anche se in fondo a un piede, quello diventa il centro pulsante dell'intero organismo. Così è per la prigione, centro che deve irradiare intorno a sé il dolore a scopo di terrore. Il resto del corpo cerca di tenersi a distanza, per sottrarsi al contagio. Ma la prigione è un'epidemia che, pure colpendo i più deboli, ammicca a tutti gli altri, che sanno provvisoria la loro immunità. Ergastolo infine è l'ultima bestemmia della negazione, la peggiore profezia a carico della persona umana: la sua impossibilità di espiare. La pena dell'ergastolo non è penitenza ma rifiuto. Leggo chi ha avuto la forza di narrare dal fondo di questa discarica. E questo è un libro, perché a questo serve: mettere al centro una vita e dare al lettore il posto d'onore davanti. Giustizia: la crisi della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Federico Tedeschi La Discussione, 21 giugno 2015 Accedere alla tutela delia Corte Europea dei Diritti dell'Uomo è sempre più difficile: sarà per colpa del mancato rifinanziamento delle risorse umane e finanziarie di quell'apparato organizzativo, oppure perché anche i giudici europei - man mano che quell'ordinamento si stabilizza - cominciano a risentire del formalismo giuridico che domina la gran parte degli ordinamenti nazionali sulle cui carenze la corte stessa è chiamata a porre rimedio, sarà per altre ragioni, fatto sta che i giudici di quella Corte si rifugiano sempre più spesso dietro il rimedio deirirricevibilità dei ricorsi, piuttosto che affrontare effettivamente le questioni che le vengono sottoposte ed entrare nel merito delle stesse, per effettivamente dare tutela ai diritti fondamentali di colora che tentano di accedere alla loro funzione giustiziale. Questa tendenza si concretizza così in una occasione perduta (o meglio, in una progressiva somma di occasioni perdute) man mano che vengono a risolversi le questioni che - fin dall'inizio dell'operare della* stessa Cedu - avevano creato qualche confusione nell'uso delle tecniche di riparto della giurisdizione fra Corte Europea di Strasburgo e Corte Comunitaria del Lussemburgo. Prima che la questione si risolvesse in una sostanziale paralisi per l'attività di ciascuna di quelle due Corti, gli Stati nazionali decisero infatti di affrontare direttamente il problema, integrando almeno i Trattati istitutivi dell'Unione Europea, senza però porre mano - parallelamente - alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo del 1953. L'approvazione del Trattato di Lisbona ha perciò modificato in maniera significativa l'assetto normativo della promozione e della tutela dei diritti fondamentali nell'ordinamento dell'Unione Europea; ma a questa modificazione non ha corrisposto un parallelo intervento delle "Alte parti Contraenti" (cioè, sempre gli Stati) sulla Convenzione, essendosi preferito il più comodo ricorso ai protocolli aggiuntivi, con un metodo che ricorda molto da vicino l'approvazione di emendamenti alla Costituzione nordamericana. Gli organi dell'Unione Europea si sono quindi resi conto - ad un certo punto della loro evoluzione -della necessità di soddisfare totalmente la richiesta di garantire il rispetto dei livelli di protezione previsti dalle singole Costituzioni degli Stati membri, quasi contestualmente al momento in cui iniziava a declinare l'efficacia della tutela fino a quel momento assicurata dalla Convenzione Edu, ed hanno così provveduto ad apportare una prima modifica al Trattato di Amsterdam, per poi ulteriormente allargare gli spazi di tutela, prima attraverso il Trattato di Nizza ed infine attraverso quello di Lisbona. Le conseguenze di questa progressiva contemplazione comunitaria della materia si sono così spinte fino a rompere il principio di inviolabilità della sovranità, sostituendolo con quello della giurisdizione sovranazionale e del progressivo riconoscimento degli obblighi che gravano sugli Stati membri in questo ambito. Il cammino dei diritti dell'uomo, iniziato praticamente con la nascita dello Stato moderno, ha raggiunto in questo modo l'importante tappa di qualificare le relative situazioni soggettive come diritti "fondamentali", azionabili sulla base di disposizioni sempre più concrete, puntuali, dotate di crescente efficacia percettiva, che invade - piuttosto che completarla - la sovranità degli Stati membri nei relativi settori. Si è posto - a quel punto - il problema del collegamento fra le disposizioni contenute nella Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea e quelle, assolutamente simili, recate dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali: un problema, però, tanto complicato da risolvere sul piano astratto, quanto semplice da prospettare nel concreto. Che questi due tronconi dovessero - prima o poi - destinati a confluire in un unico ordinamento era ben chiaro anche a coloro che si occuparono di fondarli, ma per ragioni prevalentemente empiriche si ritenne di tenerli - almeno inizialmente - ben distinti, al fine di evitare che la portata rivoluzionaria dell'uno e dell'altro potesse garantire i suoi effetti in tempi e modi diversi, ma soprattutto attraverso giurisdizioni diverse che potessero andare in contrasto fra di loro; ecco perché oggi abbiamo una Corte di Giustizia dell'Unione Europea che, sempre più spesso, si occupa di diritti fondamentali e una Corte Europea dei diritti dell'uomo che, altrettanto spesso, viene ad occuparsi di libertà economiche. I cronografi che battono i tempi delle due Corti hanno però velocità diverse, sicché ormai è quasi impossibile sincronizzarli è sta così accadendo che -mentre la Corte del Lussemburgo diviene sempre più spesso il giudice dell'efficacia dei diritti fondamentali eventualmente lesi all'interno degli Stati membri, la Corte di Strasburgo rinuncia con sempre maggior frequenza ad occuparsi delle stesse questioni e - quando lo fa - tiene sempre più spesso conto dello status del cittadino europeo che Lei si rivolge: spiace constatarlo, ma la giustizia della Cedu sembra ormai riservata più a coloro che possono permettersi di impiegare mezzi ed influenze per ottenere colà giustizia, piuttosto che a coloro i quali - poveri di quei mezzi, per ragioni economiche o anche solamente culturali -cercano a livello sovranazionale ciò che la nazione di provenienza ha loro negato. Sarebbe antistorico - me ne rendo conto - parlare di "giustizia di classe", ma la storia spesso si ripete e riesce ad essere così beffarda verso le istituzioni che la attraversano, da condannarle alla fatica di Sisifo: portare il masso fino a pochi metri dalla cima del monte per poi farlo nuovamente precipitare alla base. Ora basterebbe sostituire quel masso con l'aspettativa di giustizia di coloro che a Strasburgo si rivolgono ed il suo precipitare con le frettolose decisioni di irricevibilità dei ricorsi che sempre più spesso impediscono di soddisfare quell'aspettativa, per capire quanto sia divenuta grave la situazione di cui stiamo dicendo È giunto perciò -forse- il tempo che i firmatari della Convenzione Europea trovino il tempo ed il modo per rimettere mano a quella preziosa Istituzione, ma trovino anche gli ulteriori mezzi finanziari per farla funzionare: ove si continui ad abbandonare la Cedu a Sé stessa, presto la vedremo simile ad alcune Corti di Cassazione europee operanti sotto il dominio del formalismo: relitti della storia di cui prima o poi ci si accorgerà di non avere più bisogno. Giustizia: Stango (Segretario Comitato Helsinki) "in Italia manca lo Stato di diritto" di Barbara Alessandrini L'Opinione, 21 giugno 2015 "Nei miei lunghi studi sul modo e grado con cui differenti sistemi economici e politici si adeguino rispettivamente alle convenzioni internazionali e al rispetto dei diritti umani sono arrivato alla conclusione che per trovarsi di fronte a gravi violazioni non è necessario parlare di stati dittatoriali che per definizione violano lo stato di diritto dei loro cittadini. La violazione dei diritti individuali si consuma, in forma più o meno accentuata, in tutti gli stati del mondo e l'Italia sotto alcuni profili detiene addirittura un indigesto primato". Antonio Stango, segretario del Comitato italiano Helsinki ed esperto di relazioni internazionali, dirigente radicale, da più di trent'anni impegnato a livello internazionale sul fronte della tutela dei diritti umani (per anni ha ricoperto la carica di direttore del Kazakhstan Human Rights Support Program di Freedom House), non ha dubbi, anche l'Italia si è ritagliata un posto "di tutto irrispetto" nella casistica dei paesi che violano i principi dello stato di diritto. Che poi "nei paesi di democrazia politica o liberali, come vengono definiti dal rapporto annuale di Freedom House, le violazioni non sono sistematiche su tutta la gamma dei principi formalmente e universalmente riconosciuti ma sono occasionali e limitati ad alcuni aspetti" non ne attenuano la gravità. La cultura delle garanzie e dei diritti, d'altronde, nel nostro paese è decisamente asfittica, soprattutto sul piano del sistema giudiziario e dell'informazione, due ambiti strettamente e patologicamente osmotici. Lo dimostrano i ripetuti interventi sanzionatori o di prospettata messa in mora con cui la Cedu impone all'Italia dei correttivi sul piano della tutela delle garanzie spesso annichilite in ambito giurisprudenziale. Un'azione di controllo e indirizzo, quello della Corte Edu, non a caso destinata a rivestire un ruolo sempre più preponderante nell'ordinamento giuridico italiano e sul sistema giustizia in generale. Come è messa l'Italia e quali protocolli viola sotto il profilo delle garanzie? "Fin dagli anni ottanta la mia attenzione sulla situazione dei diritti umani si è focalizzata sul sistema giudiziario sia nella fase della giurisdizione e poi del trattamento delle persone detenute o perché in attesa di giudizio o perché condannate. L'altro tema è la libertà dei media ed il correlato diritto dei cittadini di essere informati in particolare se si affronta la partecipazione politica. Ulteriore filone di analisi è il trattamento dello straniero". Per ora concentriamoci sul sistema giustizia che è dovrebbe rappresentare la fonte e al tempo stesso il baluardo di tutti i diritti e delle garanzie per il cittadino e non lo è affatto. Il ministro Orlando ha ricondotto il principio del garantismo a quello di non colpevolezza, alla funzione rieducativa della pena, all'autonomia dei magistrati e al giusto processo. Sono valori rispettati? "In Italia l'autonomia dei magistrati è effettiva. La funzione rieducativa della pena è una mera ipotesi, il giusto processo è negato sistematicamente. Ci troviamo in stato di trasgressione a partire dalla fase giudiziaria, in cui la ragionevole durata del processo è costantemente violata per un problema antico, che investe sia il settore penale che quello civile. In media nei tre gradi si arriva complessivamente a cinque anni, con punte molto più alte. Ogni anno vanno in prescrizione non meno di 110mila procedimenti, e anche questo configura una denegata giustizia: se la prescrizione spesso favorisce gli accusati, sempre lede i diritti della vittime. L'Italia resta uno dei Paesi di democrazia politica con la più irragionevole durata dei processi, tempi che vanno molto oltre i termini prescritti dalla Cedu nel 1950 e poi sanciti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. In gioco non ci sono soltanto i presunti colpevoli o le vittime di un crimine, ma anche i familiari. Anche in assenza di casi estremi di condanna di innocenti come nel caso Tortora, la lunghezza dei processi è una forma di illegalità". Come si posiziona l'Italia in relazione alle condanne da parte dell'Europa? "L'Italia è ai primi posti per numero di condanne fra gli stati del consiglio d'Europa, spesso anche più della Turchia e della Russia. Quanto al principio di non colpevolezza, ritengo che sia generalmente rispettato (ma con orribili eccezioni, fra le quali, ripeto, il caso Tortora) da un punto di vista formale; troppe volte, però, si proclama la colpevolezza di un imputato prima ancora che il processo inizi. La reputazione e la vita stessa di una persona possono esserne rovinate". Prima parlava di diritto all'informazione. La libertà di stampa in altri paesi non è disgiunta dal diritto al processo equo. In Italia la rincorsa da parte dei media a inseguire ansie punitive e colpevoliste con programmi, servizi e docu-fiction che si traducono nel cosiddetto ‘doppio processò, non confligge con l'articolo 111 e col principio di non colpevolezza dell'articolo 27 della Costituzione? Il diritto al giusto processo non dovrebbe essere, oltre a un diritto dell'accusato, anche un interesse pubblico? "Accanto al processo giudiziario viene infatti celebrato il processo mediatico, di cui sono responsabili sia la bassa qualità generale del sistema dei media che le frequenti, illegali diffusioni di notizie da parte di elementi della magistratura. È devastante l'uso improprio delle trascrizioni di intercettazioni telefoniche e ambientali, delle quali è giusto che gli organi investigativi possano disporre ma che non dovrebbero mai, in un Paese civile, essere strumento di campagne di propaganda mediatica contro imputati o anche persone estranee a qualsiasi reato". Il diritto ad essere informati può confliggere con una tutela individuale come il diritto all'oblio previsto nella Carta di Milano per gli ex pregiudicati esposti, nella delicata fase del reinserimento sociale o nell'accesso ai benefici penitenziari o a misure alternative, che rischiano di essere bollati a vita ed identificati col reato commesso. Trova sia un diritto rispettato? "Non ne sono certo. Ma è certo che il limite debba risiedere nella professionalità, nella decenza, nella cultura, nell'educazione degli operatori dei media. Ritengo, però, quasi impossibile e probabilmente non giusto fissarlo per legge, a meno che non si ricada in reati già previsti come la diffamazione, ad esempio". Torniamo al provvedimento che con procedura d'urgenza ha allungato i termini della prescrizione. Non trova che questo rappresenti un'altra violazione del diritto del singolo di non essere sottoposto ad una pretesa punitiva in perpetuum, proprio mentre l'Europa ci chiede di rispettare la ragionevole durata del giusto processo? Tanto più che paradossalmente il principio della difesa delle garanzie e della ragionevole durata del procedimento penale è inserito nel testo della riforma della prescrizione oltre che in quello del ddl sulle modifiche al codice di procedura penale. "Allungare i tempi di prescrizione è un'altra ammissione di incapacità di fondo del sistema giudiziario, oltre che una delle consuete modalità di mostrare una faccia feroce di fronte alle richieste di inflessibilità da parte dell'opinione pubblica quando scoppiano alcuni scandali - come quello di Mafia Capitale. Dovrebbe essere chiaro che l'allungamento dei tempi non solo non risolve il problema, ma lo aggrava. La lotta alla corruzione richiede innanzi tutto estrema trasparenza ed essenzialità della macchina amministrativa e un efficace sistema di controllo; quindi senz'altro rigore, giudizi in tempi ragionevoli e pene certe, ma non atteggiamenti di apparente durezza e, come avrebbe detto Leonardo Sciascia: terribilità". Al fine di snellire il sistema, però, si punta a modificare il regime delle impugnazioni, specialmente il ricorso in Cassazione. L'accusa può, invece, ricorrere in caso di assoluzione in primo grado. Questa riduzione dei gradi di giudizio non viola l'articolo 111 della Costituzione che stabilisce che contro tutti i provvedimenti giurisdizionali è sempre ammesso il ricorso per Cassazione, non è una contrazione dei diritti del cittadino oltre che della difesa? "La Cassazione dovrebbe giudicare solo sulla legittimità dei processi di merito, annullando sentenze o parti di sentenze per violazioni di diritto materiale o procedurale, per vizi di motivazione o per difetto di giurisdizione. Il fatto che si tenda sempre, quando si tratta di condanne a pene detentive, a rivolgersi alla Corte di Cassazione mi sembra in sé un elemento patologico del nostro sistema giudiziario: possibile che tante sentenze, quasi sistematicamente, offrano lo spunto per un ricorso, tanto da far ritenere normale che i gradi di giudizio debbano sempre essere tre? Il Primo Presidente della Suprema Corte ha dichiarato che se, per assurdo, non vi fossero altri ricorsi, occorrerebbero ad essa più di tre anni per smaltire quelli pendenti. La sfida a mio avviso è essenzialmente proprio nel non colpire le garanzie della difesa mentre si cerca, come è opportuno, di ‘snellirè il sistema giudiziario. In questo senso, la facoltà del pm di appellare le sentenze di proscioglimento dovrebbe essere ridotta, definendo una serie di casi in cui questo non possa accadere". Il potere politico di certi settori della magistratura si è dilatato tanto da sconfinare sul piano legislativo che non le compete. Questo non finisce per condizionare anche le dinamiche processuali e indebolire l'esigenza di tutela e salvaguardia dei diritti di difesa e delle garanzie dell'imputato? "È una tendenza piuttosto tipica dell'ordine giudiziario italiano come insieme, naturalmente non di tutti i magistrati. Direi che personalità rappresentative della magistratura hanno interferito e interferiscono col normale processo legislativo, così come nell'attività di governo. All'interno del ministero della Giustizia operano poi molti magistrati fuori ruolo che occupano posizioni chiave nell'ambito dell'attività amministrativa. Quando poi capiti un ministro della Giustizia che non abbia particolare competenza in materia, è verosimile che segua ciò che l'apparato dei magistrati suggerisce. Lo stesso Parlamento è stato, nella sua attività legislativa, influenzato dai pareri di autorevoli magistrati. Nell'86/87 fui con il Partito Radicale tra i promotori dei referendum promossi sulla ‘Giustizia giustà e uno dei referendum fu per cambiare il sistema di elezione del giudici del Csm, che era sulla base di liste e non di nomi, cioè con blocchi politici di magistrati. Il Csm, organo di autogoverno previsto dalla Costituzione, mi sembra orientare spesso le leggi. E queste troppe volte sono impostate sull'emergenzialità, sicché ad esempio si decide di tagliare o di ampliare i tempi di prescrizione a seconda degli allarmi del momento". Sistema penitenziario. Anche qui lo spettro dell'onta politica e della pesante messa in mora da parte della Cedu per le condizioni disumane e degradanti dei detenuti delle carceri italiane ha spinto il governo ad occuparsi del sovraffollamento carcerario accelerando, almeno formalmente, una riflessione sul nostro sistema di esecuzione della pena avviata in occasione degli Stati generali delle carceri. Nonostante sia lievemente rientrata l'emergenza sovraffollamento, la condizione in cui vivono i detenuti resta ai limiti della legalità. Soprattutto perché vi viene puntualmente negato il principio costituzionalmente sancito dall'articolo 27 sulla natura rieducativa e riabilitativa della pena. Che fare? un piano edilizio, accesso a pene alternative, al lavoro, diritti sanitari...? "Almeno dagli Anni Ottanta in Italia la situazione di sovraffollamento è stata sempre grave o gravissima, pur con numeri variabili. La Cedu ha sentenziato con chiarezza che l'esasperata restrizione fisica e psicologica legata al sovraffollamento è una forma di tortura. La mancanza di lavoro è problema prioritario: in Italia il numero di coloro che possono fruire di opportunità di lavoro all'interno delle strutture penitenziarie è esiguo, pochissime le carceri che lo consentono. Il numero di detenuti, sceso sotto i 50mila, resta superiore alla capacità di posti delle strutture, pregiudicando la possibilità di una vita degna e qualsiasi prospettiva di riabilitazione nel periodo in cui si è privati della libertà. Mancano strutture rieducative e di istruzione e vi sono carenze di personale assistenziale, medico e di custodia. Gli agenti di polizia penitenziaria al momento sono impegnati in turni massacranti, con condizioni di stress che in alcuni casi suicidi hanno portato al suicidio. In Italia ritengo necessaria l'istituzione di centri di detenzione attenuata. L'alternativa oggi è o in carcere o agli arresti domiciliari, che funzionano per coloro che hanno molto da perdere, non per chi è inserito in gruppi sociali marginali gestiti dalla criminalità. Un regime di custodia attenuata e riabilitativa sarebbe utile". Una seria riforma del sistema di esecuzione della pena finora è stata ostacolata dal clima e dalle istanze punitive e vendicative della pubblica opinione e dalla necessità della politica di ottenere dividendi elettorali. Non c'è urgenza di modificare la cultura del paese con una massiccia informazione sui diritti e su come il processo riabilitativo si traduca in minore recidiva e quindi in aumento della sicurezza? "Ci sono almeno due problematiche in proposito e una è questa certamente. L'altra a mio avviso riguarda una categoria di persone, come denunciato più volte dai radicali, da Rita Bernardini in particolare, ed è l'insieme di coloro in carcere per reati legati al piccolo spaccio di sostanze stupefacenti, compresa la marijuana ormai legalizzata in molti stati. Di fatto la durezza dello stato attraverso il sistema penitenziario sembra esprimersi soprattutto per quel tipo di reato. Un altro aspetto è stata la gestione truffaldina e criminale dei piani di edilizia carceraria. In questo Paese sono state costruite pochissime nuove strutture carcerarie, anche se ne sono state chiuse di ultrasecolari che erano fuori dai requisiti oggi accettabili. Sono state costruite carceri di massima sicurezza, per detenuti in regime di 41bis per reati di mafia, ma non si è speso adeguatamente per il sistema penitenziario nel suo complesso e in riferimento allo scopo rieducativo che la detenzione deve avere. Molti denari sono finiti male, come accade per moltissime opere pubbliche in Italia. Di contro, sono stati presi provvedimenti che sembrano creati apposta per suscitare ondate di populismo forcaiolo. Ad esempio, la legge che consente di non entrare in carcere per fatti di lieve entità è comprensibile ma devono esserci dei limiti, soprattutto per le recidive multiple e specifiche. L'opinione pubblica riceve quotidianamente dosi massicce di notizie di persone che commettono frequentemente lo stesso tipo di reato e vengono rilasciate subito. La mancanza di punibilità suscita reazioni che portano a dare consenso a movimenti populisti che invitano a ‘gettare la chiavè, possibilmente senza nemmeno il processo. Ritengo che vada realizzato un piano carceri serio e potenziato tutto il personale, compresi agenti di custodia, operatori sanitari, educatori, psicologi. Si tratta di grossi investimenti economici, certamente, ma nessun investimento più di questo può essere utile al nostro sistema paese. L'inefficienza (oltre che la crudeltà) del sistema penitenziario e quella del sistema giudiziario proiettano l'immagine di un Paese dove non è possibile vivere civilmente, dove gli imprenditori non investono o da dove fuggono perché non si sentono garantiti". Bisogna chiarire che la tutela della dignità e la congruenza costituzionale dell'esecuzione della pena non significano rifiutare la detenzione perché su questo equivoco si consolidano le ansie punitive... "Certo, non ritengo si debba essere immuni dalla possibilità di entrare in carcere. Viviamo in una società reale che ha bisogno di un sistema penitenziario, ma è urgente che si renda effettivo il rispetto da parte dello stato del principio costituzionale della rieducazione e riabilitazione e della dignità del singolo. Finché questa strada non è praticata è necessario tentare qualsiasi via per evitare il crollo del rispetto della persona umana. La proposta dell'amnistia da parte di Marco Pannella si muove in questa direzione. Si tratta di circoscriverla, ma in Italia non essendoci una possibilità di dibattito serio si finisce sul fallace piano del tutti dentro o tutti fuori". Nella sua esperienza internazionale ha conosciuto realtà carcerarie cui l'Italia potrebbe ispirarsi sotto il profilo del miglioramento in materia di edilizia penitenziaria e di un sistema che rispetti il nostro articolo 27 e l'articolo 6 della Cedu sul fine rieducativo degli istituti di pena? "Ho partecipato a missioni di monitoraggio in diversi Paesi, analizzato rapporti e preso parte a discussioni in sedi internazionali come il Comitato per la Prevenzione della Tortura a Strasburgo. Ho visitato molte strutture detentive anche nell'estremo oriente siberiano russo e in Kazakistan e ora ho in programma di recarmi in alcuni nuovi istituti in Azerbaigian, che sta attuando un non facile programma di adeguamento agli standard previsti dal Consiglio d'Europa. Notoriamente, sono soprattutto gli Stati scandinavi ad avere un sistema carcerario che tende al fine rieducativo della pena, con spazi idonei a rispettare la dignità umana della persona detenuta, cura delle sue condizioni psicofisiche e concreta possibilità di svolgere del lavoro. In altre aree, come alcune dell'ex Unione Sovietica che, al contrario, hanno una lunga storia di trattamenti molto pesanti dei detenuti, ho trovato tuttavia qualche aspetto che ritengo positivo: ad esempio, la disponibilità di spazi per incontri riservati anche intimi con familiari e la presenza di istituti a regime attenuato, o colonie penali per persone ammesse al lavoro esterno, che almeno potenzialmente dovrebbero costituire un luogo di transito verso il reinserimento sociale". Giustizia: Sabelli "il taglio ferie ai magistrati?... niente di male, tranne i metodi di Renzi" di Errico Novi Il Garantista, 21 giugno 2015 Peccato che non ci sia stato chiesto di collaborare, dice Sabelli. Ma in molti uffici la norma è disattesa. "Avremmo volentieri dato una mano per definire la modifica. Peccato non ci abbiano interpellato". Risponde così il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli alle domande dei giornalisti sull'ultima puntata della telenovela "ferie dei giudici". Non esattamente un passo indietro rispetto al battibecco mediatico ingaggiato con il premier Matteo Renzi da quasi un anno. Piuttosto una necessaria riformulazione diplomatica del conflitto, Necessario perché il Capo dello Stato Sergio Mattarella, da presidente del Csm, ha inviato al Consiglio superiore stesso una lettera in cui lo invita ad adeguarsi alla nuova disciplina delle ferie. E cioè alla riduzione da 45 a 30 giorni sancita nell'ornai famigerato decreto sul processo civile dell'anno scorso. Ora il vertice del sindacato delle toghe la prende così: "Non commento le iniziative del Quirinale e non voglio enfatizzare il tema. Abbiamo affrontato il problema a suo tempo e abbiamo lamentato più le forme che il merito dell' intervento". Poi però diventa più specifico: "Ricordo che i famosi 15 giorni in più di ferie dei magistrati erano previsti per il deposito dei provvedimenti incamerati nell'imminenza delle ferie. Tanto è vero che adesso si è posto il problema di come assicurare i 30 giorni di ferie che sono un diritto costituzionalmente garantito. Adesso ci troviamo di fronte ad un problema di tipo organizzativo". Il che è vero. Ma il passaggio controverso arriva subito dopo: "Quello che ci è dispiaciuto molto è che non siamo stati per niente interpellati. Se ci fosse stato richiesto di collaborare non ci saremmo tirati indietro. Ma è stato fatto un provvedimento di imperio, senza neanche un tavolo di confronto, e questo non si fa con nessuno". Cioè Sabelli pare voler dire che il solo vero problema - a parte l'attuazione pratica a cui in via regolamentare il Csm dovrà provvedere - sia stata la forma. Cioè l'atteggiamento sbrigativo assunto dall'esecutivo e in particolare dal premier. Eppure il presidente dell'Anni non può trascurare una cosa: il Csm non ne ha fatto una questione di galateo, ma di efficacia normativa. Ha cioè a lungo lavorato e tenuto in caldo una mozione con cui metteva in dubbio l'efficacia del provvedimento. Ritenuto, da alcuni membri togati dell'organo di autogoverno della magistratura, non estendibile a tutti i giudici e pm. Fino a ipotizzare un ricorso al Tar, poi rientrato. In realtà la querelle non è stata ancora davvero definita, Seppur stemperato l'animus pugnandi del Csm, il problema resta nei singoli uffici giudiziari. In alcuni dei quali si procede come se il taglio delle ferie non fosse mai avvenuto. Da qui l'appello di Mattare Ila al Consiglio superiore. Non si tratta dunque solo di problemi "organizzativi", come diplomaticamente ha detto ieri Sabelli in occasione di un convegno sul Processo civile telematico organizzato a Napoli, ma di una sorta di ammutinamento bianco. Giustizia: Roma; personaggi, luoghi, codici, intrighi nella Gomorra delle mazzette di Roberto Saviano La Repubblica, 21 giugno 2015 Mafia Capitale. Un racconto nuovo che riscrive completamente la narrazione del potere romano. Perché mafia a Roma? Com'è possibile? Come è potuto succedere che una banda di pluripregiudicati sia riuscita a decidere buona parte degli appalti del Comune di Roma per anni? Il grande romanzo di Mafia Capitale va affrontato e interpretato parola per parola, luogo per luogo. Scalinata del Campidoglio. La simbologia, anche semplicemente relativa a salire o scendere una scalinata, fa capire dove c'è mafia. Chi non conosce il galateo del potere è destinato a non prendere potere. Antonio Lucarelli è il capo segreteria del sindaco Alemanno ai tempi in cui Salvatore Buzzi lo cerca. Buzzi ha bisogno che sia sbloccato un versamento di trecento mila euro alla sua cooperativa. Chiama, manda messaggi, richiama: niente. Allora il braccio economico dell'organizzazione informa il capo militare, Massimo Carminati. Carminati chiama Lucarelli e poi richiama Buzzi: "Vai alle tre, tranquillo" gli dice. Ma non è questa la vittoria. Er Cecato conosce benissimo le regole comportamentali del potere. "Scende e viene a parlare con te". Scendere le scale del Campidoglio per andare a confermare che i soldi sono stati sbloccati: questo sì che è vincere. È il Comune, cioè in quel momento lo Stato, che va dall'uomo dell'organizzazione, e non quest'ultimo che sale le scale per chiedere. Dirà Buzzi, chiosando: "C'hanno paura de lui, c'hanno paura". La paura fa scendere le scale al potere. Bar Euclide. È questo il primo luogo dove si prendevano le decisioni organizzative più importanti. Affittare una casa è rischioso (vicini sospettosi, telecamere...): un bar invece è aperto, visibile. E la visibilità spesso è il miglior modo per nascondersi. Ma i Ros riescano a "cimiciarlo". È sotto il gazebo del bar Euclide di piazza Vigna Stelluti che Carminati, parlando con il suo uomo Riccardo Brugia, teorizza il loro nuovo ruolo, molto di più del violento recupero crediti: "È nella strada che glielo devi dire. Comandiamo sempre noi, non comanderà mai uno come te nella strada, nella strada tu c'avrai sempre bisogno". Senza il livello della strada non si governa. Intimidire, avere gli strumenti per minacciare, significa avere un'azienda con macchinari efficienti. Ristorante Dar Bruttone. Anche qui è simbolo, mangiare insieme è "mangiare nello stesso piatto". Quando fu arrestato nel 2004 Morabito il Tiradritto e gli fu dato un panino da mangiare prima di portarlo in carcere il boss si alzò dal tavolo in caserma, tra magistrati e carabinieri, e lo mangiò faccia al muro. Non si divide la tavola del cibo con chi non si riconosce. "Dar Bruttone" in zona San Giovanni, qui il 23 luglio 2013 Domenico e Luca Gramazio, padre e figlio, ex senatore e capogruppo di Forza Italia in Regione, incontrano proprio Carminati. Serve un nome per la commissione Trasparenza del Campidoglio e la mafia capitolina vuole deciderlo: è quello l'organismo che deve controllare la regolarità degli appalti. Amicizia. La parola "amici" compare nelle intercettazioni 186 volte, la parola "amico" 312. La parola nemico compare solo 8 volte. Roma è rapporti. Roma è amicizia. Tutti conoscono tutti, chi non conosce tutti non ce la fa, non procede. Si è amici anche di chi si detesta, si è amici di chi serve. Carminati chiama Luca Gramazio "l'amico mio" Per definire un politico o un amministratore disponibile l'espressione è "amico nostro". Riccardo Mancini (ora ex) ad dell'ente Eur è chiamato "l'amico porcone". Nelle telefonate Carminati risponde quasi sempre "eccomi amico mio". Quando Buzzi deve imporre a Figurelli, capo della segreteria della presidenza del consiglio comunale, il nome di Politano come responsabile dell'anticorruzione del Campidoglio, gli basta definirlo "un amico nostro". Il mondo romano è invaso da amici. Amico è la parola in codice per tutti, perché dice Carminati: "Dall'amicizia nasce un discorso di affari insieme" Signoria criminale. Il corrotto si muove per il danaro, il mafioso si muove per il potere: questo è il passaggio fondamentale per comprendere anche il diverso ruolo tra gli uomini di Mafia capitale e i corrotti. Carminati e Buzzi guadagnano, certo, ma il loro margine di utile è il potere. Questa l'espressione usata da Procura e carabinieri: "Signoria criminale". Tutto quel che accade anche se non c'è lucro deve esser "autorizzato, permesso". La Signoria agevola gli affari. La mafia che non uccide è mafia? Questa è la domanda che aleggia sull'inchiesta. A Roma e Ostia gli omicidi ci sono, eccome. C'è un accordo, citato nel libro I Re di Roma, che racconta la logica della pax mafiosa: "La pax deve regnare esclusivamente dentro il territorio circoscritto dal Grande raccordo anulare". Nel 2011 undici omicidi avevano destato attenzione mediatica e giudiziaria. I grandi numeri cui siamo abituati nelle faide delle mafie storiche non ci sono ancora perché stiamo parlando di una mafia autoctona agli albori. E poi Roma è sotto una luce costante: le questioni militari vanno risolte lontano. Rockfeller. Cosa c'entra? Il 27 novembre del 1979 un commando di Nar assalta una banca, la filiale all'Eur della Chase Manhattan Bank. Carminati è l'autista, e verrà condannato per questo a tre anni e mezzo. Era la banca dei Rockfeller. Come può un condannato per rapina riuscire a muoversi con così agilità? La sua forza è proprio l'essere compromesso: gli dà titolo nel costruire una caratura criminale. Una persona sotto osservazione della magistratura o in odore di inchiesta, è considerata pericolosa da avvicinare. Chi invece ha già condanne alle spalle ed è chiaramente invischiato, è una garanzia: perché ha superato il problema, perché se ha ancora potere nonostante l'inchiesta ne viene addirittura rafforzato. Cooperative. Oggi si ha bisogno di nomi puliti. Cooperativa rimanda a una tradizione nobile, sa di pulito, non desta sospetti. La battaglia mafiosa è anche una battaglia semantica. È qui la forza di Buzzi, l'ex detenuto che vende la sua storia di omicida redento. In un paese in crisi come l'Italia, dove non si produce (e quindi il racket boccheggia) e gli investimenti criminali si fanno all'estero, gli affari si realizzano con il terzo settore. Immigrati, appalti di servizi, rapporti pubblici: "Tu c'hai idea di quanto ci guadagno con gli immigrati? Il traffico di droga rende meno". I messaggi di Buzzi confermano che il sistema cooperativo è il più esposto all'infiltrazione mafiosa. Fondazioni. Sistema per finanziare la politica. Il meccanismo che ha sostituito le tangenti, immediate ma più rischiose. Il giorno successivo all'aggiudicazione dell'appalto sulla raccolta differenziata, le società riconducibili a Buzzi pagano in "tavoli alle cene" trentamila euro alla Fondazione Nuova Italia riconducibile a Panzironi e Alemanno. Lecito, in apparenza. Il sistema delle Fondazioni non rende chiaro il flusso di danaro. Come le coop, anche le fondazioni sono lo strumento semantico (il termine fondazione richiama un progetto culturale) e organizzativo più esposto alle mafie. Facilitatore. È colui che sa consigliare come muoversi per ottenere un risultato istituzionale. Lobbista direbbero negli Usa. Luca Odevaine, ex capo di gabinetto di Veltroni, si difende definendosi il facilitatore di Buzzi, e per questo ne riceve uno stipendio (in nero). Perché accetta questi cinquemila euro al mese, una cifra che non giustifica la compromissione del suo patrimonio politico? Questo punto è il più importante per comprendere i fenomeni di corruzione italiani. Pannunzi, broker del narcotraffico mondiale, aveva una teoria sulla corruzione "leggera": se paghi molto, per esempio, un agente della dogana perché chiudendo un occhio ti farà guadagnare milioni, questo non ci dormirà la notte per quei soldi, insospettirà i colleghi, la famiglia cambierà status. E il senso di colpa potrà portarlo o a confessare o a chiedere sempre più. Bisogna invece corrompere con poco. Un'utilitaria, biglietti per la partita: se corrompi con nulla, il corrotto sente di non star facendo nulla di male. Metodo Pignatone. I magistrati Pignatone e Prestipino con la loro squadra (carabinieri, polizia ecc.) hanno cambiato il destino di Roma. Hanno messo insieme i pezzi di reati e negoziazioni che, singolarmente presi, sembravano semplici favori, piccoli scambi, tipiche pastette locali, e hanno avuto prudenza: in un'inchiesta del genere avrebbero potuto arrestare centinaia di persone e nomi eccellenti, per finire sotto i riflettori. Invece hanno investigato come si fa sui grandi gruppi mafiosi storici: comprendendone le dinamiche, i linguaggi e gli affari, i movimenti, usando le intercettazioni solo come traccia da cui partire (e non basandovi l'impianto accusatorio: la difesa di tutti gli intercettati, che per questo parlano impunemente senza troppi pudori, è "tutte millanterie"). Infine gli inquirenti hanno ricostruire il quadro generale. La corte di Cassazione ha emesso il 10 marzo una sentenza storica sostenendo che si tratta di intimidazione di stampo mafioso anche quando l'organizzazione compromette il destino economico di un'azienda e una persona, non solo quando ne minaccia la vita con un'arma o con la violenza. La Cassazione è chiara: truccare appalti, tenere vincoli e gestire rapporti è già violenza. Non sono solo "mazzette". Lettere: fare sport in carcere, nuova linfa allo spirito di Agnese Moro La Stampa, 21 giugno 2015 Palla-Volovia è il progetto voluto dall'associazione "A Roma Insieme", (aromainsieme.it) e finanziato con 53 mila euro dalla Fondazione Decathlon, per migliorare le condizioni di vita delle 400 donne recluse all'interno della Sezione Femminile del carcere di Rebibbia. "Lo sport, in particolare quello di squadra - sottolinea la presidente di "A Roma Insieme", Tullia Passerini - assolve ad una funzione rieducativa di grande rilievo, poiché insegna il rispetto delle regole, incrementa il senso di autostima e di fiducia in se stessi; la crescita del sentimento di appartenenza alla collettività e dunque del rispetto dell'altro; lo sviluppo del senso del dovere". Il finanziamento della Fondazione Decathlon è servito a ristrutturare il campo da pallavolo del carcere da tempo in abbandono. L'impianto è stato trasformato in un campo polifunzionale ad uso delle detenute per praticare pallavolo, calcetto e pallacanestro. Lo svolgimento delle attività sportive sarà supervisionato dal personale carcerario e coordinato da volontari appartenenti al personale del negozio di Decathlon di Settecamini di Roma, alla Uisp (che ha organizzato nel carcere delle manifestazioni sportive) e all'associazione "A Roma Insieme". Nel corso dell'inaugurazione avvenuta il 18 giugno il direttore dello store di Decathlon-Settecamini, Valerio Sbardella, ha osservato che "Guardare i visi e le espressioni di gioia di quante sono scese in campo (circa 60 in più partite di basket, calcetto, pallavolo), ma anche del tifo in tribuna ci dà il senso di quanto è stato fatto, che poi è la missione della Fondazione Decathlon: rendere accessibile anche a persone in situazioni di svantaggio il piacere e i benefici di fare attività sportiva". "Lo sport in un luogo chiuso e di sofferenza - ha aggiunto la vice direttrice del carcere Gabriella Pedote, presente all'inaugurazione insieme al sottosegretario alla Giustizia Enrico Ferri e ad Angiolo Marroni l'ex garante dei detenuti del Lazio - è un'occasione per mettersi alla prova, per impegnarsi a rimettersi in gioco ottenendo dei risultati gratificanti". Lo conferma Lisa, una delle persone detenute: "Muoversi, fare sport stando all'aria aperta per noi è fondamentale"; e, pensando a una vittoria ottenuta tempo prima, aggiunge "ci siamo sentite felici e diverse da quella parte di noi che, tanti anni fa, ha sbagliato". Un bell'esempio da seguire. Lettere: Casson e il piede sbagliato in due scarpe di Aldo Grasso Corriere della Sera, 21 giugno 2015 Fallito il sogno di diventare sindaco torna politico giustizialista. Già si fatica a tollerare i magistrati scrittori, figuriamoci quelli "prestati" alla politica. E sono tanti. Prendiamo Felice Casson. Il sogno di diventare sindaco di Venezia è miseramente svaporato: al ballottaggio ha perso per strada i suoi elettori e i grillini gli hanno fatto marameo. Si starà leccando le ferite alla Giudecca? Per niente. Tornato a Roma, come membro della Giunta delle Immunità in merito all'arresto del senatore Azzollini, ha dichiarato: "Non c'è fumus persecutionis. Ho letto le carte. Per me l'ordinanza è fatta bene, è lineare e corretta". In poche parole, sì all'arresto. Sia chiaro, a Casson non si può imputare nulla, le sue scelte sono garantite dalla Costituzione. Ma dovrebbe almeno aiutarci a uscire dall'equivoco dei magistrati che fanno politica. E dire che nel 1995, dopo l'esperienza fallimentare in Spagna del giudice Baltasar Garzón, aveva confessato a Gian Antonio Stella: "Esperienza assolutamente negativa. Ha visto crollare la sua immagine nell'opinione pubblica e alla fine è tornato a fare il magistrato. Credo che occorra decidere: o si fa il giudice o si fa il politico". Bene, bravo. O l'uno o l'altro. Il potere giudiziario andrebbe sempre tenuto separato dal legislativo e dall'esecutivo, come suggerisce lo Stato di diritto. E invece troppi magistrati si buttano in politica senza smettere l'abito giustizialista, magari con il paracadute dell'aspettativa. Un piede in più scarpe. Ma sempre con il piede sbagliato. San Severo (Fg): con il progetto "Pinete Pulite" detenuti al lavoro a Marina di Lesina teleradioerre.it, 21 giugno 2015 Si chiama "Pinete Pulite", il progetto partito oggi e che vedrà impegnati alcuni detenuti della Casa Circondariale di San Severo nella Pulizia delle Pinete di Marina di Lesina. Il progetto - un bell'esempio di integrazione e rieducazione sociale - nasce su impulso della Proloco di Marina di Lesina che nell'ambito della promozione del territorio ha coinvolto il Comune e la direzione della Casa circondariale del comune dell'Alto Tavoliere. Da una parte quindi l'inserimento concreto nel tessuto sociale dall'altro il contributo alla crescita della società civile: un modo per fare rete, accanto alla squadra dei detenuti anche gli Scout. E così l'esperienza si traduce in effetti positivi sia al detenuto, che recupera dignità attraverso il suo inserimento nella società, che alla collettività che può così utilizzare aree pubbliche rese in condizioni di migliore fruibilità e decoro. I soggetti attori del progetto sono il Presidente della Proloco Marina di Lesina, Dott. Adamo Niro, il Sindaco di Lesina Pasquale Tucci, il Direttore della Casa Circondariale di San Severo, dott. P. Francesco Sagace, il Comandante della Casa Circondariale di San Severo, dott. Giovanni Serrano. Bari: Sappe; la rabbia degli agenti penitenziari a l'appello al Dap "ci avete lasciati soli" di Antonio De Luigi Quotidiano di Bari, 21 giugno 2015 Sempre più difficile la situazione all'interno della Casa circondariale, con i lavoratori che si rivolgono a Regione e Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Da qualche tempo i vertici del carcere penitenziario di Bari, non fanno altro che pubblicizzare iniziative tese al reinserimento dei detenuti, ma senza coinvolgere chi nel carcere ci lavora in prima linea, come gli agenti penitenziari. Eppure anche il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria, favorevole alle lodevoli iniziative di reinserimento, pur lamentandosi non può accettare che il tutto si svolga esclusivamente sulle spalle dei poliziotti penitenziari. E non sarebbe la prima volta che loro vengono, lasciati soli nelle sezioni detentive a gestire detenuti pazzi, a vigilare sui i clan rivali in maniera inadeguate ed insicura, ad occupare più posti di servizio contemporaneamente a causa della carenza di personale. Così nelle ore notturne il carcere di Bari risulta pressoché sguarnito, mentre tanti poliziotti penitenziari sono costretti a ricorrere al pronto soccorso a seguito delle lesioni provocate dai tanti squilibrati, veri, falsi o presunti, presenti nella struttura di corso De Gasperi. Insomma, ormai non passa giorno che la Direzione dell'Istituto barese con i propri educatori ed assistenti sociali, pubblicizzano iniziative a favore del reinserimento dei detenuti ristretti all'interno del carcere. Chi non ricorda l'orto con la produzione di qualche pomodoro (ormai appassito), oppure le varie iniziative teatrali, la raccolta differenziata dei rifiuti, il treno che porta i familiari dei detenuti dal Papa a Roma e altro. Si può dire che ogni giorno viene sfornata una nuova iniziativa che porta visibilità, punteggi, sorrisi ai vertici del penitenziario di corso De Gasperi. Anche il Sindacato autonomo polizia penitenziaria, come detto all'inizio, è favorevole alle iniziative che aiutano chi abbia voglia e volontà a reinserirsi, ma nel contempo non può assistere passivamente a quanto sta avvenendo nelle sezioni detentive sulle spalle dei poliziotti penitenziari di Bari. Federico Pilagatti, segretario del Sappe, non usa mezzi termini: "Nelle sezioni detentive, soprattutto nei turni serali e notturni, i poliziotti penitenziari sono costretti a vigilare contemporaneamente due, tre sezioni detentive poiché vengono accorpate a causa della carenza; a lavorare in reparti in cui da una parte ci sono affiliati a pericolosi clan malavitosi e dall'altra i nemici giurati. Se per caso l'addetto alla vigilanza fosse preso in ostaggio da una fazione, cosa accadrebbe? Se lo sono chiesti i vertici dell'Istituto di Bari, tanto affabili e sorridenti, quando emettono ordini di servizio a ciclo continuo, che sanno che non potranno essere rispettati?". E non basta. "Si preoccupano i vertici del carcere - continua implacabile Pilagatti - se nelle ore serali il carcere rimane presidiato da poche unità in servizio, il più delle volte senza neanche il personale sul muro di cinta? Ed ancora, lo sanno i vertici dell'Istituto che mentre loro annunciano eventi vari al mondo intero, all'interno delle sezioni detentive ci sono detenuti affetti da problemi psichiatrici che vagano con la licenza di far male ai poliziotti? Hanno mai contato quanti poliziotti penitenziari nell'ultimo anno hanno dovuto far ricorso alle cure del pronto soccorso a seguito di aggressioni da parte di detenuti affetti da problemi psichiatrici? Molti, troppi". Proprio per questa ragione il segretario del Sindacato autonomo delle divise grigie baresi ha deciso di scendere in campo con una denuncia così pesante, intentando se necessario anche una serie di azioni legali contro la Regione Puglia responsabile della sanità penitenziaria e contro l'Amministrazione penitenziaria a tutela dei poliziotti penitenziari, lasciati in maniera irresponsabile ed illegittima in balia di questa tipologia di detenuti che non dovrebbe essere gestita dalla polizia penitenziaria ma, secondo le leggi, dal sistema sanitario regionale. Dure, insomma, le iniziative preannunciante dai rappresentanti dei lavoratori all'interno della casa circondariale barese, che verranno rese pubbliche durante il prossimo incontro con i vertici del Dap a Roma per discutere, appunto, di quanto accade a Bari. Importante tutto quello che viene fatto in materia rieducativa per il detenuto, ma non bisogna dimenticare che il carcere è un luogo che deve soprattutto garantire sicurezza, per i detenuti stessi, per i poliziotti penitenziari, ma anche per i cittadini. Firenze: Osapp; ieri rissa tra detenuti durante una partita di calcio al campo sportivo gonews.it, 21 giugno 2015 "Durante lo svolgimento di una partita di calcio al campo sportivo circa venti detenuti di etnia albanese hanno aggredito un detenuto magrebino. Solo l'immediato intervento del personale di polizia penitenziaria ha evitato conseguenze drammatiche in quanto gli addetti alla vigilanza sono riusciti a far rifugiare il detenuto magrebino all'interno del corpo di guardia. Purtroppo però i detenuti albanesi incuranti della presenza degli agenti che provavano a fare da scudo al detenuto vittima dell'aggressione hanno continuato nel loro intento". È quanto rende noto il sindacato di polizia penitenziaria Osapp. La rissa sarebbe avvenuta attorno alle 14 e 40 al campo sportivo del carcere fiorentino di Sollicciano. Sarebbe stato colpito anche un agente intervenuto in difesa dell'africano insieme ai colleghi, l'agente è stato portato al pronto soccorso. Il sindacato parla di "ennesimo evento critico all'interno" del carcere fiorentino, "a dimostrazione delle sempre più precarie condizioni di sicurezza nelle quali è costretto ad operare il personale di polizia penitenziaria". La situazione dentro il penitenziario "è diventata esplosiva a dimostrazione che, come denunciato ripetutamente dall'Osapp, sembra si sia persa di vista la sicurezza per dare spazio ad attività sempre più ricorrenti quali apericena, spettacoli e notti bianche, utili forse a buttare fumo negli occhi all'esterno cercando di far passare il messaggio che è tutto sotto controllo quando la realtà' quotidiana dimostra tutt'altro". Torino: Sappe; madre tenta di portare pastiglie di droga sintetica subutex ai figli detenuti Comunicato Sappe, 21 giugno 2015 Era entrata in carcere per fare il colloquio con i due figli detenuti, ma è stata sorpresa mente tentava di introdurre delle pastiglie di droga sintetica subutex. L'incauto tentativo non è sfuggito agli attenti controlli degli appartenenti alla Polizia Penitenziaria, che hanno fermato la donna, denunciata a piede libero. È accaduto ieri, venerdì, nel carcere di Torino e darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Donato Capece, segretario generale del Sappe, commenta: "Questo ennesimo rinvenimento di stupefacente destinato a detenuti, scoperto e sequestrato in tempo dall'alto livello di professionalità e attenzione dei Baschi Azzurri di Torino, a cui vanno le nostre attestazioni di stima e apprezzamento, evidenzia una volta di più come sia reale e costante il serio pericolo che vi sia chi tenti di introdurre illecitamente sostanze stupefacenti in carcere. Ogni giorno la Polizia Penitenziaria porta avanti una battaglia silenziosa per evitare che dentro le carceri italiane si diffonda uno spaccio sempre più capillare e drammatico, stante anche l'alto numero di tossicodipendenti tra i detenuti. L'hashish, la cocaina, l'eroina, la marijuana e il subutex - una droga sintetica che viene utilizzata anche presso il Sert per chi è in trattamento - sono quelle che più diffuse e sequestrate dai Baschi Azzurri. Ovvio che l'azione di contrasto, diffusione e consumo di droga in carcere vede l'impegno prezioso della Polizia penitenziaria, che per questo si avvale anche delle proprie Unità Cinofile. Questo fa comprendere come l'attività di intelligence e di controllo del carcere da parte della Polizia Penitenziaria diviene fondamentale. Questo deve convincere sempre più sull'importanza da dedicare all'aggiornamento professionale dei poliziotti penitenziari, come ad esempio le attività finalizzate a prevenire i tentativi di introduzione di droga in carcere, proprio in materia di contrasto all'uso ed al commercio di stupefacenti". Prato: Uil-Pa; porta hashish e cocaina al figlio in carcere, padre arrestato Il Tirreno, 21 giugno 2015 Il passaggio di un pacchetto durante il colloquio alla Dogaia non è sfuggito alla polizia penitenziaria, che ha bloccato l'uomo. Una volta si portavano arance o al massimo una lima nascosta nella torta. Ora i tempi sono cambiati e chi è in carcere chiede altro. Droga, nello specifico. E così il padre di un detenuto della Dogaia si è prestato a fare da corriere per la "consegna a domicilio" di hashish e cocaina, ma è stato visto dalla polizia penitenziaria e arrestato. L'episodio è accaduto mercoledì 17 ed è stato reso noto oggi, sabato 20 giugno, da Massimo Lavermicocca, segretario territoriale del sindacato Uil-Pa della polizia penitenziaria. Secondo quanto riferisce il sindacalista, un detenuto italiano di 33 anni, condannato per rapina e lesini personali, che finirà di scontare la sua pena il 20 gennaio 2022, è stato chiamato per un colloquio col padre di 58 anni. due si sono avvicinati e il padre gli ha passato velocemente un pacchetto. Il gesto non è sfuggito agli agenti della polizia penitenziaria, che hanno deciso di perquisire il detenuto e lo hanno trovato in possesso di 4,5 grammi di hashish e di un grammo di cocaina, che aveva nascosto nelle mutande. A questo punto è scattato l'arresto del padre. Gli agenti hanno perquisito anche l'auto dell'uomo, dove è stato trovato un altro grammo di cocaina, e la vettura è stata sequestrata. L'arrestato è comparso il giorno seguente davanti al giudice e ha patteggiato una condanna a un anno di reclusione. Alla Dogaia dicono che non è la prima volta che succede. Pisa: dal carcere alla maturità con l'istituto Ipsaar "Matteotti", la bella sfida di Simone di Renata Viola Il Tirreno, 21 giugno 2015 Un trentacinquenne detenuto al Don Bosco cerca il riscatto con la scuola L'Associazione Controluce: "Ha avuto risultati sempre migliori ogni anno". Prova di italiano nei giorni scorsi anche per Simone, trentacinquenne laziale, detenuto al carcere Don Bosco da sei anni, con una pena residua non lunghissima ancora da scontare. Dopo un percorso di studi durato cinque anni è stato ammesso alla maturità per l'indirizzo Economico Aziendale dell'istituto Ipsaar Matteotti. La sua media di ammissione ha rasentato l'otto. Dall'istituto è stata inviata al Don Bosco una commissione che ha aperto la busta con le tracce dei temi e il giorno successivo ha vigilato sulla prova di economia aziendale. Simone sosterrà la terza prova lunedì e gli esami orali il 30 giugno. "Forse neanche lui era convinto di poter arrivare in fondo quando ha iniziato - dice Luisa Prodi, presidente dell'Associazione Controluce, che si occupa del progetto della scuola in carcere - Eppure Simone ha conseguito risultati sempre migliori, anno dopo anno. I compagni di scuola del Don Bosco lo incoraggiano nell'impresa e i docenti lo supportano con affetto in queste giornate intense". La settimana scorsa in carcere si è svolta anche la consegna degli attestati relativi alla promozione per altri dieci studenti. Sei di loro sono stati promossi in seconda superiore, altri quattro in terza. "Ma il numero degli idonei potrebbe essere senza dubbio più elevato - sottolinea Prodi - La scuola paga il prezzo di essere una casa circondariale, i detenuti sono soggetti a continui e repentini trasferimenti. Altri due giovani che hanno frequentato l'anno scolastico e avrebbero certamente conseguito l'idoneità per la classe successiva sono stati trasferiti dieci giorni prima degli esami. Si sarebbe potuto aspettare, anche in ragione delle circolari ministeriali che prevedono una maggiore attenzione verso chi studia. Cosa c'è di più rieducativo dell'istruzione?". Controluce è nata alla fine degli anni Ottanta con lo scopo di promuovere il reinserimento sociale dei detenuti. "La scuola è solo una delle attività per favorire i processi di crescita delle persone recluse", aggiunge Luisa Prodi. Tuttavia può succedere che il titolo di studio conseguito non sia esattamente spendibile una volta fuori. La sua valenza è comunque elevata in termini di autostima e raggiungimento di un traguardo personale: "Per questo auspichiamo una maggiore connessione tra istruzione e formazione professionale in modo che il titolo di studio possa risultare spendibile e l'esperienza scolastica prepari al reinserimento sociale dei detenuti. Questo ovviamente non può dipendere da noi, ma dall'amministrazione del carcere, a cui è legata ogni scelta in termini progettuali". Reggio Calabria: domani il convegno "Carceri d'invenzione e spazi del corpo recluso" strettoweb.com, 21 giugno 2015 Il senatore Nico D'Ascola interverrà al convegno "Carceri d'invenzione e spazi del corpo recluso - tra Architettura e Diritto". All' incontro parteciperanno Attilio Gorassini, ordinario di diritto penale, che relazionerà sul tema "Spazio, corpo e diritto", Gianfranco Neri, ordinario di composizione architettonica "Carceri d'invenzione di Giovanni Battista Piranesi", Marco Pellisero, ordinario di diritto penale "Spazi e funzioni della pena", Annunziata Maria Oteri, ricercatrice di restauro "Una gabbia crudele e sapiente architetture carcerarie tra modelli e crisi", Nicola Selvaggi, ricercatore di diritto penale "Limitatezza di spazio con eccesso di tempo - la formula del carcere ed il principio di umanità della pena". Le conclusioni saranno affidate al senatore Nico D'Ascola, ordinario di diritto penale e componente della Commissione giustizia del Senato. Il convegno si svolgerà lunedì 22 giugno alle ore 11.30, presso l'aula magna della facoltà di Architettura di Reggio Calabria. Torino: Rugby e carcere; storia della Drôla, una fantastica "squadra di delinquenti" di Chiara Rizzo Tempi, 21 giugno 2015 Walter Rista è l'allenatore dei detenuti del carcere di Torino. Il piazzamento in campionato, gli antifurti sui pali, le porte da montare e smontare. "Il rugby insegna a rispettare le regole". Trenta uomini - cento e passa chili l'uno di pura massa muscolare - si sono inseguiti sul campo innevato, una maledetta domenica dopo l'altra. Si sono placcati in mezzo al fango. Sotto il sole cocente sono corsi verso la meta grondanti sudore con la palla ovale stretta in mano. Per questo i testimoni ricordano molto bene cosa è accaduto quando finalmente i 15 rugbisti della Drôla hanno conseguito la loro prima vittoria: "Mentre si recavano verso le docce, presi dall'esultanza si misero a fare una haka, la danza dei guerrieri maori resa nota dagli All Blacks, la nazionale neozelandese. I miei rugbisti, credetemi, fanno davvero paura se ci si mettono. Le loro voci, che in realtà erano solo piene di gioia, richiamarono subito l'attenzione e in men che non si dica si videro circondati da alcuni mitra. Gli agenti di polizia penitenziaria erano accorsi spaventati. Ma appena capirono che erano i ragazzi della Drôla, abbassarono le armi ridendo e si misero a festeggiare con loro". Così racconta a tempi.it l'unica persona per cui "i ragazzi della Drôla" abbiano un sacro timore reverenziale, il loro allenatore Walter Rista, una delle glorie della palla ovale italiana, membro della nazionale di rugby negli anni ‘60 e ‘70. La squadra che oggi Rista allena a tempo pieno è l'unica italiana composta esclusivamente da detenuti (quelli del carcere Lorusso - Cutugno di Torino) a giocare in un campionato, la serie C2 piemontese: "Siamo arrivati quarti, ad un punto dai terzi, su dodici partite, nove vinte e tre perse. Ma siamo partiti con una penalizzazione di 8 punti. Siamo infatti considerati alla stregua degli altri. E la Federazione del rugby obbliga ogni squadra ad avere le under 12 e 14. Perciò noi, non avendole per ovvi motivi, siamo stati penalizzati", racconta orgoglioso Rista. "Saremo noi i primi". L'allenatore la chiama "la mia squadra di delinquenti" e dei suoi ragazzi (23 in tutta la rosa) è tremendamente orgoglioso. "Io questa cosa qui avrei dovuto farla prima. Ma come per tutte le cose servivano gli ingredienti giusti, e la vita me li ha messi a disposizione solo ad un certo punto". Prosegue: "Anni fa, a Torino, conobbi uno psichiatra e diventammo molto amici. Lui lavorava per il carcere, e io gli confidavo spesso il mio sogno di poter fare qualcosa per i detenuti. Così un giorno lui prese il telefono, fece una chiamata e me lo passò: "Toh prendi, parlane con lui del tuo desiderio". Con lui chi?, gli chiesi. All'altro capo del telefono c'era Pietro Buffa, l'allora direttore del carcere le Vallette di Torino. Mi disse di andare da lui il giorno dopo. Mi chiese se qualcun altro avesse portato il rugby in carcere prima di me, se qualcuno cioè si fosse assunto questo rischio. Dissi di no, forse nemmeno nel resto del mondo. Mi rispose: "Ok, allora saremo noi i primi". Ha scommesso tutto anche lui sulla squadra". "La squadra è per sempre". Nel 2011 si sono giocate le prime partite. Da allora, la Drôla ha "giocato 120 match, 25 a campionato. Tutte in casa però e siamo gli unici. Siamo i soli anche a giocare in un campo di calcio dove dobbiamo montare e smontare le porte ogni volta. A fine partita, c'è sempre qualcuno che va a caricarsi i piloni in spalla, sotto la neve o la pioggia, e li riporta negli spogliatoi. D'altra parte, noi abbiamo pure gli antifurti sui pali da rugby, siamo gli unici al mondo pure in questo, perché evadere con i pali sarebbe facilissimo. Ma i miei giocatori nemmeno ci pensano". D'altra parte, spiega Rista, "il rugby è uno sport che insegna che per vincere bisogna rispettare delle regole. E nel rugby non c'è il solista, ma la squadra. Il leader è il pallone e tutti gli altri sono comprimari: ma la squadra unisce per sempre. Io lo dico sempre ai miei ragazzi: voi quando sarete fuori potrete fare tutto quel che volete. Oddio, nel vostro caso quasi. Ma questa squadra la porterete sempre con voi". Loro, i ragazzi della Drôla, al mister e alle regole rispondono con impegno e rispetto. Si allenano sei giorni su sette, tre in campo e due in palestra, almeno due ore al giorno. Non sgarrano di una virgola nel percorso deciso per loro dai magistrati. Chi fa parte della squadra (e le regole di selezione sono ferree: condanne per reati contro il patrimonio e non contro le persone, comunque mai superiori ai 15 anni, condotta in carcere non buona ma ottima) lo sa: se commetti una cavolata, sei subito fuori. Finora non è mai successo. "Se solo i politici capissero che con un lavoro la recidiva crolla del 70 per cento…." sospira sempre il mister. La marmellata. Secondo Rista c'è stata nella Drôla "una crescita fondamentale. Il primo campionato abbiamo giocato sette partite, e le abbiamo perse tutte. Avevamo della gente che veniva dal nulla più assoluto: anni in cella a non fare niente e non erano più capaci di correre, anzi quasi nemmeno di camminare. Ai primi dovevamo insegnare tutto. C'è stato sempre un bel turn over tra chi entrava e usciva dal carcere. Oggi tra quelli fuori, 16 dei miei ragazzi giocano tutti in squadre professionali di rugby. E uno di loro ha seguito le mie orme, ed è allenatore e ci aiuta per formare la Drôla junior, la nostra giovanile. In campo ho tre o quattro ragazzi che, se avessero cominciato a 15 anni, anziché a 28, sarebbero in serie A. In terza linea abbiamo un bosniaco, Vladimir, alto 1 metro e 93 per 107 chili di massa muscolare. Dovreste vedere i danni che fa: è un bulldozer. L'ultima partita di campionato giocavamo contro il Biella. Vladimir si è preso una testata sullo zigomo pazzesca, il medico mi dice di farlo rientrare. Perde sangue, ha un taglio nell'arcata sopraccigliare di sei centimetri. Lui implora di giocare, che da sé non vede la gravità della ferita e mi domanda se è profonda. "No non hai niente, solo un graffio", gli dico. Ha continuato fino alla fine, gli hanno dato poi otto punti, ma dovevate vedere con che soddisfazione ha concluso la partita". Rista sorride. Racconta che il nome Drôla in piemontese significa "faccia strana, cosa buffa". Poi aggiunge: "Il mio primo pensiero al mattino è come portare la marmellata ai miei ragazzi. In carcere non possono mangiarla, ma loro con gli allenamenti che fanno devono pur mangiar bene". Immigrazione: la guerra ai migranti è un suicidio per l'Europa di Alfonso Gianni Il Garantista, 21 giugno 2015 Su Repubblica di Venerdì la vignetta di Massimo Bucchi coglie ancora una volta nel segno. Vi sono disegnati dei muri, in ordine di altezza crescente negli ultimi anni. La didascalia dice "Ottimismo in Borsa per la crescita dei Muri". Certo non c'è alcuna relazione meccanica tra il moltiplicarsi dei muri e delle cortine di filo spinato e l'andamento delle Borse. Ma c'è tra rifiorire della speculazione finanziaria - malgrado i disastri della attuale crisi - e la crescita della insensibilità verso chi è più debole e bisognoso c'è una relazione inversa e tanto più significativa fra la fluidità e la rapidità inarrestabili dei movimenti di capitale e l'impossibilità per i profughi da fame, miseria, dittature, guerre di potere raggiungere un luogo sicuro. Chi l'avrebbe detto che dopo l'abbattimento festoso del muro di Berlino nel 1989, i muri si sarebbero moltiplicati? Le note di Bach, dalle suite per violoncello solo, suonate davanti a quelle storiche macerie da Mstislav Rostropovich accorso a Berlino l'11 novembre del 1989, sembravano avere posto fine alle divisioni, agli steccati, alla visione concentrazionaria del mondo. Pure illusioni. Chi costruisce muri o produce filo spinato, fa affari al giorno d'oggi. Mari e muri si ergono come barriere mortali contro i migranti. Da Ceuta a Melilla; da Tijuana al costruendo muro in Ungheria; dal muro costruito dagli israeliani per separarli dai palestinesi a quello tra India e Bangladesh; e altri ancora: sono 50 le barriere artificiali e ostili sparse in tutto il mondo. Circa 8mila chilometri hanno il compito di separare esseri umani e difendere i più ricchi dalla contaminazione con i più poveri. Alcuni sono grezzi, altri in mattoni, altri mettono in campo materiali più moderni, altri tornano al filo spinato dei campi di concentramento della seconda guerra mondiale. Non a caso Primo Levi scriveva, a conclusione della sua opera, che quello che voleva dire poteva essere riassunto nel fatto che ciò che è successo avrebbe potuto, per ciò stesso, succedere ancora. Pareva esagerato. Invece no. Certo tra i campi nazisti e le odierne barriere vi è ancora una non trascurabile differenza. Ma la strada è tracciata se non invertiamo la marcia. Papa Francesco ha fatto sentire la sua voce, potente e chiara. Nella sua ultima enciclica non si rivolge solo agli uomini dì buona volontà, come Giovanni XXIII nella "Pacem in terris", ma a "ogni persona che abita questo pianeta". Gli è toccata la risposta volgare di un qualunque Salvini. Pietà l'è morta? Come diceva una bella canzone partigiana? No, non ancora per fortuna. Lo dimostra la manifestazione di sabato 30 a Roma, e tante iniziative di solidarietà che hanno alleviato in qualche misura le pene dei profughi in questi giorni nelle stazioni delle grandi città o sugli scogli di Ventimiglia. Ma l'aiuto spontaneo può bastare? Ovviamente no. Il problema migratorio, date le cause di fondo che lo hanno generato che ci rimandano alla struttura del capitalismo globalizzato e finanziarizzato, è di lungo periodo. Uno degli elementi caratterizzanti dell'epoca attuale. Con il quale la politica, se ancora esiste, deve misurarsi. Bisogna sapere affrontarlo nel breve e nel più lungo periodo. L'Europa non lo fa. Anzi su questa questione rinascono i nazionalismi, si ringalluzziscono con forza le organizzazioni di destra, si riproducono i più meschini conflitti di frontiera. Invece ci sono delle cose che è possibile fare subito, come attivare un programma di ricerca e salvataggio in tutta l'area del Mediterraneo; evitare di pensare a interventi armati contro i paesi di provenienza; aprire canali umanitari e vie d'accesso al territorio europeo; sospendere il regolamento di Dublino che blocca i migranti nei paesi di primo arrivo; sospendere gli accordi di Rabat e di Khartoum che vorrebbero esternalizzare fino in Africa i confini europei; provvedere a piani di investimenti che favoriscano lo sviluppo dei paesi di provenienza, anziché vendere armamenti e fomentare guerre; favorire la rinegoziazione dei debiti pubblici di quei paesi, come del resto la Ue dovrebbe fare nei confronti della Grecia, anziché portarla irresponsabilmente sull'orlo del default. Non è vero che l'Italia non può accogliere migranti. Anzi. Dal punto di vista squisitamente numerico la situazione è tutt'altro che quella che le televisioni ci trasmettono e che è frutto dell'incapacità di governo del fenomeno. In una recente intervista al Sole 24 Ore il responsabile dell'accoglienza immigrati, Mario Morco-ne, ci fa capire che c'è un'agitazione spropositata e strumentale attorno al tema, fino a farlo diventare uno degli argomenti principali delle recenti campagne elettorali. "Ci sono oggi circa 90mila immigrati in accoglienza in tutta Italia - dice Morcone - è come dire che possiamo distribuire circa dieci stranieri per ognuno degli 8mila comuni del nostro Paese. L'impatto è senza dubbio sostenibile. Le cifre sono molto basse". Certo la politica, neppure quella dell'accoglienza, si può fare con l'aritmetica, ma questa considerazione smonta alla radice l'allarmismo gettato a piene mani da Salvini a da Grillo. E poi, è proprio vero che gli immigrati sono un peso e non una risorsa per il nostro paese? Il nostro è un paese che invecchia - ci avverte l'Istat; la crescita demografica è sotto zero; il movimento naturale della popolazione, cioè il saldo tra nascite e decessi, ha fatto registrare nel 2014 un computo negativo di quasi 100mila unità, come non succedeva dagli ultimi due anni dalla "Grande Guerra" del 15-18; gli arrivi dall'estero hanno a mala pena compensato questo calo. Nessuno sogna una famiglia con sei figli, come al tempo del Duce, ma una società che solamente invecchia e non partorisce non ha un grande futuro. Quindi le politiche di accoglienza dei flussi migratori dovrebbero fare parte non dell'emergenza negativa, ma delle nuove politiche di un nuovo modello di sviluppo per un paese europeo, e in particolare per il nostro paese. Questo chiama in causa le responsabilità della Uè e del governo Renzi. L'Europa pensata a Ventotene è sepolta dalle politiche di austerity e dalle concezioni del Vecchio Continente come fortezza. Mentre scorrono le immagini delle forze dell'ordine che trascinano chissà dove i pacifici corpi dei migranti, si sta consumando il dramma greco. Sia verso l'esterno che al proprio interno le attuali politiche della Ue non reggono e rischiano di fare implodere il continente. L'intransigenza del Fmi e delle élite europee nei confronti della Grecia sono tipiche di chi si vuole perdere. Ha ragione Jeffrey Sachs, un economista americano, che ha recentemente avvertito che "Il governo greco ha ragione ad avere tracciato un limite invalicabile. Ha una precisa responsabilità nei confronti dei suoi cittadini. La vera scelta, dopo tutto, non spetta alla Grecia, bensì all'Europa" Quel limite invalicabile riguarda le pensioni, con cui gli anziani vengono in aiuto ai giovani, visto l'inesistenza, come in Italia, di qualunque forma di reddito minimo garantito, e i contratti collettivi nazionali dì lavoro. Limiti di civiltà, di cui una volta il nostro continente andava fiero, ma che il cinismo del neoliberismo nella sue versione peggiore ha distolto dalla mente dei governanti europei. Immigrazione: l'appello di Mattarella "l'Unione europea faccia di più" di Mariolina Iossa Corriere della Sera, 21 giugno 2015 Il Colle: Renzi e Grasso contro il trattato di Dublino. Lite tra Lega e Boldrini. Corteo di protesta dei no global a Ventimiglia. "L'Italia continuerà a fare quanto necessario per assicurare a chi chiede asilo un trattamento rispettoso dei diritti fondamentali e della dignità umana", dice il capo dello Stato, Sergio Mattarella, nella Giornata mondiale del Rifugiato. Ma auspica allo stesso tempo un "crescente contributo dell'Unione Europea e della comunità internazionale". Perché il nostro Paese, assicura il presidente della Repubblica, "sente alto e forte il dovere di solidarietà nei confronti di chi giunge qui coltivando l'ispirazione e la speranza verso una vita più sicura e un avvenire per sé e i propri figli", ma bisogna fare sforzi comuni per sensibilizzare "l'opinione pubblica e le classi dirigenti sul dramma di chi vive quotidianamente gli orrori della guerra, la tragedia delle persecuzioni, la miseria e le migrazioni forzate". Si apre una settimana importante a Bruxelles su questi temi, con l'incontro del 25-26 tra i capi di Stato e di governo: la discussione torna su redistribuzione e quote dei migranti. Non ci sarà una firma, l'accordo definitivo slitterà ancora, ma il governo italiano insiste. Matteo Renzi conferma le parole del capo dello Stato. L'emergenza rifugiati, dice, "è un problema di portata storica", che si risolve solo "con una strategia di lungo respiro: cooperazione internazionale, accordi con Paesi africani, pace in Libia, lotta contro gli scafisti-schiavisti, procedure diverse per l'asilo politico, solidarietà europea a livello economico e di accoglienza". "Basta paure - aggiunge. Occorrono soluzioni rapide e concrete. Le regole europee sembrano scritte (Dublino II) contro gli interessi del nostro Paese che allora, incomprensibilmente, le appoggiò. Stiamo scrivendo una pagina di civiltà in mezzo a tanta demagogia". Ma "non si può fare tutto da soli". E il presidente del Senato Pietro Grasso: "Il trattato di Dublino non va più bene". Oggi all'Expo a Milano ci sarà il presidente francese Francois Hollande, Renzi parlerà con lui anche di questi temi ma già ieri l'ammorbidirsi della posizione francese ha di fatto "svuotato" Ventimiglia, dove alla stazione in serata erano rimasti una cinquantina di migranti. Il corteo dei no global si è svolto per tutto il giorno senza incidenti. Si riaccende, invece, lo scontro politico Salvini-Boldrini. La presidente della Camera, secondo il leader della Lega "deve essere ricoverata" perché da Firenze, con numeri alla mano, ha negato che in questo momento ci sia un'emergenza immigrazione. Per la Boldrini la cosa importante è organizzare un'"accoglienza strutturata". Molti migranti approdano da noi, poi scelgono altri Paesi. Salvini contrattacca: "In Italia non c'è spazio per tutti". E la presidente replica: "È mia abitudine occuparmi delle questioni e collaborare alle soluzioni. Le polemiche le lascio a chi le fa". Critiche al governo da Gasparri e La Russa ma anche tante voci di solidarietà. "La gente disperata va accolta, in Italia e in Europa", ha detto lo stilista Giorgio Armani. Per don Ciotti "le tragedie dell'immigrazione nascono da un naufragio delle coscienze", mentre per il segretario della Cgil Susanna Camusso è grave che in Ungheria si pensi ad "alzare muri". Immigrazione: a Ventimiglia la spunta la solidarietà di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 21 giugno 2015 Il confine della realtà. Da sette giorni abbandonati sugli scogli. Il governo francese non cede. Ma centinaia di persone "rompono" il blocco. Alla frontiera italo-francese corteo a sostegno della battaglia dei migranti, ormai distrutti dalla stanchezza. Il via vai di cittadini comuni che portano aiuti alimentari e vestiario. "Les miserables" del XXI secolo, che la Francia rifiuta e l'Italia non tollera, sono buttati sotto colorati tendoni di plastica, intorpiditi dal caldo, dal digiuno del Ramadan, dal vento, dalla pioggia, e dal nulla. Passa un cabriolet lungo la Aurelia, si sporge un braccio, il tempo di fare una foto al volo con lo smart-phone e poi via, verso la costa, le spiagge, il mare, un fresco gelato. Loro, i migranti, in buona parte non sanno neanche in quale parte del globo terracqueo sono posizionati: ripetono nomi di paesi lontani, Svezia, Germania, Danimarca, Austria, e così ci si domanda quale alchimia abbia portato questi esseri umani sugli scogli della Costa Azzurra, a un passo dal centro colorato di Mentone e dal suo bel porticciolo ricco di yacht. L'inutile Francia e gli scogli di Ventimiglia altro non sono che tappe del viaggio all'inferno, partito da chissà dove. Molti sono Sudanesi, poi Libici e Eritrei. Non sono arrabbiati, sono passivi, intorpiditi. Per questo ieri non hanno partecipato al corteo che si è sviluppato per le vie di Ventimiglia. Un serpentone composto da circa cinquecento persone arrivate da tutta Italia, che hanno manifestato solidarietà umana e politica senza alcun disordine. Un lungo striscione con la scritta "siamo tutti cittadini del mondo, no alle frontiere" apriva la manifestazione, in cui si poteva notare la presenza dei migranti torinesi che da tempo occupano alcune palazzine olimpiche abbandonate da alcuni anni. Il movimento Notav era presente con circa cento persone, partite all'alba dalla Val Susa. Un viaggio complicato il loro, più volte fermato lungo il suo percorso per controlli di polizia. Ma loro, i migranti non c'erano, se non in numero esiguo. Catatonici, disfatti dalla stanchezza, per loro il campo profughi italo francese dove sono buttati altro non è che una tappa del supplizio iniziato dalle loro case distrutte dalla guerra, e proseguito su un barcone e perigliosamente non affondato. Ventimiglia è solo una tappa prevista. Il governo di Hollande ha deciso che i migranti devono rimanere lì, non possono entrare, e probabilmente devono essere un esempio: il vostro inferno continuerà anche quando poserete il piede nella terra promessa del diritto, l'Europa. Gli uomini abbandonati al loro destino, gettati sugli scogli arroventati dal sole, battuti dal vento e dalla pioggia, devono essere l'anatema feroce che il mondo ricco spedisce al mondo povero: non osate partire, questa sarà la vostra fine. Non c'è pietà da queste parti, se non quella di chi porta un sacchetto di biscotti e un ombrellone. E le molte troupe televisive provenienti da ogni parte del mondo, una presenza smaccatamente sovradimensionata rispetto l'esiguità dei migranti presenti, rimbalzano questo messaggio ovunque. Apparentemente il numero complessivo dei migranti è però sceso. Ma risulta improbabile che la Francia abbia allentato la sua politica ferma sulla barra dei respingimenti. Secondo la Croce Rossa il numero di "rientri" in Italia è passato da cinquanta di giovedì a centocinquanta di venerdì. I migranti sembrano partire autonomamente alla ricerca di varchi. Un gruppo si è mosso alla volta di Milano per poi provare a passare il confine Svizzero. Altri starebbero tentando in questo ore di percorrere quelli che erano i passi transfrontalieri presenti nell'entroterra ligure, utilizzati fino agli Settanta. L'Europa dei nazionalismi sembrava cavalcare il tempo al contrario. Se gruppi di uomini e donne avessero scelto per una soluzione così difficile, probabilmente dovrebbero raggiungere il "Passo della morte", che gli ex passeur di Ventimiglia definiscono così: "Un luogo pericolosissimo, tutto un burrone. Speriamo che nessuno stia facendo questo". Eppure qualcuno pare essersi mosso in questa direzione. In questo inferno qualche raggio di speranza, però, erompe. Contro la retorica del migrante sporco, malato e invasore un folto gruppo di persone termina il suo pellegrinaggio laico alla tenda della Croce Rossa francese. Portano acqua, coperte, ombrelloni, scarpe, croissant, baguette, bagno schiuma e tutto ciò che serve per rendere meno doloroso il soggiorno in Costa Azzurra dei migranti che scappano dalle devastazioni dei loro paesi. I "buoni", anzi i "buonisti" per utilizzare il termine più disprezzato dei tempi recenti, arrivano da tutta Italia con i loro borsoni di tela. Da Torino l'Assemblea che occupa la Cavallerizza Reale, un sito patrimonio Unesco messo in vendita dal Comune, ha portato un furgone di generi alimentari e coperte, e la prossima settimana un altro partirà. Idem da Milano, da Genova e dal Veneto. Sotto la piccola tenda, il cibo e l'acqua sono disposti ordinatamente e appaiono sufficienti ma non abbondanti. Da quel punto si dipana lungo il marciapiede un serpentone di vestiti, scarpe, coperte e altro, tutto messo a disposizione per chi viene buttato fuori dai francesi. Ma sono i singoli cittadini quelli che appaiono i più convinti del loro gesto solitario. Un atto indispensabile per la giovane volontaria francese della Croce rossa che presidia il tesoro dei profughi: "Senza queste persone, che a casa loro riempiono i sacchi della spesa e portano qua di tutto, i migranti non ce la farebbero". E infatti il via vai di piccole utilitarie che si fermano e scaricano pacchi e sacchetti è costante, molti dalla Francia, alcuni dall'Italia. Ma, ogni dieci persone che si schierano dalla parte della civiltà, cento rimangono fermi a guardare lo spettacolo disumano dei migranti abbandonati sugli scogli. Immigrazione: il nuovo millennio dei muri di Piergiorgio Pescali Il Manifesto, 21 giugno 2015 XXI° secolo. Nel 1989 nel mondo erano circa 15, ora il numero è più che triplicato. I muri che Bulgaria e Turchia e ora l'Ungheria, stanno costruendo per ostacolare l'immigrazione sono solo gli ultimi esempi di un mondo sempre più frazionato e diviso. La caduta del Muro di Berlino fu festeggiata dal mondo Occidentale e dall'Est Europeo come uno dei passi più importanti per la conquista della pace nel mondo. Nazioni e popoli retti da sistemi politici ed economici antagonisti si ritrovarono improvvisamente accomunati in un'unica terra, da Lisbona a Mosca. Ci volle però poco per accorgersi che la divisione tra capitalismo e socialismo era solo una delle tante sezioni in cui era spezzettato il mondo. Nel corso dei cinque decenni che trascorsero tra la caduta del Terzo Reich e l'abbattimento del Berliner Mauer, altre barriere furono costruite ed altre ancora ne sono state erette. Così se nel 1989 esistevano al mondo una quindicina di sbarramenti fisici, oggi ve ne sono più del triplo. All'ultimo retaggio della Guerra Fredda, il muro che divide le due Coree, se ne sono aggiunti di più paradossali. Come definire altrimenti i muri esistenti all'interno della Comunità Europea che impediscono ai suoi cittadini la libera circolazione nei loro stessi stati o addirittura nelle loro stesse città? Si pensi solo al muro anti-Rom eretto nel 2014 a Kosice in Slovacchia. La Linea Verde di Cipro e il Muro della Pace di Belfast sono i più celebrati dai media, ma ne esiste uno anche tra Spagna e Gibilterra. E poi c'è il lascito della guerra Nato del 1999 nei Balcani, un muro di cavalli di Frisia su un ponte sul fiume Ibar che divide il Kosovo proclamatosi indipendente dall'enclave serba di Mitrovica (e dalla Serbia). E non è la sola riedizione di "guerra fredda": l'esplosione della crisi ucraina vede ora il governo di Kiev erigere un vallo con annessa barriera sulla frontiera con la Russia È interessante notare che l'erezione di queste nuove divisioni sta seguendo la traslazione del fulcro economico mondiale dall'Europa all'Asia, dove si concentra la maggioranza delle barriere. Ai muri tra India e Pakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakhstan, Arabia Saudita e Iraq, a breve si aggiungeranno quelli che divideranno il Pakistan dall'Iran e dall'Afghanistan, mentre la Russia ha in progetto la costruzione di un muro con la Cecenia per fronteggiare l'impeto indipendentista e jihadista. La guerra civile siriana ha visto nascere numerose palizzate che dividono città in piccole zone religiose. È il caso del muro che separa i quartieri di Bab Amr e al-Inshàat ad Homs. E se alcuni di questi muri sono stati oggetto di reportage e di cronache da parte dei media o di proteste dei movimenti d'opinione che spesso non hanno modificato di una virgola la realtà della prepotenza sul campo - il Muro di Sharon, eretto a "scopo di sicurezza" da Israele e in realtà utile a dividere in due le terre della Palestina occupata e a negare la possibilità di uno Stato palestinese -, altri invece sono passati inosservati. Come il cosiddetto Muro dei Rohingya che il Myanmar sta costruendo al confine con il Bangladesh per impedire ai musulmani Rohingya di "invadere" il paese e preservare lo spirito buddista o, per lo stesso motivo religioso, il progetto della costruzione di un muro che dividerà la Malesia musulmana dalla Tailandia buddista. Più tristemente famosa è la barriera di sassi, sabbia, reti metalliche costruita dal Marocco lungo i 2.700 km di frontiera tra il Sahara Occidentale e gli stati di Mauritania e Algeria per fronteggiare eventuali attacchi Sahawari, la cui nazione (266.000 kmq) dal 1975 è occupata dall'esercito di Rabat nonostante l'Onu insista perché ai 500.000 abitanti venga concesso il diritto di scegliersi il loro destino. Col tempo le recinzioni hanno cambiato anche la loro funzione. Se, fino alla fine del XX Secolo avevano in maggioranza un carattere prettamente politico e antiterroristico, al passaggio del millennio si sono moltiplicati i muri anti-immigrazione. I primi sbarramenti costruiti a tale scopo sono stati piantati nel 1975 dal Sud Africa dell'apartheid al confine con il Mozambico. Nel 1998 è stata la Spagna a erigere le note palizzate che separano le enclavi di Ceuta e Melilla dal Marocco, mentre dal 2002 gli Stati Uniti continuano ad allungare la serie di sbarramenti al confine con il Messico, che oggi hanno raggiunto l'incredibile lunghezza complessiva di 560 chilometri. Anche la Cina, preoccupata per una sempre più massiccia immigrazione clandestina di nordcoreani, dal 2006 ha in fase di costruzione una serie di sbarramenti con la Corea del Nord. La maggiore facilità di movimento oggi esistente all'interno della Repubblica Democratica di Corea ha intensificato l'afflusso di coreani verso le regioni di confine creando non pochi problemi alle autorità di Pechino. Il boom economico dei piccoli paesi del Golfo Persico ha indotto Emirati Arabi ed Oman a separare i loro confini per evitare la porosità degli stessi e impedire l'osmosi di immigrati asiatici tra le due nazioni. Così è stato tra Arabia Saudita e Yemen; Turkmenistan ed Uzbekistan; Brunei e Malesia; Botswana e Zimbabwe; Israele ed Egitto, Grecia e Turchia. Ma il record assoluto spetta all'India, paese che, pur continuando a recitare il ruolo di patria del pacifismo gandhiano, sta circondando l'intero Bangladesh di una serie di reticolati di filo spinato e cemento che, una volta ultimati, raggiungeranno la lunghezza di 3.200 chilometri ed isoleranno i 155 milioni di bangladesi dal resto del continente. Una terza tipologia di pareti divisorie tra stati sono quelle che vengono costruite ufficialmente per fronteggiare catastrofi naturali. Ne sono un esempio i muri costruiti dall'Arabia Saudita al confine con l'Oman, gli Emirati Arabi, il Qatar e la Giordania, o quello tra Zimbabwe e Zambia e Sud Africa e Zimbabwe. Israele sta progettando di innalzare una palizzata lungo il confine meridionale con la Giordania che, se realizzata, isolerebbe completamente lo stato di Tel Aviv dalle nazioni confinanti. Caratteristica comune di questi nuovi steccati costruiti "per difese naturali" è che sono prolungamenti di barriere già esistenti rendendo, di conseguenza, difficile separare l'effettiva utilità preventiva nei confronti di cataclismi, da quelle prettamente politiche o sociali. Nell'ottica di chi li costruisce i muri dovrebbero garantire un senso di sicurezza alla comunità tenendo lontani i pericoli (umani o naturali che siano) contro cui sono stati eretti, ma a lungo andare l'autoisolamento rende la comunità più debole e insicura perché un muro, per qualunque motivo venga costruito, impedisce di vedere al di là del proprio orticello. Droghe: quei pericoli (trascurati) delle vecchie e nuove sostanze di Luigi Ripamonti Corriere della Sera, 21 giugno 2015 L'ecstasy circola ancora, eccome. Come continuano a prosperare, più potenti di prima le "vecchie" droghe, come eroina, cocaina e cannabis. Ma gli spacciatori sono al passo con i tempi e seducono sempre di più i ragazzi dando nomi "simpatici" rassicuranti o divertenti alle nuove droghe: Spice, Meow Meow, Yellow Submarine, Facebook. Una lista infinita, perché si rinnova ogni giorno, grazie al costo sempre più basso di ingredienti che vengono mischiati nei modi più svariati. Peccato che queste pasticche, incensi, fumi, liquidi di simpatico abbiano proprio solo il nome. A scorrere i possibili danni a breve e a lungo termine che possono procurare vengono i brividi. Brividi che, però, evidentemente, non vengono a ragazzi, vittime di un mercato che, da una parte stabilisce i prezzi "a misura di paghetta" per allargare il proprio bacino d'utenza e dall'altra usa i suoi clienti come cavie inconsapevoli di continue sperimentazioni. Ma se non sorprende che i giovanissimi non siano toccati più di tanto dal richiamo al rischio, specie se non immediato, colpisce invece il numero significativo anche di adulti che finiscono in Pronto Soccorso per abuso di sostanze prese spesso per rendere di più sul lavoro. Una situazione disarmante, anche per i medici, che spesso non possono nemmeno aiutare in modo specifico gli "intossicati" perché non sono in grado di stabilire che cosa abbiano preso. Proprio questo è il concetto chiave che ci ha ispirato nello scegliere il titolo-Hashtag delle pagine di Corriere Salute di oggi: "#nonsaidichetifai". Un richiamo che vuole essere non moralista, bensì oggettivo. Perché è proprio questo uno dei punti nodali del problema: oggi chi assume droga non può sapere che cosa si sta "calando, e forse non lo sa neanche chi gli ha procurato la dose. E ciò avviene in un contesto contrassegnato da un altro cambiamento rispetto al passato, cioè l'assenza di stigma sociale nei confronti di chi assume stupefacenti, che, comunque lo si voglia valutare, rappresentava un deterrente verso il consumo di droga. Di fronte a questo panorama preoccupante, in occasione della giornata mondiale contro il consumo e il traffico di droga, che si celebrerà il 26 giugno, abbiamo pensato non solo di dedicare uno spazio speciale al tema sul giornale di oggi, ma anche di lanciare, proprio con l'hashtag #nonsaidichetifai, una campagna "social" che, insieme ad altre iniziative multimediali, partirà da domani su Corriere.it. Sperando di rendere più consapevoli giovani (e meno giovani) di quali pericoli corrono e di quale lucroso gioco al massacro siano pedine. Droghe: 7.500 operatori nei Ser.D., così funziona la rete per la cura delle dipendenze di Ruggiero Corcella Corriere della Sera, 21 giugno 2015 L'offerta dei Servizi pubblici e delle comunità terapeutiche. Dalle équipe multidisciplinari al reinserimento sociale e lavorativo. Comunque ci si arrivi, ogni anno i 550 Servizi pubblici per le dipendenze (i Ser.D., più un migliaio di comunità terapeutiche, del privato-sociale) sono la scialuppa di salvataggio per 300 mila italiani con problemi di dipendenza in generale. Oltre 200mila di questi sono alle prese con patologie legate alle droghe, eroina soprattutto (vedi grafico, ndr) ma anche cocaina, cannabinoidi, altre droghe stimolanti e psichedeliche. Per aiutarli sono schierati 7.500 operatori dei Servizi per le dipendenze fra medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, educatori e personale amministrativo. Circa 6 mila, invece, gli addetti delle comunità terapeutiche. Come si arriva ai Servizi? La prima cosa da sapere è che sono gratuiti (non si paga il ticket), non c'è bisogno di impegnativa del medico curante e si può chiedere di mantenere l'anonimato. "Circa metà delle persone arriva spontaneamente, cioè tramite il tam tam o perché si sono informate loro stesse o i loro familiari - spiega Alfio Lucchini, past president di FederserD (Federazione italiana degli operatori dei dipartimenti e dei servizi delle dipendenze). Una quota arriva tramite i servizi sociali, i medici di medicina generale, le prefetture, la giustizia e le forze dell'ordine". La decisione di iniziare la terapia è comunque una scelta fortemente personale. Lo afferma il 95% degli intervistati, nell'ultima indagine condotta da FederserD assieme ad Eurisko su un campione di 378 pazienti e 100 medici dei Servizi. La ricerca ha anche sondato i motivi della decisione di curarsi. In primo luogo è la preoccupazione per la propria salute, poi (nel 53% dei casi) perché prevale il desiderio di normalità, la voglia di cambiare il giro delle amicizie, di prendersi più cura della propria famiglia, di lavorare di nuovo, di tornare ad avere una vita normale. Una volta stabilito il contatto con i Servizi, c'è una fase di accoglienza in cui si danno al paziente le informazioni sul servizio e sul suo funzionamento, oltre alle spiegazioni sul consenso informato e sulla privacy. "A meno che non ci siano situazioni di urgenza per cui bisogna intervenire immediatamente, tendenzialmente da quando una persona prende contatto con un Servizio ai primi colloqui passa una decina di giorni" dice Lucchini. Segue una visita medica, con la prescrizione di una serie di esami: quelli delle urine o, ormai molto diffuso, l'esame del capello che permette anche di capire tutta la "storia tossicologica" dell'ultimo anno della persona. Vengono chiesti anche gli esami del sangue, per accertare l'eventuale presenza di infezioni da Hiv (Aids) o da Hcv (epatite C). Il paziente incontra poi uno psicologo e un assistente sociale per valutare in modo più approfondito anche altre necessità legate alla vita quotidiana. "A questo punto - continua Lucchini - viene proposto un trattamento che dipende dalla diagnosi di gravità, dalle sostanze e dalle possibilità riabilitative che una persona ha. Tutto questo viene fatto individualmente. Il coinvolgimento della famiglia può avvenire in una fase successiva e sempre con il consenso dell'interessato". I trattamenti possono essere farmacologici, per gli oppiacei (metadone, buprenorfina, naltrexone). In caso di dipendenza da cocaina, cannabinoidi e altre sostanze si tengono invece monitorati gli effetti come l'ansia, la depressione e altri disturbi. Di solito alla cura farmacologica si associa la psicoterapia con i suoi diversi approcci, tra cui quello cognitivo - comportamentale è il più accreditato. Si lavora molto in gruppo e questo porta ad un'attività di utile confronto tra i pazienti. I Servizi offrono anche programmi di counseling con l'obbiettivo di mettere la persona in grado di prendere decisioni per lei importanti. "Nel 10-15% dei casi, viene anche proposta una comunità terapeutica - dice Alfio Lucchini. Abbiamo comunità basate ancora sul lavoro, dove di solito vengono indirizzati pazienti con maggiori problematiche e minori risorse personali. E poi esistono comunità sempre più specifiche: per la cocaina; la poli-dipendenza, con percorsi che vanno da 6 a 18 mesi , ad alta intensità psicoterapica; quelle madre-bambino, e a doppia diagnosi, perché purtroppo una quota di pazienti presenta anche un disturbo psichiatrico grave". "Tutto questo, però, deve essere compreso in un quadro di reinserimento lavorativo e sociale" sottolinea l'esperto. In questo senso, la possibilità di affidare il farmaco sostitutivo direttamente al paziente, che così può assumerlo a casa, senza dovere andare tutti i giorni al Ser.D., ha consentito a molti di non perdere il lavoro. Certo le ricadute vanno messe in conto, purché non si tratti di droghe "maggiori". Ma si possono superare. "Più del 50-60% delle persone in cura si può considerare tornato a una vita normale e il 70-80% ha avuto miglioramenti fondamentali" conclude Lucchini. I criteri per capire se l'intervento è efficace Quali sono gli strumenti a disposizione per capire se un percorso di cura sta ottenendo buoni risultati ed è efficace? "Certamente il fatto che la persona non usi le sostanze è abbastanza rilevante, tenendo conto che qualche ricaduta però può avvenire, purché non nelle droghe più pericolose" spiega Alfio Lucchini, dell'esecutivo di FederserD. Un altro parametro importante è la capacità del paziente di mantenere rapporti sociali e relazioni soddisfacenti, per lo meno rispetto alla situazione di partenza. Bisogna poi verificare come la persona in cura si comporta in famiglia e con i figli, soprattutto se minorenni. Anche la capacità di mantenere un lavoro è considerato un buon criterio di valutazione. "Ogni anno - aggiunge Lucchini - abbiamo un turnover di utenti superiore al 30-35%, che parte dal 17-18% per chi consuma eroina a quasi il 50% per gli alcolisti o per i consumatori di cocaina. Questo è legato al fatto che per l'eroina ci sono trattamenti più efficaci rispetto ad altre sostanze". Spagna: la madre dell'italiano in carcere per tentato omicidio "aiutatemi a salvare Cristian" di Maria Grazia Piccaluga La Provincia Pavese, 21 giugno 2015 Da venti giorni Cristian Grosso, 33 anni, di Pavia, è in carcere a Las Palmas, nell'isola di Gran Canaria. È accusato di tentato omicidio per aver ferito un giovane spagnolo, durante una lite scoppiata all'interno di un locale. Da venti giorni la mamma, Giovanna Ghigliani, non ha notizie di suo figlio. Non è riuscita a parlare con lui e nemmeno con l'avvocato d'ufficio che gli hanno assegnato. Ma soprattutto non ha i soldi per pagarsi il viaggio. Così, dopo averci rimuginato su per alcune notti, ha deciso di lanciare un appello. E l'ha postato anche su Facebook. "Sono disperata, non ho i mezzi per raggiungere Cristian a Las Palmas - si sfoga la donna - Non mi vergogno ad ammetterlo. Faccio le pulizie, non guadagna abbastanza per pagarmi il biglietto aereo. E ho un bambino di otto anni con gravi problemi di salute. Tutte le mie risorse sono destinate a lui, alle cure e all'acquisto dei farmaci. Mi resta ben poco. Ma non posso abbandonare Cristian". Gli amici di Cristian, che è cresciuto in Borgo, gli amici si stanno mobilitando per raccogliere fondi. L'associazione Amo Sport organizza per il 28 giugno una gara di pesca alla lanca di Travacò. "E anche al bar Battibecco di via dei Mille hanno avviato una colletta" dice la mamma riconoscente. Cristian Grosso era di casa nei locali del Borgo. Poi ha deciso di lasciare Pavia per cercare lavoro all'estero. Prima a Lanzarote poi, circa un anno, a Las Palmas. Lavora in un locale dove cucina e fa il barman. "La sera del 29 maggio Cristian è uscito insieme alla fidanzata di sempre e a una coppia di amici - racconta la mamma che ha cercato di ricostruire quello che è accaduto dalle parole della fidanzata rimasta sull'isola. Erano in un locale vip del capoluogo per festeggiare il suo compleanno che era il 31 maggio. Seduti al tavolo accanto al loro un gruppo di ragazzi spagnoli avrebbe rivolto alla ragazza di Cristian apprezzamenti non graditi. Poi alcuni di loro si sono anche avvicinati e la ragazza, spinta alle spalle, è caduta. A quel punto il giovane pavese è intervenuto. "Mi dicono che avrebbe intimato a uno del gruppo di uscire per regolare i conti perché lui non accetta che si tocchi la famiglia - dice la mamma. Ma contro di lui si sono scagliati in tanti, l'hanno buttato a terra, lo stavano soffocando". Nel parapiglia è spuntato un coltello. Uno dei giovani spagnoli è rimasto ferito gravemente a una gamba. Anche Cristian ha riportato lesioni e contusioni ma la polizia del posto ha ritenuto il giovane pavese responsabile del ferimento e dell'aggressione. È stato arrestato e portato in cella, nel carcere di Las Palmas. Il giovane spagnolo ferito è rimasto ricoverato in ospedale per una settimana e la magistratura ha formulato nei confronti di Cristian Grosso un'accusa di tentato omicidio. "Gli è stato assegnato un avvocato d'ufficio che però si è presentato da lui solo quindici giorni dopo l'arresto - racconta Giovanna Ghigliani - . Io non parlo spagnolo, fatico a capirlo. Vorrei partire per incontrare mio figlio almeno una volta ma dovrei portare anche il più piccolo di otto anni che, per motivi di salute, non può essere lasciato a casa o affidato ad altri. Segue una terapia particolare, prende farmaci solo se glieli somministro io. Ma i soldi per due biglietti andata e ritorno non li ho. E l'avvocato, solo per accettare l'incarico, ha chiesto 2.700 euro di parcella". Cristian mi ha telefonato, è spaventato "Cristian mi ha telefonato dal carcere, solo cinque minuti. Ma a me sono bastati". Giovanna Ghigliani, la mamma di Cristian Grosso - il trentaduenne arrestato il 29 maggio a Gran Canaria per tentato omicidio - ha trascorso la notte insonne pensando e ripensando alle parole del figlio che giovedì sera ha ottenuto il permesso di chiamare a casa in Italia. "Aveva la voce di un bambino piccolo - spiega la donna - Era spaventato. Ha chiesto scusa a tutti, al fratellino a cui è legatissimo. E ha detto di voler tornare a casa per cambiare vita. Sa di aver sbagliato". Ieri in carcere ha incontrato due avvocati che sono subentrati al legale assegnato d'ufficio. "Hanno accettato l'incarico dopo che la compagna di Cristian li ha rassicurati sul fatto che la famiglia si sta attivando per raccogliere i soldi per sostenere le spese legali - dice la madre del giovane -. Ci vogliono almeno tremila euro per cominciare ma la questione potrebbe essere lunga e complessa. Mio figlio è accusato di tentato omicidio, un'accusa grave". Sul conto corrente che la mamma ha indicato sulla pagina Facebook "Aiutiamo Cristian" sono stati depositati quasi mille euro. "Ringrazio di cuore tutte le persone che ci stanno aiutando - dice -. Spedirò subito questi soldi ai legali per rassicurarli sulla nostra serietà". Nel frattempo oltre all'associazione Amo Sport che ha organizzato per il 28 giugno una gara di pesca benefica, anche il bar Room46 di via dei Mille, ex bar Battibecco, ha avviato una colletta. E gli amici di Cristian, che è cresciuto e ha vissuto a lungo in Borgo, stanno cercando un campetto per disputare una partita di calcio benefica. Nei prossimi giorni anche il console italiano potrebbe far visita a Cristian Grosso nel carcere di Las Palmas. "Ci siamo sentiti all'inizio della settimana - spiega la mamma - e aveva garantito il suo interessamento ma ha avuto impegni non rinviabili e ha assicurato che ci andrà nei prossimi giorni. Nel frattempo ho ricevuto una telefonata anche da parte del senatore Luis Orellana che mi ha garantito il suo appoggio presso la Farnesina". Cristian Grosso è accusato di tentato omicidio per aver colpito con un coltello, intaccando l'arteria femorale, un giovane spagnolo di 27 anni nel corso di una rissa scoppiata fuori da un locale di Las Palmas, nella zona di Triana. Il giovane ferito era stato soccorso tempestivamente da alcuni avventori del locale, un medico e un infermiere, che hanno tamponato l'emorragia prima dell'arrivo dell'ambulanza. E sulla scorta delle testimonianze la Policia Nacional aveva arrestato subito dopo Cristian Grosso. Venezuela: l'opposizione torna in piazza, solidarietà ai detenuti politici Ansa, 21 giugno 2015 L'opposizione torna a manifestare in Venezuela, per chiedere la scarcerazione dei detenuti politici, e in particolare di un leader dell'opposizione, Leopoldo Lopez, che insieme ad altri detenuti è in sciopero della fame. È in carcere da quindici mesi, per aver organizzato una serie di violente proteste anti-governative. I manifestanti hanno chiesto anche una data certa per le elezioni.