Detenuti A.S.: pedine da spostare in un disumano gioco per riempire caselle di Francesca de Carolis* Ristretti Orizzonti, 20 giugno 2015 Se ne parlava, se ne parlava da qualche tempo. La parola "trasferimento" aleggiava qua e là, anche quando non pronunciata, tra le righe. Poi mi arriva la lettera di Pasquale De Feo, che già a prenderla in mano si capisce che qualcosa non va. Non arriva più dal carcere di Catanzaro. Il mittente scrive da Massama. Oristano, per intenderci. Profonda Sardegna. "Cara Francesca, mi scrive, temo che quando verrai a Catanzaro per "l'incontro con l'autore" non mi troverai. Mi hanno deportato in Sardegna. Da una settimana sono solo in sezione, dovrebbero arrivare altri prigionieri. Non me l'aspettavo, anche perché non ho fornito pretesti". No, sono certa che Pasquale De Feo pretesti non ne abbia forniti. Ma certo inquieta non poco, il fatto che la prima cosa che abbia pensato sia una "punizione", di cui non trova logica spiegazione. Come è difficile trovare una logica, che sia accettabile, nei trasferimenti che si stanno compiendo in questi giorni. Per radunare tutti insieme i "cattivissimi" delle sezioni di Alta Sicurezza, chiudendo alcune sezioni AS1 sparse qua e là per l'Italia. Qualcuno è già andato a infoltire le fila dei "cattivi" di Opera. Qualcun altro è già stato spedito a Sulmona, il carcere dei suicidi, come lo chiamano. Molti, se il programma va avanti, finiranno in Sardegna, a riempire quelle carceri costruite apposta per loro, dalla nostra malsana italietta, in un periodo piuttosto discutibile. Il piano carceri del 2002-2003 del governo Berlusconi, ricordate? E il filo rosso che, niente di penalmente rilevante, per carità, ma teneva insieme alcune società nella realizzazione dei più rilevanti interventi pubblici in Sardegna degli ultimi anni. E dacché sono stati costruite, adesso andranno ben riempite, quelle carceri… a fare della Sardegna una grande Asinara, mi viene da pensare… E i detenuti? L'impressione è che siano semplicemente delle pedine da spostare in un disumano gioco per riempire caselle. Come pacchi, come cose. Tutto molto coerente, a dire la verità, con il processo di reificazione delle persone che, parole a parte, di fatto tende a incarnare il sistema carcerario. E invece ci sono i nomi, i volti, e le storie… A qualcuno dovrà pure importare di questi nomi, di questi volti, di queste storie. Dovrà pure importare sapere che si tratta di persone in carcere da decenni e che spesso un percorso in questi anni l'hanno pure compiuto. Come accade a Padova, ad esempio. Dove si sono compiuti percorsi molto interessanti, dove c'è un polo Universitario, dove qualcuno si è laureato, dove grazie alla redazione di Ristretti Orizzonti è stato possibile ricominciare a tessere relazioni, basta pensare agli effetti positivi degli incontri con le scuole…. Dove, in una parola, si cerca di realizzare quello che pure la Costituzione chiede, ossia il famoso "recupero". Che altro non può essere che riavvicinamento alla società… Alcuni di questi "cattivissimi" dell'Alta Sicurezza li ho conosciuti, con alcuni, qua e là per l'Italia, ci scambiamo lettere. Mi raccontano dei loro percorsi, delle difficoltà, delle letture, degli studi che comunque portano avanti. Nulla a che vedere, vi assicuro, con l'immagine stereotipata su cui insistono ( ahinoi) i media, del delinquente rozzo e analfabeta. Molti, a volte, mi mettono in difficoltà, perché tante cose io non le ho studiate… e non è facile confrontarsi con la nuova forza di chi nello studio ha scoperto nuove dimensioni, di chi nella storia cerca anche le ragioni della propria vicenda esistenziale… Perché in AS1 si incontra anche questo e non necessariamente, come ho letto in uno sbrigativo articolo sui futuri ospiti delle carceri sarde, "pericolosi criminali". Ma per i più rimane la condanna all'Alta sicurezza. Eppure, c'è qualcosa che non va, mi sono sempre detta, se dopo decenni di carcere le procure continuano a negare declassificazioni, inchiodando le persone al momento del reato. Ci sarebbe da chiedersi, se dopo lunghissime carcerazioni queste persone sono ancora così pericolose, se sono esattamente quello che erano quando sono entrate, cosa ha mai fatto il carcere? Non è questo un dichiarare il suo stesso fallimento? La sua inutilità? Personalmente penso che a volte le mancate declassificazioni siano anche il risultato di un'attività, e di una pigrizia, del tutto burocratica, che, per non assumersi responsabilità in merito, inchioda al passato persone che oggi nulla hanno a che vedere con quello che sono state, indipendentemente dal fatto che siano state o no collaboratori di giustizia. Che, diciamoci la verità, è scelta processuale e non testimonianza di vero pentimento. "Il problema rimane sempre lo stesso, mi scrive da Padova Giovanni Zito, sono convinti che se le persone non diventano collaboratori di giustizia non potranno cambiare… comunque sono ancora vivo e fiducioso". Giovanni Zito… che qualche anno fa ha scritto un bellissimo racconto, dal titolo "Sono Giovanni e cammino sotto il sole". Oggi, nella lettera che mi manda annota: "Giovanni ha smesso da tempo di camminare sotto il sole…" La verità, permettetemi, da quello che vedo, da quello che so, è che il carcere non vuole rieducare. Ma punisce e vessa. E continuo a pensare che tutto quello che non è privazione della libertà (non è in questo, e scusate se è poco, che deve consistere la pena carceraria? ), tutto quello che vi si aggiunge è solo tortura… E non è tortura spezzare percorsi faticosamente ricostruiti? Non è tortura dire, senza guardare in faccia nessuno, non mi interessa capire se sei cambiato, se recido i rapporti ricostruiti, se rendo ancora più difficile, allontanandoti, i rapporti con i familiari… Già, i familiari, ad esempio. Che fine faranno i rapporti familiari, già difficili e tormentati, per chi dovrà essere inseguito fino in Sardegna, ad esempio? E non è questa punizione che si aggiunge a punizione? Eppure l'ordinamento stesso riconosce l'importanza dei legami familiari e il principio della territorialità della pena… e bla bla bla… eppure, a Mario Trudu, sardo, in carcere da 36 anni, sardo che chiede di avvicinarsi ai suoi in un carcere della Sardegna, il trasferimento non è concesso… Ma come può mai insegnare la legalità uno stato che viola le sue stesse norme? Che riesce, mi ha scritto qualcuno, "ad essere più cattivo di noi". "Ma cosa deve fare un uomo per dimostrare che non è più ciò che è stato un tempo? (...) avevo incominciato a pensare, a sognare, e soprattutto a sperare, dando a mia volta speranza alla mia famiglia che da ormai ventiquattro anni mi segue in questo inferno senza fine (...)". Queste sono le parole di Giuseppe Zagari, trasferito qualche settimana fa da Padova al carcere dei suicidi, Sulmona, appunto… Scusate le tante domande e il tono da predica, ma da quando ho conosciuto qualcosa della realtà del carcere, me ne vergogno, e molto... Oggi mi vergogno molto di quest'ultima violenza che viene fatta a persone che con un colpo di penna rischiano di essere ributtate nel nulla. * Giornalista, curatrice del libro "Urla a bassa voce. Dal buio del 41 bis e del fine pena mai" Giustizia: abolire il carcere, sfigurata caricatura di un monastero senza libertà di Guido Vitiello Il Foglio, 20 giugno 2015 Se tutti vedessero una prigione, pochi la difenderebbero. Diceva Altiero Spinelli che il carcere è una "piccola società cenobitica", un monastero che impone al detenuto un insieme di regole ascetiche. L'ultimo capitolo di "Abolire il carcere", il libro di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta pubblicato da Chiarelettere, ripercorre le tappe di questo perverso noviziato. Si comincia con la matricola, la perquisizione in ogni possibile orifizio, la visita medica, l'abbandono dei segni dell'identità precedente (documenti e oggetti personali), una fase che trova il suo corrispondente monastico nella spoliazione e nella tonsura. Poi si è accompagnati alla cella, non dal priore e dalla comunità dei confratelli, ma da uno stuolo di poliziotti. Comincia allora una vita di preghiera, che in carcere prende la sinistra forma burocratica della "domandina", la richiesta da compilare e da inoltrare ai numi dell'autorità penitenziaria per ottenere l'accesso ai benefici più elementari. I tre voti religiosi - castità, povertà, obbedienza - sono anch'essi sfigurati in caricatura; specie l'obbedienza, che si traduce nella mimica servile della buona condotta, in un'umiltà affettata dietro la quale (cito ancora Spinelli) "può fiorire una orrida vegetazione di risentimenti, di cattiverie e di pervertimenti". Spogliato di ogni responsabilità e di ogni individualità, trattato come un bambino (una parodia dell'infanzia spirituale del monaco), il detenuto attraversa spesso la sua pena "perinde ac cadaver", come un corpo morto. Il tempo cessa di scorrere, i giorni si fanno indistinguibili e vuoti. L'ora d'aria in cortile (il chiostro) offre l'unica variazione, perché non c'è neppure la mensa (il refettorio). Così questo novizio coatto cade preda di tutti i demoni meridiani, soccombe all'accidia, alla disperazione, al rinsecchimento spirituale; solo che di quiete e di silenzio non c'è traccia, è tutto uno sferragliare di porte blindate, di sbarre percosse con il tondino d'acciaio, di chiavi girate nelle serrature. Non stupisce che i monasteri confiscati, nell'Ottocento, siano stati così facilmente convertiti in prigioni. "Il carcere penale", proseguiva Spinelli, "proviene idealmente, se non erro, da un'idea tutta cristiana: maciullare il corpo, perché l'anima si salvi. Non escludo che ciò sia possibile. Ma lo è solo quando è l'anima stessa a decidere di mortificare il proprio corpo, quando l'ascesi è liberamente scelta, e non quando è imposta da una autorità esterna. In tal caso si stritola l'anima prima ancora del corpo". L'affinità con il cenobio è più accurata di quella con lo zoo, che pure è lampante. Perché le gabbie con gli animali esotici sono allestite per un pubblico, esistono per essere offerte in spettacolo; il monastero, al contrario, coltiva il suo felice isolamento. Ed è bello sperare, con un po' di sventatezza socratica, che se il carcere non fosse così ostinatamente sottratto agli sguardi, se tutti potessero conoscerlo, ben pochi avrebbero voglia di difendere un'istituzione così rozza, insensata, costosa, fallimentare, minacciosa per quella stessa sicurezza che dovrebbe tutelare, gravida di danni collaterali che sommergono i rari benefici. Altiero Spinelli diceva che l'unica possibile riforma del carcere è abolirlo, e inventarsi qualcos'altro. Lo stesso pensano gli autori di "Abolire il carcere", che elencano le alternative alla detenzione praticate nel mondo e presentano anche un decalogo abolizionista. Aggiungo una undicesima proposta: convertire le prigioni in monasteri. Giustizia: le accuse al senatore Azzollini e il coraggio di dire basta al bullismo giudiziario di Vittorio Feltri Il Giornale, 20 giugno 2015 Il senatore Antonio Azzollini ostenta calma e serenità, ma così fanno tutti coloro che sono in attesa del responso della Giunta chiamata a decidere se un parlamentare debba o no essere arrestato in base alle richieste della magistratura. In questo caso è la Procura di Trani a sollecitare l'uso delle manette, avendo ravvisato l'esistenza di reati gravi nel comportamento del suddetto senatore, il quale ovviamente nega ogni addebito e cerca di convincere i colleghi, non solo quelli del proprio partito (Ncd), di essere innocente. Nel frattempo egli è intento a scrivere una memoria difensiva affinché gli sia evitata l'onta del carcere. In simili circostanze, il copione è sempre lo stesso: gli aspetti politici prevalgono su quelli giudiziari e non si riesce a capire se l'imputato venga fatto passare per colpevole perché conviene o lo si voglia salvare per lo stesso motivo: interessi di bottega. Stavolta il dubbio è più forte del solito. La maggioranza di governo propenderebbe per negare l'arresto. Però tentenna. Teme di scatenare il sospetto che agisca per risparmiare uno scossone all'esecutivo, già abbastanza traballante. Mentre l'opposizione spera, qualora Azzollini sia incastrato, che Matteo Renzi s'indebolisca ulteriormente e magari sia obbligato a dimettersi. Insomma, l'attenzione di tutti è rivolta maggiormente agli effetti politici della questione che non alle carte processuali. E ciò è profondamente sbagliato. Infatti, sarebbe giusto valutare la fondatezza delle accuse e non il peso politico dell'oscura vicenda. Ma la nostra è una predica inutile: in Parlamento non si ragiona nel rispetto della giustizia, bensì badando ai vantaggi o agli svantaggi provocati da una scelta. La storia insegna. Non siamo giuristi - è bene ricordarlo - e ignoriamo come stiano le cose in punta di diritto. Inoltre non abbiamo visionato gli atti. Ma, tenendo conto della indiscrezioni filtrate, non possiamo non manifestare perplessità, Qua! è la peggiore azione attribuita al senato re pugliese? Avere d etto alle suore della Casa Divina Provvidenza di Bisceglie, nel corso di una telefonata origliata da un tizio (non intercettata), "guardate sorelle che da oggi comando io, altrimenti vi piscio in bocca". Una frase indegna quand'anche fosse stata rivolta a prostitute, figuriamoci a religiose. Ma siamo sicuri che sia stata pronunciata? Non c'è prova. Si dà retta a quanto riferisce un testimone che afferma di avere udito tale volgarità attraverso una porta chiusa. Nonostante ciò, la locuzione screanzata è servita mediaticamente a suscitare disgusto e ad alimentare un clima di disprezzo intorno all'accusato. Gli altri presunti reati sono stati soffocati nell'indifferenza generale. Esempio. Si sostiene che il parlamentare (e presidente della quinta Commissione Bilancio) avrebbe tratto profitti dalla gestione impropria della Casa Divina Provvidenza. Quali profitti? Somme di denaro? Macché, nemmeno un euro. E allora? Un buon numero di consensi gli sarebbero arrivati dagli elettori favorevolmente colpiti dal suo impegno sociale nell'istituto, ora più che mai sotto i riflettori. Pertanto, egli avrebbe sfruttato la propria posizione di alleato-comandante delle monache per fini politici personali. Che c'è di male? Non esiste sulla faccia della terra uomo di partito che non punti a incrementare il patrimonio di voti. Se questi sono i delitti ascritti all'esponente del Nuovo centrodestra, non si comprende perché dovrebbe essere addirittura arrestato. Siamo difronte a un pasticcio indigeribile, meritevole di essere superato con un minimo di intelligenza. Non diciamo che l'intero fascicolo sia da cassare e da dimenticare. Si continuino le necessarie indagini onde fare piena chiarezza, ma lasciamo perdere la cella. Si vada pure in tribunale allo scopo di non tralasciare neppure un tentativo di condannare Azzollini, ma per favore non fatevi offuscare dalla furia giustizialista. Prima il verdetto definitivo, di terzo grado, poi forse la galera. Sovvertire le regole del garantismo onde assecondare il bullismo giudiziario di gran moda è una caduta nell'inciviltà. In conclusione, un consiglio: interrogate la suora minacciata di essere irrorata di urina, e se questa precipita dalle nuvole, piantatela di massacrare il senatore e aspettate le risultanze processuali. D'accordo, il Paese è stordito dalle infamie che caratterizzano la vita di Palazzo, cha bisogno di essere rassicurato, cioè di constatare che i furfanti vengano strigliati con verdetti esemplari, ma che almeno si attendano le sentenze dei giudici per linciare i rei. Farlo a titolo preventivo è una barbarie: peggio di una virtuale pisciata in gola alla madre superiora. Giustizia: il magistrato Francesco Di Maggio si oppose alle pressioni di Mannino sul 41bis di Paolo Lami Il Secolo d'Italia, 20 giugno 2015 Dopo anni di menzogne c'è chi restituisce finalmente l'onore a Francesco Di Maggio, l'ex-numero 2 del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, che, morto nel 1996 a 48 anni, viene accusato da un pezzo della magistratura siciliana di aver fatto parte della trattativa Stato-mafia. Di Maggio, rivela ora deponendo al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, Nicola Cristella, per alcuni mesi capo scorta del magistrato, avrebbe ricevuto pressioni dall'ex-politico siciliano Calogero Mannino sull'applicazione del carcere duro ad alcuni mafiosi ma non cedette. La circostanza è importante per l'accusa che sostiene che tra i punti oggetto del presunto dialogo tra Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni, negli anni delle stragi mafiose, ci fosse proprio l'alleggerimento del 41 bis ma, al contempo, restituisce piena dignità a un uomo come Di Maggio che ha sempre lottato a viso aperto contro le cosche arrivando perfino a dimettersi - cosa rarissima in Italia - in polemica con quanti lo avevano fregiato del "Premio Auschwitz 1994" per la sua intransigenza sul 41bis. "A un certo punto - ha detto Cristella rispondendo alle domande del pm Roberto Tartaglia - Di Maggio cominciò a innervosirsi per questioni di ufficio, perché c'erano pressioni di un politico siciliano sull'applicazione del carcere duro ad alcuni mafiosi. Il politico era Mannino. Mi disse: "non si può chiedere al figlio di un maresciallo dei carabinieri (il padre di Di Maggio era un maresciallo dei carabinieri a Barcellona Pozzo di Gotto, ndr) di scendere a patti con la mafia o con i delinquenti". Il testimone, che comunque rispetto alle precedenti deposizioni, sia processuali che rese in fase di indagine, ha sfumato le sue dichiarazioni, ha poi raccontato di avere accompagnato più volte Di Maggio a cene, in un ristorante romano, a cui partecipavano il funzionario del Sisde Umberto Bonaventura, l'ex-capo del Ros Gianpaolo Ganzer, l'ex-ufficiale del Ros Mario Mori - tra gli imputati del processo sulla trattativa - e un altro personaggio che arrivava in motorino di cui non conosce l'identità. Il nome di Di Maggio è indissolubilmente legato alla cattura del boss Angelo Epaminonda che finì in carcere negli anni ‘80 proprio grazie a un'inchiesta del magistrato, allora sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano. Trasferito a Roma all'ufficio dell'Alto commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, all'epoca guidato da Domenico Sica, si dimise nel 1990 e divenne allora consulente giuridico dell'Agenzia antidroga dell'Onu a Vienna. Nominato poi dal ministro della Giustizia Giovanni Conso vicedirettore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria vi rimase per tre anni quando lasciò il Dap in polemica con il nuovo ministro della Giustizia Alfredo Biondi e tornò a Vienna. Acuto osservatore, al Secolo, che lo intervistò, raccontò, fra l'altro, come l'eccesso di libretti al portatore che aveva trovato in Austria consentisse un'attività di riciclaggio inaccettabile che andava stroncata. Illuminato, capace di un approccio manageriale e pratico ai problemi ma anche persona di grandissima umanità, fu lui, a inventarsi la Spes, Servizi Penitenziari di Solidarietà, con la maggioranza di capitale sociale degli enti pubblici, che doveva prendere commesse nel comparto dell'informatica per far lavorare i detenuti, anziché i privati consentendo un risparmio notevolissimo allo Stato oltreché stroncando alla radice il fenomeno delle mazzette sugli appalti in quel settore. Irriso e attaccato frontalmente per la sua intransigenza nei confronti di quei detenuti mafiosi che non intendevano recuperarsi attraverso il carcere - e, per questo, gli venne affibbiato il "premio Auschwitz 1994" - era tutt'altro che tenero e, quindi, inviso alle cosche che lo vedevano come il fumo negli occhi. In un celebre discorso al Meeting ciellino di Rimini nell'agosto del 1994 con grande orgoglio e dignità e senza paura disse chiaro e tondo come la pensava fra gli applausi scroscianti: "Lo Stato si serve, la Comunità si serve e dello Stato non ci si serve - ammonì. A me importa davvero poco che il politico faccia le sue scelte strategiche, le faccia come meglio crede. Io ho un riferimento preciso che non posso in alcun modo eludere, né scavalcare: ed è la legalità. A me importa poco che ci siano i vecchi o i nuovi governanti, io ho un punto di riferimento preciso, la legalità. Se mi si chiedono strappi alla legalità, non posso che evidentemente fare le mie scelte conseguenti e dire: "Signori non ci sto. Me ne vado". La sua idea, che non ha mai abbandonato, era quella della differenziazione dei circuiti carcerari e, quindi, quella del 41bis ai mafiosi che non intendevano arrendersi e piegarsi allo Stato e di una detenzione non afflittiva ma di recupero per chi si voleva davvero redimere. Sì, ammetteva, rivolgendosi a tutti quelli che "strepitano sul trattamento riservato ai detenuti differenziati ex 41 bis dell'ordinamento penitenziario, (i mafiosi cattivissimi come li chiamo io)", è "afflittivo il fatto di dover fare i colloqui con lo schermo di vetro che non consente al mafioso di toccare la mano dei propri bambini" ma, aggiungeva, "vogliamo ricordarci dei padri, delle madri, delle mogli, della vedova Schifani e di tutti gli altri che sono morti che quelle mani non possono più toccare?" Poi, con l'approccio visionario e, al contempo, pragmatico che lo contraddistingueva, Di Maggio tratteggiò, senza infingimenti, di fronte alla platea e alle telecamere la sua idea dimostrando, oltretutto, un coraggio non indifferente perché rendeva nuovamente chiaro alla mafia che lui, figlio di carabiniere e uomo tutto d'un pezzo, non sarebbe mai retrocesso sul 41bis: "Il futuro del penitenziario è a tre velocità, a 3 circuiti: il circuito di chi non vuole sperare e che deve restare condannato alla sua sorte, perché non bisogna avere paura delle parole. Se il signor Riina vuole continuare a comandare Cosa nostra, non vuole venire dalla parte dello Stato e della legalità, può stare là dov'è: la coscienza non mi rimorde! Mi rimorde invece la coscienza per i tossicodipendenti, che non sono aiutati; per i condannati a pene bagatellari, che non hanno nessun tipo di aiuto e sono invece confusi in questa massa infernale, in mezzo a tutti gli altri". Per questi, appunto, Di Maggio, vedeva un percorso diverso, di recupero e reinserimento. Una concezione moderna che avrebbe anche fatto tornare i conti dello Stato. E che, magari, avrebbe consentito di impegnare ancora più risorse sul carcere duro da affibbiare ai mafiosi. Ma, aggiunse Di Maggio con amara ironia rivolgendosi a quanti lo crocifiggevano all'epoca per la sua intransigenza verso i mafiosi e per le sue idee verso il 41bis contro gli irriducibili di Cosa Nostra, "avendo vinto il "premio Auschtwitz" 1994, che era la cosa che agognavo di più, tra qualche settimana lascio l'amministrazione penitenziaria". Un addio in polemica contro chi lo riteneva troppo duro sul 41bis. Vent'anni dopo quel discorso e 19 anni dopo la sua morte, un pugno di magistrati accuseranno questo collega intransigente e tutto d'un pezzo, quest'uomo fermamente fedele alle istituzioni e alla legalità, votato a servire lo Stato e pronto a dire in faccia a Riina che mai gli avrebbe tolto il carcere duro se non si fosse inginocchiato di fronte allo Stato, di aver intavolato una trattativa Stato-mafia. E, allora, non può che tornare alla mente quando, in un'altra vicenda simile, Leoluca Orlando, professionista dell'antimafia, puntò il dito contro Giovanni Falcone accusandolo di aver "tenuto chiusi nei cassetti" una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti di mafia. Oggi Orlando è ancora vivo, Falcone, invece, è stato ammazzato dalla mafia che, anch'egli come Francesco Di Maggio, combatteva a viso aperto e senza tentennamenti. Giustizia: per combattere la corruzione arrivano nuove regole per gli appalti di Vincenzo Musacchio Il Garantista, 20 giugno 2015 La strada per una efficace riforma del sistema degli appalti pubblici può essere delineata in modo ragionevole se si affronta il tema non nella sua globalità ma caso per caso, partendo soprattutto dalla distinzione delle varie tipologie di appalto. Il primo pilastro portante dovrà essere la riscrittura completa del codice che, con i suoi seicento articoli contorti e spesso contraddittori, sembra fatto apposta per consentire scappatoie e trucchi vari. Il secondo pilastro su cui lavorare alacremente dovrà essere una efficace normativa che riduca gli enti abilitati ad essere stazione appaltante. Oltre a questi due elementi serviranno anche ulteriori modificazioni. Le stazioni appaltanti dovranno essere dotate di personale specializzato e adeguatamente formato. Occorrerà creare una nuova autorità unificata per gli appalti affidata all'Anac (o ad ulteriore organo ad hoc) che dovrà garantire efficienza e massimo rispetto delle regole. Sarà utile, inoltre, inserire nel nuovo codice alcuni principi che consentano di affidare agli appalti il duplice scopo sia dell'ottimizzazione degli acquisti che dello sviluppo della politica economica del Governo o delle Regioni. In altri termini, dovrà evitarsi che il rispetto dei principi della libera concorrenza impedisca di supportare scelte quali una riserva di appalti per piccole e medie imprese: penso ad alcuni piccoli vincoli di territorialità, politiche di vantaggio verso reti di imprese, imprenditoria giovanile o femminile, evitando, ovviamente, assistenzialismo ed eccesso di discrezionalità. Il tutto naturalmente potrà funzionare nella misura in cui vi sarà un adeguato livello di trasparenza e, soprattutto, si prevedranno meccanismi di controllo e di verifica effettivi. Sarà il caso, inoltre, di capire come trattare gli appalti di servizi, risolvendo o almeno chiarendo i limiti del dilemma posto innanzitutto dalle politiche di esternalizzazione. L'ultima dimensione è la più rilevante ed è quella della legalità e della trasparenza, ossia dei meccanismi necessari per ridurre al minimo i rischi di corruzione. Oltre a norme stringenti e controlli effettivi, un ruolo rilevante può essere svolto dalla professionalità di chi è chiamato a redigere e gestire i bandi di gara. Si tratta infatti di un lavoro specialistico, nel quale diverse professionalità, giuridiche e tecniche, dovranno collaborare. In questo caso, noi siamo favorevoli alla decentralizzazione delle strategie di lotta alla corruzione che semplificherebbe tanto il controllo quanto il raggiungimento di una massa critica di professionalità adeguata ad affrontare la complessità delle operazioni anche a livello locale. Oggi, il sistema degli appalti pubblici funziona poco e male, genera corruzione e malaffare assieme a scelte poco trasparenti, allora è sicuramente giunto il momento di cambiare il sistema semplificando e controllando cum grano salis. Fatta una buona legge, il vero problema comunque resta sempre la sua reale applicazione. Giustizia: Sottosegretario Ferri; minori, azione educativa non può prescindere da famiglia Il Velino, 20 giugno 2015 "La Giustizia minorile si realizza mediante l'attivazione di processi di integrazione e inclusione sociale di bambini e ragazzi che hanno vissuto nell'incuria, nel disadattamento, nella sofferenza e nell'abbandono. Pertanto un'azione educativa che sia rivolta al minore deviante non può prescindere dalla considerazione della famiglia". Lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, intervenendo al Convegno Conclusivo del progetto "La famiglia di fronte al reato. Azioni sperimentali a supporto delle famiglie dei minori autori di reato", tenutosi oggi a Roma, presso la Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e organizzato dal Dipartimento per la Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia e dal Dipartimento per le Politiche della Famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri. "In questo senso - prosegue Ferri - assume primaria importanza il sostegno dato a famiglie multiproblematiche per assolvere ai loro compiti educativi e di supporto alla prole. Infatti, la complessità dei problemi delle famiglie di minori che sono entrati in contatto con il circuito penale spinge gli operatori del settore a studiare da vicino le fragilità che contraddistinguono certe situazioni e li interroga nella ricerca di risposte, che rischierebbero di essere autoreferenziali se non vedessero il coinvolgimento di coloro che vivono in prima persona il disagio. È doveroso poi evidenziare che, nei casi in cui si riesce ad attivare un intervento efficace di coinvolgimento attivo delle famiglie in progetti rieducativi pensati per il figlio, tutti i soggetti coinvolti esprimono un alto livello di soddisfazione, nonché un sentimento di fiducia nei confronti del servizio. Sotto questo profilo appare inoltre necessario creare nei territori una rete sinergica di cooperazione tra enti locali, servizi sociali, operatori del Ministero della Giustizia e tutte le agenzie educative e i corpi intermedi chiamati a condividere la responsabilità della condizione dei giovani che devono misurarsi con queste esperienze. In conclusione, anche in questo ambito, il Dipartimento per la Giustizia Minorile e il Dipartimento per le Politiche della Famiglia stanno mettendo la famiglia al centro della loro azione politica e ritengo si possa e si debba lavorare con convinzione "per" e "con" le famiglie dei minori a rischio, perché l'azione (ri)educativa risulti più incisiva, oltre che per prevenire e intervenire positivamente sui fenomeni di recidiva". Giustizia: caso Ilaria Alpi, Hassan scarcerato dopo 16 anni e affidato ai Servizi sociali La Repubblica, 20 giugno 2015 È stato condannato per concorso nell'omicidio della giornalista e del cineoperatore Miran Hrovatin. Finirà di scontare la pena, fino a dicembre 2017, ai servizi sociali. È stato scarcerato dopo 16 anni Hashi Omar Hassan, condannato per concorso nell'omicidio della giornalista Ilaria Alpi e del cineoperatore Miran Hrovatin, avvenuto a Mogadiscio (Somalia) nel marzo del 1994. Hassan, per la giustizia italiana finora l'unico responsabile del duplice assassinio, era detenuto a Padova. Finirà di scontare la pena, fino al 5 dicembre 2017, ai servizi sociali. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin furono freddati da un commando a Mogadiscio il 20 marzo 1994, mentre erano a bordo di un pick-up Toyota che attraversava la capitale somala, dopo essere tornati, da poco, da un incontro fuori Mogadiscio con il sultano del Bosaso. Una Land Rover tagliò loro la strada, ne scesero almeno sette persone armate che uccisero la giornalista del Tg3 e il cameraman. Dopo una lunga serie di indagini e di processi, e una Commissione parlamentare, Hashi fu condannato dalla Cassazione a 26 anni di carcere. L'uomo, che oggi ha 41 anni, ha scontato in carcere 16 anni, ha ottenuto tre anni di sottrazione pena grazie all'indulto e la liberazione anticipata di quattro anni per buona condotta. Ora, con la destinazione ai servizi sociali, sta cercando anche un lavoro. Il suo grande accusatore era un altro somalo, Ahmed Ali Rage, detto Jelle, il quale, però, di recente ha ritrattato tutte le sue dichiarazioni sostenendo di aver mentito volontariamente perché pagato per farlo. Una confessione che nell'interminabile storia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, e delle ragioni che portarono al duplice omicidio, potrebbe riaprire ancora una volta il versante giudiziario. L'avvocato che da sempre assiste Hashi, Douglas Douale, infatti, ha già annunciato che la settimana prossima depositerà "tutti gli atti alla Corte d'Appello di Perugia per chiedere la revisione del processo". Un atto questo, che appare sufficientemente fondato proprio sulla scorta degli ultimi avvenimenti. In un'intervista all'agenzia Ansa nel febbraio scorso, Hashi aveva detto che probabilmente una volta scontata la pena tornerà in Somalia per "recuperare il tempo perduto". Non sarà la stessa Somalia che lasciò una ventina di anni fa ma rimane comunque il suo Paese, sebbene devastato dalle guerre che si sono succedute negli ultimi vent'anni e più. E aveva menzionato un'altra protagonista della vicenda, Luciana Alpi, la mamma di Ilaria: "Mi ha aiutato molto", aveva affermato. Puglia: la chiusura degli Opg e la realtà pugliese, tra inadempienti ed aggressioni radicali.it, 20 giugno 2015 L'attuazione della normativa per l'effettivo e reale superamento degli Opg segna la misura della debolezza in cui versa il nostro Paese, patente responsabile del perpetuarsi di violazioni dei fondamentali diritti di libertà e dignità proprio di ogni uomo. Era il lontano 2011 quando una commissione parlamentare d'inchiesta, presieduta dal sen. Ignazio Marino, accertò il degrado in cui versavano gli ospedali psichiatrici giudiziari e le condizioni disumane cui erano costretti i soggetti lì ricoverati. A seguito di tale indagine il Parlamento approvò nel Febbraio del 2012 la legge numero 9 nella quale disponeva la chiusura degli O.P.G entro il 31 Marzo 2013. Tuttavia un successivo decreto numero 24/2013 prorogò tale chiusura al 1 Aprile 2014. Anche questa volta il termine fissato è stato disatteso con la promulgazione di un nuovo decreto numero 52/2014, poi convertito nella Legge 81/2014, che ha disposto un'ultima proroga al 31 Marzo 2015 scorso. All'indomani dell'entrata in vigore della Legge 81 del 2014 circa il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari il bilancio, nonostante i molti anni passati dal primo termine di chiusura, non è affatto positivo. Se da un lato le novità legislative rappresentano il sovvertimento del principio per cui il ricovero in O.P.G. diventa dalla regola l'eccezione, dall'altro sono l'input acché si metta in moto un meccanismo sincronizzato coinvolgente le ASL, le Regioni e la Magistratura, che assieme devono organizzare la presa in carico e l'assistenza del malato. Tra le Regioni che si stanno adoperando affinché si persegua l'intento normativo non c'è traccia della Puglia che, ad oggi, nulla ha fatto, dal punto di vista fattuale, circa l'adeguamento necessario affinché, chiusi gli O.P.G., gli internati non vengano semplicemente e pericolosamente veicolati verso gli istituti penitenziari presenti sul territorio regionale, del tutto inadeguati ad accogliere ed a gestire detenuti "socialmente pericolosi". Come radicali foggiani richiamammo da subito la Regione Puglia ad un immediato intervento e proprio a Foggia si svolse nel maggio del 2013 un convegno sul superamento degli O.P.G. alla presenza di Elena Gentile, allora assessore al welfare, e dell'On. Rita Bernardini, membro della II commissione giustizia della camera, attualmente segretario di Radicali Italiani. Voci inascoltate le nostre Non è un caso che nella casa circondariale "Carmelo Magli" di Taranto, il 13 maggio scorso, si sia verificata un'aggressione da parte di un detenuto affetto da disturbi psichici ai danni di un'assistente e di nove agenti, costretti al soccorso presso il locale ospedale. Responsabile morale non può che essere la Regione, che non ha provveduto a garantire l'adeguamento di sezioni sanitarie per la cura e l'osservazione di detenuti psichiatrici con la creazione di micro sezioni videosorvegliate e la presenza di personale medico specializzato. L'attuale situazione di emergenza pugliese si origina, quindi, dall'inerzia della regione Puglia, congiunta all'immobilismo del Governo nell'attuare i meccanismi di commissariamento della stessa, rispetto ad altre regioni, prima fra tutte l'Emilia Romagna, che si sono spese per la realizzazione delle Rems (residenze per l'esecuzione di misure di sicurezza detentive): strutture accoglienti, dotate di tutte le caratteristiche di sicurezza e inserite in un programma di riabilitazione sanitaria gestito dai Dipartimenti per la salute mentale delle ASL di residenza, in stretto contatto con l'autorità giudiziaria per valutare, caso per caso, l'attivazione di percorsi sanitari individuali alternativi alla detenzione. Ed è questa la via che deve essere perseguita anche sul nostro territorio non solo nell'interesse dei cc.dd. "detenuti ex Opg", ma anche per evitare di creare ulteriori problematiche all'interno della già malata realtà carceraria, assolutamente inadeguata sia per strutture che per mezzi e personale. La possibilità delle strutture residenziali di porsi come alternativa seria a nuove forme di istituzionalizzazione dell'internato dipende, quindi, da come verranno organizzate dalla Regione e questo non può che essere un banco di prova affinché nasca una nuova cultura circa il fatto lesivo commesso dalla persona con malattia o disturbo mentali. Non è nient'altro che un'operazione di civiltà, i cui frutti porteranno maggiore dignità sociale. Calabria: Idv; no a trasferimento provveditorato carceri da Catanzaro a Lamezia Terme giornaledicalabria.it, 20 giugno 2015 Il capogruppo di Idv al consiglio comunale di Catanzaro, Mimmo Iaconantonio, ha interessato i vertici del suo partito affinché presentassero un'interrogazione al Governo ed al Ministro competente, per sapere "se corrisponde al vero che è in programma, e con quali tempi, un trasferimento della sede del Provveditorato Penitenziario Regionale della Calabria, da Catanzaro a Lamezia Terme; ovvero se tale possibilità, a seguito di una diversa valutazione delle alternative percorribili, frutto del dialogo con le forze politiche locali, sia stata scartata in favore del mantenimento di tale sede nel capoluogo regionale. Iaconantonio rende noto che Ignazio Messina, segretario nazionale dell'Idv, il senatore Michelino Davico e il deputato Nello Formisano dello stesso partito hanno presentato una interrogazione per sottolineare il fatto che il trasferimento, della sede, inoltre, determinerebbe certamente un ricorso innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale, per violazione di legge, con inevitabili aggravi di spese e perdite di tempo, il tutto in danno della operatività del comparto interessato". L'operazione programmata - dice Iaconantonio - non pare giustificata da ragioni di tipo economico, poiché già in via ufficiale la città di Catanzaro ha indicato immobili in ottime condizioni manutentive, da poter destinare all'Amministrazione Penitenziaria. Di contro, la struttura di Lamezia Terme, che è un ex convento risalente al 1400, abbisognerebbe di una importante e costosa ristrutturazione, il solo adeguamento alla normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro potrebbe comportare un esborso superiore alle 600-700mila euro e in un momento di spending review non mi pare davvero il caso e poi non giustifico e lo condanno duramente questa atteggiamento di spoliazione che da decenni il territorio di Catanzaro deve subire". Davico (Idv): da rivedere il trasferimento del Provveditorato Il senatore di Italia dei valori Michelino Davico ha presentato una interrogazione al Governo ed al Ministro della Giustizia, per sapere "se corrisponde al vero che è in programma, e con quali tempi, un trasferimento della sede del Provveditorato penitenziario regionale della Calabria, da Catanzaro a Lamezia Terme; ovvero se tale possibilità, a seguito di una diversa valutazione delle alternative percorribili, frutto del dialogo con le forze politiche locali, sia stata scartata in favore del mantenimento di tale sede nel capoluogo regionale". Nell'interrogazione il parlamentare di Idv rileva che "il trasferimento, della sede, inoltre, determinerebbe certamente un ricorso innanzi al Tribunale amministrativo regionale, per violazione di legge, con inevitabili aggravi di spese e perdite di tempo, il tutto in danno della operatività del comparto interessato. L'operazione programmata non pare giustificata da ragioni di tipo economico, poiché già in via ufficiale la città di Catanzaro ha indicato immobili in ottime condizioni manutentive, da poter destinare all'Amministrazione Penitenziaria. Di contro, la struttura di Lamezia Terme, che è un ex convento risalente al 1400, abbisognerebbe di una importante e costosa ristrutturazione: il solo adeguamento alla normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro potrebbe comportare un esborso superiore alle 600-700mila euro e in un momento di spending review non mi pare davvero il caso e poi non giustifico e lo condanno duramente questo atteggiamento di spoliazione che da decenni il territorio di Catanzaro deve subire". Foggia: detenuta di 35 anni tenta di uccidersi utilizzando un pantalone come cappio quotidianodifoggia.it, 20 giugno 2015 Poteva essere l'ennesima vittima di una conta che non finisce mai, ma che è stata evitata grazie alla professionalità ed al sangue freddo dimostrato dalle poliziotte penitenziarie in servizio presso la Casa Circondariale di Foggia. Il fatto è avvenuto lo scorso 11 giugno, ma la notizia è trapelata solo ora, e riferisce di una detenuta di origine russa di anni 35 in carcere per omicidio aggravato con fine pena 2018. La stessa detenuta nel carcere di Foggia da non molto tempo, verso l'una di notte del 11 giugno, ha tentato di impiccarsi con un jeans legato alla grata dell'inferriata del bagno. L'allarme è stato dato dalla compagna di cella prontamente raccolto dalla poliziotta in servizio presso la sezione, che con grande sangue freddo ha prelevato un coltello dalla cucina detenuti ed ha tagliato il cappio che legava la detenuta all'inferriata. Dopo i primi soccorsi medici, la detenuta è stata poi accompagnata presso il locale ospedale, ove si trova a tutt'oggi piantonata da personale di Polizia Penitenziaria. A Foggia circa 550 detenuti sono stipati in appena 350 posti disponibili con una carenza di almeno 50 poliziotti penitenziari. Eppure un Istituto come quello del capoluogo Dauno ove sono rinchiusi detenuti pericolosi della malavita organizzata locale, molto attiva sul territorio(Cerignola, Gargano, San Severo, Foggia stessa ecc.) e fino a circa 10 giorni fa, custodiva un detenuto terrorista dell'Isis, manca un responsabile effettivo della Polizia penitenziaria, poiché l'attuale Comandante è in distacco da Bari, mentre il Dirigente dell'Istituto deve provvedere da solo a tutte le gravi incombenze giornaliere. Al contrario del Carcere di Bari ove con meno detenuti e problematiche, risultano essere in servizio effettivo 5 Commissari e 4 Dirigenti. Il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria da tempo sta denunciando, tra l'indifferenza dei vertici del Dap e del Prap di Bari che la situazione non è più sopportabile pronta ad esplodere con effetti deflagranti per tutti, se non si pongono i dovuti rimedi. "Se la situazione a Foggia rimane sotto controllo, - commenta il segretario nazionale del Sappe, Federico Pilagatti - è grazie alla professionalità ed all'abnegazione della Polizia penitenziaria che però è allo stremo e non c'è la fa più. A questi eroi nascosti che fanno un lavoro oscuro e pericolosissimo il Sappe esprime il proprio ringraziamento considerato che sono figli ripudiati da un amministrazione penitenziaria ingrata, pronta a punire per il minimo errore, ma che si dimentica del sacrificio e della professionalità di questi di lavoratori che dovrebbe ringraziare e premiare ogni giorno, per quello che fanno a tutela della legalità e delle istituzioni all'interno delle carceri Italiane". Fossombrone (Pu): sanità nelle carceri, medici ancora senza contratto di Roberto Giungi Corriere Adriatico, 20 giugno 2015 Appello alla Regione dei medici penitenziari di Fossombrone e Pesaro perché "la Regione continua ad ignorare che la sanità penitenziaria dal 2008 è passata dal Ministero della Giustizia a quello della Salute". Gli stessi liberi professionisti incaricati "non hanno un contratto, nonostante che la normativa nazionale preveda una regolarizzazione delle figure professionali operanti nei vari istituti di pena, cosa peraltro già avvenuta nella quasi totalità delle regioni italiane". Oltre a questa anomalia marchigiana "gli operatori si trovano nella imbarazzante situazione di non percepire nessun compenso per le attività svolte dal mese di febbraio". La questione è ancora più grave in considerazione che "chi approva gli ordini di pagamento, in seno alla struttura sanitaria, non è a conoscenza di disposizioni contrattuali relative agli operatori sanitari dell'area penitenziaria". Sono professionisti il più giovane dei quali è in attività da dieci anni "senza ottenere adeguamenti al compenso orario, come per legge, ma subendo più volte tagli del numero delle ore senza tenere in considerazione che si lavora ad alto rischio biologico e comportamentale per insulti, minacce e potenziali aggressioni". Medici che si trovano "in una condizione di impotenza per lo scarso interessamento dimostrato dagli amministratori, contrariamente alla disponibilità a mantenere attivo il servizio a tutt'oggi". Il perdurare di questo situazione "potrebbe anche essere spunto per sanzioni da parte della Comunità Europea". La lettera, inviata anche all'ordine provinciale dei medici chirurghi e odontoiatri, alla Cgil funzione pubblica, al responsabile della medicina penitenziaria Area Vasta 1 Fraternali, al direttore Maria Capalbo e a quello generale dell'Asur Marche Genga, è firmata dai medici Stefano Crupi, Massimo Costantini, Alessandro Baldi, Farage Makhluf, Giovanni Montoni, Virginio Landini, Giuseppe Palumbo, Andrea Maroncelli e dal tecnico di radiologia Rinaldo Fabbri. Sempre più lontani tempi di quando il centro clinico del carcere di Fossombrone era un fiore all'occhiello. Sassari: Centro Democratico visita il carcere "urge riorganizzare medicina penitenziaria" La Nuova Sardegna, 20 giugno 2015 Ieri mattina, i consiglieri regionali Busia e Desini hanno visitato l'istituto di pena sassarese, accompagnati dalla direttrice del penitenziario sassarese Patrizia Incollu e dal coordinatore regionale della Uil penitenziaria Michele Cireddu. Ieri mattina (venerdì), i consiglieri regionali del Centro Democratico Roberto Desini e Anna Maria Busia hanno svolto un sopralluogo al carcere di Bancali. Accompagnati dalla direttrice del penitenziario sassarese Patrizia Incollu e dal coordinatore regionale della Uil penitenziaria Michele Cireddu, gli esponenti del Cd hanno potuto verificare di persona le condizioni del nuovo istituto di pena. "Bancali è un carcere di nuova costruzione e per questo non presenta particolari problemi logistici", hanno spiegato Desini e Busia, che oltre ad essere consigliere regionale è anche responsabile nazionale Giustizia del Centro Democratico. "Purtroppo, le problematiche che affliggono la struttura di pena di Sassari sono le stesse che si riscontrano nelle altre carceri della Sardegna, prima fra tutte la necessità, da considerarsi ormai un'urgenza, di una riorganizzazione dell'intero sistema di medicina penitenziaria", sottolineano i due consiglieri regionali. "Servirebbe un dipartimento in grado di assegnare e coordinare il personale medico e paramedico per le carceri; non si può continuare ad affidarsi alla buona volontà e allo spirito di sacrificio dei professionisti che lavorano con grande impegno nelle strutture carcerarie per garantire l'assistenza carceraria ai detenuti". L'aspetto sanitario è solo uno dei problemi da risolvere nel sistema penitenziario sardo, e molte altre sono le tematiche da affrontare con interventi risolutivi: la perenne carenza di organico fra gli agenti penitenziari, le preoccupazioni legati al regime di detenzione 41bis, il sovraffollamento dei detenuti (problema che sta iniziando a palesarsi anche dopo l'apertura delle nuove strutture isolane), solo per citare le più pressanti. Il sopralluogo nel carcere di Bancali è solo una tappa del programma di verifica e controllo che il Centro Democratico ha deciso di mettere in pratica in Sardegna visitando tutti i penitenziari dell'Isola. In precedenza, il Cd aveva già svolto un sopralluogo nella colonia penale di Isili, mentre, nelle prossime settimane, i due consiglieri regionali ispezioneranno anche le altre strutture penitenziarie sarde per avere un quadro completo sulla situazione attuale e sui possibili interventi da attuare per migliorare le condizioni dei detenuti e dei numerosi operatori che lavorano all'interno del sistema carcerario della Sardegna. Salerno: Asl in ritardo sul dopo Opg, anche se i soldi per le strutture territoriali ci sono La Città di Salerno, 20 giugno 2015 Le associazioni del terzo settore e il Comune denunciano la latitanza del dipartimento di Salute mentale dell'Asl per quanto riguarda la materia relativa alla chiusura degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. L'occasione è stata offerta dalla presentazione del "Rock n foll Festival" che si svolgerà il 20 giugno al parco del Mercatello e il cui scopo è proprio quello di sensibilizzare su questo tipo di tematiche. Come si ricorderà, dallo scorso 31 marzo è stata disposta la chiusura degli Opg. "A quel punto - ha spiegato Francesco Napoli dell'associazione "Capovolti" - ogni dipartimento di Salute mentale avrebbe dovuto provvedere alla realizzazione di uno spazio protetto (le cosiddette Rems) per quei soggetti che non avevano la possibilità di essere ricollocati in un percorso di autonomia. La progettazione presentata dall'Asl non è stata approvata dalla Regione che però ha concesso finanziamenti per circa cinque milioni di euro per fare degli interventi territoriali". Interventi che non sembrano esserci stati fatta salva la struttura di Mariconda e alcune stanze allestite presso il carcere di Fuorni. Si starebbero poi per realizzare dei veri e propri campi container a Capaccio e Polla. Nulla però che accompagni gli ex internati a ritrovare l'autonomia. Da parte sua il Comune ha ricordato come l'ente partecipi alla spesa di queste persone (alcune delle quali sono state accolte anche in comunità) e le sostiene anche attraverso lo sportello di prossimità, aperto al pubblico dal martedì al giovedì dalle 9 alle 18 presso La Carnale. "L'impalcatura della delibera regionale - ha spiegato l'assessore Nino Savastano - era creare dei percorsi condivisi. Di tutto questo non abbiamo traccia. Hanno pensato solo all'occupazione degli spazi e alla gestione. Speriamo che tutto questo cambi". Novara: detenuti spazzini ogni fine settimana puliranno zona tra Largo Leonardi e l'Allea di Carlo Bologna La Stampa, 20 giugno 2015 Alcuni scatti che documentano il lavoro dei detenuti. A destra Rosalia Marino, Riccardo Basile e Marcello Marzo. Escono tutti i mercoledì dal carcere, vestono la tuta dell'Assa - l'azienda municipalizzata che si occupa della pulizia della città - e per tutta la giornata si dedicano a quelli che vengono definiti "lavori di pubblica utilità". Hanno già restituito decoro a molte zone di Novara, dalle vie a ridosso della stazione ferroviaria ai fossi di Olengo. L'azione degli otto detenuti che compongono la "squadra del mercoledì" non passa certo inosservata: sono sempre accompagnati dalla polizia penitenziaria che non li perde mai di vista. Ma il progetto, avviato il 16 aprile dell'anno scorso, è stato ritenuto talmente valido da suggerirne un altro ancora più "coraggioso" e già sperimentato in sordina. I detenuti della casa circondariale novarese usciranno anche a gruppi di quattro ogni sabato e domenica, sempre per ripulire vie e parchi della città tra largo Leonardi, viale Roma, corso Torino e l'Allea. E questa volta da soli, senza agenti. Con tuta e ramazza, come tutti gli altri operai. "Indistinguibili" è l'aggettivo che usa Rosalia Marino, direttrice del carcere. È lei che si è presa sulle spalle il lavoro più delicato, quello della valutazione dei detenuti che possono lasciare via Sforzesca dalle 13 alle 18, divisi in due squadre. "È stata fatta un'analisi molto attenta dei candidati che poi sono stati preparati ad affrontare gli interventi sul campo. Sono detenuti in regime di articolo 21 e semi-liberi, sottoposti al vaglio del magistrato di sorveglianza, che già lavorano tutta la settimana fuori dal carcere. Ma visto che sono persone vicino alla fine pena e non vogliono trascorrere il loro tempo sulla branda hanno aderito con entusiasmo a questo progetto. È un modo per avvicinarsi sempre di più al reinserimento nella società. È un'opportunità che non sprecheranno, sapendo che potrebbero avere controllo in qualsiasi momento". Il protocollo d'intesa è stato firmato da Comune, Assa, Ministero della Giustizia con Casa circondariale, Magistratura di sorveglianza e Ufficio esecuzioni penali esterne di Novara. L'aspetto del reinserimento sta a cuore sicuramente anche a Marcello Marzo, presidente di Assa, che non disdegna però il ritorno economico per l'azienda che è riuscita a chiudere il bilancio del 2014 con un risultato di sostanziale pareggio: "A Novara lo spazzamento delle strade era gestito da 25 addetti a fronte delle esigenze di una città di 100 mila abitanti. Così abbiamo chiesto la collaborazione della casa circondariale ed abbiamo avviato quelli che all'inizio erano soltanto degli interventi di recupero ambientale straordinari, come la pulizia dietro il palasport. Poi è stata data continuità al progetto. Prima con gli 8 detenuti accompagnati dagli agenti, ora con i 4 che opereranno da soli. Paghiamo il pranzo, 10 euro, e l'assicurazione obbligatoria, 2,50. Una formula che consente un percorso virtuoso anche sotto l'aspetto economico". "Tanto più - aggiunge Riccardo Basile, coordinatore del progetto per Assa - che l'opera dei detenuti si aggiunge a quella svolta dai disoccupati a rischio esclusione". Trieste: oggi due incontri-dibattito sul lavoro dietro le sbarre Il Piccolo, 20 giugno 2015 Il Gruppo carcere della Comunità di San Martino al Campo e l'associazione Senza Confini-Brez Meja di Trieste organizzano due iniziative sulle possibilità di lavoro nelle carceri, in programma entrambe nella giornata odierna. Alle 9.30 nel carcere del Coroneo (via del Coroneo, 31) si terrà una tavola rotonda sul tema: "Lavoro dietro le sbarre: utopia o realtà? Esperienze a confronto", alla quale interverranno Giacomo Sarti, vicepresidente del Consorzio Open, Marco Girardello, prison economy specialist della Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri onlus di Torino, il direttore della carcere di Trieste, Ottaviano Casarano, il consigliere comunale Giovanni Barbo e Dario Parisini, presidente del Consorzio Interland. Nel pomeriggio, invece, con inizio alle 16.30 nella sala Rosa dell'ex Opp di SanGiovanni, Marco Girardello e Giacomo Sarti terranno una conferenza pubblica dal titolo "Storie di detenuti. Persone non reati che camminano". Bollate (Mi): coop sociale "Abc La Sapienza in tavola" apre un ristorante dentro il carcere Il Velino, 20 giugno 2015 Da luglio 2015 nella Casa di reclusione di Milano Bollate si potrà pranzare e cenare sei giorni su sette con i piatti di qualità preparati dai cuochi detenuti della cooperativa Abc La sapienza in tavola. "Nessuna sperimentazione, si tratta di una vera e propria attività che vuole misurarsi con il mercato del lavoro". "Assoluta professionalità, anni di esperienza come cuochi e camerieri, ora al servizio dei cittadini in un ristorante aperto al pubblico all'interno del carcere che vuole essere visto come un luogo in cui si va per mangiare bene, non per fare una buona azione". È più che chiaro il messaggio con cui Silvia Polleri, presidente della cooperativa sociale Abc La Sapienza in tavola, che da anni opera nella Casa circondariale di Bollate, nel lanciare un'iniziativa unica nel suo genere a livello italiano e una delle prime a livello mondiale (in Galles, a Cardiff, c'è The Clink): l'apertura, dal prossimo luglio 2015, di un luogo dove potere consumare pranzo e cena - dal lunedì al sabato - contando su qualità e competenza. Il ristorante, che sorgerà all'interno dell'Istituto di pena ma sarà situato tra la portineria e gli uffici, ovvero lontano dalle zone detentive, prevede circa 50 coperti e un personale di quattro persone detenute fisse più quattro tirocinanti della scuola alberghiera Paolo Frisi attiva all'interno del carcere. "Verrà servita cucina italiana, con la speranza che oltre alla curiosità iniziale, i clienti ritornino spinti dal buon trattamento. Si tratta di un'occasione speciale per confrontarsi con il vero mercato del lavoro, per questo deve essere chiaro fin dall'inizio che non si tratta di una precisa volontà imprenditoriale", aggiunge Polleri. Da luglio 2015 nella Casa di reclusione di Milano Bollate si potrà pranzare e cenare sei giorni su sette con i piatti di qualità preparati dai cuochi detenuti della cooperativa Abc La sapienza in tavola. "Nessuna sperimentazione, si tratta di una vera e propria attività che vuole misurarsi con il mercato del lavoro" Oltre a questo, naturalmente, "c'è l'ulteriore volontà di far incontrare il carcere e la città, per conoscersi più da vicino e superare i pregiudizi di sorta". Mancano solo le ultime carte e nel giro di poche settimane il ristorante sarà realtà: "poi basterà solo prenotare, e venire a mangiare". Livorno: il marchese Frescobaldi stappa la prima bottiglia del vino prodotto dai detenuti di Lara Loreti Il Tirreno, 20 giugno 2015 Livorno, l'evento sull'isola in mezzo ai detenuti. "Incantato da questo posto dal primo momento in cui c'ho messo piede". "Me lo ricordo ancora come fosse adesso: era metà agosto del 2012 quando sono venuto per la prima volta in Gorgona. Era una giornata quasi senza sole e pure c'era una luce straordinaria. Venni a vedere la vigna e rimasi incantato da questo paesaggio meraviglioso". Il marchese Lamberto Frescobaldi osserva il mare all'orizzonte mentre lo sguardo si perde nel blu, ricordando quella giornata di tre anni fa. La magia della Gorgona, il fascino dell'unica isola carcere d'Italia e l'impegno sociale nella possibilità di produrre un vino frutto del lavoro di un gruppo di detenuti a cui dare una chance di reintegrazione nel mondo del lavoro. Il tutto unito a un microclima ideale per lo sviluppo delle uve: terreno drenante, temperature giuste, e vigna che nasce in una conca riparata ma ventilata. Tutti elementi che hanno reso il progetto vinicolo di Frescobaldi una realtà di successo. E risultati si vedono, anzi si bevono. È stata stappata dallo stesso imprenditore giovedì 18 giugno la prima bottiglia - magnum - di "Gorgona", annata 2014. Questo è il nome del vino, che si identifica così in tutto e per tutto con il territorio, di cui è considerato la massima espressione. Un vino fresco e giovane, metà ansonica e metà vermentino, vitigni autoctoni dell'isola, dai profumi floreali con sfumature di vaniglia, poco più di 12 gradi. L'ideale per rinfrescare le calde giornate estive e per una degustazione che va oltre un semplice calice. Bottiglia per lo più impreziosita da un'etichetta unica, disegnata apposta da un'esperta, che si può sfilare e conservare, e in cui sono descritte le caratteristiche del territorio. Per l'occasione Frescobaldi ha organizzato una gita in Gorgona, in cui erano presenti fra gli altri, la direttrice del carcere Santina Savoca, il provveditore di Firenze dell'amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone, la direttrice del tribunale di sorveglianza Antonietta Fiorillo, il portavoce del sindaco di Livorno Andrea Morini, il garante dei detenuti Marco Solimano. E tra gli ospiti speciali, lo chef stellato Luciano Zazzeri, titolare del ristorante La Pineta a Marina di Bibbona, cliente d'eccellenza di Frescobaldi. La gita è stata l'occasione per visitare la vigna di Frescobaldi, grande poco più di un ettaro, la cantina, l'orto, tutti gestiti dai detenuti, e le parti principali dove si svolge la vita dell'isola. Grande soddisfazione è stata espressa sia dall'amministrazione penitenziaria sia da Frescobaldi che insieme hanno una convenzione che andava anzi per altri 14 anni. Una speranza per il futuro e un progetto importante, soprattutto per il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. Vino: si rafforza progetto Frescobladi per carcere Gorgona (Ansa) Cresce e si rafforza il progetto sociale Frescobaldi per Gorgona, nato ad agosto 2012, grazie alla collaborazione tra l'azienda vitivinicola toscana e la Direzione della colonia penale, che mira a dare ai detenuti dell'isola la possibilità di fare un'esperienza professionale nel campo della viticoltura. Ieri, spiega una nota, è stata presentata la nuova vendemmia del bianco prodotto sull'isola ‘Gorgona 2014' e anche le novità per il 2015 che vedono tra i partner, dopo Pinchiorri e Bocelli solo per citarne alcuni, anche Cescot, agenzia espressione di Confesercenti Firenze, attiva nel campo della formazione. Obiettivo è quello di sostenere un detenuto meritevole offrendogli un corso di formazione di sei mesi nel settore della ristorazione e uno stage in un ristorante di Firenze. "La Gorgona è un modello di eccellenza e di recupero dei detenuti, proprio secondo quanto indicato dalla nostra Costituzione, un esperimento che vede uniti pubblico e privato, Stato e impresa, finalizzati al reinserimento dell'individuo nella società, come qualsiasi Paese democratico deve garantire". Così il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi che annuncia una sua prossima visita alla colonia penale dell'isola di Gorgona dove dal 2012 Frescobaldi coltiva vigneti insieme ai detenuti. "Ritengo un mio viaggio a Gorgona una assoluta priorità - aggiunge in una nota - Gorgona è un esempio d'avanguardia e, a questo proposito, desidero ringraziare l'azienda vinicola toscana Marchesi de Frescobaldi e il Dap che, con la loro sinergia, hanno legato profondamente lo sconto della pena all'idea della riabilitazione, dell'educazione e della formazione, affinché la permanenza in carcere sia l'occasione per i detenuti di recupero reale e concreto". Faccio i miei complimenti per questa iniziativa, esortando tutti ad adottare il modello Gorgona". Il governatore sottolinea che "per quanto mi riguarda, la Regione farà la sua parte per incentivare progetti in quella direzione, proprio perché anche in altre zone della Toscana si possano ripetere esperienze di questo tipo: penso di nuovo alle isole, magari Pianosa, in forma completamente diversa, potrebbe essere usata per un'esperienza analoga, più aperta". Ferrara: il Teatro Nucleo presenta lo spettacolo "me che libero nacqui al carcer danno" estense.com, 20 giugno 2015 Lunedì 29 giugno, presso la Casa Circondariale di Ferrara, nell'ambito del progetto del Coordinamento Regionale Teatro-Carcere, con il patrocinio del Comune di Ferrara, della Regione Emilia-Romagna e l'Asp Ferrara, il Teatro Nucleo presenta "me che libero nacqui al carcer danno", spettacolo tratto dalla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, con gli attori detenuti nella Casa Circondariale di Ferrara per la regia di Horacio Czertok in collaborazione con Andrea Amaducci. Il titolo dello spettacolo prende le mosse da uno scritto teatrale di Goethe su Torquato Tasso e racchiude già in sè il germe delle profonde opposizioni su cui si fonda tutta la Gerusalemme Liberata, in particolare l'episodio del Combattimento di Tancredi e Clorinda, messo in musica da Claudio Monteverdi nel 1624 come madrigale rappresentativo e sul quale si concentra anche lo spettacolo me che libero nacqui al carcer danno. Come le parole del Tasso, così la musica di Monteverdi ci portano dritti al cuore della tragedia umana e alla sua inesplicabilità. Per millenni l'uomo ha combattuto e continua a combattere, a offendere ciò che più gli è caro, la vita stessa; come afferma Horacio Czertok, regista dello spettacolo, si combatte "senza requie né respiro contro un altro che ci appare un nemico mortale", per scoprire infine che "la vittoria era anche, esattamente, una sconfitta" e che - scrive Oscar Wilde - "uccidiamo quello che amiamo". Ma emerge con la poesia, la musica, il canto e - in una sola parola - con il teatro, il bisogno benefico di raccontare questa lotta con tutti i mezzi possibili. Questa è la sfida raccolta dai detenuti attori del progetto di Teatro-Carcere. Non negare la lotta, il conflitto - brutale e cieco come quello di Tancredi - ma attraversarli e trasformarli per chi vorrà vedere, ascoltare, considerare anche questi aspetti dell'umano. Forlì: in ricordo del volontario Guido Passini, un evento in carcere martedì 16 giugno Ristretti Orizzonti, 20 giugno 2015 Martedì 16 giugno, attraverso la realizzazione di un evento, la Direzione di questa Casa Circondariale ha voluto valorizzare la positiva sinergia messa in atto tra l'Amministrazione Penitenziaria ed il territorio, nelle sue espressioni particolari quali il Volontariato, l'Istituzione Scolastica e gli Enti di Formazione tese ad offrire delle opportunità formative e culturali alla popolazione detenuta. Per l'occasione le persone detenute impegnate nella varie attività hanno potuto ricevere un riconoscimento di merito. L'evento è stato particolarmente emozionante anche per il ricordo che si è voluto rivolgere alla figura di Guido Passini che all'interno del carcere ha rivestito un ruolo significativo per l'impulso dato ai progetti culturali in atto. Egli è deceduto il 25 marzo di quest'anno ed è stato rievocato con un interminabile applauso e la testimonianza di un detenuto che ha parlato in nome di tutti coloro che hanno avuto l'opportunità di conoscerlo. Era presente anche la moglie di Guido Passini, Cristina Lega, che insieme ai volontari della sua Associazione "Davide e Guido/Insieme - Fibrosi Cistica" sta portando avanti i progetti voluti da Guido in carcere. Sono state lette le poesie inserite nell'antologia "Come farfalle diventeremo immensità 2" curata proprio da Guido Passini e edita da FaraEditore. L'incontro ha avuto il prezioso accompagnamento musicale del "Duo Punto e Virgola" con la voce di Gabriele Graziani e Alessandro Maltoni alla chitarra. Numerose le associazioni e gli enti di formazione presenti ieri, oltre all'Associazione " Davide e Guido/Insieme- Fibrosi Cistica", la Con-Tatto, la San Vincenzo di Cesena, il Gruppo Preghiera Montepaolo, il Cds, la Società Consortile Technè, la Caritas, Linea Rosa, Lions Club Terre di Romagna, Ì Associazione Papa Giovanni XXIII. Il Direttore Dr.ssa Palma Mercurio Milano: la presidente di Poste Italiane visita la mostra filatelica "Oltre le dure sbarre" Adnkronos, 20 giugno 2015 La presidente di Poste Italiane, Luisa Todini, ha visitato ieri a Milano la mostra filatelica "Oltre le dure sbarre", allestita nello Spazio Filatelia di via Cordusio fino al 27 giugno. L'iniziativa, si legge in una nota del gruppo, si inserisce nel progetto formativo-culturale "Filatelia nelle carceri", avente l'obiettivo di favorire la rieducazione e il reinserimento sociale dei detenuti, promosso da Poste Italiane con il patrocinio dei ministeri della Giustizia e dello Sviluppo Economico, in collaborazione con la Federazione fra le Società filateliche italiane e l'Unione stampa filatelica italiana. La mostra, realizzata da un gruppo di detenuti del carcere di Opera, si propone di illustrare - con l'aiuto dei francobolli e di alcuni manufatti realizzati dagli ospiti della Casa Circondariale - diciotto poesie di grandi autori (da Leopardi a Montale). La cartolina e l'annullo speciale realizzati per l'occasione da Poste Italiane, che raffigurano rispettivamente una scena rurale con frutta e vino e una spiga di grano, rappresentano poi un omaggio al tema di Expo 2015. "I francobolli e la posta - ha dichiarato Todini nel corso della sua visita alla mostra - hanno un duplice significato: il primo culturale, perché attraverso i francobolli è possibile passare in rassegna fatti, epoche e costumi della nostra società; l'altro, funzionale, in quanto la posta e il francobollo costituiscono il principale strumento di comunicazione dei detenuti con il mondo esterno". "La mostra Oltre le dure sbarre, organizzata nell'ambito del più ampio progetto Filatelia nelle carcere, ribadisce - ha proseguito Todini - questo storico legame aggiungendo ora nuovi contenuti culturali e artistici. La filatelia, e più in generale il collezionismo e le attività culturali possono fornire un contributo molto importante nel processo di rieducazione che la nostra Costituzione indica chiaramente come obiettivo della pena detentiva, principio che è e resta alla base del progetto sociale "Filatelia nelle carceri" promosso da Poste Italiane". Libri: Pier Cesare Bori e il corso per detenuti su dialogo cultura araba-costituzione italiana Ristretti Orizzonti, 20 giugno 2015 Un libro dal corso per detenuti su dialogo cultura araba-costituzione italiana. La Garante dei detenuti: "per chi vorrà ripetere esperienza, dedicato a Pier Cesare Bori" Entro la fine dell'anno, diventerà una pubblicazione la prima esperienza a livello nazionale rivolta ai detenuti di fede musulmana con l'intendimento di fare leva sul loro patrimonio linguistico religioso e culturale per avvicinarli al tema del significato e del rispetto dei diritti umani. La Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, ha infatti annunciato che i materiali prodotti durante le lezioni e i contributi dei docenti del corso "Diritti, doveri, solidarietà. La Costituzione italiana in dialogo con il patrimonio culturale arabo-islamico", tenutosi al carcere della Dozza di Bologna tra novembre 2014 e maggio 2015 per un totale di 24 lezioni, saranno raccolti in un volume che si intitolerà "Diritti doveri solidarietà - Un'esperienza di dialogo tra Costituzioni e culture alla Dozza di Bologna" e che sarà dedicato alla memoria di Pier Cesare Bori, pioniere del dialogo interculturale in carcere. "A conclusione del corso pongo ancora una volta l'accento sulla sua valenza di progetto educativo - sottolinea Bruno, che è stata promotrice dell'iniziativa - pubblicheremo questo testo per non disperdere i risultati di un'esperienza più che positiva, è un lavoro che a l'ambizione di essere strumento di base per chi vorrà riprodurre questo progetto sia dentro che fuori dal carcere". Grande soddisfazione è stata espressa anche da Emilio Porcaro, dirigente scolastico del Centro per l'istruzione degli adulti metropolitano di Bologna, che si è occupato dell'organizzazione delle lezioni: "Hanno partecipato in totale 80 detenuti, e la qualità della partecipazione alle lezioni è parsa tendenzialmente in crescita - spiega, il progetto ha potuto individuare interessanti filoni di convergenza o almeno di positivo confronto che potranno servire come traccia per il futuro lavoro degli educatori a contatto col mondo islamico, dentro e fuori dal carcere". Libri: "Io non posso tacere"… la giustizia è malata, parola di un pm di sinistra di Alberto Pezzini Libero, 20 giugno 2015 L'inganno dell'obbligatorietà dell'azione penale, l'accusa "sensitiva", la politicizzazione dei casi. In un pamphlet-confessione, l'ex procuratore Piero Tony denuncia le prepotenze dei magistrati. "Io non posso tacere" (Einaudi, pagg. 125, euro 16,00), con sottotitolo Confessioni di un giudice di sinistra (a cura del direttore del Foglio Claudio Cerasa) è un atto di amore verso la magistratura che Piero Tony ha scritto quando è andato in pensione. "Ci tengo a dire - la pregherei di sottolineare questo aspetto - che non l'ho scritto perché sono andato in pensione, però", ci approccia l'autore che sta scombussolando il mondo della giustizia. "Le cose che ho scritto nel libro le ho sempre dette in carriera e annotate direttamente negli atti giudiziari. Non avevo il tempo di poterle raccontare in un libro come ho fatto oggi avendo sempre lavorato fino allo spasimo". Una rara coerenza. Piero Tony è andato in pensione come Procuratore Capo di Prato. Tony è stato giudice istruttore, poi giudice di Corte d'assise, poi giudice minorile, poi procuratore, uno che ha indagato su quasi tutto, dalle Br al mostro di Firenze; e tutti lo ricordano per una requisitoria efficacissima e storica che spezzò in due il teorema accusatorio elaborato dalla Procura di Firenze a carico di Pietro Pacciani. Per Procura di Firenze allora si intendeva Pierluigi Vigna (chiamato il "Duca di Firenze" a cui si devono anche i più importanti libri scientifici in materia di armi): dovette stroncare un teorema accusatorio che secondo lui non stava in piedi. La difficoltà è che lo fece da Procuratore Generale della Corte d'Appello, con in aula i genitori delle vittime straziate dal Mostro di Firenze. Quella requisitoria fu considerata un capolavoro di equilibrio e di oratoria forense, tanto che Indro Montanelli ne fece un ritratto rimasto un gioiello ancora oggi (La coscienza di un giudice, Corriere della Sera, 8 febbraio 1996: "L'anti requisitoria del procuratore generale Tony mi è sembrata uno dei più belli e nitidi scampoli di oratoria forense che mai mi sia capitato di sentire e di leggere". A Tony, infatti, non interessava se Piero Pacciani fosse responsabile o meno: più importante era se ci fossero le prove o meno di quanto lo si accusava. "Ma lei lo sa quanto importante sia l'art. 358 del codice di procedura penale, quello per cui il Pubblico Ministero debba anche svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini?". A dirla tutta, va precisato come pochi Pubblici Ministeri si ricordino di una norma simile, incastonata nel codice di procedura penale come un castello oltre l'orizzonte. Il libro è forse l'ideale continuazione di quell'anti requisitoria perché la dice lunga su tutta una serie di criticità della magistratura. Afferma Tony: "Ma guardi che ho ricevuto più apprezzamenti che critiche e non me l'aspettavo: è il segno che tanti in magistratura la pensino come me". Il primo sasso che si toglie dalla scarpa è quello contro i giudici "sensitivi": quelli che condannano una persona perché "secondo loro" è responsabile. "Si rende conto che è una cosa davvero pericolosa? Mi sono veramente stufato di tanti colleghi che vedono la responsabilità di una persona secondo loro: si sentono come gli imbuti di certe sensazioni. La responsabilità di una persona deve invece derivare da un processo dibattimentale ben preciso, con scansioni nette, altro che percezioni". Un altro punto fragile della magistratura, un ganglio in bella evidenza come una ferita dolente resta poi quello della obbligatorietà dell' azione penale. "Non esiste né mai è esistita. La verità è che in ogni ufficio giudiziario ci sono e non possono non esserci, delle scelte prioritarie, anche formalizzate (alle pagine 76 e 77del libro, ndr). Guardi ad esempio quanto ha fatto la Procura di Torino con Marcello Maddalena il quale per la prima volta ha formalmente fissato le priorità all'interno di una circolare già nel 2011.Un ufficio che ha sulla scrivania circa 3.000 notizie di reato deve per forza istituire una priorità che non sia quella cronologica. Lo dice già la legge che i reati da coltivare per primi siano quelli dotati di maggiore offensività". Situazione, nella pratica non sempre lineare, da anni. Prosegue: "È questo che ha portato la giustizia, e non solo Magistratura Democratica, a ritenere di avere una singolare missione socio equitativa realizzabile non con la difesa dei più deboli, ma con l'attacco ai più forti. È come se a un tratto, in mancanza di alternative di governo, una parte della magistratura avesse scelto di perseguire attraverso la via giudiziaria l'applicazione del socialismo reale. Ma così salta tutto. Saltano i confini tra la politica e la magistratura. Salta la distinzione dei ruoli. Oggi è solo tautologia dire che la magistratura è partitizzata, non si tratta di un'opinione, è un dato di fatto. Esistono le correnti. Esistono i magistrati che professano in tutti i modi il loro credo politico. Esistono grandi istituzioni, come il Csm, dove si fa carriera soprattutto per meriti politici". Cosa si respira in queste pagine è la assoluta idiosincrasia verso il politically correct, e la politicizzazione della giustizia: "Quante volte si è percepito negli ultimi anni che per alcuni magistrati è stato centrale non il dovere di essere equidistanti nella valutazione di ogni elemento, ma il senso del politicamente corretto? Per fare un esempio: nulla è credibile se in odore di berlusconismo e tutto è vangelo se in odore di Bobbio e Calamandrei (pag 66). Oggi le posso dire che i magistrati, soprattutto i più giovani, si stanno sempre più allontanando dalla politicizzazione pensando più che altro a fare il loro mestiere". Ci sarà. Arrestare i flussi migratori è impossibile, oltre che umanamente ingiusto di Kofi A. Annan (Traduzione di Anna Bissanti) Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2015 Le scene di morte e miseria alle quali assistiamo e che si stanno verificando con frequenza crescente nelle acque del Mediterraneo e dell'Asia meridionale hanno riportato l'attenzione su una delle più antiche attività del genere umano. La migrazione. È giunto il momento di accettare la realtà come le onde dei mari che molti migranti attraversano, il flusso e il riflusso dell'umano migrare è inarrestabile. È per questo motivo che la comunità internazionale deve occuparsi di migrazione e deve farlo con comprensione e compassione. Al momento sono circa 250 milioni i migranti che vivono e lavorano nel mondo, e nei prossimi mesi e anni sicuramente molti altri si aggiungeranno a loro. Dobbiamo pertanto predisporre politiche atte a gestire i flussi umani con modalità che arrechino benefìci ai paesi di origine, di transito e di destinazione dei migranti. E, naturalmente, dobbiamo garantire il loro stesso benessere. Tutto ciò ci sollecita a intervenire su almeno quattro fronti. Per cominciare, i leader dei paesi di destinazione dei flussi migratori - a prescindere che si trovino in Europa, in Africa, nelle Americhe, in Asia o in Oceania - non dovrebbero voltare le spalle ai disperati e agli sventurati. Per molti burocrati eletti, le migrazioni pongono un complesso dilemma politico: come conciliare le rivendicazioni dei loro cittadini e gli interessi dei migranti. Devono quindi trovare il coraggio di addurre argomentazioni valide a favore di una politica umana per la migrazione. Troppo spesso, però, i migranti sono utilizzati come capri espiatori. Certo, gli immigrati devono accettare di adattarsi alle culture e alle consuetudini dei paesi nei quali si stabiliscono. Ma, dal canto suo, l'opinione pubblica dei paesi di destinazione dell'emigrazione deve riconoscere il ruolo cruciale che i nuovi arrivi possono rappresentare per l'economia del paese. Di fatto, i migranti riempiono alcuni vuoti di competenze, svolgono mestieri dei quali altri non possono o non vogliono occuparsi, e sostituiscono una forza lavoro del paese ospitante che invecchia o si riduce sempre più. Secondo l'Istituto per le ricerche economiche con sede a Monaco, la sola Germania entro il 2035 avrà bisogno di circa 32 milioni di immigrati, se intende mantenere un corretto equilibrio tra la sua popolazione in età da lavoro e quella non più in età da lavoro. Secondo, dobbiamo garantire che i migranti che scelgono di spedire nei loro paesi di origine i soldi guadagnati possano farlo agevolmente e con minori spese possibili. Si calcola che nel 2014 le rimesse di denaro dei migranti provenienti da paesi in via di sviluppo abbiano raggiunto i 436 miliardi di dollari circa - una cifra che fa quasi sparire al confronto l'ammontare annuale che la comunità internazionale spende per gli aiuti ufficiali allo sviluppo. Purtroppo, tuttavia, gli intermediari finanziari trattengono in media il 9 per cento dei preziosi guadagni che i migranti spediscono a casa. Ridurre la percentuale degli intermediari vorrebbe quindi dire offrire un incentivo enorme alle entrate delle famiglie dei migranti rimaste nei paesi d'origine, e così pure aumentare le opportunità economiche in quei paesi, contribuire a ridurre la povertà e, di conseguenza, giovare alla stabilità globale. Terzo, dobbiamo mettere a punto sistemi migratori e dotarli delle risorse necessarie a elaborarelerichiestediasilospeditamente.im-parzialmente e apertamente, così che i profughi siano tutelati e possano stabilirsi in tutta sicurezza. I paesi europei, per esempio, devono individuare i meccanismi migliori per condividere il flusso dei migranti in arrivo. Il mondo sviluppato spesso ritiene ingiustamente che gli si chieda di occuparsi di un numero sproporzionato di persone alla ricerca di una vita migliore. In verità, il 70 per cento dei rifugiati cerca protezione nei paesi in via di sviluppo Il Libano, per esempio, ha una popolazione complessiva di 4,5 milioni di abitanti, ma entro la fine di quest'anno molto probabilmente arriverà a ospitare quasi due milioni di profughi, allontanatisi dalle loro case per colpa del violento conflitto nella vicina Siria e in altri paesi. Coloro che oggi migrano lo fanno per le medesime ragioni che un tempo spinsero milioni di europei ad abbandonare i loro paesi. Fuggono dalla miseria, dalle guerre o dall'oppressione, oppure cercano una vita migliore in una nuova terra. Oltretutto, molti dei migranti contemporanei, come quelli che si stanno riversando in Libano e in Giordania, hanno buoni motivi per chiedere legalmente asilo in virtù della Convenzione del 1951 relativa allo status di rifugiato e al successivo Protocollo del 1967 relativo allo status di rifugiato. Quando invece i potenziali rifugiati sono ostacolati da sbarramenti in alto mare, sono rinchiusi per periodi di tempo eccessivamente lunghi in condizioni inaccettabili, o quando si vedono respingere l'ingresso in un paese a causa di interpretazioni legali restrittive, si perde il rispetto della legge internazionale. Infine, gli sforzi volti a respingere le migrazioni farebbero bene a concentrarsi sui trafficanti di uomini non su coloro che sono sfruttati. Dobbiamo quindi essere attenti e cauti e non spingere ancor più nel sommerso il processo migratorio, né offrire ancor più occasioni alla criminalità organizzata che sfrutta la disperazione dei migranti per guadagnare in modo osceno e il mio non è un invito a dare il via libera a una migrazione incontrollata. È importante nondimeno arrivare ad accettare il fatto che gli sforzi miranti a fermare le migrazioni sono destinati a fallire, con ripercussioni devastanti per le vite umane - che si tratti di perderle su barconi che affondano nelle acque del Mediterraneo o del Mare delle Andamane o che si tratti di esporle alla minaccia della violenza xenofoba in Sudafrica, in India o altrove. Erigere muri più alti non può essere la soluzione. Le migrazioni proseguiranno fino a quando non strapperemo i più poveri e i più vulnerabili alle condizioni inaccettabili di vita dalle quali attualmente stanno scappando. All'inizio degli anni Ottanta, ho lavorato presso l'Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite e ricordo bene in che modo i leader politici, gli intellettuali e gli accademici europei si unirono compatti alla causa dei boat people in fuga dal Vietnam. Oggi il mondo ha il dovere morale di unirsi compatto nello stesso modo. Rifugiati: Ue, spesi 13 miliardi in 15 anni per respingerli Anna Maria Merlo Il Manifesto, 20 giugno 2015 Giornata mondiale dei rifugiati. Gli enormi costi dei vari programmi di respingimento, per difendere l'Europa-fortezza. Critiche a Schengen, che ha compiuto 30 anni. Sarkozy paragona i migranti a una "perdita d'acqua". "In una casa c'è un tubo che esplode e l'acqua invade la cucina. L'idraulico arriva e dice: ho una soluzione. Terremo metà della perdita d'acqua in cucina, ne metteremo un quarto nel salotto e un altro quarto nella camera dei genitori. E se non basta, c'è ancora la camera dei bambini". La "perdita d'acqua" sono i rifugiati. Il pubblico ride. Marine Le Pen? No, è Nicolas Sarkozy, l'ex presidente, a un meeting elettorale all'Isla-Adam, giovedì sera. In questo clima politico ha luogo l'operazione di Ventimiglia, che segue lo scandalo constante a Calais, dove qualche migliaio di migranti rifugiati nella cosiddetta New Jungle (ultimo approdo dopo i ripetuti sgomberi) cercano disperatamente di raggiungere la Gran Bretagna salendo clandestinamente sui camion. A Parigi, nelle scorse settimane ci sono stati vari sgomberi di accampamenti improvvisati, il 2 giugno in un clima calmo, poi con ricorso alla violenza da parte degli agenti. In Danimarca, alle legislative di giovedì, ha ottenuto il 21,8% il partito anti-immigrati Dansk Folkeparti di Kristian Thulesen Dahl. In Ungheria, c'è il progetto di costruire un muro alto 4 metri (ma alcuni chiedono di più) al confine con la Serbia, lungo 175 km, in Bulgaria e in Grecia sono già stati eretti dei muri, e ne esistono altri per proteggere le due enclaves spagnole in Marocco, Ceuta e Melilla. Questi ultimi 4 muri sono costati complessivamente 76,6 milioni di euro e solo a Ceuta e Melilla la manutenzione costa 10 milioni l'anno. Il 14 giugno, gli accordi di Schengen hanno compiuto 30 anni (nati tra 5 paesi - Francia, Germania, Benelux - oggi ne contano 26, di cui 4 non Ue, l'Italia ne fa parte dal ‘90). Nel paesino del Lussemburgo che ne ha dato il nome (500 abitanti) c'è un museo per celebrare la libertà di circolazione. Ma oggi molti governi europei ne contestano il principio: ci sono quelli che vorrebbero rivedere la libera circolazione nei confini interni (è il comportamento di Francia, Austria e Svizzera in questi giorni) e quelli che non vogliono farsi carico delle "frontiere esterne" (Italia) e quello che comportano per i regolamenti di Dublino. Oggi, 20 giugno, è la giornata mondiale dei rifugiati, che sarà per esempio celebrata in Francia con una marcia di ombrelli bianchi a Lione, organizzata dal Forum dei Rifugiati. Sui 59,5 milioni di rifugiati o sfollati nel mondo, cioè un abitante ogni 122 sulla terra (dati Onu) - per numero di abitanti, il 24esimo paese al mondo - la Ue, che si sente assediata, ha ricevuto 626mila domande di asilo, in aumento del 45% rispetto al 2013, un numero che si è moltiplicato per 5 per i migranti sbarcati sulle coste nord del Mediterraneo. Più del 50% sono state presentate in Germania e Svezia (seguite da Italia e Francia), e ci sono grandi disparità nella percentuale di accettazione (la media Ue è del 45%, si va dalla Finlandia al 67% alla Francia con il 22%, passando per la Germania con il 42%). Gli europei sostengono che, con la crisi, non ci sono i soldi per l'accoglienza. Eppure vengono spese cifre enormi per respingere i migranti, prima ancora di sapere se sono persone che hanno diritto all'asilo. Secondo i calcoli fatti dal pool di Migrants Files, negli ultimi 15 anni la Ue ha respinto 3,3 milioni di persone, per un costo di 11-13 miliardi (si tratta della principale spesa dedicata all'immigrazione). La Ue ha messo in opera una serie di programmi per perfezionare le tecniche dei respingimenti: Triton e Peseidon (115 milioni nel 2015), Eurosur (176 milioni dal 2007), i Rabits (Rapid Border Intervention Teams) di Frontex e un'altra trentina di progetti, che vanno dai robot che "fiutano" al posto dei cani alle frontiere (progetto Handhold, 3,5 milioni e Snoopy, 1,8 milioni), ai robot-pattuglia Talos (12,9 milioni), alla sorveglianza satellitare Limes (11,9 milioni) fino ai droni (9,9 milioni). Ci sono poi i finanziamenti a paesi terzi: per esempio, 30 milioni all'Ucraina per creare un centro di ritenzione per migranti o i soldi dati all'Italia alla Libia (più di 10 milioni). Tra il 2007 e il 2012, il fronte sud (Italia, Spagna e Grecia) hanno speso 557 milioni per strumenti tecnologici contro l'immigrazione (331 l'Italia secondo Lunaria, finanziato al 50% dalla Ue). Morti di Cie. Storie di Ordinaria Detenzione Amministrativa dirittiglobali.it, 20 giugno 2015 "Morti di Cie. Storie di ordinaria detenzione amministrativa" è un progetto d'inchiesta autonomo e indipendente il quale, attraverso il lavoro di studiosi ed esperti delle tematiche del diritto dell'immigrazione, antropologi, sociologi, fotografi, video-makers, giornalisti e grafici, tutti impegnati nell'attivismo per la tutela dei diritti umani, vuole raccontare e analizzare ogni singolo caso di decesso all'interno delle strutture di detenzione per migranti irregolari dal 1998 ad oggi. L'inchiesta vuole capire come la Magistratura italiana ha valutato e giudicato ogni singolo caso, e se per questa ci sono dei colpevoli o meno. Il progetto non ha finalità giustizialiste, non si pone l'obiettivo di trovare una "giustizia legale", giuridica, o peggio, una giustizia meramente tribunalesca. Abbiamo scelto la data del 20 giugno, Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato per lanciare il nostro Sito internet www.mortidicie.org. Resta connesso con la nostra inchiesta #mortidicie con notizie, informazioni, news dal mondo e dall'Italia per parlare e far rimanere accesa l'attenzione sulla detenzione amministrativa dei migranti irregolari, nella sempre più profonda convinzione che "no human is illegal". Da mercoledi 1 luglio potrete sostenere l'inchiesta Morti di Cie donando alla nostra campagna di crowd-funding sul sito di Indiegogo. Diventa attore protagonista di questa inchiesta insieme a noi donando presso i nostri canali Paypal e Indiegogo. Per maggiori info mortidicie@gmail.com. "I migranti? Bruciateli vivi". Le frasi choc sui social di un ispettore di polizia di Fabio Albanese La Stampa, 20 giugno 2015 "Bruciarli vivi o rimpatriarli", "buttateli a mare", "impalata ed espulsa", "ah, mi manca Hitler". Non sono frasi di qualche esagitato razzista ma quelle del dirigente della Polfer di Catania Gioacchino Lunetto che fino all'ora di pranzo di ieri "postava" su Facebook, ora oscurato. Per queste frasi, pubblicate ieri dal sito Meridionews, il dirigente, 54 anni, è stato sottoposto a una indagine interna e la Digos ha già trasmesso alla Procura "gli atti sulle dichiarazioni pubblicate sul profilo social riferite ad un ispettore della Polfer di Catania". Frasi pesanti, che il poliziotto ha continuato a pubblicare per mesi: è stato possibile risalire fino al settembre dello scorso anno prima che il profilo Facebook venisse oscurato. Sulla vicenda già due deputati siciliani, Erasmo Palazzotto di Sel e Giuseppe Berretta del Pd, hanno chiesto l'intervento del ministro dell'interno Alfano e del capo della polizia Pansa e hanno annunciato interrogazioni parlamentari. Il questore Marcello Cardona "ha incaricato di avviare, con rapidità e rigore, provvedimenti disciplinari". Il poliziotto dedica la maggior parte dei commenti, peraltro in un profilo senza restrizioni, alla grave emergenza migranti a Catania. Tra l'altro, scrive: "Diamogli fuoco insieme agli Italioti che li indottrinano e aizzano", "Vogliono sottometterci alla loro cultura di morte che li ha portati a lasciare le loro nazioni devastate dalla litigiosità, arroganza e disprezzo per gli altri". "Assolve" i profughi che arrivano dalla Siria: "Gli unici che meritano accoglienza: scappano da una guerra e sanno ben comportarsi". Ma poi attacca perfino la presidente della Camera e l'ex ministro dell'immigrazione: "Avvisate la Kyenge e la Boldrini. Dite loro che i loro amici, ospiti non invitati a casa nostra, sono dei selvaggi da sopprimere quantomeno per la mancanza di rispetto nei confronti degli italiani". Frasi commentate e con tanti "like" di persone che adesso si vuole identificare, per cercare di capire se i pensieri del capo della Polfer erano condivisi anche da altri poliziotti. Brasile: Cesare Battisti si sposa, addio estradizione di Adriano Scianca Libero, 20 giugno 2015 Il terrorista convola a nozze in Brasile. Ora può chiedere la cittadinanza e sparire. "Battisti dove sei?", cantava qualche anno fa un gruppetto rap dall'effimero successo. Si riferivano al cantante di Poggio Bustone, ovviamente, ma la domanda sembra tanto più significativa se riferita all'altro Battisti, quello che ha scelto di vivere un po' più in là della provincia di Rieti. Parliamo di Cesare, l'ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo, quello che sta dolorosamente espiando i suoi omicidi al sole di Brasilia, fra un cocktail e un party letterario. Ora l'ultima beffa: Battisti si sposa. L'uomo, condannato all'ergastolo in via definitiva in Italia per quattro omicidi commessi durante gli anni di piombo (ma mai estradato dal Brasile), ha annunciato che convolerà a giuste nozze con la fidanzata brasiliana, Joice Lima, il prossimo 27 giugno. Testimone per lo sposo sarà Eduardo Suplicy, attuale responsabile per i diritti umani di San Paolo nonché amico personale di lunga data dell'ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva, che negò l'estradizione in Italia e concesse lo status di rifugiato politico all'ex terrorista. L'aspetto privato della faccenda è ovviamente affare della signora Lima e dei suoi discutibili gusti in fatto di uomini: Battisti non sembra certo un bell'uomo, trasuda antipatia da tutti i pori e tanto meno è una persona eticamente rispettabile. Ma contenta Joice, contenti tutti. Qualcuno, tuttavia, sospetta che oltre all'amore che è cieco, non ha età né standard morali particolarmente elevati, dietro queste nozze potrebbe esserci anche un calcolo molto più prosaico. Insomma: oltre che la moglie, all'altare l'ex membro dei Pac potrebbe prendere pure la cittadinanza brasiliana, mettendo fine alla sua sempre precaria situazione (capitelo, la caipirinha in spiaggia non ha lo stesso sapore se non sei sicuro al cento per cento di averla fatta franca). La situazione coniugale di Battisti è del resto incasinata e piena di ombre come il resto della sua vita. Sappiamo che l'uomo si è sposato una prima volta con una donna francese conosciuta a Parigi, Laurence. Secondo Wikipedia, "nel 2011 sposò la nuova compagna, la brasiliana Joice Lima", da cui ebbe una figlia nel 2013.Ma con la Lima, lo abbiamo visto, si sposerà a giugno, quindi l'enciclopedia on line si dev'essere sbagliata. Anche la situazione della figlia non è chiara. In occasione dell'ultima bega burocratica circa il suo status brasiliano, il Procuratore della Repubblica a Brasilia, Vladimir Aras, dichiarò: "Sappiamo che Cesare Battisti ha una figlia, ma non abbiamo la certezza che sia naturale o acquisita. Se diventasse padre o se solo decidesse di sposare la sua compagna brasiliana il suo visto automaticamente diventerebbe permanente". Per avere la cittadinanza brasiliana, infatti, bisogna risiedere nel Paese continuativamente per 15 anni (Battisti vi si trasferì invece nel 2004). Esistono tuttavia una serie di scorciatoie per diminuire gli anni. Alla fine, se il residente ha una moglie brasiliana o un figlio, si può inoltrare la richiesta dopo un solo anno. Bingo. E agli italiani che chiedono giustizia non resta che attendere almeno i confetti. Iran: 32 prigionieri giustiziati all'approssimarsi del mese sacro del Ramadan ncr-iran.org, 20 giugno 2015 Trasferimento di 22 prigionieri in attesa di esecuzione a Shiraz. Condanne a morte per altri 10 prigionieri a Zahedan. Martedì 16 Giugno venticinque detenuti sono stati impiccati collettivamente nella prigione di Gohardasht (Rajai Shahr) di Karaj. Precedentemente, lunedì, quattro detenuti erano stati giustiziati collettivamente nella prigione centrale della stessa città. Inoltre il 16 Giugno sono stati giustiziati un detenuto del carcere di Vakilabad a Mashhad e un altro ad Eqlid (nella provincia di Fars). Il 17 Giugno un detenuto afghano è stato giustiziato nella città di Sari. Le impiccagioni ad Eqlid e Sari sono avvenute pubblicamente. E ancora il 16 Giugno le autorità del carcere di Adel-Abad, a Shiraz, hanno trasferito 22 detenuti in attesa della loro esecuzione. Le condanne a morte per altri 10 detenuti del carcere di Zahedan sono inoltre state confermate dalla magistratura del regime iraniano. La Resistenza Iraniana chiede al popolo iraniano, ed in particolare ai suoi giovani coraggiosi, di protestare contro queste atrocità e di aiutare le famiglie delle vittime, esortando inoltre la comunità internazionale ad adottare una politica risoluta nei confronti di questo regime. Maryam Rajavi, Presidente eletta della Resistenza Iraniana, durante il gran raduno dei sostenitori della Resistenza Iraniana del 13 Giugno a Parigi ha dichiarato: "Per la violazione dei diritti umani in Iran, l'impasse sul nucleare, la crisi nella regione e per combattere l'ISIS, la soluzione sta nel rovesciare il regime di Tehran". Ha poi parlato delle crescenti rivolte e delle proteste del popolo iraniano dicendo: "Il velayat-e faqih è giunto alla fine e il popolo iraniano chiede un grosso cambiamento". Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana Stati Uniti: 130 evasi dalle prigioni a piede libero, alcuni sono ricercati da decenni Associated Press, 20 giugno 2015 Sono 130 gli evasi da prigione che girano a piede libero per gli Stati Uniti. Lo ha rivelato l'Associated Press dopo un'indagine svolta da un capo all'altro del paese. La recente fuga di due detenuti condannati per omicidio dal carcere di massima sicurezza nello stato di New York non è l'unica per spettacolarità. Tra i 130 evasi, in qualche parte del Paese, o forse già all'estero, si nasconde un killer che è fuggito da una prigione del Texas strisciando all'interno di una condotta per l'aria condizionata. In Indiana un altro omicida è scappato usando un camion della spazzatura, mentre in Florida un detenuto ha convinto i suoi compagni di cella a metterlo in una cassa per imballaggi all'interno della falegnameria della prigione e si è letteralmente consegnato alla libertà usando un furgone. Alcuni di questi detenuti mancano all'appello da decenni e le autorità hanno ormai poche speranze di riacciuffarli. E diventa sempre più difficile la caccia a David Sweat e Richard Matt evasi dalla Clinton Correctional Facility da ormai due settimane. Intanto sono finiti della lista dei 15 più ricercati dei Marshal e sulla loro testa pende una taglia da 50.000 dollari. Le ricerche si sono inoltre allungate al confine con il Messico, oltre che di quello con il Canada, e le autorità hanno chiesto a tutti i residenti della zona in possesso di telecamere a circuito chiuso di ispezionare le immagini dal giorno della fuga per verificare attività sospette.