Giustizia: sicurezza oltre il carcere di Vladimiro Zagrebelsky (Magistrato) La Stampa, 1 giugno 2015 Dopo la sentenza con cui la Corte europea dei diritti umani ha ritenuto che la ristrettezza dello spazio destinato ai detenuti italiani fosse causa, in se stessa, di trattamento inumano, sono stati presi provvedimenti. Da un lato alcune modifiche legislative hanno prodotto la diminuzione del numero dei detenuti in carcere e dall'altro la gestione di varie carceri è stata rivista per consentire ai detenuti la maggior possibile permanenza mori delle celle durante la giornata. In questo modo sembra risolto o almeno rinviato il contenzioso che esponeva anche l'Italia (insieme a altri Paesi) a gravi addebiti in sede europea per il fatto del sovraffollamento carcerario. Ma la questione del rapporto tra lo spazio disponibile e il numero dei detenuti è solo una di quelle che riguardano il carcere. E lo schematismo della sentenza europea (meno di 3 mq per detenuto eguale trattamento inumano) ha condotto a credere che quello e solo quello fosse il problema da risolvere. Mentre il senso e il contenuto della politica penitenziaria deve avere più ampio respiro e la stessa esigenza di evitare trattamenti inumani va ben oltre. Nei prossimi mesi verrà approvata una legge di delega al governo per la riforma di diversi aspetti dell'esecuzione della pena detentiva. E il ministero della Giustizia accompagna ora i lavori parlamentari con un'ampia consultazione di persone, associazioni e organismi che, per la loro esperienza, vanno coinvolti e possono offrire sostegno e consiglio. La riforma che verrà introdotta riesaminerà il complesso di strumenti che già ora consentono di gestire il corso dell'esecuzione della pena. È augurabile che insieme e forse prima dell'innovazione legislativa il governo si applichi a rendere pienamente praticati tutti gli strumenti che già oggi sono scritti nelle leggi. Per consentire il lavoro nelle carceri non c'è bisogno di cambiare le leggi. E così per far si che le forme non carcerarie di esecuzione delle pene siano serie nella loro concreta applicazione. La Costituzione prescrive che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Per definizione le pene procurano sofferenza; è la loro natura ed anche il loro scopo. Se la ricerca della giustificazione della pena rinvia alle discusse radici filosofiche del diritto di punire, quella dei risultati ottenuti punendo potrebbe essere più fattuale e incontrovertibile. Essa conduce a un marcato scetticismo. Il tasso di recidiva in chi ha scontato una pena in carcere è alto. Oltre alla pervicacia di chi, a causa della sua personalità, non ha ottenuto forme di esecuzione diverse da quella carceraria, la recidiva dimostra la scarsa efficacia del carcere e del trattamento rieducativo che dovrebbe accompagnarlo. Ma nessuna riforma può contraddire l'esigenza di garantire la sicurezza di tutti. La separazione dalla comunità sociale che deriva dalla carcerazione è l'estremo strumento a disposizione dello Stato. Certo vi sono emozioni sollecitate ad arte e false impressioni che percorrono l'opinione pubblica. Ma per la fiducia che deve poter esser riposta nello Stato è devastante vedere che alla commissione di reati non fa seguito nessuna reazione, che sia rigorosa e rapida. Ed è indiscutibile che la garanzia della sicurezza sia un dovere dello Stato. Occorre tener conto della grande varietà di situazioni, della personalità dei condannati, della loro pericolosità, della praticabilità di alternative alla pena detentiva. E vi sono casi in cui non esistono ora alternative immaginabili alla carcerazione. Insieme alla condanna per le condizioni inumane della detenzione, la Corte europea ha condannato l'Italia per non aver garantito la vita di due donne, uccise da un pericoloso criminale scriteriatamente ammesso a scontare la pena all'esterno. Ma poiché il carcere spesso abbruttisce, costringe all'ozio in cattiva compagnia, interrompe anche i legami positivi come quelli familiari (con questo affliggendo anche coniugi e figli innocenti), occorre sostituire ad esso, quando sia possibile, alternative che siano serie, sia visibili nella loro natura di sanzioni dovute alla commissione di reati, siano concretamente eseguite. La pluralità di alternative, capaci di adattarsi a situazioni molto diversificate, consente di sfuggire all'alternativa del carcere o (quasi) niente, riducendo il primo al suo ruolo di estremo rimedio. In questo quadro, il secco titolo di un recente libro "Abolire il carcere" (di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta) appare provocatorio e tale da chiudere anziché aprire il necessario dialogo e la necessaria considerazione di esigenze diverse e tutte gravi. Ma la copertina e soprattutto il contenuto del libro indica anche ch'esso vuole essere "Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini". Infatti non si può pensare di "abolire", e nemmeno di ridurre il ricorso al carcere senza garantire, più e meglio di ora, la sicurezza dei cittadini: la sicurezza e la sensazione di sicurezza. In caso contrario forti opposizioni nell'opinione pubblica renderebbero impraticabile ogni riforma. E allora l'interesse del libro risiede nell'illustrazione di possibili sanzioni e misure alternative al carcere, siano esse pecuniarie, o risarcitorie per le vittime dei reati, oppure tali da privare effettivamente il colpevole del profitto del reato, o fargli compiere lavori di utilità pubblica. Si tratta di sanzioni che possono essere efficaci e tali da evitare il problema di una risocializzazione difficile, se non impossibile, nel carcere. Naturalmente simili sanzioni diverse dal carcere per essere serie e realmente scontate richiedono che lo Stato e le comunità locali impieghino mezzi, che costano. Ma anche il carcere costa, e costa molto. Giustizia: al via gli Stati generali per la riforma del sistema penitenziario di Marzia Paolucci Italia Oggi, 1 giugno 2015 La cella come luogo di riposo e non come unico spazio dove trascorrere la giornata secondo un modello di carcere a celle aperte per almeno otto ore al giorno da destinare ad attività programmate per non addormentare più cervello e coscienza. È uno dei punti caposaldo della mission degli Stati generali sulle carceri che il ministero della Giustizia ha deciso di inaugurare il 19 maggio scorso presso il carcere di Milano-Bollate, un modello per l'alta percentuale di detenuti in lavoro esterno verso quello che il ministro Orlando ha definito "un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto". Previsti 18 tavoli su lavoro, istruzione, salute, misure di sicurezza, sanzioni, giustizia riparativa, esecuzione penale, operatori penitenziari, trattamento rieducativo, reinserimento, organizzazione e amministrazione dell'esecuzione penale. A farne parte una media di sei, otto membri ciascuno che da qui al prossimo novembre si riuniranno periodicamente per sviscerare il tema dell'esecuzione penale con sei mesi di tempo per parlarne in termini di dignità, diritti e sicurezza e "sei mesi di idee per cambiare il carcere". Alla conferenza-lancio erano presenti, tra gli altri, il Procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, il presidente della Corte d'Appello del capoluogo lombardo Giovanni Canzio, il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, il sindaco Giuliano Pisapia, Marco Pannella, il giurista e Presidente emerito della Consulta Valerio Onida e don Gino Rigoldi. "Quello che abbiamo presentato è un confronto partecipato a più rappresentanze sull'esecuzione penale esterna, un think-tank sotto ogni profilo, normativo, organizzativo, sociale e culturale per ridurre il sovraffollamento carcerario puntando di più sulle misure alternative al carcere e così sconfiggere quel 70% di recidiva sui "reati di strada", quali furto e spaccio", dichiara a Italia Oggi Sette, Mauro Palma, consigliere del ministro Orlando per le politiche penitenziarie e parte della squadra di esperti chiamati a disegnare le linee di azione dell'iniziativa. Di ritorno dalla conferenza di lancio mentre è in viaggio verso Strasburgo dove presiede il Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale del Consiglio d'Europa, Palma anticipa: "L'obiettivo finale del pensatoio a tavoli è quello di riempire di contenuti quei nove punti della delega sulla riforma del sistema penitenziario oggi in discussione alla Camera dal lavoro dei detenuti, valorizzazione del volontariato, affettività, applicazione delle nuove tecnologie di comunicazione (Skype) alle relazioni familiari fino all'organizzazione della vita detentiva, giustizia riparativa, misure alternative, processo di reinserimento sociale per ridurre la recidiva e adeguamento delle norme penitenziarie ai minori in esecuzione penale". Per quanto riguarda modi e tempi dell'iniziativa, "i tavoli lavoreranno in videoconferenza attraverso una piattaforma informatica comune, un software che permetterà di vedersi e inserire i documenti in una drop box a cui tutti i partecipanti possano attingere, abbiamo scelto i nomi dei componenti fissi dei tavoli e testeremo la piattaforma informatica. Entro la fine di ottobre, ogni tavolo dovrebbe aver prodotto un documento tecnico con le proposte sul tema assegnato che, con gli altri, costituirà la base per scrivere la delega, oggi al vaglio della Camera". Oltre alla linea di azione normativa, c'è poi quella organizzativa: "In base al nuovo regolamento del Mingiustizia", conclude Palma, "il Dipartimento Affari penitenziari si sdoppia con due dipartimenti e un unico momento formativo". Si è ridotta la distanza dalla corretta capienza Dalla sentenza Cedu - Corte europea diritti umani del gennaio 2013 che ci chiedeva rimedi urgenti in materia di sovraffollamento carcerario, l'Italia si è data una mossa ma ancora molto c'è da fare. La distanza dalla capienza regolamentare di quasi 50 mila si è molto ridotta passando dai circa 9 mila detenuti in più registrati a giugno scorso (58.092 effettivi contro i 49.461 regolamentari) agli oltre 3.200 di oggi per un dato complessivo di 53.213 presenze al 19 maggio 2015, secondo i dati ministeriali comunicati a Italia Oggi. Ci sono 32 mila presone in misure alternative di vario genere, con sentenza definitiva c'è il 66% del totale, il restante 34% resta in attesa di sentenza definitiva, di loro meno della metà, circa 9 mila, attende ancora il giudizio di primo grado. Giustizia: addio al Vilipendio al Capo dello Stato, il Senato vuole "sgonfiare" il reato Adnkronos, 1 giugno 2015 Pena detentiva più che dimezzata e solo se offesa è riferita a casi specifici. I cinque anni di carcere per il reato di Vilipendio al Capo dello Stato saranno solo uno sbiadito ricordo: l'aula di palazzo Madama si appresta a modificare l'articolo 278 del codice penale, che (ancora per poco) infligge da 12 a 60 mesi di gattabuia a "chiunque offende l'onore o il prestigio del presidente della Repubblica". L'iter del provvedimento al Senato riprenderà il suo cammino in aula il 4 giugno, una volta passata l'indigestione di comizi, sondaggi, exit poll e spoglio delle schede per le elezioni amministrative di fine maggio. I senatori saranno chiamati a decidere se approvare senza modifiche il testo uscito dalla commissione Giustizia di Palazzo Madama, che ha vagliato due disegni di legge: quello del senatore M5S Lello Ciampolillo, poi scelto come testo base, ma emendato, e quello del vice presidente del Senato Maurizio Gasparri, che comunque annuncia battaglia in aula, insistendo sulla necessità di abrogare del tutto il reato. Il testo uscito dalla commissione Giustizia, infatti, non prevede la cancellazione tout court del reato di vilipendio, ma tramuta il carcere in una sanzione pecuniaria da 5mila a 20mila euro, mantenendo la pena detentiva, fino ad un massimo di due anni, solo nel caso in cui l'offesa al capo dello Stato sia riferita ad "un caso specifico" e non sia generica. Il reato di vilipendio nei confronti dell'inquilino del Colle era venuto alla ribalta nel 2014 quando l'ex governatore del Lazio Francesco Storace era finito nel mirino dei magistrati per le parole pronunciate nel 2007 contro Giorgio Napolitano: "non ha alcun titolo per distribuire patenti etiche. Per disdicevole storia personale, per palese e nepotistica condizione familiare, per evidente faziosità istituzionale. È indegno di una carica usurpata a maggioranza", l'attacco verbale del leader de La Destra al capo dello Stato. L'ex ministro si era scusato, ma la vicenda processuale era andata avanti dopo che l'allora Guardasigilli Clemente Mastella aveva dato il via libera al procedimento stigmatizzando le espressioni usate di Storace che "vanno ben oltre il diritto di critica". Nel novembre dello scorso anno Storace è stato condannato a sei mesi di reclusione, ma il giudice ha riconosciuto le attenuanti generiche, disponendo la sospensione della pena. "Sono l'unico condannato in Italia per questo reato", aveva commentato amaramente Storace. Ma non è così, perché il primo a finire nelle maglie della giustizia, senza però fare neanche un giorno di carcere, è stato nel 1950 il grande scrittore, giornalista e umorista Giovannino Guareschi, condannato con la condizionale a otto mesi di carcere per vilipendio nei confronti di Luigi Einaudi. Sotto la lente dei giudici erano finite alcune vignette sul Candido, che ironizzavano sul fatto che Einaudi aveva permesso che sulle etichette del vino di sua produzione venisse evidenziata la sua carica pubblica di senatore. Autore della vignetta era Carletto Manzoni, ma la condanna cadde su Guareschi in quanto direttore responsabile. Giustizia: riforma della giustizia amministrativa, al via il cantiere delle riforme di Isidoro Trovato Corriere della Sera, 1 giugno 2015 Ridurre i tempi della burocrazia, non indebolire le strutture con i distacchi. E sì riapre la partita delle società tra avvocati. Si torna a parlare di futuro e cambiamenti nel mondo degli avvocati italiani. La riforma della giustizia amministrativa e le società tra professionisti sono due tra i temi più "caldi" sul tavolo. In merito alla giustizia amministrativa, non accenna a calare l'eco di chiedere a gran voce una riforma che ne velocizzi l'iter. I casi più controversi sono stati quelli delle decisioni sulle elezioni in Piemonte, sugli appalti per i lavori sul torrente Bisagno in Liguria in relazione ai disastri provocali delle inondazioni e quello delle grandi navi a Venezia. "Polemiche pretestuose - avverte Umberto Fantigrossi, presidente dell'Unione nazionale degli avvocati amministrativisti - proprio per i casi citali è facile accertare che gli eventi negativi, e in particolare i tempi lunghi degli interventi, trovavano la loro origine autonoma nelle condotte amministrative e non nelle sentenze dei giudici". È innegabile però che esista la necessità di una riforma del sistema di giustizia amministrativa. "È vero - concorda Fantigrossi. L'avvocatura specializzata è impegnata, dall'inizio dello scorso anno in particolare, nell'elaborare una riforma intelligente della giustizia amministrativa. Abbiamo formulato proposte concrete: occorre assicurare il massimo grado di efficienza e imparzialità ponendo fine alla prassi del distaccamento dei magistrati amministrativi presso gli apparati burocratici dello Stato o altre organismi. La "fuga" dei magistrati verso altri incarichi depotenzia l'azione della giustizia e introduce elementi di potenziale conflitto, soprattutto poiché spesso il distaccamento avviene all'interno di istituzioni che sono potenzialmente parte di giudizi". "In questa nostra realtà sempre più complessa - spiega Andrea Zanello, membro del direttivo dell'Associazione nazionale forense - nuovi settori di intervento si aggiungono ai tradizionali ambiti di attività, oggi ancora descritti con concetti come civilista, penalista, amministrativista, lavorista, familiarista che non soddisfano più, perché troppo generici. C'è l'esigenza di una precisa conoscenza della domanda e del mercato. Dobbiamo individuare e cercare di occupare i nuovi spazi di intervento che il mercato ci offre, di volta in volta in sana concorrenza e in stretta collaborazione con le altre professioni". Al momento però la legge forense non ammette società tra professionisti mettendo in evidenza le incompatibilità tra diverse categorie. "Le professioni intellettuali hanno problemi comuni che si chiamano autonomia, indipendenza, deontologia - aggiunge Zanello - ed è evidente, ad esempio, l'interesse di un avvocato lavorista ad operare in sinergia con un commercialista, con un consulente del lavoro, con un fiscalista o con un medico legale". In compenso il governo ha da poco varato una legge in cui apre alla possibilità di società tra professionisti anche con socio di capitale. "Il provvedimento del governo presenta evidenti criticità - afferma il segretario generale dell'Ani Ester Peritano - che, però, nell'iter parlamentare, potranno essere rimosse. Non è più il tempo di arroccarsi, restituendo l'immagine di una categoria chiusa all'evoluzione del mondo che ci circonda, ma è ora di cambiare passo. L'avvocatura deve raccogliere la sfida che la società sta lanciando: partecipare alla politica del Paese, nel segno di quella domanda di cambiamento die attraversa tutti i settori, e da cui non possiamo auto-escluderci". Giustizia: è tornato il reato di Falso in bilancio, ma è ipotetico di Marino Longoni Italia Oggi, 1 giugno 2015 La riforma introduce pene severissime contro amministratori e sindaci. Ma solo in teoria, perché tutte le valutazioni da adesso diventano insindacabili Entrerà in vigore il 13 giugno la legge anticorruzione, approvata in via definitiva il 21 maggio e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale di sabato scorso. Dovrebbero quindi essere soggetti alle nuove norme i bilanci del 2014 approvati successivamente (per esempio quelli del 30 giugno). La legge (n. 69 del 27 maggio) reintroduce il reato di falso in bilancio, prevedendo sanzioni draconiane: fi no a 5 anni di reclusione per le società non quotate e 8 anni per le quotate. Sembra un deciso cambio di rotta dopo le polemiche seguite alla depenalizzazione varata nel 2001 dal governo Berlusconi. Amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori rischiano ora tanti anni di carcere che non basterebbe in molti casi la riduzione condizionale della pena per salvarli. Ma il diavolo si nasconde nei dettagli. Tanto che l'effetto concreto della riforma potrebbe essere l'opposto di quello che sarebbe lecito aspettarsi con queste premesse. Vediamo perché. La nuova fattispecie di reato punisce i responsabili della pubblicazione, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali, di fatti materiali non rispondenti al vero o l'omissione di fatti materiali rilevanti, in modo da conseguire un ingiusto profitto inducendo altri in errore sulla reale situazione dell'azienda. È prevista una riduzione della pena per fatti di lieve entità e una esimente quando l'offesa sarà considerata di scarsa gravità e quando la condotta non è abituale. Sono state invece eliminate le soglie di tollerabilità dell'errore previste nella precedente disciplina: si prevedeva per esempio che le false comunicazioni sociali erano scusabili per scostamenti delle singole valutazioni estimative inferiori al 10%. Ora queste tolleranze sono sparite. Ma è stato eliminato anche qualsiasi riferimento alle "valutazioni". Perché si possa configurare un'ipotesi di reato occorre che nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali siano riportati "fatti materiali" non veritieri, come per esempio beni in realtà non posseduti, crediti inesistenti, passività fittizie. Si tratta di falsità così grossolane che si dubita ci sia qualche professionista disposto a redigere o certificare cose simili. Il problema della redazione dei bilanci è che si tratta di attività in larga parte estimativa. Il valore dell'immobile, dell'avviamento, del magazzino, del know how, delle perdite su crediti, e così via, non è un dato oggettivo e indiscutibile, ma il risultato di una stima che richiede perizia, esperienza, buon senso. È evidente che la valutazione di un bene complesso come quello di un'azienda, fatta da persone diverse, può portare a risultati diversi. Ed è inevitabile che, entro certi limiti, così avvenga. Infatti è proprio sfruttando la discrezionalità nella valutazione delle diverse poste che si cerca, normalmente, di piegare i dati contabili a fini diversi rispetto a quello della rappresentazione veritiera della situazione aziendale. Dopo la riforma, le false valutazioni non saranno più rilevanti ai fini del falso in bilancio. Un bel sollievo, per chi altrimenti avrebbe rischiato sanzioni severissime per una attività inevitabilmente discrezionale e quindi soggetta a un giudizio a sua volta opinabile. Ora invece, in assenza del falso materiale, chi ha interesse a falsificare le scritture contabili potrà dormire sonni più tranquilli di prima, nonostante la riforma sia stata venduta all'opinione pubblica come arma decisiva in favore della trasparenza e della correttezza contabile. Classico caso di eterogenesi dei fini. Giustizia: il Falso in bilancio torna reato, ma non farà male a nessuno di Andrea Perini (Professore di diritto penale commerciale) Italia Oggi, 1 giugno 2015 La legge sull'anticorruzione (n. 69, pubblicata sulla G.U. del 30 maggio) presenta un consistente aggravio di sanzioni per il reato di falso in bilancio ma rischia di produrre un effetto paradossale, l'eliminazione pressoché totale di questo reato dal panorama giuridico. Le nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, nella dichiarata volontà del legislatore, dovrebbero "rivitalizzare" quella repressione del cosiddetto "falso in bilancio" che la riforma del 2002 aveva in buona parte depotenziato. Numerosi sono i profili di novità racchiusi nei ben quattro articoli che il legislatore ha ritenuto di dedicare al mendacio societario, ai quali, tuttavia, si accompagnano non pochi aspetti problematici. La scelta di politica criminale sulla quale si incardina la riforma è quella di graduare la risposta sanzionatoria in funzione delle dimensioni della società nel cui ambito si manifesta la falsa comunicazione sociale: si passa così dai sei mesi ai tre anni di reclusione di cui all'art. 2621 bis c.c. per le false comunicazioni sociali delle società di minori dimensioni, alla reclusione da tre a otto anni contemplata dall'art. 2622 c.c. per le società quotate e per quelle a queste assimilate. A mezza via si colloca la fattispecie di cui all'art. 2621 c.c., volta a sanzionare con la reclusione da uno a cinque anni le comunicazioni decettive che verranno emesse da tutte le altre società, ossia da quelle, per così dire, di dimensioni intermedie. È quindi ragionevole ritenere che sarà proprio l'art. 2621 c.c. a fare la parte del leone, essendo probabilmente destinati a rimanere marginali i casi di minore rilevanza previsti dall'art. 2621 bis c.c., mentre sarà interessante vedere quanto la fattispecie destinata alle quotate (art. 2622 c.c.) si sovrapporrà, in concreto, alle limitrofe ipotesi di manipolazione del mercato (art. 185, dlgs n. 58/1998) e di ostacolo alle funzioni di vigilanza (art. 2638 c.c.), per molti versi meno problematiche della novella. Alle norme incriminatrici, poi, si aggiungono le modifiche apportate all'art. 25 ter del dlgs n. 231/2001, onde rimodulare anche la responsabilità dell'ente nel cui ambito sia commessa una delle nuove ipotesi di false comunicazioni sociali. Al di là della differente dosimetria sanzionatoria, le condotte incriminate dalle nuove fattispecie appaiono sostanzialmente sovrapponibili e conservano pure taluni dei tratti salienti che avevano contrassegnato, in positivo, quella riforma del 2002 che, invece, sotto tanti altri profili aveva dato adito alle note polemiche. Per esempio, continuano ad assumere rilevanza solamente le comunicazioni "dirette ai soci o al pubblico", con esclusione, quindi, di qualsiasi rilevanza di eventuali falsità presenti nelle dichiarazioni fiscali, nelle comunicazioni rivolte agli istituti di credito, alle autorità di vigilanza, a singoli soggetti richiedenti, a vario titolo, delucidazioni sulle condizioni della società. Certo, in molti di tali casi troveranno applicazione altre fattispecie incriminatrici, ma appare positiva la specificazione voluta dal legislatore al fine di evitare eccessive sovrapposizioni tra norme destinate a tutelare beni giuridici del tutto differenti. Positiva anche la scelta di conservare l'esplicita attribuzione di rilevanza penale alle comunicazioni decettive aventi a oggetto il "gruppo" di società, il che riconduce certamente nell'alveo della tutela penale anche il bilancio consolidato: un tale approdo interpretativo era divenuto pacifico solo dopo la riformulazione della fattispecie avvenuta nel 2002 mentre, in precedenza, la possibilità di sanzionare penalmente la falsità del bilancio consolidato (affermata dalla Cassazione) aveva dato luogo a un vivace dibattito della dottrina. Dove, tuttavia, le diverse fattispecie sembrano sollevare rilevanti perplessità è nella scelta di tipizzare, in tutte le fattispecie, l'esposizione (o l'omissione) di fatti materiali non rispondenti al vero. E infatti, il legislatore non è nuovo all'utilizzo di una siffatta terminologia: basti ricordare l'ipotesi di frode fi scale prevista dall'art. 4, lett. f), della L. n. 516/1982, così come modificata dalla L. n. 154/1991, a norma della quale veniva punita l'utilizzazione di "documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero", nonché il compimento di "comportamenti fraudolenti idonei a ostacolare l'accertamento di fatti materiali". Pacificamente, una tale formulazione del dato normativo comportava l'irrilevanza penale di qualsiasi valutazione, anche se assurda, recepita nella dichiarazione dei redditi. Dunque, la locuzione scelta oggi dal legislatore appare particolarmente collaudata, perlomeno in tutte quelle che ne sono le sue limitazioni, cosicché risulta davvero denso di significato il passaggio dai "fatti" previsti dalla vecchia fattispecie di false comunicazioni sociali del 1942 agli odierni "fatti materiali", espressamente lasciati orfani di quell'aggancio alle "valutazioni" che, invece, aveva voluto il legislatore del 2002, anche ricorrendo all'esplicita previsione di una soglia di punibilità calibrata proprio su di esse (art. 2621, co. 4, c.c., nonché art. 2622, co. 8, c.c.). Tuttavia, non può sfuggire come la scelta di tenere le valutazioni di bilancio fuori dalla sfera applicativa delle nuove norme rischi di renderle sostanzialmente inapplicabili o, quantomeno, schiuda le porte a innumerevoli possibilità di manipolazione dei bilanci destinate a rimanere prive di sanzione penale. E infatti, solo per fare qualche esempio, certamente valutative sono le poste accese ai crediti, laddove il criterio da applicare è quello del presumibile valore di realizzo (art. 2426, n. 8, c.c.). Ma valutative sono altresì le immobilizzazioni materiali, quantomeno con riferimento alla procedura di ammortamento alla quale devono essere sottoposte e che è parametrata alla loro "residua possibilità di utilizzazione" (art. 2426, n. 2, c.c.). Valutative sono parimenti le immobilizzazioni immateriali (rectius gli oneri pluriennali) a partire dai criteri che inducono gli amministratori a qualificare come tali determinati costi in quanto ritenuti forieri di utilità future. E certamente valutativo è il procedimento di ammortamento anche di codesti asset, tra i quali spicca, nella prassi, quell'avviamento che non di rado diviene protagonista proprio delle censure mosse all'attendibilità di un bilancio (e si veda l'art. 2426, n. 6, c.c.). Ma oggetto di valutazione (indubbiamente!) sono le rimanenze (art. 2426, n. 9, c.c.), le partecipazioni (art. 2426, n. 4, c.c.), persino il capitale sociale quando sia stato formato attraverso conferimenti in natura. E oggetto di valutazione sono gli accantonamenti per rischi e oneri futuri (art. 2424 bis, n. 3, c.c.), tanto spesso "dimenticati" o sottostimati da imprese in difficoltà che, per evitare l'affiorare di perdite consistenti, omettono di stanziare fondi adeguati. Solo parzialmente diverso appare lo scenario se si volge lo sguardo al conto economico di cui all'art. 2425 c.c.: accanto a valori espressione (peraltro non sempre) di "fatti materiali", come i ricavi e i costi (a patto di astrarre da ratei, risconti, fatture da emettere e da ricevere, poste in valuta, ecc., tutte grandezze oggetto di stima), vi sono le poste irriducibilmente fi glie di valutazioni, quali, solo per citare alcuni degli esempi più evidenti, gli ammortamenti, gli accantonamenti a fondi rischi, le variazioni di rimanenze, le rivalutazioni e le svalutazioni di cespiti. Breve: se non tutte, perlomeno la quasi totalità delle poste di bilancio altro non è se non il punto di arrivo di altrettanti procedimenti valutativi e, quindi, non può essere in alcun modo ricondotta nell'alveo dei fatti materiali. Ciò soprattutto con riferimento a quelle poste che, come insegna la prassi, più frequentemente sono oggetto di mendacio. Quale sarà l'atteggiamento della giurisprudenza innanzi a una tale lacuna nella formulazione delle norme? Assisteremo al definitivo tramonto del "falso in bilancio", oppure dovremo attenderci delle forzature interpretative della lettera della norma, delle operazioni di ortopedia ermeneutica destinate a fare a pezzi il principio di tassatività delle norme penali? Non si deve dimenticare, al riguardo, che la scelta di escludere dalla rilevanza penale le valutazioni di bilancio, laddove una tale lettura della norma dovesse essere, per così dire, consacrata anche dalla giurisprudenza, si risolverebbe in un autentico fenomeno di parziale abolitio criminis delle norme fi no a oggi in vigore, capace di travolgere anche i giudicati formatisi in passato su manipolazioni di bilancio aventi a oggetto poste valutative (ossia la stragrande maggioranza!). Ma vi è di più: se davvero dovesse consolidarsi una tale lettura restrittiva della fattispecie, occorrerebbe anche domandarsi quante "bancarotte da falso in bilancio" (art. 223, co. 2, n. 1, L.F.) rischierebbero di dover essere rimesse in discussione, andando a verificare se, venuto meno il reato societario, persista comunque la rilevanza penale del fatto ai sensi di altre ipotesi di bancarotta, in primis quella prevista dall'art. 223, co. 2, n. 2, L.F. Insomma, vi è quanto basta per prevedere un vivace esordio delle novelle fattispecie, all'esito del quale si potrebbe inopinatamente scoprire che, anziché festeggiare la riesumazione del "falso in bilancio", potrebbe essere il caso di celebrarne la definitiva dipartita. Norme ad armi spuntate, di Alessandro Traversi (Docente di diritto penale tributario) Le nuove disposizioni penali in materia di falso in bilancio approvate in via definitiva dalla Camera contemplano tre diverse fattispecie caratterizzate da un trattamento sanzionatorio differenziato a seconda che si tratti di piccole imprese non soggette a fallimento (con pena da sei mesi a tre anni di reclusione e procedibilità a querela), di società non quotate (con pena da uno a cinque anni di reclusione) o di società quotate in borsa (con pena da tre a otto anni di reclusione). Il sensibile inasprimento delle pene edittali, nonché l'aggravamento delle sanzioni pecuniarie previste per la correlata responsabilità amministrativa delle società ai sensi del dlgs n. 231/2001, insieme all'eliminazione delle soglie di punibilità, sono senza dubbio frutto di una scelta politica finalizzata a ripristinare la deterrenza di un reato che, di fatto, con la riforma del 2005, era stato sostanzialmente depenalizzato. Vero è che vi è la previsione di un nuovo art. 2621 ter concernente una speciale causa di non punibilità in caso di particolare tenuità del fatto. Ma il venir meno delle attuali soglie percentuali commisurate al 5% del risultato economico di esercizio e dell'1% del patrimonio netto delle società lascia al giudice un ambito forse eccessivo di discrezionalità. Peraltro, l'"esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto" è diventata norma ordinaria per tutti i reati puniti con pena non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione, mediante la recente introduzione nel codice penale dell'art. 131 bis. Di contro, se andiamo ad analizzare la condotta incriminata, che consiste nell'esporre o nell'omettere "fatti materiali non rispondenti al vero", nascono immediatamente alcune perplessità. Innanzitutto, circa la locuzione "fatti materiali", che appare incongrua, dato che i fatti sono di per sé, necessariamente, "materiali". A meno che questo aggettivo non sia stato mutuato dall'espressione "material fact" del linguaggio giuridico-contabile statunitense, laddove viene utilizzata per indicare un'informazione rilevante che deve essere portata a conoscenza di un investitore. Se così fosse, però, sarebbe ultronea la specificazione, nel caso di società non quotate, che i fatti materiali debbano essere, ai fini della punibilità, anche "rilevanti". In secondo luogo, appare ancor più sconcertante la scomparsa di qualsiasi riferimento alle "valutazioni". Nozione che invece figura nell'attuale disciplina delle false comunicazioni sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 cod. civ. nonché, addirittura, nell'art. 2638 cod. civ., che prevede il reato di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, preso come parametro di riferimento nella relazione governativa. All'atto pratico, quindi, potrà rispondere del nuovo falso in bilancio, se il testo rimarrà invariato, soltanto chi avrà indicato nei bilanci, nelle relazioni o altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico fatti storici oggettivi non veritieri, quali beni non posseduti, crediti inesistenti o passività fittizie, rimanendo invece fuori dall'area di penale rilevanza le ben più insidiose falsità concernenti le poste valutative. Per esempio, stime immobiliari o del magazzino, valutazioni del know how, di marchi e brevetti, di perdite su crediti, etc. In realtà è invece proprio attraverso alterazioni valutative che vengono per lo più attuati i falsi in bilancio più rilevanti. Oltre a ciò, alla luce delle nuove norme, verrebbe a essere esclusa la configurabilità di una falsità in bilancio di tipo qualitativo. Vale a dire la esposizione di costi effettivamente sostenuti, ma con falsa indicazione della relativa causale. Artifizio questo solitamente usato per mascherare un'operazione illecita. L'esempio classico è l'imputazione a costo per consulenze, spese di pubblicità, mediazione e simili, di un esborso, realmente avvenuto, ma per pagare una tangente. Appare davvero singolare che queste nuove norme sul falso in bilancio, inserite nella legge anticorruzione e destinate ad arginare il diffuso fenomeno della falsificazione di bilanci societari finalizzata alla costituzione di fondi neri per scopi corruttivi, lascino poi impuniti i comportamenti più pericolosi. Vien da pensare, quindi, che le tre nuove figure di falso in bilancio rischino di essere un vero monstrum giuridico, non dissimile dal mitologico Cerbero, di dantesca memoria, che "con tre gole caninamente latra". Ma che, nel nostro caso, sembra assolutamente incapace di mordere. Giustizia: indennizzi rapiti per la legge Pinto, Bankitalia arriva in soccorso del ministero di Antonio Ciccia Italia Oggi, 1 giugno 2015 Gli indennizzi per i processi lumaca sono incolonnati in una corsia preferenziale. La Banca d'Italia darà una mano al ministero della giustizia per definire le procedure di pagamento a chi ha subito un giudizio di durata irragionevole. Si tratta di far funzionare la legge Pinto (legge 89/2001), che si è incagliata e paradossalmente è essa stessa vittima di lungaggini: è un paradosso, ma si registrano tempi molto lunghi per pagare l'indennizzo statale a chi ha vissuto un'esperienza giudiziaria protratta per troppo tempo. Bankitalia arriva, ora, in soccorso del ministero di via Arenula per fare i conti e preparare i mandati. È stato, infatti, siglato il 18 maggio 2015 l'accordo della Banca d'Italia con il ministero della giustizia per l'attività di liquidazione degli indennizzi famosi. Si tratta di un accordo per l'esecuzione di attività pratica indispensabile per fare arrivare i soldi a chi li aspetta dopo avere visto riconoscere il proprio diritto a essere indennizzato dallo stato. Ma vediamo il contenuto dell'accordo, il cui effetto sperato è di accelerare i pagamenti. Anche se c'è molto da lavorare: l'accordo ha una durata di due anni e quindi il volume delle pratiche da smaltire è molto alto. Il presupposto dell'accordo è il numero altissimo di decreti di Corte d'appello relativi a indennizzi da legge Pinto e spese conseguenti che arriva al ministero della giustizia. Fino, addirittura, a interferire con lo svolgimento dei pagamenti che fanno capo al ministero per l'ordinaria attività istituzionale. La Banca d'Italia, peraltro, gestisce la tesoreria dello stato e deve sbrigare i pagamenti pubblici. L'istituto di via Nazionale, in base all'accordo, svolgerà le attività preparatorie del pagamento delle somme riconosciute agli aventi diritto. La collaborazione consisterà nella compilazione delle minute dei titoli di spesa da mandare alla firma del dirigente del ministero della giustizia. Il flusso dell'attività. L'interessato fa causa allo stato e ottiene il decreto della Corte di appello che riconosce l'indennizzo oltre le spese all'avvocato che lo ha seguito. I decreti di Corte d'appello sono annotati e numerati, a cura del ministero della giustizia, in un database informatico. Nel database si inserirà anche la data di notifica al ministero del decreto della Corte d'appello e una scadenza importante e cioè la scadenza del termine di 120 giorni, che l'interessato deve, comunque, per legge aspettare prima di battere cassa (art. 14, comma 1, del dl 669/1996). I decreti, settimanalmente, vengono consegnati dal ministero alla Banca d'Italia, che cura le fasi successive. Banca d'Italia contatterà il legale del creditore per avere le informazioni necessarie per il pagamento; effettuerà il calcolo dell'importo da versare distinguendo capitale, interessi e spese legali, e compilerà la minuta del titolo di spesa, che dovrà essere firmata dal dirigente del ministero della giustizia. I decreti, a questo punto, tornano al ministero. Se ci saranno errori, l'interessato deve rivolgersi al ministero. Nell'accordo è prevista una clausola liberatoria per la Banca d'Italia, che non assume, né nei confronti del ministero né nei confronti di terzi, responsabilità per errori, anche di calcolo, omissioni o ritardi, né responsabilità connesse con la detenzione dei decreti di Corte d'appello. Come si legge in una scheda tecnica del sito del ministero della giustizia, spetta alla Corte di appello, che emesso il decreto di condanna provvedere al pagamento degli indennizzi. Resta invece a carico del ministero, con facoltà di delega, il pagamento degli indennizzi stabiliti in sentenze emesse dalla Corte di cassazione. Se il contenuto dell'accordo è tecnico, per gli interessati dovrebbero cambiare molte cose. In particolare ci sarà comunque una accelerazione dei tempi di pagamento. La Banca d'Italia dedicherà risorse alla cura di questa attività e, quindi, si dovrà arrivare con maggiore sollecitudine al mandato di pagamento. Il problema attuale della legge Pinto è che per arrivare a incassare l'indennità per il danno da processo irragionevolmente lungo bisogna aspettare un tempo altrettanto irragionevole, composto dal lasso necessario a conseguire il titolo giudiziale e da quello necessario all'esecuzione. Naturalmente questo accordo non modifica per nulla la procedura di accertamento del diritto all'indennizzo. Tra l'altro si tratta, comunque, di un indennizzo e non di un risarcimento pieno: in sostanza il cittadino non ottiene il pieno ristoro, ma solo una cifra forfettaria stabilita dalla legge. Limiti in base ai gradi di giudizio Se si superano i tre anni in primo grado scatta l'indennizzo. Ha, infatti, diritto all'equa riparazione chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa del mancato rispetto del termine ragionevole del processo. Il limite è cadenzato per i vari gradi di giudizio. Si considera rispettato il termine ragionevole se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità. Inoltre si considera rispettato il termine ragionevole se il procedimento di esecuzione forzata si è concluso in tre anni, e se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni. C'è poi una regola di chiusura: si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni. In alcune ipotesi non spetta alcun indennizzo. Non ne ha diritto chi perde la causa ed è condannato per lite temeraria, o chi è condannato a pagare le spese dopo avere rifiutato una conciliazione nel procedimento di mediazione o, passando al penale, se il reato si è prescritto per effetto di condotte dilatorie della parte e quando l'imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei termini. Perde l'indennizzo, in generale, chi abusa dei poteri processuali e determini una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento. Vediamo quanto si può ottenere. La legge stabilisce che il giudice può assegnare una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. Per decidere la somma il giudice deve considerare come è andato a finire il processo, il comportamento del giudice e delle parti, la natura degli interessi coinvolti, il valore e della rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte. Anche per l'importo c'è una regola di chiusura: la somma non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice. Domanda entro sei mesi Attenzione ai tanti trabocchetti sulla strada dell'indennizzo. La domanda di equa riparazione si propone con ricorso al presidente della Corte d'appello nei confronti del ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del ministro della difesa quando si tratta di procedimenti del giudice militare. Negli altri casi è proposto nei confronti del ministro dell'economia e delle finanze. La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva. Il ricorrente deve provare il suo diritto, portando le copie degli atti processuali. Il presidente della Corte d'appello, o un magistrato designato, provvede entro 30 giorni dal deposito del ricorso sulla domanda di equa riparazione con decreto motivato. Se il ricorso è accolto, il giudice ingiunge il pagamento della somma liquidata a titolo di equa riparazione, e le spese del procedimento. Se il ricorso è totalmente o parzialmente respinto, l'interessato può fare opposizione. Poi la legge mette le mani avanti e prescrive che l'erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili. Una volta ottenuto, il decreto deve essere notificato al ministero competente. Attenzione perché il decreto diventa inefficace se la notificazione non è eseguita nel termine di 30 giorni dal deposito in cancelleria del provvedimento: si perde tutto perché la domanda di equa riparazione non può essere più proposta. Se la domanda di equa riparazione è dichiarata inammissibile oppure manifestamente infondata, il ricorrente sarà condannato al pagamento di una somma di denaro non inferiore a 1.000 euro e non superiore a 10 mila euro. Giustizia: legge Pinto; 700mila procedimenti a cui riparare, accumulati debiti per 406 mln di Gabriele Ventura Italia Oggi, 1 giugno 2015 Oltre 700 mila procedimenti per 406 milioni di euro. Sono i numeri che fotografano il "debito Pinto" accumulato in questi anni dallo stato: tra i contenziosi che violano la normativa perché durano oltre otto anni nei tre gradi di giudizio anziché al massimo sei, e la cifra che grava ancora sul bilancio pubblico. Con 316 milioni di euro che invece sono già stati sborsati per "riparare" i processi fiume. Questi i dati più aggiornati sul settore civile diffusi dal ministero della giustizia, che ha pubblicato sul proprio sito il rapporto "Misurare la performance dei tribunali nel settore civile". Dall'altro lato, però, Via Arenula registra un netto calo dei decreti arretrati ex lege Pinto, in particolare a Roma, dove dal 2013 al 2014 si è passati dalla cifra "monstre" di quasi 20 mila pendenze per equa riparazione a poco più di 14mila. Ufficio, quello di Roma, che resta comunque il più gravato dall'"arretrato Pinto", assieme alla Corte d'appello di Perugia, a conferma della necessità dell'accordo stipulato nei giorni scorsi tra il ministero della giustizia e Bankitalia, che riguarderà appunto, nella sua fase sperimentale, solo la Capitale. Ma vediamo i dati nel dettaglio. L'arretrato. Andando a vedere gli ultimi dati pubblicati dal ministero della giustizia, contenuti nei prospetti di ciascun ufficio di Corte di appello e di ciascun tribunale con l'indicazione del numero di affari civili pendenti al 31 dicembre 2013 classificati in base all'anno di iscrizione, si vede che i procedimenti pendenti per equa riparazione riguardano in primis, come detto, la Corte d'appello di Roma, che vantava 19.457 pendenze accumulate tra il 2006-2010 (4.506) e il 2011-2013 (14.951). Trend che, fa sapere il ministero della giustizia, si è invertito l'anno scorso, con 14.262 pendenze per equa riparazione registrate al 31 dicembre 2014. A seguire la Corte d'appello di Perugia, che ha accumulato ben 13.266 procedimenti pendenti per equa riparazione, che costituiscono anche la quasi totalità dell'arretrato dell'ufficio (15.526). Seguono Lecce, con 1.868 decreti pendenti, Reggio Calabria (1.462), Caltanissetta (1.234 su un totale di 5.101 pendenze civili). Più modesti, anche se importanti, i numeri di L'Aquila (484), Salerno (363) e Catanzaro (343). I tempi della giustizia. Il ministero della giustizia, nell'ultimo rapporto pubblicato sul settore civile, ha confrontato il tempo medio che impiega un procedimento per essere smaltito nei tre gradi di giudizio e i limiti imposti dalla legge Pinto. In primo grado, la realtà misurata evidenzia 952 giorni effettivi per chiudere una lite, a fronte dei 1.095 ex legge Pinto. È in Appello, però, che viene accumulato quasi un anno di ritardo: si passa dai 730 giorni previsti dalla legge ai 1.061 effettivi, con un disavanzo di 11 mesi. In Cassazione, poi, la situazione precipita: a fronte dei 365 giorni imposti dalla legge Pinto, i procedimenti vengono chiusi in media in tre anni e quattro mesi. Questo fa sì che, sommando i tre gradi di giudizio, la realtà misurata si discosta dalla legge di oltre due anni e mezzo. Andando a vedere, però, dove si accumula il maggior numero di procedimenti che violano la legge Pinto, il ministero ne individua oltre 600 mila in primo grado, circa 120 mia in Appello e 25 mila in Cassazione. Per un totale di oltre 700 mila liti che gravano sulle casse dello stato. Secondo l'analisi di Via Arenula, il problema del "rischio Pinto" risiede nel fatto che l'arretrato accumulato, seppur esauribile in un arco di tempo tra dieci mesi (davanti a giudici di pace) e un anno e mezzo circa nei tribunali, ha caratteristiche di anzianità o vetustà variegate e anomale, diverse da sede a sede e particolarmente gravi nelle sedi di tribunale con numero insufficiente di giudici e personale di cancelleria. In particolare, secondo Via Arenula, anche nell'ipotesi teorica e non realistica di "sopravvenienze pari a zero", la Cassazione avrebbe una potenzialità di esaurimento dell'intero arretrato pari a tre anni e quattro mesi circa, le Corti d'appello ci metterebbero invece più di due anni e mezzo, mentre i tribunali un anno e 2-3 mesi circa. Aggregando i dati delle Corti d'appello e della cassazione, emerge che il "rischio Pinto" riguarderebbe ben una causa su dieci. Giustizia: elezioni regionali, nell'astensionismo l'ultimo avviso alla politica in crisi di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 1 giugno 2015 La campana dell'astensione suona per tutti. La destra, da sempre maggioritaria nel Paese, fatica a mobilitare ovunque i suoi elettori. "Un dato su cui riflettere". È il commento rituale ogni volta che arrivano i numeri, sempre in crescita, dell'astensione. Ma se un elettore su due non partecipa alla scelta del presidente della sua Regione, non si tratta di "un dato su cui riflettere"; è un allarme sulla tenuta della nostra democrazia. Le cause sono molte, e più serie del "ponte" e del bel tempo. I privilegi, gli sprechi, i vitalizi, gli scandali che hanno macchiato la figura del consigliere regionale. Lo sfilacciarsi dei partiti tradizionali. La faida interna al Pd, culminata con lo psicodramma degli "impresentabili". La sensazione, inevitabile per l'elettore, di farsi quasi complice di un ceto politico ripiegato su se stesso, liquido, intercambiabile, con casi limite come quello delle Marche, dove il "governatore" di centrosinistra si è ricandidato con il centrodestra. La scena strepitosa di Berlusconi che sbaglia comizio e arringa i militanti del Pd ne è la conferma: in quel comizio non c'era all'evidenza una sola bandiera, un'insegna, un drappo che lo connotasse. La campana dell'astensione suona per tutti. La destra, da sempre maggioritaria nel Paese, fatica a mobilitare ovunque i suoi elettori, che non sono diventati tutti cacciatori di rom e seguaci di Casa Pound. Grillo ottiene un grande successo, ma non è facile neppure per lui trasformare la rassegnazione in indignazione, fare il pieno dei voti antisistema. E anche Renzi dovrebbe preoccuparsi. Tradizionalmente l'astensione favorisce la sinistra. Ma la forza di Renzi è giocare la partita a tutto campo. Renzi non si è mai posto come antiberlusconiano, ma come post-berlusconiano. È chiaro che l'outsider di Rignano non è paragonabile al padrone delle tv e del Milan (quello di Sacchi e Capello, non quello di Seedorf e Inzaghi), ma il messaggio che ha lanciato in questi mesi agli elettori delusi dal Cavaliere è stato chiaro: prima avevate lui; ora avete me. All'evidenza, quel messaggio non è passato del tutto. Così come non è ancora riuscito il tentativo di domare l'antipolitica e farne una forza di cambiamento: proprio ciò di cui Renzi avrebbe bisogno, per vincere le resistenze che incontrano le sue riforme. Il tono medio del Paese non è più quello della rassegnazione e dell'autofustigazione, come pareva ancora poco tempo fa. Ci sono segnali di una volontà di ricostruire, forse più significativi dei flebili numeri della ripresa economica. C'è una volontà di partecipazione che si esprime nel volontariato, nell'accoglienza dei profughi, nell'impegno sociale. C'è un mondo cattolico, spesso molto giovane, galvanizzato dalla popolarità di papa Francesco. Eppure l'Italia della ricostruzione non si riconosce nella politica. La volontà di ripartenza non passa dalle urne. Perché la politica appare impotente. Inutile. In balia delle burocrazie europee. Tenuta sotto scacco non solo dalla Merkel o dalla Corte costituzionale, ma pure dal Tar del Lazio. Eppure la politica non può arrendersi così alla propria irrilevanza. La nuova legge sui partiti sarebbe un passo importante: si deve attuare la Costituzione, che impone il "metodo democratico" alla partecipazione; e sarebbe bene introdurre norme certe per le primarie. Ma occorre fare molto di più per restituire fiducia ai cittadini. Serve una politica che decida e incida sulla realtà. E serve un taglio drastico a indennità, vitalizi, rimborsi e privilegi. Giustizia: riforma eco-reati, dal 29 maggio in vigore la nuova "aggravante ambientale" di Roberto Pennisi Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2015 Quando il legislatore del 1991, dopo quasi dieci anni dalla prima vera normativa antimafia del 1982, volle perfezionare gli strumenti precedentemente offerti dalla "Rognoni-La Torre", fu la disposizione che introduceva una rivoluzionaria aggravante a qualificare tale volontà: vide così la luce la norma prevista dall'articolo 7 del Dl 152/1991, oggi comunemente definita "aggravante di mafia", la quale è divenuta uno dei più validi strumenti per il contrasto della criminalità mafiosa, dando prova del proprio valore nella concreta applicazione che se ne dà ogni giorno nelle aule di giustizia. L'aggravante ambientale - Così oggi, con la legge 22 maggio 2015 n. 68, pubblicata sulla "Gazzetta Ufficiale" del 28 maggio 2015 n. 122, e in vigore dal 29 maggio scorso, è stato innovato il codice penale introducendovi dopo un ventennio di attesa il titolo VI bis intitolato "Delitti contro l'ambiente", la disposizione più qualificante della volontà del legislatore di contrastare in maniera "globalizzata" le violazioni ambientali, ben al di là delle nuove figure di reato introdotte è, ancora una volta, proprio quella che introduce una aggravante: ci si riferisce alla "aggravante ambientale" prevista dall'articolo 452 novies del Cp. Trattasi, non si esita a dirlo, di una novità rivoluzionaria - la cui portata potrà misurarsi ovviamente solo attraverso l'applicazione giurisprudenziale - che adegua finalmente la nostra legislazione ordinaria ai precetti costituzionali e agli insegnamenti della Consulta in tema di ambiente, e proietta la legislazione italiana ai vertici tra quelle dei Paesi della Unione Europea. La disposizione in dettaglio - La disposizione, in realtà, al di là del singolare utilizzato nel titolo, contiene due aggravanti: una a effetto speciale per via della entità dell'aumento di pena (da un terzo alla metà) che risponde ai criteri del nesso teleologico e aggrava il reato (qualsiasi reato) per la sua funzionalità rispetto al delitto fine; e una comune (aumento della pena di un terzo), che si applica per il semplice fatto del derivare dal reato una qualsiasi violazione di norma posta a tutela dell'ambiente (ovviamente violazione non costituente reato). In tale ultimo caso, le regole previste dall'articolo 59 del Cp per come modificato dalla legge n. 19 del 1990 valgono a garantire la costituzionalità della disposizione. Per l'altra aggravante (quella speciale), poi, è appena il caso di ricordare quali possano essere gli effetti della sua configurazione sul piano processuale, oltre che sostanziale, anche per quel che riguarda la fase delle indagini preliminari con la possibilità di utilizzare mezzi di ricerca della prova altrimenti non esperibili. Tanto in premessa, per esprimere una valutazione di carattere generale sulla complessiva costruzione legislativa che, come ogni complesso elaborato, soprattutto se proveniente da una fase preparatoria sofferta, non può certo manifestare la caratteristica della perfezione. Ma si può ben affermare che il nuovo titolo del codice penale mette a disposizione degli strumenti, prima del tutto inesistenti in tema di tutela ambientale, il cui pregio sarà dimostrato dalla loro concreta utilizzazione in sede giudiziaria che potrà consentire eventuali - si ripete eventuali - messe a punto di natura legislativa, se occorrenti. Chiarito subito che in materia di tutela dell'ambiente i migliori presidi sono quelli che servono a prevenire le condotte che recano pregiudizio, piuttosto che quelli che valgono a sanzionarle dopo il verificarsi dell'evento nocivo, va comunque detto che è da ritenersi una svolta epocale quella che mette a disposizione degli organi dell'apparato repressivo dello Stato ben sei nuove figure di delitti (volendosi dare autonomia alla disposizione di cui all'articolo 452 ter del Cp, rispetto a quella del precedente articolo 452 bis), e precisamente: inquinamento ambientale (452 bis); morte o lesioni a seguito di inquinamento (articolo 452 ter); disastro ambientale (articolo 452 quater); traffico di materiale radioattivo (articolo 452 sexies); impedimento del controllo (articolo 452 septies); omessa bonifica (articolo 452 terdecies). Con l'ulteriore previsione delle ipotesi colpose per i delitti di inquinamento e disastro. Il mutamento dello scenario sul quale i predetti organi statuali potranno disegnare le strategie e le tattiche di contrasto del crimine ambientale è più che significativo, e per questo si è parlato di "svolta epocale". In precedenza, invero, ogni azione di quel tipo era giocoforza programmarla avendo come punto di riferimento la normativa dei rifiuti, unica a prevedere una ipotesi delittuosa nell'articolo 260 del Dlgs 152/06, costituente una sorta di lievitazione verso un ambito di antigiuridicità penale di maggior rilievo delle ipotesi contravvenzionali di cui ai precedenti articoli 256 e 259. E, a ben vedere, salvo rare eccezioni, anche alle condotte illecite in tema di rifiuti si è legata in passato la configurazione del "disastro ambientale", le virgolette sono d'obbligo in assenza di una specifica figura di reato, facendosi ricorso al reato previsto dall'articolo 434 del Cp con una operazione giuridico-processuale i cui limiti sono stati dimostrati dai non certo lusinghieri risultati ottenuti. Oggi, invece, si può spaziare in ogni campo delle condotte umane che siano tali da determinare gli eventi previsti dagli articoli 452 bis e 452 quater del Cp, qualunque sia la natura di tali condotte, e in qualsiasi ambito o settore siano svolte. E per questo, giustamente, si è svincolata la condotta da qualsiasi riferimento alla "violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative poste a tutela dell'ambiente" (come originariamente previsto dal Disegno di Legge), opportunamente essendosi preferito utilizzare l'avverbio "abusivamente", quale termine contenente l'essenza di ogni violazione che determini la illiceità della condotta. L'apparato repressivo - Sarà compito degli organi dell'esecutivo e del legislativo, conseguentemente, per onorare il nuovo titolo del codice, di dotare l'apparato repressivo di servizi di polizia giudiziaria che siano in grado di affrontare le nuove sfide, ad esempio rafforzando il Corpo Forestale dello Stato che costituisce la polizia ambientale per eccellenza; e degli organi giudiziari di affinare e perfezionare le proprie conoscenze e competenze nello specifico settore. Il legislatore, e ciò spiega anche la grande maggioranza con cui la nuova legge è stata approvata, ha inquadrato il fenomeno criminale in questione correttamente rapportandolo all'intero territorio nazionale, liberandosi dagli stereotipi che avevano inteso legare la criminalità ambientale a quella mafiosa e che ne avevano fatto una caratteristica distintiva di determinate aree geografiche. Indulgendovi solo con la previsione della aggravante di cui all'articolo 452 octies del Cp per i delitti associativi semplice e mafioso, quando finalizzati alla commissione dei nuovi reati ambientali, resa sostanzialmente superflua da quella dell'articolo successivo di cui s'è in principio detto, che aggrava in maniera ben più consistente anche la pena prevista per i detti delitti. In realtà la "Terra dei Fuochi" non è solo prerogativa della Regione Campania, bensì potenzialmente, se non già in atto, di ogni Regione d'Italia. Perché il reato ambientale non è un crimine di mafia, ma della impresa deviata che, oltre a nuocere all'ambiente, danneggia l'economia nazionale e la libera concorrenza, a scapito delle aziende virtuose che costituiscono il tessuto economico sano della Nazione. Risarcimento Contrada: il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non era chiaro di Giovanni Tartaglia Polcini Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2015 Cedu - Sezione IV - Sentenza 14 aprile 2015 - Ricorso n. 66655/13. La decisione della Cedu in esame è destinata certamente a immettersi nell'alveo delle principali questioni speculative future in materia di diritto penale, scardinando alcune certezze in tema di principio di legalità e di distinzione tra famiglie di ordinamenti giuridici. La disposizione della Carta europea invocata - L'articolo 7 della Convenzione recita: "1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al tempo in cui il reato è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili". Inquadramento dogmatico della questione - La decisione, deve essere correttamente commentata, con la piena consapevolezza del dato che, per come è motivata, si manifesta suscettibile di due distinti approcci epistemologici: •il primo, secondo cui la Corte ha clamorosamente errato nelle premesse del proprio ragionamento logico giuridico, applicando all'Italia - paese di ordinamento non di common law - parametri di riferimento che le sono del tutto estranei; •il secondo, per cui la Corte ha il potere di intervenire anche sul piano dei principi cardine, alla luce del testo della convenzione, e di censurare legittimamente le scelte ordinamentali operate dagli Stati nella rispettiva autonomia costituzionale. Epperò, il testo della sentenza, che non tiene in assoluta considerazione le differenze tra sistemi giuridici dalla storia e dall'impalcatura costituzionale del tutto distinte, fa propendere, senza dubbio alcuno, per la prima ipotesi; con l'effetto, quindi, di un drastico ridimensionamento della portata applicativa della decisione dei giudici di Strasburgo. In altri termini, la sentenza sembrerebbe basata su presupposti errati e, di conseguenza, più che rivoluzionaria, come si presenta all'apparenza, sarebbe frutto di un vero e proprio svarione. La tesi dei giudici di Strasburgo - La giurisprudenza della Corte ha nel tempo precisato la portata dell'articolo 7 della Cedu affermando la sostanziale equiparazione tra fonte legislativa e fonte giurisprudenziale in materia penale; pur riconoscendo l'impraticabilità nella prassi di una tassatività assoluta del precetto, la Corte ritiene che "si può considerare "legge" solo una norma enunciata con una precisione tale da permettere al cittadino di regolare la propria condotta". La determinatezza è, dunque, l'altra faccia della prevedibilità e, pertanto, una giurisprudenza complessa e divisa, come quella in materia di concorso esterno tra gli anni 80 e 90, non avrebbe permesso al ricorrente di qualificare con chiarezza i fatti contestati e prevedere la conseguente sanzione. L'errore di fondo - Comunemente si afferma che negli ordinamenti di common law alla giurisprudenza spetti un ruolo di fonte primaria, mentre in quelli di civil law essa sia relegata all'ambito delle fonti secondarie. Nei primi - e solo in essi - il principio di legalità è messo in discussione dal diritto penale giurisprudenziale, realizzandosi in questo modo uno scontro fra contendenti che si trovano su due livelli diversi: quello della law in the books e quello della law in action. La gara fra legge scritta e diritto giurisprudenziale è impari per il loro operare su piani diversi e per il fatto che gli sforzi della dottrina per rafforzare la lex scripta e renderla il più possibile vincolante, rimangono sul piano della law in the books, mentre il diritto dei giudici è la law in action, livello che deve essere preso in considerazione per rendere effettivo il principio di legalità. Ciò posto, è innegabile che, per far sì che il principio di legalità sia rispettato e che sia garantita la sicurezza giuridica, ossia la certezza del diritto, il cittadino deve essere messo nella condizione di conoscere anticipatamente la legge penale, deve essere in grado di sapersi orientare nelle scelte delle proprie azioni, pienamente consapevole delle conseguenze. Per realizzare quest'obiettivo, negli ordinamenti di common law - e solo in essi - occorre conferire alla law in action una maggiore stabilità e uniformità, le quali sono raggiunte assegnando una qualche vincolatività al precedente giudiziale; ma, a questa maggiore stabilità e uniformità osta l'interazione fra due diversi tipi di libertà di cui godono i giudici: da una parte, la libertà nei confronti della legge scritta che porta inevitabilmente a contrasti giurisprudenziali sincronici e diacronici e a un maggior distacco fra legge scritta e diritto giurisprudenziale; dall'altra, la libertà nei confronti degli altri giudici e di se stessi nell'interpretare la legge. A tuttora nel sistema italiano si può verificare l'insussistenza del vincolo del precedente de iure condito (sul diritto fondato) - nonostante l'esistenza di disposizioni (articolo 65 dell'ordinamento giudiziario; articolo 618 del Cpp che rimanda i contrasti giudiziali alle sezioni Unite della Corte di cassazione; articolo 25 della Costituzione ) che favoriscono una sua instaurazione - per il suo contrasto manifesto con il principio di legalità, la riserva di legge e la separazione dei poteri. La vicenda processuale caduta sotto attenzione della Cedu - Si tratta del ricorso n. 66655/13 - Contrada Bruno c. Italia e della sentenza Cedu del 14 aprile 2015. Bruno Contrada era stato condannato, in via definitiva, dall'autorità giudiziaria italiana, alla pena di 10 anni di reclusione per il reato di "concorso esterno in associazione mafiosa" con riferimento a fatti commessi negli anni 1979-1988. Con sentenza del 5 aprile 1996, il tribunale di Palermo condannò il ricorrente alla pena di dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione di stampo mafioso (articoli 110, 416 e 416-bis del codice penale ). In particolare, il tribunale lo ritenne colpevole di avere, tra il 1979 e il 1988, in qualità di funzionario di polizia poi di capo di gabinetto dell'alto commissario per la lotta alla mafia e di vicedirettore dei servizi segreti civili (Sisde), apportato sistematicamente un contributo alle attività e al perseguimento degli scopi illeciti dell'associazione mafiosa denominata "cosa nostra". Secondo il tribunale, il ricorrente aveva fornito ai membri della commissione provinciale di Palermo della suddetta associazione informazioni riservate riguardanti le indagini e le operazioni di polizia di cui essi, e altri membri dell'associazione in questione, formavano oggetto. Il tribunale fondò il suo giudizio sull'esame di un numero considerevole di testimonianze e di documenti oltre che sulle informazioni fornite da più collaboratori di giustizia, già membri dell'associazione "cosa nostra". Con ricorso presentato alla Corte Edu il 4 luglio 2008, Contrada lamentava la violazione dell'articolo 7 della Convenzione (Principio di legalità) sostenendo che la fattispecie penale per cui era stato processato e condannato (id est concorso esterno nel reato di associazione mafiosa) - di elaborazione giurisprudenziale consolidatasi solo con la nota decisione della Corte di cassazione sezioni Unite Demitry (5/10/1994) - non poteva essere da lui chiaramente conoscibile e prevedibile all'epoca della commissione dei fatti contestati; il ricorrente, quindi, lamentava la violazione del principio di non-retroattività della legge penale atteso che gli era stata applicata retroattivamente una fattispecie incriminatrice affermatasi nel sistema solo a partire dal 1994. Nella sentenza in parola, superando le eccezioni di inammissibilità del Governo italiano, la Corte Edu ha accolto nel merito il ricorso di Bruno Contrada stabilendo che all'epoca dei fatti contestati allo stesso (1979-1988) non si era ancora ben delineato e consolidato l'orientamento giurisprudenziale in favore della configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione mafiosa, affermatosi solo successivamente a partire dalla sentenza delle sezioni Unite della Corte di cassazione Dimitry (1994) e ancora dopo con le sentenze sezioni Unite della Corte di cassazione Mannino (1995), Carnevale (2002) e Mannino (2005); tutte - comunque - successive al periodo dei reati commessi dal Contrada. La decisione della Cedu in esame - La Corte, limitandosi a valutare la sussistenza della violazione dei principi enucleati nell'articolo 7 della Convenzione Edu, ha statuito che - nel caso di cui trattasi - la fattispecie incriminatrice applicata non era, al momento della commissione dei fatti-reato da parte del Contrada, sufficientemente chiara e conoscibile e prevedibile dallo stesso per poterne rispondere penalmente in base al principio di legalità. Conseguentemente, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto essersi verificata una violazione del principio di irretroattività della norma penale quale corollario del principio nulla poena sine lege. La Corte, infine, ha evidenziato che la questione della conoscibilità e prevedibilità (al momento della commissione di fatti) della fattispecie incriminatrice contestata al Contrada non è stata affrontata e valutata dalle autorità giudiziarie italiane nel corso del processo nazionale, benché il ricorrente Contrada ne avesse fatto specifico motivo di doglianza nelle diverse fasi di impugnazione. Occorre sottolineare che la Corte Edu non si è pronunciata sulla fondatezza o meno della configurabilità del reato di concorso esterno nel reato associativo mafioso quale fattispecie incriminatrice generale. La Corte ha unicamente stabilito - relativamente a questo caso specifico - che, all'epoca della commissione dei reati per cui il Contrada è stato condannato, l'elaborazione giurisprudenziale di tale figura criminosa non era sufficientemente consolidata e, quindi, dotata dei requisiti di "chiarezza e certezza" necessari al fine di consentirne la sufficiente "conoscibilità e prevedibilità" da parte dell'autore del reato. La sentenza Cedu, pertanto, non entra affatto nel merito della questione giuridica della configurabilità o non del reato di concorso esterno nel reato di associazione mafiosa, così come risolto nella giurisprudenza delle sezioni Unite della Corte di cassazione sopramenzionata. Il concorso esterno in associazione mafiosa nel nostro ordinamento - Su tale tema [dell'esistenza del reato di concorso eventuale in associazione di tipo mafioso, commessa da soggetti terzi, diversi dai concorrenti detti "necessari"] si sono delineati diversi orientamenti che sinteticamente sono riconducibili a tre differenti indirizzi: 1) quello di coloro che negano decisamente la configurabilità nel nostro sistema del concorso esterno nel reato associativo, adducendo che l'estensione ingiustificata dell'area applicativa del reato associativo comporterebbe la violazione dei principi di legalità, tassatività e necessaria determinatezza delle fattispecie penali, paventando in concreto i rischi di un'eccessiva dilatazione della discrezionalità giudiziale; 2) quello di coloro che pur ammettendo in punto di diritto la ipotizzabilità di un concorso eventuale nei delitti associativi, si sforzano di delimitarne l'ambito di operatività mettendo in luce anche la funzione sussidiaria, qualificatrice e sanzionatoria, svolta in relazione alle condotte cosiddette di contiguità da altre fattispecie incriminatrici (v. favoreggiamento-assistenza agli associati ecc.); 3) quello di coloro che ammettono la configurabilità nel nostro ordinamento del concorso esterno nel reato associativo, sul presupposto che la disciplina dettata dagli articoli 110 e seguenti del Cp, in quanto espressione di principi generali attinenti alla plurisoggettività della fattispecie senza distinzione tra concorso necessario e concorso eventuale, è applicabile anche alla fattispecie del reato associativo, valorizzando la capacità di tale approccio ermeneutico di soddisfare ineludibili esigenze politico-criminali di difesa sociale". Certamente il settore delle relazioni tra soggetti appartenenti al mondo della politica, dell'amministrazione, dell'imprenditoria, delle professioni, della magistratura, della finanza..., con l'organizzazione mafiosa, ove non si atteggi in forme di vera e propria integrazione nella predetta struttura criminale, è quello che in modo più congeniale si presta alla riconducibilità giuridica alla figura del concorrente esterno. Tale strumento giuridico, seppure abbisognevole di una prudente applicazione da parte del giudice, certamente si configura di indubbia efficacia per la repressione proprio di quelle forme di collusione che, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, appaiono maggiormente riprovevoli e sintomatiche dell'elevata capacità di infiltrazione della mafia nel tessuto della società civile e pertanto in grado di evidenziare la potente carica eversiva di tale realtà criminale". Gli orientamenti precedenti - La prima sentenza nella quale è menzionato questo reato è la sentenza Cillari, n. 8092 del 14 luglio 1987, dove la Corte di cassazione esclude esplicitamente l'esistenza di un reato simile. Nella sentenza Agostani, n. 8864 del 27 giugno 1989, la Corte giunse alle stesse conclusioni. Più tardi, nelle sentenze Abbate e Clementi, nn. 2342 e 2348 del 27 giugno 1994, la Corte smentì ugualmente l'esistenza nel diritto interno del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Nel frattempo, nella sentenza Altivalle, n. 3492 del 13 giugno 1987, la Corte di cassazione riconobbe l'esistenza del concorso eventuale in associazione di tipo mafioso nel limite dei reati detti "di accordo", ossia i reati di tipo associativo nei quali le volontà di tutti gli individui coinvolti nei fatti hanno come scopo la realizzazione di un obiettivo comune. Anche la sentenza Barbella, n. 9242 del 4 febbraio 1988, fece riferimento al reato in causa, ponendo l'accento sulla natura episodica dei comportamenti dell'autore dei fatti. Le sentenze Altomonte, n. 4805 del 23 novembre 1992, Turiano, n. 2902 del 18 giugno 1993 e Di Corrado, del 31 agosto 1993, confermarono sostanzialmente tale impostazione. È soltanto con la sentenza Demitry, pronunciata dalle sezioni Unite il 5 ottobre 1994, che per la prima volta la Corte di cassazione tenta di elaborare la materia in oggetto, passando in rassegna le sentenze che negavano e quelle che avevano riconosciuto il reato in causa e ammettendo esplicitamente l'esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell'ordinamento giuridico interno. Questa stessa impostazione fu in seguito confermata in altre sentenze, quali Mannino, n. 30 del 27 settembre 1995, Carnevale, n. 22327 del 30 ottobre 2002 e Mannino, n. 33748 del 17 luglio 2005, anche esse pronunciate dalle sezioni Unite della Corte di cassazione. Il concorso esterno nel delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso si distingue da quello di favoreggiamento, in quanto nel primo il soggetto, pur non essendo stabilmente inserito nella struttura organizzativa dell'associazione, opera sistematicamente con gli associati, al fine di depistare le indagini di polizia volte a reprimere l'attività criminosa dell'associazione o a perseguire i partecipi di tale attività, in tal modo fornendo uno specifico e concreto contributo ai fini della conservazione o del rafforzamento dell'associazione medesima; mentre nel reato di favoreggiamento il soggetto aiuta in maniera episodica un associato, resosi autore di reati rientranti o non nell'attività prevista dal vincolo associativo, a eludere le investigazioni della polizia o a sottrarsi alle ricerche di questa. I principi derivanti dalla giurisprudenza della Corte - La Corte rammenta che i principi generali in materia del principio nulla poena sine lege, derivanti dall'articolo 7 della Convenzione, sono sintetizzati nella sentenza Del Rio Prada contro Spagna [GC] (n. 42750/09, §§ 77-80, Cedu 2013), le cui parti pertinenti sono riportate qui di seguito. Tali principi sono richiamati anche nella sentenza Rohlena c. Repubblica ceca [GC] (n. 59552/08, § 50, 27 gennaio 2015): "La garanzia sancita all'articolo 7, che è un elemento essenziale dello stato di diritto, occupa un posto preminente nel sistema di protezione della Convenzione, come sottolineato dal fatto che non è permessa alcuna deroga a essa ai sensi dell'articolo 15 neanche in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione. Come deriva dal suo oggetto e dal suo scopo, essa dovrebbe essere interpretata e applicata in modo da assicurare una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie (S.W. c. Regno Unito e C.R. c. Regno Unito, 22 novembre 1995, rispettivamente § 34, serie A n. 335-B, e § 32, serie A n. 335-C, e [Kafkaris c. Cipro [GC], n. 21906/04, § 137, Cedu 2008]. L'articolo 7 della Convenzione non si limita a proibire l'applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell'imputato (si vedano, per quanto riguarda l'applicazione retroattiva di una pena, Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, § 36, serie A n. 307 A, Jamil c. Francia, 8 giugno 1995, § 35, serie A n. 317 B, Ecer e Zeyrek c. Turchia, nn. 29295/95 e 29363/95, § 36, Cedu 2001 II, e Mihai Toma c. Romania, n. 1051/06, §§ 26-31, 24 gennaio 2012). Esso sancisce anche, in maniera più generale, il principio della legalità dei delitti e delle pene - nullum crimen, nulla poena sine lege - (Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, § 52, serie A n. 260 A). Se vieta in particolare di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano dei reati, esso impone anche di non applicare la legge penale in modo estensivo a svantaggio dell'imputato, ad esempio per analogia (Coëme e altri c. Belgio, nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 145, Cedu 2000-VII; per un esempio di applicazione di una pena per analogia, si veda la sentenza Baskaya e Okçuoglu c. Turchia [GC], nn. 23536/94 e 24408/94, §§ 42-43, Cedu 1999 IV). Di conseguenza la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questo requisito è soddisfatto se la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, se necessario con l'assistenza dell'interpretazione che ne viene data dai tribunali e, se del caso, dopo aver avuto ricorso a consulenti illuminati, per quali atti e omissioni le viene attribuita una responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti (Cantoni c. Francia, 15 novembre 1996, § 29, Recueil des arrêts et décisions 1996 V, e Kafkaris, sopra citata, § 140). Pertanto, il compito della Corte è, in particolare, quello di verificare che, nel momento in cui un imputato ha commesso l'atto che ha comportato l'esercizio dell'azione penale e la condanna, esistesse una disposizione di legge che rendeva l'atto punibile, e che la pena inflitta non eccedesse i limiti fissati da tale disposizione (Coëme e altri, sopra citata, § 145, e Achour c. Francia [GC], n. 67335/01, § 43, Cedu 2006 IV)". La Corte rammenta anche che non ha il compito di sostituirsi ai giudici nazionali nella valutazione e nella qualificazione giuridica dei fatti, purché queste si basino su un'analisi ragionevole degli elementi del fascicolo (si veda, mutatis mutandis, Florin Ionescu c. Romania, n. 24916/05, § 59, 24 maggio 2011). Più in generale, la Corte rammenta che sono in primo luogo le autorità nazionali, in particolare le Corti e i tribunali, a dover interpretare la legislazione interna. Il suo ruolo si limita dunque a verificare la compatibilità con la Convenzione degli effetti di tale interpretazione (Waite e Kennedy c. Germania [GC], n. 26083/94, § 54, Cedu 1999-I, Korbely c. Ungheria, [GC], n. 9174/02, §§ 72-73, Cedu 2008, e Kononov c. Lettonia [GC], n. 36376/04, § 197, Cedu 2010). Tuttavia, la Corte deve godere di un potere di controllo più ampio quando il diritto tutelato da una disposizione della Convenzione, in questo caso l'articolo 7, richiede che vi sia una base legale per poter infliggere una condanna e una pena. L'articolo 7 § 1 esige che la Corte esamini se la condanna del ricorrente si fondasse all'epoca su una base legale. In particolare, essa deve assicurarsi che il risultato al quale sono giunti i giudici nazionali competenti fosse conforme con l'articolo 7 della Convenzione. L'articolo 7 diverrebbe privo di oggetto se si accordasse un potere di controllo meno ampio alla Corte (si veda Kononov, sopra citata, § 198). In definitiva, la Corte deve esaminare se la condanna del ricorrente si fondasse su una base sufficientemente chiara (si veda Kononov, sopra citata, § 199; Rohlena, sopra citata, § 51-53). Applicazione dei principi al caso di specie - La questione che si pone è quella di stabilire se, all'epoca dei fatti ascritti al ricorrente, la legge applicabile definisse chiaramente il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Si deve dunque esaminare se, a partire dal testo delle disposizioni pertinenti e con l'aiuto dell'interpretazione della legge fornita dai tribunali interni, il ricorrente potesse conoscere le conseguenze dei suoi atti sul piano penale. In queste circostanze, la Corte constata che il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry. Perciò, all'epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest'ultimo. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti (Del Rio Prada [GC], sopra citata, §§ 79 e 111-118, a contrario, Ashlarba c. Georgia, n. 45554/08, §§ 35-41, 15 luglio 2014, a contrario, Rohlena, § 50, sopra citata e, mutatis mutandis, Alimuçaj c. Albania, n. 20134/05, §§ 154-162, 7 febbraio 2012). La Corte ha ritenuto che questi elementi fossero sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell'articolo 7 della Convenzione. Il curioso precedente Contrada - Sempre con riferimento alle vicende processuali di Bruno Contrada, va rammentato che già la Corte aveva censurato il comportamento ordinamentale italiano sul distinto piano del divieto di trattamenti inumani o degradanti: si tratta della condanna Cedu all'Italia per avere negato la misura meno afflittiva dei domiciliari, malgrado l'imputato fosse gravemente malato e malgrado la palese incompatibilità del suo stato di salute col regime carcerario, sia una violazione dell'articolo 3 della Cedu (febbraio 2014). È quanto deciso dalla Cedu sezione II con la sentenza Bruno Contrada c. Italia n. 2 (ric. 7509/08) dell'11 febbraio 2014. La precedente sentenza Contrada c. Italia del 24/8/98, invece, aveva escluso, per i medesimi fatti, la violazione dell'art. 5 §.3 (diritto alla libertà e alla sicurezza) Cedu. Le potenziali conseguenze della decisione Cedu - La sentenza Cedu potrebbe, se declinata in tutta la sua portata applicativa, condurre all'affermazione del principio (forte se non addirittura assurdo), che ogni mutamento giurisprudenziale in senso estensivo del penalmente rilevante (cosiddetta overruling in malam partem) è destinato a incappare nella violazione dell'articolo 7 della Convenzione. In quest'ottica si tratterebbe, semmai, di quantificare il livello di overruling che fa scattare la responsabilità ordinamentale, per mitigare una cascata eziologica altrimenti difficilmente arrestabile. Peraltro, non si vede chi potrebbe stabilire, e in base a quali parametri, quando un nuovo orientamento giurisprudenziale in materia penale si manifesti prevedibile. Non può, infine, trascurarsi il dato secondo cui altri condannati potrebbero lamentare la stessa violazione dell'articolo 7 della Cedu per affermazioni di penale responsabilità a titolo di concorso esterno relative a fatti antecedenti il consolidamento giurisprudenziale in materia. E ancora, qualora i giudici penali italiani ritenessero condivisibile e cogente (a livello di moral suasion) il decisum della Cedu potrebbe verificarsi un vero e proprio effetto conformativo e di omologazione giurisprudenziale penale nel nostro ordinamento. E ancora, ci si chiede quali misure potrebbe e dovrebbe adottare l'ordinamento italiano per aderire al principio statuito dalla Cedu: in questo ambito tornano alla mente i tentativi di inserire nel codice di procedura penale domestico disposizioni tendenti a limitare lo spatium deliberandi dell'interprete a fronte di orientamenti giurisprudenziali consolidati, così come, volendo portare la questione alle sue estreme conseguenze, evocazioni del rilievo disciplinare della giurisprudenza cosiddetta creativa. Ma non v'è chi non veda che, proprio nella possibilità di modificare orientamenti giurisprudenziali, nel ruolo significativo dell'interpretazione, nella sostanziale indipendenza e autonomia di ciascun organo giurisdizionale, sta la magnificenza del nostro ordinamento giuridico, che non pare debba cedere - in questo ambito - in favore di distinte e aliene realtà, certamente del pari degne di rispetto, ma non per questo da ergere a modello cui tendere. La prescrizione del danno ambientale decorre dalla fine delle azioni pericolose di Mario Piselli Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 6 maggio 2015 n. 9012. In materia di danno ambientale, la condotta antigiuridica consiste nel mantenimento dall'ambiente nelle condizioni di danneggiamento e, pertanto, il termine prescrizionale dell'azione di risarcimento inizia a decorrere da quando tali condizioni sono state volontariamente eliminate dal danneggiante o tale condotta è stata resa impossibile dalla perdita incolpevole della disponibilità del bene da parte del danneggiante medesimo. Questo il principio affermato dai giudici della terza sezione civile della Cassazione con la sentenza n. 9012 del 6 maggio scorso. La responsabilità per danno ambientale - La Cassazione ha affermato che, in materia di responsabilità per danno ambientale, la regola per la quale "nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale", mirando a evitare la responsabilità anche per fatti altrui, opera nei casi di plurime condotte indipendenti e non anche in caso di azioni od omissioni concorrenti in senso stretto alla concretizzazione di una unitaria condotta di danneggiamento dell'ambiente, quando siano tutte tra loro avvinte quali indispensabili antefatti causali di questa. Conseguenze - La conseguenza è che, in tale ultima ipotesi, non soffre limitazioni la regola generale dell'articolo 2055 del Cc in tema di responsabilità di ciascun coautore della condotta per l'intero danno causato. L'esclusione dell'operatività dell'articolo 2055 del Cc deve avvenire con cautela, integrando quello un principio generale in tema di responsabilità extracontrattuale e rispondendo a esigenze di tutela immediata ed effettiva del danneggiato. Rifiuto alcoltest: alle Sezioni Unite la questione del raddoppio pena se veicolo è di un altro di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Ordinanza 24 aprile 2015 n. 17182. Va rimessa alle sezioni Unite, sussistendo contrasto di giurisprudenza, la questione se, nel caso di rifiuto a sottoporsi all'esame alcolemico previsto dall'articolo 186, comma 7, del codice della strada, in ragione del rinvio operato dalla norma all'articolo 186, comma 2, lettera c), sia o no esteso anche alla previsione del raddoppio della durata della sospensione della patente di guida qualora il veicolo appartenga a persona estranea al reato. Il rinvio alle sezioni Unite - Corretto è il rinvio della questione controversa alle sezioni Unite. Vi è infatti un orientamento in forza del quale il rinvio operato dall'articolo 186, comma 7, del codice della strada, all'articolo 186, comma 2, lettera c), dello stesso codice, sarebbe limitato al trattamento sanzionatorio ivi previsto per la più grave delle fattispecie di guida in stato di ebbrezza, mentre, in relazione alle sanzioni amministrative accessorie, il legislatore, nel corpo del citato articolo 186, comma 7, avrebbe espressamente disciplinato la sospensione della patente di guida, con autonoma cornice edittale (tra un minimo di sei mesi e un massimo di due anni), e la confisca, rinviando ad altra disposizione di legge solo con esclusivo riferimento alle "stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lettera c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione". In altri termini, secondo questa tesi, tale rinvio, contenuto nel secondo periodo del comma 7 dell'articolo 186, dopo le previsioni relative alla sospensione della patente di guida e alla confisca del veicolo, dovrebbe intendersi limitato alle sole modalità e procedure che regolano il sistema della confisca del veicolo, con esclusione del rinvio alla disciplina del raddoppio della durata della sospensione della patente di guida qualora il veicolo appartenga a persona estranea al reato. Conseguentemente, si sostiene, la durata della sospensione della patente di guida, quale sanzione amministrativa che accede al reato di rifiuto, compresa, ai sensi dell'articolo 186, comma 7, secondo periodo, tra il minimo di sei mesi e il massimo di due anni, non dovrebbe essere raddoppiata nel caso in cui il veicolo appartenga a persona estranea al reato (tra le altre, sezione IV, 24 marzo 2015, Pg appello Brescia in proc. Vaglia, nonché Sezione VI, 10 luglio 2014, Farinelli). Un orientamento opposto - A tale orientamento, peraltro, se ne oppone uno di segno diametralmente contrario, in forza del quale il rinvio al trattamento sanzionatorio dell'articolo 186, comma 2, lettera c), contenuto nell'articolo 186, comma 7, legittimerebbe la conclusione dell'applicabilità del raddoppio della durata della pena accessoria della sospensione della patente di guida, nel caso in cui il veicolo appartenga a persona estranea al reato e non possa quindi procedersi alla confisca: ciò in ragione del fatto che tale rinvio sarebbe da qualificare come formale (o dinamico) e ciò importerebbe la conseguenza di dover individuare la disciplina applicabile per relationem avendo riguardo a quella attualmente vigente contenuta nell'articolo 186, comma 2, lettera c), che comprende l'espressa previsione del raddoppio della durata della sospensione della patente di guida, qualora il veicolo appartenga a persona estranea al reato (tra le altre, sezione IV, 16 ottobre 2014, Bianchi). Benevento: "enti indisponibili", così il lavoro esterno viene negato ai detenuti Il Sannio, 1 giugno 2015 La direttrice del carcere Maria Luisa Palma: "Su ottanta aspiranti solo due hanno in concreto la possibilità. Enti indisponibili". Un convegno ricco di tanti interessanti spunti di riflessione quello svoltosi nell'auditorium di Santa Maria di Costantinopoli a cura dell'associazione Oltre l'orizzonte Onlus dedicato ad un tema di stringente attualità "Le emergenze sociali, anziani, minori, famiglia, detenuti e misure alternative". Tante le personalità che hanno dato un prezioso contributo di riflessione da un lato facendo emergere un prezioso patrimonio di competenze quello degli assistenti sociali mortificato dai tagli della crisi ma anche le carenze nelle politiche per i servizi sociali legate essenzialmente alla mancanza di risorse adeguate. Nel dibattito moderato da Linda Candela, formatore Cnoas, collaboratrice del Suor Orsola Benincasa e vice presidente dell'Università Popolare Atena Napoli, il primo ad intervenire don Pompilio Cristino, parroco di Santa Maria di Costantinopoli: "Fare il bene deve essere il vostro orizzonte, perché il vostro non è solo un lavoro ma anche per la sua delicatezza un ruolo sociale di assoluta importanza e ricaduta sulla vita delle persone, quelle più deboli". Umberto Panunzio, assessore ai Servizi Sociali, ha parlato dello sforzo che "il Settore Servizi al Cittadino nel quadro dell'Ambito Sociale di cui il Comune di Benevento è capofila sta portando avanti per rispondere ad esigenze sempre più grandi rispetto a capacità di spesa giocoforza ridotta. Contiamo solo su sei assistenti sociali, purtroppo non assunte a tempo indeterminato". Di formazione continua e di importanza di un costante aggiornamento ha parlato Maria Rosaria Minieri già presidente dell'Ordine Professionale degli Assistenti Sociali. Mariangela Calicchio, docente dell'Istituto Moscati ha parlato delle problematiche di carattere sociale, quali quelle relative all'inserimento di alunni di origine straniera e dello sforzo in termini di cultura dell'integrazione profuso dal personale docente e della necessità di una maggiore interazione con i servizi sociali del Comune. Anna Maria De Gruttola direttrice dell'Ufficio Uepe per Avellino e Benevento, l'istanza amministrativa che si occupa dell'esecuzione delle misure alternative - che evitano l'ingresso in carcere - ha parlato dei progressi registrati dalla normativa ma delle difficoltà legate ad una cronica carenza di personale: "Su Benevento lavorano solo tre assistenti sociali che devono sovrintendere e supervisionare l'attuazione di ben 200 procedure con una carenza di personale del 65%. Situazione analoga ad Avellino e provincia". Insomma alta preparazione e professionalità, ma drammatiche carenze di organico per un cane che in certo senso si morde la coda. "Misure alternative alla pena vuoi dire evitare che l'autore di reati cada nella recidiva - ha spiegato la dirigente della casa circondariale di Benevento Maria Luisa Palma. Ma anche misure di esecuzione alternative alla detenzione sono importanti ai fini di evitare la recidiva e recuperare le persone alla società. Oggi a Benevento solo due detenuti su ottanta aspiranti sono ammessi al lavoro all'esterno per la cronica indisponibilità di enti pubblici ad attivare questo percorso". Un rilievo pesante, ma tant'è. Anche qui evidentemente la cronica carenza di risorse gioca un ruolo che non va sottovalutato in termini di mortificazione di potenzialità positive. Trapani: carenze strutturali in carcere, visita ispettiva dopo interrogazione e polemiche di Luigi Todaro Quotidiano di Sicilia, 1 giugno 2015 Dopo l'interrogazione, con carattere d'urgenza, presentata al ministero della Giustizia, il senatore Vincenzo Maurizio Santangelo ha visitato le carceri di San Giuliano per verificare, di persona, le condizioni in cui versa la struttura. In molte sezioni, infatti, le infiltrazioni d'acqua piovana hanno messo a rischio la salubrità degli ambienti. L'esponente del Movimento 5 Stelle, accompagnato dal direttore dell'istituto penitenziario Renato Persico e dal comandante della polizia penitenziaria Giuseppe Romano ha fatto un sopralluogo nelle celle, parlando anche con la popolazione carceraria per accettarsi sulle condizioni di vivibilità del luogo di detenzione. Frattanto, è diminuito il numero dei reclusi. Attualmente la casa circondariale ospita 400 detenuti a fronte di una capienza di 358 persone. Alcuni mesi fa, invece, il numero dei reclusi era arrivato a quota 500. Il senatore Vincenzo Maurizio Santangelo ha parlato anche con gli agenti di polizia penitenziaria in servizio nella struttura trapanese che ancora una volta hanno denunciato l'ormai atavica carenza di personale che li costringe a turni massacranti. Mancano, infatti, 62 unità a causa dei pensionamenti. Trento: detenuto ricoverato in ospedale e poi riportato in carcere senza essere operato Il Trentino, 1 giugno 2015 Mattia Civico, consigliere provinciale del Pd, rivolge un'interrogazione alla Giunta provinciale. L'intervento chirurgico era stato programmato (e rinviato con alcuni giorni di anticipo) una prima volta il 7 maggio. Venerdì sembrava la volta buona: un detenuto del carcere di Trento è stato accompagnato fino all'interno del piazzale dell'ospedale Santa Chiara, ma poi è stato riportato in carcere. "Pur in presenza di un'equipe di Chirurgia pronta a operare e del reparto di rianimazione organizzato per la degenza post operatoria, l'operazione non si è potuta svolgere per assenza del paziente, in quanto non tradotto all'unità operativa", scrive Mattia Civico, consigliere provinciale del Pd, in un'interrogazione alla giunta provinciale. E aggiunge: "Non sarebbero intercorse comunicazioni formali nelle giornate precedenti l'intervento programmato tra la direzione della Casa circondariale e i responsabili della medicina penitenziaria, né dell'Azienda. L'unica comunicazione formale da parte dell'amministrazione penitenziaria è giunta fuori tempo massimo, rendendo impossibile riorganizzare l'attività dell'unità operativa di chirurgia, che avrebbe causato il blocco delle attività operatorie e l'impossibilità di sottoporre un altro paziente in attesa dell'intervento chirurgico". Civico sottolinea che "è necessario armonizzare livelli distinti di responsabilità che, se non opportunamente coordinati, rischiano di determinare episodi di mala-gestione e di danno sia al paziente, sia al sistema sanitario provinciale". L'azienda sanitaria si limita a precisare: "Si stanno facendo le verifiche". Il direttore del carcere, Valerio Pappalardo, spiega: "il detenuto è stato riportato in carcere perché c'erano dei problemi di presenza di personale di vigilanza in concomitanza con alcune udienze in tribunale. Circa una settimana prima, è stato richiesto un parere sulla possibilità o meno di rinviare l'intervento e, a quanto mi risulta, tale richiesta non ha avuto un riscontro formale. Io stesso, comunque, nei giorni successivi mi ero interessato personalmente e dal sanitari avevo avuto informalmente risposta che il rinvio dell'intervento non avrebbe pregiudicato la salute del paziente". Ma perché il paziente è stato accompagnato all'ospedale e riportato indietro? "Il detenuto non doveva nemmeno partire. C'è stata, non per colpa mia, una défaillance di ordine logistico; mi dispiace che ci sia stata questa disfunzione - spiega il direttore del carcere. Faccio l'avvocato e per me il diritto alla salute è sacrosanto". L'interrogazione di Matteo Civico Operazione chirurgica programmata e non effettuata. chi ha deciso? Premesso che il regime di detenzione ha il fine del recupero della persona ristretta e non può determinare in alcun caso il non rispetto dei diritti fondamentali, ai sensi degli articoli 2, 3, 13, 27 e 32 della Costituzione e degli articoli 1 e 11 dell'ordinamento penitenziario; il diritto alla salute e di accesso alle cure, ai programmi di prevenzione e in termini generali ai servizi sanitari sono da garantire ai cittadini detenuti al pari degli altri cittadini, come previsto dall'articolo 32 della Costituzione, al comma 1, che recita: "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti". dal 17 febbraio 2011, come stabilito dalle nuove disposizioni attuative dello Statuto di Autonomia approvate con decreto legislativo 252 del 19 novembre 2010, la sanità penitenziaria è passata di competenza alla Provincia e che come definito dalla Giunta Provinciale nella delibera 169 del 4 febbraio 2011 spetta dunque all'Azienda provinciale per i servizi sanitari garantire ai detenuti le prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione previste nei livelli essenziali e uniformi di assistenza. si viene a conoscenza che in data 28 maggio 2015 era previsto e pare anche autorizzato dal magistrato di sorveglianza, un intervento chirurgico programmato per il detenuto signor A.S. già sospeso precedentemente (7 maggio c.a.) per problemi organizzativi dell'amministrazione penitenziaria; tale intervento, pur in presenza di equipe di Chirurgia Prima Divisione pronta ad operare e del reparto di Rianimazione organizzata per la degenza post operatoria, non si è potuto svolgere per assenza del paziente in quanto non "tradotto" presso l'Unità Operativa; non sarebbero intercorse comunicazioni formali nelle giornate precedenti l'intervento programmato tra la direzione della casa Circondariale e i responsabili della medicina penitenziaria, né dell'Apss; nella mattina del programmato intervento il paziente detenuto sarebbe stato effettivamente condotto fino alle porte dell'ospedale della città di Trento e poi ricondotto senza comunicazioni né spiegazioni presso la casa circondariale e che dunque parrebbe non imputabile a mancanza di risorse umane il mancato trasferimento, in quanto di fatto in massima parte avvenuto; che l'unica comunicazione formale da parte dell'amministrazione penitenziaria giungeva fuori tempo massimo e dunque determinando l'impossibilità di riorganizzare l'attività dell'Unità Operativa di Chirurgia; considerato che tale mancanza di comunicazione avrebbe di fatto causato il blocco delle attività operatorie e l'impossibilità di sottoporre altro paziente in lista di attesa ad intervento chirurgico; il mancato intervento chirurgico costringe il paziente ristretto ad un prolungamento della condizione di sofferenza fisica e di invalidità non imputabile alla gestione sanitaria del caso, pur non in presenza di patologia che mette a rischio la vita del detenuto; - Si interroga la giunta e l'assessore competente per sapere: come si sono svolti esattamente gli eventi di cui in premessa; quali sono le generali condizioni di salute del detenuto, ovvero se il mancato intervento sta determinando un permanere di condizioni negative ovvero un aggravamento delle sue condizioni di salute; chi ha assunto la decisione di non eseguire il trattamento sanitario prescritto e previsto, su quali basi e valutazioni, ovvero se è stato richiesto formalmente ai responsabili dell'area sanitaria una valutazione circa l'opportunità e gli effetti della sospensione del trattamento programmato; se vi è stato un danno derivante dal blocco dell'attività operatoria prevista a chi è imputabile questo danno, se e come si ritiene di dover affrontare il tema; come si intende procedere per definire con chiarezza ruoli e responsabilità della gestione dei bisogni sanitari dei detenuti, posto che è evidente che vi sia la necessità di armonizzare livelli distinti di responsabilità che se non opportunamente coordinati rischiano di determinare episodi di mala-gestione e di danno sia al paziente, sia al sistema sanitario provinciale; se infine (ma non ultima per priorità) l'intervento programmato e non effettuato verrà svolto a breve, al fine di garantire al cittadino detenuto, portatore di diritti non negabili in relazione alla sua condizione di ristretto, l'accesso alle cure previste. Pisa: porta la droga al fidanzato detenuto, giovane bloccata nel parlatorio La Nazione, 1 giugno 2015 Il compagno si trova in carcere proprio per reati connessi al mondo degli stupefacenti. Ora anche lei è finita in manette. Pensava evidentemente di poter rifornire di droga senza particolari difficoltà il fidanzato, detenuto nel carcere don Bosco proprio per reati collegati al mondo degli stupefacenti, ma aveva fatto male i conti. Così, quando ha tentato di introdurre hashish ed eroina all'interno della prigione non è passata inosservata ai controlli, è stata scoperta ed è finita pure lei in manette. L'episodio è accaduto nei giorni scorsi e trapela da fonti sindacali. Secondo quanto si è appreso, da qualche tempo il personale di custodia teneva sotto osservazione un giovane detenuto con il sospetto, poi risultato fondato, che fosse riuscito, almeno in una occasione, a ricevere in qualche modo droga dall'esterno. Ma la cosa è stata bloccata sul nascere perché immediatamente sono state adottate efficaci contromisure. Così quando la ragazza, anche lei giovane, pisana, è venuta a trovarlo e ha varcato la soglia del don Bosco, prima di arrivare al parlatorio è stata sottoposta a un accurato controllo che ha consentito di scoprire che addosso aveva piccole quantità di hashish ed eroina. La giovane ha cercato di giustificarsi dicendo che si trattava di sostanze per uso personale. Ma è stata immediatamente fermata e per lei è scattato l'arresto. Non è la prima volta che accadono episodi del genere al carcere don Bosco, ma ogni tentativo di introdurre di nascosto sostanze stupefacenti o altro materiale all'interno del carcere viene rapidamente scoperto perché la maglia dei controlli e l'attenzione del personale di vigilanza non consentono di farla franca. Anche in qusto caso, come già altre volte in passato, gli agenti avevano riscontrato un comportamento alterato da parte del giovane che era riuscito evidentemente a ricevere una prima volta qualcosa dall'esterno e subito sono partite verifiche che hanno consentito di risalire rapidamente alla responsabile. Che adesso dovrà affrontare problemi piuttosto seri. Brescia: "Legami in spazi aperti", così il teatro sposta i detenuti oltre le barriere bresciaoggi.it, 1 giugno 2015 Quindici carcerati saranno coinvolti nella festa con i loro figli e due minori della comunità "Fa Mille". Una festa teatrale che diventa un "contenitore" di laboratori artistici già attivi sul territorio, per dare vita ad un momento di incontro e scambio creativo tra i soggetti che abitano e vivono la comunità. Dopo l'esordio di tre anni fa, ritorna "Legami in spazi aperti", l'iniziativa inserita nella celebrazione del "Corpus Hominis" e promossa dalla casa di reclusione di Verziano, dall'associazione culturale teatrale "Briganti" e dalla casa di accoglienza per adolescenti "I tre Volti", in collaborazione con la parrocchia di San Giovanni Evangelista, l'Università Cattolica e la cooperativa sociale di Bessimo. L'intento è quello di organizzare una ricorrenza in cui le persone, in tutta la loro "originale differenza", abbiano l'opportunità di conoscersi, inventare, collaborare, giocare, narrarsi ed immaginare una comunità rinnovata, grazie alla passione condivisa per il teatro, la danza, la musica e la poesia. L'appuntamento, in programma domani nel chiostro della parrocchia di San Giovanni, verrà infatti animato, fra gli altri, da migranti, clown, danzatori, scultori e musicisti. Ma il teatro diventa incontro e relazione oltre i muri e le barriere: coinvolti nell'iniziativa ci sono infatti anche 15 detenuti di Verziano, insieme ad alcuni dei loro figli. "Un momento di comunità che permette ai detenuti di recuperare le funzioni genitoriali, intrecciando le questioni evolutive con quelle riabilitative", spiega la direttrice di Verziano, Francesca Paola Lucrezi. Insieme a loro, anche due minori della comunità residenziale "FaMille" di Bergamo. Il programma della giornata prevede alle ore 10 l'inizio dei lavori con l'allestimento della performance collettiva, che verrà poi presentata al pubblico alle 15. L'ingresso è libero; per informazioni consultare il sito corpushominis.it. Termoli (Cb): Cappella Casa Famiglia Iktus, la prima pietra affidata a un ex detenuto primonumero.it, 1 giugno 2015 questa mattina alle 10 presso la Casa Famiglia Iktus "Lucia e Bernardo Bertolino" la posa della prima pietra per la realizzazione della Cappella "S. Maria dell'Accoglienza" e le strutture annesse per ospitare persone in difficoltà come detenuti, disagiati e bisognosi. Saranno presenti il Vescovo Mons. Gianfranco De Luca, il Presidente della Regione Molise Arch. Paolo Di Laura Frattura, l'assessore regionale Pierpaolo Nagni, il sindaco di Guglionesi, il presidente dell'Associazione Iktus e parroco di san Timoteo Benito Giorgetta, gli ospiti della casa, i volontari, i tecnici progettisti e collaboratori e quanti vorranno esse presenti. La prima pietra, consistente in un mattone, n.657, della porta santa chiusa da San Giovanni Paolo II nell'anno santo della redenzione del 1983 e riaperta nell'anno del Grande Giubileo del 2000, è stata benedetta da Papa Francesco nel corso dell'Udienza di mercoledì 27 maggio scorso. Un ex ergastolano, Antonio Ferrigno, che dopo 26 anni di detenzione si è vista tramutare la pena in libertà vigilata, in attesa di quella condizionale, assieme a don Benito e i donatori coniugi Lucia e Bernardo Bertolino, hanno avuto la gioia e la consolazione di incontrare il Papa e illustrargli l'iniziativa. Il Papa ha gradito la visita soffermandosi per qualche minuto a dialogare e sostenere l'opera di accoglienza che si sta intraprendendo. Tenendo la sua mano poggiata sulla pietra l'ha benedetta e aggiunto: "Dovete fare cose grandi". Immigrazione: la nostra tribù è crudele? di Marina Valcarenghi Il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2015 Un senegalese un giorno osservò: "Qui da voi per strada non si parla con la gente." Vidi all'improvviso il suo punto di vista e immaginai il suo disagio: chiunque abbia viaggiato per il mondo, fuori dai "villaggi" e dai resort, si è accorto che nei paesi poveri la strada e la piazza sono i luoghi naturali della comunicazione. Tutti parlano con tutti e si fanno commerci, si raccontano fiabe, si gioca, si parla, si suona, seduti sui muretti, o sui gradini o per terra. Gli immigrati che ci rivolgono la parola per la strada sperano certo anche di guadagnare qualche euro vendendoci un libro o una collanina, ma non è solo questo: stanno cercando a modo loro un contatto, vorrebbero dirci chi sono, da dove vengono, raccontarci i loro ricordi e la storia che li ha portati da noi. E lo fanno con fatica, nella nostra lingua. Quale altro mezzo hanno per aprire un canale di comunicazione? Lévi Strauss aveva osservato due reazioni possibili degli indigeni di fronte all'arrivo di tribù straniere e le aveva definite: strategia antropofagica e strategia antropoemica. La prima consiste nel divorare gli stranieri e la seconda nell'eliminarli. Se osserviamo le due reazioni in chiave simbolica, e non solo nella loro inquietante concretezza, vediamo come oggi l'Europa le stia usando entrambe. Da un lato si assorbono gli stranieri buoni che vengono inglobati nel contesto sociale e ai quali si impone più o meno gentilmente di dimenticare il loro mondo per diventare come i padroni di casa; dall'altro si eliminano gli immigrati cattivi, comprimendoli come appestati nei campi di concentramento, abbandonandoli nelle baracche, chiudendoli in carcere alla prima infrazione e infine cacciandoli via. Ma in Europa esistono anche minoranze che seguono una terza strategia, quella della coesistenza che coltiva il rispetto e la curiosità. Dal loro moltiplicarsi dipende oggi la possibile costruzione di nuovi confini culturali. Bahrein: torture ai detenuti, sei agenti di polizia condannati a cinque anni di carcere Reuters, 1 giugno 2015 Un tribunale del Bahrein ha condannato sei agenti di polizia a cinque anni di carcere con l'accusa di aver torturato dei detenuti, uno dei quali è morto. Lo ha dichiarato una fonte giudiziaria. Gli ufficiali hanno picchiato tre prigionieri nel tentativo di costringerli ad ammettere di essere coinvolti in traffico di droga e telefoni cellulari in carcere. "Li hanno picchiati e presi a calci in testa e in altre parti del corpo", ha detto la fonte. Gli imputati avevano anche convocato il fratello di uno dei detenuti, torturando anche lui per ottenere una confessione. Libia: milizie "Alba" liberano 70 detenuti della zona di Warshfana Nova, 1 giugno 2015 Le milizie libiche "Alba", che controllano Tripoli, hanno liberato 70 detenuti dei clan della zona di Warshfana, a sud della capitale, catturati tre mesi fa. La loro liberazione rientra nell'ambito del processo di riconciliazione che le milizie "Alba" di Misurata stanno effettuando con le tribù situate nei dintorni di Tripoli. In particolare nelle scorse settimane le milizie "Alba" hanno raggiunto un accordo con l'alleanza tribale alleata del generale Khalifa Haftar. Yemen: nelle carceri almeno quattro cittadini statunitensi, trattative per la liberazione Askanews, 1 giugno 2015 "Diversi" cittadini statunitensi sono attualmente detenuti nello Yemen dalle milizie ribelli sciite degli Houthi: lo ha reso noto il Dipartimento di Stato americano, precisando di stare operando per ottenere la loro liberazione; secondo quanto pubblica il quotidiano statunitense The Washington Post i prigionieri sarebbero "almeno quattro" e si troverebbero in carcere a San'a. Il Dipartimento da parte sua ha ammesso la sostanziale veridicità di quanto pubblicato dal WPost ma non ha rilasciato alcun dettaglio sul numero e il luogo in cui sono detenuti i cittadini statunitensi, e su chi sia responsabile del loro arresto. Secondo il quotidiano le trattative per il rilascio dei detenuti - in mano alle milizie ribelli sciite - sono complicate dal fatto che non esiste alcun legame diretto fra l'Amministrazione e gli Houthi; nessuno dei quattro prigionieri - uno dei quali sarebbe in possesso di un doppio passaporto - sarebbe un dipendente federale né avrebbe alcun legame con il governo statunitense. Egitto: il presentatore televisivo Islam al Behiri condannato a 5 anni per offese a Islam Agi, 1 giugno 2015 Il popolare presentatore televisivo egiziano Islam al Behiri è stato condannato a 5 anni di carcere per aver oltraggiato la religione musulmana nel suo programma. Lo ha reso noto lui stesso, dopo aver appreso della sentenza, pronunciata in contumacia perché Al Behiri non era stato mai informato del procedimento penale avviato a suo carico. Il presentatore, che farà ricorso, era stato denunciato dall'avvocato Mohamed Abdelsalam. Frattanto, si attende la decisione di un tribunale amministrativo sulla sua trasmissione, sospesa nello scorso aprile dopo le critiche dell'imam della moschea di Al Azhar, Ahmed al Tayeb, massima autorità religiosa egiziana. Il programma, intitolato "Con Islam", andava in onda sull'emittente privata "Al Qahera wal Nas" (Il Cairo e la gente) e trattava temi controversi come la punizione per gli apostati e i matrimoni con minorenni. Giappone: il Nintendo DS aiuta i detenuti anziani a prevenire demenza senile Agi, 1 giugno 2015 Non poteva essere che il Giappone ad intraprendere uno speciale programma correttivo per i detenuti utilizzando il Nintendo DS questo perché negli ultimi 2 anni la popolazione carceraria over-65 si è quintuplicata. Uno delle prime carceri a dar il via al programma è stata la prigione di Oita dove nel 1994 i detenuti over-65 erano 450 e oggi sono circa 2.300, circa il 21% della popolazione carceraria totale, e dove il DS è parte integrante di attività volte a prevenire demenza o nel caso di detenuti già affetti da disturbi di questo tipo a prevenire un loro peggioramento. Da sottolineare come la popolazione carceraria giapponese sia in diminuzione seppur aumento i detenuti più anziani che sono anche quelli che una volta scontata la loro pena tendono a commettere nuovamente reati.