Carcere di Parma: lo specchio di un paese? di Giovanni Donatiello Ristretti Orizzonti, 19 giugno 2015 Mi affaccio, o meglio guardo dalla finestra attraverso delle grate della larghezza di due centimetri quadri e sulla mia sinistra intravedo un edificio a due piani. Immediatamente i miei ricordi si ravvivano. Ecco la sezione del 41 bis, dove sono stato nel lontano 1997. Siamo a Parma, nell'Emilia rossa, ma questo carcere pare un feudo impenetrabile. Mi viene spontaneo allora fare una semplice comparazione tra le due detenzioni cui sono stato e sono sottoposto in questo istituto. Le stanze sono uguali, soffitti bassi, finestra piccola con grate esterne, bagno con doccia (tortura) in cella, senza finestra, con un aspiratore del diametro di appena 10 cm, e benvenuti nel cuore di quella che assomiglia alla "Guantánamo italiana". Ecco, qui mi domando come possano i funzionari del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria aver assicurato che la continuità del trattamento per chi veniva trasferito da Padova sarebbe stata garantita. Mi domando come, stando 20 ore chiusi in una cella di appena 9 mq e perfino in due, mi possa essere garantita la continuità con le condizioni della carcerazione, le attività, la qualità della vita dell'AS1 di Padova? Bene, l'unica continuità garantita è il posto letto! Per il resto tutto è stato vanificato con il trasferimento da Padova a Parma. Mi sorge una curiosità e mi chiedo come mai nel regime del 41 bis c'era e c'è tuttora una certa omogeneità nelle condizioni della carcerazione, e nei circuiti AS1 questo non accade? Senz'altro sarebbe molto semplice parificarli, basta adottare il regolamento che è presente in questo istituto, il quale prevede innumerevoli "concessioni" che sommate però danno il nulla assoluto! A me, trasferito da Padova a Parma nei giorni scorsi, i è venuto a mancare l'utilizzo del computer sia per motivi di studio, sia per motivi di lavoro. Infatti a Padova ero iscritto al secondo anno dell'Università di Scienze Politiche, facevo parte della redazione di Ristretti Orizzonti a pieno titolo, frequentavo un corso di lingua inglese, dovevo frequentare, in quanto già mi era stato comunicato, un corso di lezioni di diritto del lavoro, incontravo le scuole attraverso il Progetto Scuola - Carcere, per ben tre volte alla settimana. Adesso sono chiuso in cella più di 20 ore al giorno. Alla faccia della continuità trattamentale garantita. Continuo a fissare quell'edificio a due piani e distrattamente mi accorgo che di fronte alle nostre finestre c'è una gru in un cantiere fermo all'interno del carcere. Chiedo al mio compagno di cella e mi spiega che sono stati bloccati i lavori per delle irregolarità. Radio carcere dice che dallo scavo iniziato sgorga acqua, immaginate un po' dove stavano cercando di edificare un altro padiglione. Questi lavori erano previsti nel famoso "Piano Carceri", che come accade spesso nel nostro Paese, diventano tante volte occasioni di spreco e corruttela. Non posso dare notizie certe in merito, ma a documentarsi non ci vorrebbe molto, e così paradossalmente ci ritroviamo in una specie di Guantánamo italiana, luogo di sofferenza e tortura (perché 20 ore in cella, in due, per persone condannate all'ergastolo è una tortura) e nello stesso tempo di fronte a quel fenomeno italiano dell'illegalità diffusa. E magari coloro che avevano iniziato questi lavori avranno sbeffeggiato chi come me si trovava in questo istituto e versava in condizioni poco umane. Ricordo benissimo la conferenza stampa sul Piano carceri, presenti Berlusconi, Alfano e Ionta, allora capo del Dap, durante la quale fu illustrato tutto il programma di lavori che andava dalla costruzione di nuovi istituti, alla costruzione di nuovi padiglioni all'interno delle stesse carceri come Parma. E ho bene in mente che sul finire della conferenza stampa dichiararono che tutti gli appalti venivano secretati! Questo è il nostro Paese, un sistema che troppe volte calpesta i diritti di chi sta scontando già una pena, e sta pagando con anni della propria esistenza e di quella della propria famiglia, mentre dall'altro canto crea le condizioni per lo sperpero del bene pubblico. Guardando sulla mia destra della finestra intravedo una cascina con delle balle di fieno, anche dalla finestra della sezione del 41 bis la intravedevo, da un'altra prospettiva ma le balle di fieno erano presenti anche allora. Niente pare cambiato, se non che in un attimo sono tornato indietro di vent'anni e ho perso tutto quello che avevo cercato faticosamente di costruirmi. Faccio un piccolo quadro dello specchio del nostro paese: i cattivi che vanno puniti e basta, con poca umanità Molti "buoni" che hanno ridotto sul lastrico il nostro paese e che rimangono spesso impuniti. E poi ci sono i "fessi", permettetemi il termine, che sono la società migliore che lavora per un pezzo di pane. Beh, tutto questo da una "finestra" di questo carcere così duro, ma così vero! Forse è un po' lo specchio dell'Italia. Giustizia: carcere ed ergastolo, alcune riflessioni di Maria Brucale (Avvocato) L'Opinione, 19 giugno 2015 Pubblichiamo volentieri uno stralcio dell'intervento dell'avvocato Maria Brucale al seminario "Ergastolo ostativo e carcere duro: umani e rieducativi?", tenutosi all'Università degli Studi di Milano nell'ambito del corso "Diritti Fondamentali" del professor Davide Galliani. Il seminario è solo un momento di riflessione nel corpo di un prestigioso progetto di ricerca denominato "The right to hope. Life Imprisonment in the European Context" e cofinanziato dall'Unione europea, il cui più importante obiettivo è contribuire a far decollare un serio ed appassionato dibattito sull'ergastolo, coinvolgendo atenei, istituzioni e società civile. L'ergastolo per i reati contemplati dall'art. 4 bis O.P. si espia per intero: "fine pena mai" o dicembre 9999, come si trova scritto ormai negli ordini di esecuzione della pena emessi dalle Procure. 9999, la suggestione del numero periodico che si ripete all'infinito; l'indicazione di un tempo che non può arrivare. È morte viva; assenza di aspirazione di recupero, di reinserimento o di rieducazione, è sottrazione del senso del rimorso; svilimento di ogni anelito di cambiamento; è apparenza di vita. L'ergastolo ostativo è in sé "trattamento inumano e degradante" inflitto alla persona ristretta. La Corte Europea lo ha affermato con la sentenza "Vinter c. Regno Unito", pubblicata in data 9 luglio 2013: la pena perpetua è legittima solo se accompagnata da regole che la rendono in concreto riducibile. È necessario che siano attivabili meccanismi di verifica sul perdurare del senso della pena. Dopo oltre 20 anni di carcere deve operare la presunzione che sia possibile che il detenuto abbia compiuto un percorso di crescita interiore e di ricostruzione della propria individualità. Lo ribadisce, la Cedu, in successive pronunce: Trabelsi c/Belgio, Hutchinson c/Regno Unito, Vasilescu c/Belgio. Non si pone in termini assoluti contro l'ergastolo; non esprime un giudizio di illegittimità della pena perpetua rispetto ai parametri dei diritti fondamentali, ma censura una sanzione che sia mutilazione definitiva di vita senza aspirazione di reinserimento e riabilitazione, che neghi il senso alla buona condotta in carcere, alla pedissequa adesione alle regole del vivere sociale, al cambiamento. Le proiezioni di tale orientamento nel diritto interno involgono immediatamente il tema dell'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario e lo sbarramento assoluto ad oggi esistente all'accesso, per alcune categorie di reato, dunque per alcune categorie di detenuti, alle misure alternative al carcere, alla progressione trattamentale, al reinserimento graduale salvo che collaborino con la giustizia. È un meccanismo perverso che cozza irrimediabilmente con il diritto di una persona accusata di proclamare la propria innocenza, di non essere costretta all'auto accusa anche a tutela dell'onore e del decoro, suo e dei suoi familiari, nel contesto in cui vive. Un diritto che viene radicalmente compromesso dall'obbligo ricattatore della collaborazione per accedere alla speranza, alla fruizione di un diritto costituzionale, quello ad una carcerazione proiettata non alla morte ma alla vita; senza contare l'ipotesi, se vogliamo residuale, che la persona ristretta in carcere sia davvero innocente. E allora di cosa potrebbe accusarsi? È il caso dei sette imputati del processo denominato "Borsellino bis", accusati da delatori falsi e calunniosi, condannati con sentenza definitiva e ristretti per 17 anni in 41 bis con un marchio infamante, terribile, poi riabilitati dalla nuova verità di altri collaboratori. Cosa potevano riferire? Anche il percorso della cosiddetta collaborazione inesigibile è paradossalmente sbarrato per chi si trovi in carcere da innocente. È una strada, anch'essa, tutt'altro che agilmente percorribile. È onere del detenuto dimostrare di non potere aggiungere nulla, rispetto a quanto già accertato dalla autorità giudiziaria, che possa condurre alla individuazione di altri colpevoli, di altri responsabili. Per chi è ristretto quale sodale di una associazione criminale, l'esistenza in vita della associazione, perfino di una cellula di essa, preclude l'accesso all'inesigibilità. L'essere stato parte di un sodalizio genera la presunzione che si conoscano tutte le persone e le dinamiche interne. La valvola di preclusione è spesso contenuta nei capi di imputazione dei reati in espiazione "imputato del reato di cui all'articolo 416 bis c.p., per aver fatto parte, con Tizio, Caio e Filano ed altri soggetti rimasti non identificati". La possibilità astratta di sanare quegli spazi di verifica probatoria è, in sé, negazione della collaborazione inesigibile; e non importa che il percorso intramurario sia eccellente, che ogni opportunità trattamentale offerta sia stata perseguita e tradotta in un esito di crescita individuale e di rivisitazione critica del sé. Non importa neppure che la relazione redatta dall'equipe del carcere - area direttiva, educativa, psicologica - attesti l'avvenuto cambiamento, l'atteggiamento costruttivo, la rinnovazione del sé. Perfino se sei già "rieducato", solo la collaborazione con la giustizia o la certificata inesigibilità di essa, dà accesso ai benefici penitenziari. Addirittura è richiesta la condotta collaborativa su reati non in espiazione, non rientranti nell'articolo 4 bis O.P. se idealmente connessi a quelli ostativi. Il senso di tale pretesa è nel giudizio sulla persona che appare per crisma normativo meritevole del superamento dell'ostacolo (il 4 bis) solo allorché abbia collaborato, abbia reso alla giustizia tutte le informazioni indizianti di cui dispone, perfino se tali informazioni non potranno mai tradursi in una verifica giudiziaria a carico di chicchessia perché, ad esempio, il reato, assai datato nel tempo, sia, nelle more prescritto. Impossibile, peraltro, ritenere equa la presunzione assoluta che la persona ristretta sia in effetti in possesso di informazioni accusatorie a carico di altri. Che sia in grado di fornirle in modo chiaro, certo, nitido. Neppure l'autoaccusa e la dissociazione dal consesso sodale di appartenenza hanno, nel nostro ordinamento, una valenza positiva autonoma atta a scardinare i meccanismi di preclusione assoluta di cui al 4 bis. Spiragli di speranza arrivano, oltre che dalla Corte Europea, dalle dichiarazioni del ministro Orlando al convegno al Cnr di Roma, ribadite ed arricchite in occasione degli "Stati Generali sul carcere" a Napoli: occorre eliminare le preclusioni, gli sbarramenti assoluti ed automatici, per qualunque categoria di reato, alla possibilità di essere restituiti alla società. L'articolo 27 della Costituzione - con la sua pretesa che il carcere sia reinserimento e rieducazione per il condannato - per troppo tempo inattuato; un sistema penitenziario carcerogeno che aumenta il tasso di recidiva, afferma il ministro. Carcerogeno e criminogeno, è doveroso aggiungere, perché la vita mutilata delle persone ristrette si traduce inevitabilmente in un odio cieco nei confronti dello Stato e delle Istituzioni da parte di chi, insieme ai detenuti, patisce negazioni ed afflizioni. Orlando non ritiene il 4 bis una norma da cancellare e tuttavia sembra finalmente schiudere le porte alla attenzione alla burla dell'articolo 27 comma 3 della Costituzione. Formare le coscienze è però l'imperativo prioritario; è l'ex ante di qualunque anelito di riforma. I primi provvedimenti riparatori del dopo Torreggiani, la cosiddetta liberazione anticipata straordinaria, dapprima estesa a tutti i condannati detenuti, è stata modificata in sede di conversazione, a dispregio del suo spirito ispiratore (risarcire i detenuti) per rispondere ai mal di pancia giustizialisti sfociati in una stampa aggressiva e manettara: "Usciranno boss e assassini!". Formare la coscienze! È anche il monito del Presidente emerito, Giorgio Napolitano, intervenuto agli Stati generali sul carcere, a Napoli. È ancora troppo forte la spinta di molti di noi di volere il cattivo marchiato e punito al di là del muto. In un momento in cui tragici episodi riconosciuti nella loro ferocia dalla Corte Europea hanno riportato l'attenzione sul reato di tortura, molti di noi sentono ancora assai più impellente il bisogno di vedere il cattivo soffrire, sconfitto e in gabbia. È in questo modo di pensare che attecchiscono regimi come il 41 bis. Un regime che mutila e mortifica, annienta e annichilisce, spezza, spegne, abbruttisce. Deprivazione sensoriale lenta, costante, programmata. La giustificazione morale è la sicurezza pubblica, lo strumento normativo è la perequazione di interessi di valenza costituzionale. Qui anche la Corte Europea si ferma. Il comitato anti-tortura, in realtà, il 19.11.2013 si era pronunciato evidenziando l'estrema durezza del regime detentivo di rigore ma poco o nulla è cambiato da allora. Le ore "all'aperto" sono ancora due e il concetto di "aperto" assai approssimativo. La cosiddetta "aria" si svolge in uno spazio angusto e asfittico con muri a tutta altezza e un frammento di cielo velato. La vista non ha prospettiva e profondità. Quasi tutti i reclusi in 41 bis subiscono il distacco della retina. Le opportunità trattamentali sono pressoché assenti. L'ora di socialità si svolge con le 3 persone che ti hanno assegnato, sempre le stesse per anni. Il cervello si spegne. Le opportunità di studiare, leggere, aprire la mente, esprimere una passione, un interesse, sono azzerate. Punire il cattivo, metterlo alla gogna, mostrarlo sconfitto. Lo Stato è forte, i cittadini protetti. Il Diritto muore, ma a chi importa? Giustizia: quando il carcere toglie la vita di Miriam Tagini ilgiornaledigitale.it, 19 giugno 2015 Il numero di suicidi o tentati suicidi tra i detenuti italiani è sempre più in aumento. Quali sono le cause e come si sta agendo a riguardo? Morire in carcere. Morire di carcere. Lo sapevate che nelle prigioni italiane si registra un tasso di suicidi 20 volte maggiore rispetto a quello della popolazione libera? L'opinione pubblica molte volte - per via di una mancata e/o scarsa informazione a riguardo - non è a conoscenza delle reali condizioni dei detenuti nel carcere, a cominciare dallo stato di difficoltà e, a volte, di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria. Il suicidio, in generale, consiste in un grave problema di salute per la comunità intera. Secondo le stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità viene commesso un tentativo di suicidio circa ogni tre secondi, ed un suicidio completato ogni minuto. Il suicidio, in proporzione miete più vittime di un conflitto armato o di un disastro aereo. Nelle carceri poi, si registrano numeri maggiori sempre in aumento, rispetto a quelli della comunità circostante. Questo (anche) perché i soggetti detenuti sono gruppi molto vulnerabili, e tradizionalmente tra le persone più a rischio, cioè giovani maschi, persone con disturbi mentali, persone interdette, socialmente isolate, con problemi di abuso di sostanze, e con storie di precedenti comportamenti suicidari. Il sovraffollamento delle carceri non si arresta, calano le forze di polizia penitenziaria, e questa bomba a orologeria esplode tra i detenuti sotto forma di suicidio. Eccetto per una leggera flessione registrata nel 2013, quando i detenuti che si suicidarono furono il 30%, i dati sono davvero allarmanti. Nelle carceri italiane, infatti, si registra un tasso di suicidi 20 volte maggiore rispetto a quello della popolazione libera. Nel corso di questi ultimi dodici anni sono avvenuti complessivamente 692 suicidi, ovvero più di un terzo di tutti i decessi avvenuti in carcere. Ma non è tutto: gli individui che subiscono il regime di detenzione, per un periodo di media-lunga durata, presentano frequenti pensieri e comportamenti autolesionisti durante tutto il corso della loro vita. Nel 2012 i detenuti hanno raggiunto i 7.317 atti di autolesionismo e 1.308 tentativi di suicidio. Le morti sono state complessivamente 154, di cui 60 per suicidio, con una più elevata frequenza tra le persone più giovani. Ma quando, nel corso della storia, si comincia ad avvertire l'esigenza di indagare sulle morti nelle carceri? Il tema delle morti nell'ambiente carcerario ha iniziato a destare interesse per la prima volta intorno alla metà del 1900, quando lo studioso Anderson affermò che il problema dei suicidi in prigione, ma anche nelle workhouses (case di lavoro) e negli altri istituti di custodia, era stato spesso occasione di accese controversie tra svariati giudici. Questo perché, secondo i rapporti ufficiali, successivamente analizzati anche da Forbes, gli episodi di morte in carcere avevano un rilievo assai limitato, e venivano trattati spesso in maniera sbrigativa e di sicuro senza una visione critica e problematica. Ad oggi le cose sono cambiate relativamente poco. Gli studi sul suicidio in carcere prendono per lo più due strade principali: quelle medico-psicologico e quelle di indirizzo sociologico; ma la disinformazione a riguardo è ancora elevatissima. Nonostante i numeri siano in costante aumento rispetto al secolo scorso. Per porre fine, o almeno un parziale rimedio a questo problema, in alcuni penitenziari sono stati avviati programmi di prevenzione del suicidio, inoltre, in alcuni Paesi sono state anche stabilite normative nazionali e linee guida. Ovviamente i dettagli del programma di prevenzione hanno molte variabili, tra cui le risorse locali e le necessità dei detenuti, tuttavia, sono state individuate delle linee guida basi delle strategie più efficaci in questo campo. Queste sono: elaborare un profilo suicidario, cioè informazioni in grado di identificare situazioni e/o gruppi ad alto rischio, analizzare i fattori di pericolo più comuni, siano essi situazionali o psicosociali, e tenere aggiornati i dati. E anche addestrare il personale carcerario e tenere i soggetti a rischio costantemente in osservazione anche dopo anni dall'ingresso in prigione. Ma la strada per diminuire queste morti è ancora lunga, e tutta in salita. Giustizia: il Comitato StopOpg "le strutture non sono ancora state chiuse per davvero" ilfarmacistaonline.it, 19 giugno 2015 Il Comitato, nel corso di un incontro con il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo, ha chiesto che le Rems siano "visitabili ed accessibili, organizzate e gestite nel riconoscimento dei diritti delle persone assistite e degli operatori ai quali non possono essere richieste funzioni di custodia, ma solo di cura". A distanza di oltre due mesi dalla data prevista (31 marzo), gli Opg non sono stati ancora effettivamente chiusi: almeno 300 persone restano rinchiuse nei 5 Opg superstiti (Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia) e quasi 250 persone sono rinchiuse nell'Opg di Castiglione delle Stiviere, che cambiando targa (in Rems), è diventato un neo-manicomio. Nelle otto Rems sinora attivate nelle altre regioni vi sono meno di 100 persone. La denuncia arriva dal Comitato stopOpg che ha sottoposto il problema nel corso di un incontro, svoltosi presso il Ministero della Salute, al sottosegretario Vito De Filippo. Il comitato ha chiesto che le Regioni che non hanno ancora accolto i loro pazienti siano immediatamente commissariate, "per assicurare - spiega una nota - le dimissioni e il trasferimento delle persone internate. Il Commissariamento è indispensabile per superare i ritardi nella chiusura degli Opg e per l'attuazione integrale della Legge 81/2014. La nuova legge infatti non si limita a far chiudere gli Opg: per garantire cura e assistenza alle persone privilegia progetti individuali con misure alternative alla detenzione in Opg e in Rems; misure e progetti che il Ministero della Salute è tenuto a monitorare e a sollecitare". Per questo le risorse assegnate per la chiusura degli Opg "devono essere sbloccate e spostate ai servizi socio sanitari, quelli di salute mentale in particolare. In questo senso le stesse Rems "transitorie" potranno e dovranno essere riconvertite". Ribadita, inoltre, la necessità di "organizzare, come si è fatto a livello nazionale, anche nelle singole regioni un coordinamento tra i diversi attori (Regioni/Asl, Magistrature) chiamati ad attuare la legge 81/2014. Una buona legge che - osserva il comitato - privilegiando le misure non detentive, rivedendo la pericolosità sociale e ponendo fine ai cosiddetti ergastoli bianchi, costituisce un importante passo in avanti nel faticoso processo di superamento degli Opg". Altro nodo sul tavolo dell'incontro con De Filippo riguarda un confronto sui regolamenti adottati nelle Rems, "che devono essere visitabili ed accessibili, organizzate e gestite nel riconoscimento dei diritti delle persone assistite e degli operatori ai quali non possono essere richieste funzioni di custodia ma solo di cura, senza segregazione, senza utilizzo di mezzi coercitivi, con la presa in cura globale di ogni persona da parte dei servizi del territorio, e in un rapporto costante con la magistratura per rendere transitorio l'internamento, come recita la legge 81". Per il comitato è infine imprescindibile il ruolo, e la necessaria collaborazione con i servizi, della Magistratura "nel dare attuazione alla nuova legislazione. Ad esempio le prime informazioni segnalano un diffuso ricorso a misure di sicurezza provvisorie nelle Rems, strutture detentive, che rischiano di diventare soluzione prevalente anziché essere residuale come vorrebbe la ratio della norma. Ciò implica - conclude - un azione decisa anche del Ministero della Giustizia". Giustizia: Giovanni Farina ha vinto… era all'ergastolo per un errore di Francesca De Carolis Il Garantista, 19 giugno 2015 Implicato nel sequestro Soffiantini, assolto dall'omicidio di un ispettore dei Nocs: quasi 10 anni per avere giustizia. Per gentile concessione dell'autrice, pubblichiamo qui di seguito l'intervento che Francesca De Carolis ha scritto a proposito della vicenda di Giovanni Farina per l'altrariva.net, sito web in cui raccoglie testimonianze e interventi sul mondo carcerario, che vi invitiamo a visitare. Ogni tanto arriva qualche buona notizia. Dal carcere di Catanzaro. Giovanni Farina non è più un ergastolano con fine pena mai. Me lo scrive mandandomi copia del deposito della sentenza del ricorso che da anni porta avanti, chiedendomi di farla conoscere. La Cassazione gli ha dato ragione. Ci sono voluti 10 anni perché, mi scrive, venisse riconosciuto un diritto. Non di facile lettura la sentenza, almeno per me che di diritto ho solo pallidi ricordi. Quindi ho chiesto a Claudio Conte, anche lui detenuto nel carcere di Catanzaro, che molto ha studiato di diritto e si è laureato in giurisprudenza dal carcere di sintetizzare per noi la vicenda di Farina. Ecco qua. "Giovanni Farina è stato arrestato nel 1982 e condannato a 27 anni di reclusione. Nel 1996, dopo avere espiato 14 anni gli viene concesso un permesso dal quale non fa rientro. Nel 1998 è arrestato in Australia ed estradato in Italia per espiare il residuo pena pari a 8 anni dì reclusione. Successivamente è processato in Italia per altro delitto e nel 2001 è condannato a 28 anni e 6 mesi di reclusione. Nel 2005 la Procura di Roma cumula (somma) le due pene portandole a 30 anni di reclusione, ossia la massima pena consentita nel nostro codice penale (art. 78) in caso di concorso di più pene temporanee. Nel 2006, senza che nessun fatto nuovo sopravvenisse, la Procura di Roma sostituisce i provvedimenti di pena ad anni 30 applicando la pena dell'ergastolo, ai sensi di un altro articolo del codice penale, l'art. 73, che stabilisce che l'applicazione della pena dell'ergastolo laddove debbano infliggersi, per due delitti, due pene superiori a 24 anni di reclusione (anche se per quei reati singolarmente presi non è previsto l'ergastolo). Nel caso di Farina, Procura e Tribunali sbagliavano, poiché (...) le pene che potevano cumularsi erano: 28 anni e 11 mesi (inflitti nel 2001) e il residuo di pena di 8 anni (non l'intera di 27 anni) della precedente condanna per la quale era stata chiesta e ottenuta l'estradizione. Di conseguenza non si poteva più parlare di due pene superiori a 24 anni. Nei vari ricorsi è stato sostenuto questo orrore, oltre all'altra circostanza che nello stato dell'Australia non esistesse il meccanismo previsto in Italia dell'art. 73 cp (24+24 = ergastolo) e quindi se i giudici avessero saputo di tal previsione non avrebbero mai concesso l'estradizione. Lo Stato è obbligato a rispettare i patti (sull'estradizione in questo caso) assunti con gli altri Stati, dunque solo dopo diversi ricorsi alla fine la Corte di Cassazione, ha riconosciuto l'errore e Giovanni Farina non è più un ergastolano con fine pena mai". Grazie a Claudio per questa chiara sintesi, che mai sarei stata in grado di dedurre dal documento. Chiudo con il commento di Giovanni Farina. "Spero che il mio futuro sia ora meno crudele di come è stata la mia vita fino ad oggi...". Noi glielo auguriamo. E per chi volesse conoscere qualcosa delle intricate vicende della vita di Farina, suggerisco la sua autobiografia. Titolo: "Nonostante i tagliatori di teste". Giustizia: Fabrizio Corona esce dal carcere, andrà nella Comunità Exodus di don Mazzi di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 19 giugno 2015 Il giudice di sorveglianza ha deciso per il sì all'affidamento terapeutico accogliendo l'istanza dei legali: "Problemi seri dal punto di vista psicologico e psichiatrico". Fabrizio Corona esce dal carcere per essere affidato a una comunità per tossicodipendenti. Dopo tre anni e due mesi, l'ex re dei paparazzi lascia il penitenziario di Opera per sottoporsi a un programma di recupero - con prescrizioni precise e severe disposte dal giudice - nella comunità Exodus di don Antonio Mazzi che dovrà aiutarlo a superare i problemi con la cocaina, ma anche a inserirsi di nuovo nella società. A decidere per il sì all'"affidamento terapeutico" è stato il giudice di sorveglianza di Milano Giovanna Di Rosa, che ha accolto l'istanza presentata da Corona tramite i suoi legali, gli avvocati Ivan Chiesa e Antonella Calcaterra. Corona era stato condannato a una pena complessiva di 13 anni e due mesi di carcere per diversi reati tra cui quelli legati alla bancarotta della sua società Fenice e ai ricatti a colpi di foto compromettenti, come l'estorsione aggravata ai danni dell'ex calciatore della Juventus David Trezeguet che gli è costata la condanna a 5 anni la quale, teoricamente, impediva la concessione di benefici penitenziari. Il giudice Di Rosa, sulla base di motivi giuridici e decisioni della Cassazione, lo ha invece ritenuto possibile. Una pena complessiva che, anche se tecnicamente è ineccepibile, è obbiettivamente spropositata per il tipo di reati e il contesto generale nel quale Corona li ha commessi, hanno sempre sostenuto i suoi legali. A favore della scarcerazione di Corona ci sarebbero anche relazioni della Asl e della direzione del carcere. La decisione dovrà essere ora valutata da un collegio del Tribunale di Sorveglianza. Grazie agli sconti di pena, che sono di 150 giorni per ogni anno trascorso in carcere, e al "presofferto" (il tempo che ha già trascorso in cella da gennaio 2013 a oggi), il "fine pena" di Corona è sceso sotto i sei anni, consentendogli così di poter andare in comunità come avviene per i tossicodipendenti. Dopo anni in cui ha sempre negato di aver avuto a che fare con la droga, Corona solo ultimamente aveva cominciato ad ammettere qualcosa. Ora emerge che la sua era una vera e propria dipendenza, che potrebbe aver avuto anche ruolo nei suoi comportamenti, spesso incomprensibili e contraddittori. I suoi difensori avevano anche affrontato la strada della incompatibilità con il carcere per problemi psichiatrici, depositando una perizia secondo la quale Corona, se resta rinchiuso in cella, rischia di precipitare in una psicosi che fino ad ora solo i farmaci e un trattamento psicologico sono riusciti a contenere. Corona ha una personalità "narcisistica" e "borderline", certificò lo psichiatra dell'istituto di medicina legale dell'Università di Milano Riccardo Pettorossi, il quale ritiene che in carcere lo stesso Corona venga colpito da disturbi d'ansia, attacchi di panico e depressione. Anche su questo deciderà il Tribunale di sorveglianza. A Opera l'ex paparazzo ha abbandonato il suo atteggiamento di superiorità sprezzante e spavalda per cadere anche in periodi di depressione. "Ha capito di aver sbagliato in passato e ha preso da tempo le distanze da quello che era, accettando le condanne. Sta veramente male", aveva detto l'avvocato Chiesa. "È un uomo molto provato con problemi seri dal punto di vista psicologico e psichiatrico, tanto da essere curato anche con psicofarmaci", aveva aggiunto la collega Calcaterra. Le massime sul riconoscimento dello status di apolide Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2015 Giurisdizione civile - Apolide - Richiesta di riconoscimento dello status di apolide- Prova - Onere attenuato - Fondamento. L"onere della prova gravante sul richiedente lo "status" di apolide deve ritenersi attenuato, poiché quest'ultimo, oltre a godere della titolarità dei diritti della persona la cui attribuzione è svincolata dal possesso della cittadinanza, beneficia, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa vigente, di un trattamento giuridico analogo a quello riconosciuto ai cittadini stranieri titolari di una misura di protezione internazionale; ne consegue che eventuali lacune o necessità di integrazioni istruttorie per la suddetta dimostrazione possono essere colmate mediante l'esercizio di poteri-doveri officiosi da parte del giudice, che può richiedere informazioni o documentazione alle Autorità pubbliche competenti dello Stato italiano, di quello di origine o di quello verso il quale possa ravvisarsi un collegamento significativo con il richiedente medesimo. • Corte di cassazione, sezione VI - 1, sentenza 3 marzo 2015 n. 4262. Giurisdizione civile - Apolide - Richiesta di riconoscimento dello status di apolide - Procedimento per il riconoscimento - Contradditorio con il Ministro dell'Interno - Necessità - Rito applicabile - Giudizio ordinario di cognizione. Le controversie riguardanti lo stato di apolide, in difetto di diversa esplicita previsione del legislatore, devono essere proposte e decise nel contraddittorio con il Ministro dell'Interno, nelle forme dell'ordinario giudizio di cognizione e non in quelle del rito camerale davanti al tribunale. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 4 aprile 2011 n. 7614. Giurisdizione civile - Apolide - Richiesta di riconoscimento dello status di apolide - Domanda per ottenere l'accertamento dello stato di apolidia - Giurisdizione del giudice ordinario - Fondamento. Appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario il giudizio contenzioso instaurato con la domanda volta ad ottenere l'accertamento dello stato di apolidia di cui alla Convenzione di New York del 28 settembre 1954 ed all'art. 17 d.P.R. 12 ottobre 1993, n. 572, trattandosi di un procedimento sullo stato e capacità delle persone, attribuito in via esclusiva al tribunale dall'art. 9 cod. proc. civ., nonché relativo ad un diritto civile e politico, la cui tutela è sempre ammessaex art. 113 cost. davanti al giudice ordinario. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 9 dicembre 2008 n. 28873. Procedimento civile - Domanda per ottenere l'accertamento dello stato di apolidia - Legittimazione passiva del Ministero dell'interno - Sussistenza - Fondamento. Nel giudizio contenzioso relativo alla domanda volta ad ottenere l'accertamento dello stato di apolidia, di cui alla Convenzione di New York del 28 settembre 1954 ed all'art. 17 d.P.R. 12 ottobre 1993, n. 572, sussiste la legittimazione passiva del Ministero dell'interno, in quanto lo straniero fa valere nel processo un diritto che gli può essere riconosciuto anche in via amministrativa da detto Ministero, il quale, dunque, da una ricognizione giudiziale dell'apolidia, può restare vincolato a certificarla. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 9 dicembre 2008 n. 28873. Impugnazioni civili - Procedimento per l'accertamento dello stato di apolidia - Provvedimento adottato dalla Corte di Appello in sede di reclamo - Ricorribilità in Cassazione ex art. 111 Cost. - Sussistenza - Fondamento. È ricorribile con ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost ., il decreto con cui la Corte di appello abbia dichiarato improponibile, in fase di gravame, il ricorso proposto per l'accertamento dello stato di apolidia, poiché si tratta di procedimento contenzioso volto all'accertamento di uno stato personale, relativo a posizioni soggettive con natura di diritti, che si conclude con una pronuncia che ha natura decisoria e definitiva, anche se emessa "rebus sic stantibus". • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 9 dicembre 2008 n. 28873. Riconoscimento di paternità: via cognome madre se per bimbo non è ancora un'identità di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2015 Al figlio riconosciuto dal padre solo alcuni anni dopo la nascita, si può togliere il cognome materno se questo non è ancora un segno distintivo della sua identità. La Cassazione (sentenza 12640 ) afferma che nella scelta del nome da attribuire al figlio nato fuori dal matrimonio e riconosciuto all'inizio solo dalla mamma, pesa soltanto l'interesse del minore. Usando il loro potere discrezionale i giudici di merito avevano prima dato il via libera al riconoscimento da parte del papà "pentito" nonostante il parere contrario della madre e poi spazzato via il cognome materno per sostituirlo con il patronimico. Una scelta basata sulla tenera età della bambina che, a 3 anni, non poteva considerare il nome avuto in origine un elemento di distinzione nei suoi rapporti personali. Secondo i giudici tutto deponeva per la "implausibilità sociale del doppio cognome a fronte della maggiore plausibilità del patronimico". Senza successo la donna prova a ricordare che l'imposizione del cognome del padre entrava in rotta di collisione con il valore costituzionale di uguaglianza fra uomo e donna e integrava una disparità di trattamento, come affermato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Ma per la Cassazione la sola cosa che va evitata è il danno all'identità personale del minore. I giudici ricordano che il tema dell'attribuzione del cognome in caso di un riconoscimento "tardivo" da parte del padre, non ha subìto modifiche sostanziali per effetto dell'evoluzione normativa. Con la riforma della filiazione (Dlgs 154/2013) si è rimasti in linea con l'interpretazione della precedente norma stabilendo che il figlio "può assumere il cognome del padre, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre". Non c'è stato quel cambio di marcia che consente l'abolizione del patronimico, invocato dalla ricorrente. L'intenzione del legislatore non è quella di rendere la posizione del figlio nato fuori da matrimonio quanto più simile a quella del figlio di una coppia sposata, ma di garantire il diritto a conservare il nome originario se questo lo caratterizza nella comunità. La mamma ottiene però soddisfazione sul fronte del diritto a essere indennizzata di tutte le spese sostenute da sola dalla nascita della bambina. Richiesta che la Corte d'appello aveva respinto, perché il padre aveva stipulato una polizza assicurativa versando in favore della figlia 200 euro al mese. Per la Cassazione però non basta e concede il rimborso alle spese sostenute anche in assenza di una nota dettagliata, facendo ricorso a un criterio equitativo. La Suprema corte ricorda anche il dovere di mantenere un figlio dalla nascita fino al momento in cui sarà economicamente autosufficiente. La condanna per reati che incidono sulla moralità legittima l'esclusione dalla gara di Massimiliano Atelli Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2015 La valutazione circa il requisito dell'affidabilità dell'impresa concorrente ad una gara pubblica è riservata all'amministrazione; rispetto a tale valutazione il sindacato giurisdizionale deve mantenersi "sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto esibiti come ragioni del rifiuto" (Cassazione, sezioni unite, 17 febbraio 2012, n. 2312). Lo ha la ribadito il Consiglio di Stato sezione VI con sentenza del 12 giugno 2015 n. 2897. Questo principio, enucleato con specifico riferimento alle ipotesi di cui all'articolo 38, lettera f del Dlgs n. 163 del 2006 in cui l'esclusione procede da una valutazione circa la grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, è tanto più valido laddove si versi in una ipotesi contemplata dalla precedente lettera c), relativa ai soggetti nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna per reati che necessariamente comportano negligenza o malafede, e che sono direttamente incidenti sull'oggetto della prestazione posta in gara. Nella specie, l'esclusione dalla gara della società ricorrente veniva motivata in base alla preclusione prevista dall'articolo 38, comma 1, lettera c, del codice dei contratti pubblici, secondo cui sono esclusi dalla partecipazione alla procedure di affidamento i soggetti "nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale". Ciò perché il legale rappresentante della società ricorrente era stato condannato per abusiva occupazione di area demaniale e resistenza a pubblico ufficiale, reati (non dichiarati nella domanda di partecipazione alla gara), che ad avviso dei giudici di Palazzo spada incidono indubbiamente sulla moralità professionale del soggetto, soprattutto se posti in relazione all'oggetto della procedura, relativo all'affidamento di servizi da svolgersi su bene demaniale, e sono tali da minare gravemente e negativamente il rapporto fiduciario che si sarebbe dovuto instaurare tra l'impresa e l'Amministrazione. La decisione del Consiglio di Stato persuade. Vanno infatti tenute ben distinte le situazioni in cui, ex articolo 38, lettera f del Dlgs n. 163 del 2006, la decisione di esclusione presuppone una valutazione circa la grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, non in presenza di reati, e le situazioni, invece, in cui nell'ambito dell'impresa concorrente rivestano ruoli esponenziali soggetti nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna per reati che necessariamente comportano negligenza o malafede, e che, puntualizzano i giudici di Palazzo Spada, sono direttamente incidenti sull'oggetto della prestazione posta in gara. Detto altrimenti, in questo secondo caso resta ben poco spazio per una valutazione in senso proprio. La Corte costituzionale boccia gli autovelox senza verifiche periodiche di Maurizio Caprino e Gianni Trovati Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2015 Sentenza 113/2015 della Corte costituzionale. Le multe prodotte dagli autovelox che non vengono controllati periodicamente sono illegittime. A dirlo è la Corte costituzionale, che nella sentenza 113/2015 depositata ieri (presidente Criscuolo, relatore Carosi) ha bocciato le regole del Codice della strada nella parte in cui non prevedono che tutti gli apparecchi "siano sottoposti a verifiche periodiche di funzionalità e taratura": un'altra sentenza ricca di effetti sui conti pubblici, questa volta in termini più di mancate entrate che di maggiori uscite, che si redistribuiranno però in buona parte sui bilanci dei Comuni più attivi sul versante autovelox. In gioco ci sono centinaia di migliaia di verbali non ancora pagati (per quelli già pagati la partita è chiusa), fetta rilevante di una voce, quella delle multe, che solo ai Comuni frutta circa 1,2 miliardi all'anno. Attenzione, però, prima di stracciare la multa appena notificata (o, più probabilmente, prima di fare ricorso, perché difficilmente le amministrazioni si fermeranno da sole), perché la bordata dei giudici delle leggi non cancella tutti i verbali. Per capire meglio l'ambito colpito dalla nuova sentenza bisogna dividere gli autovelox in due famiglie: la prima è rappresentata dagli apparecchi "accompagnati" dalla pattuglia, mentre la seconda abbraccia quelli che vengono piazzati sulle strade e lasciati lì a funzionare in automatico. Questo secondo gruppo, in genere, dovrebbe essere sottoposto alle verifiche periodiche, perché lo prevedono i principi fissati dal ministero delle Infrastrutture nel 2005 a integrazione del decreto ministeriale del 29 ottobre 1997. Questo decreto, ricorda la sentenza della Consulta, esclude la necessità di verifiche periodiche per gli strumenti "impiegati sotto il controllo costante degli operatori di polizia stradale". A finire sotto la tagliola, quindi, sarebbero le centinaia di migliaia di verbali che ogni anno nascono dalle fotografie degli apparecchi presidiati. Le multe nate dagli apparecchi presidiati, interessati dalla sentenza, si possono riconoscere perché sul verbale ci sono scritte frasi del tipo "l'infrazione è stata accertata da pattuglia composta dagli agenti X e Y", mentre in quelle generate dagli apparecchi senza pattuglia c'è scritto prima di tutto il riferimento alla legge che le autorizza (l'articolo 4 della legge 168 del 2002) oppure, fuori dalle autostrade e dalle strade extraurbane principali, al decreto del Prefetto che individua il tratto come assoggettabile a controlli automatici. La Corte costituzionale, accogliendo la tesi della "palese irragionevolezza" della norma (articolo 45, comma 6 del Codice della strada) che non prevede l'obbligo di verifica periodica per tutti gli autovelox e quindi muovendosi in senso contrario a parecchie pronunce della Cassazione, ha respinto al mittente la fondatezza di questa ripartizione fra autovelox "automatici" (controllati periodicamente) e apparecchi usati direttamente dalle pattuglie (esentati dai controlli). Tutti gli apparecchi, tagliano corto i giudici, devono essere sottoposti a verifica. Fino a oggi, invece, il riferimento è stato di fatto ai manuali d'uso degli apparecchi, che possono prevedere verifiche (in genere annuali). Un principio fissato nel 2005 dal ministero per "turare la falla" aperta da molti giudici di pace, che accoglievano molti ricorsi legati alla taratura. All'epoca non c'erano abbastanza laboratori accreditati per "tarare" tutti i misuratori di velocità attivi in Italia, quindi si scelse di diminuire la platea. La motivazione era che, quando un apparecchio viene presidiato da un agente, questi può accorgersi se qualcosa non va. Tesi smontata dalla Consulta. D'altra parte, dubbi li aveva lo stesso ministero, che per il modello all'epoca più utilizzato dalle pattuglie (Autovelox 104 C2) di fatto prescrisse le verifiche anche in caso di uso presidiato. La Polizia stradale fa verificare anche gli Autovelox usati dalle pattuglie, ma non anche le pistole laser puntate di volta in volta dagli agenti sui veicoli in avvicinamento. Più variegata la situazione presso le polizie locali, che effettuano la maggior parte dei controlli di velocità. Occorre in ogni caso vedere se l'apparecchio utilizzato è stato sottoposto a verifica. A volte ciò è riportato nel verbale. Altre volte occorre chiedere al corpo di polizia l'esibizione del documento. Alcuni richiedono di esibirlo direttamente al giudice di pace, perché presentano subito ricorso e non di rado questa strategia premia perché le amministrazioni non sono in grado di portare il certificato in udienza. Lettere: la mia esperienza di volontaria a Nisida di Lucia D'Orta La Repubblica, 19 giugno 2015 Insegnante per 37 anni, pensavo di aver condiviso tutte te esperienze umane possibili con i ragazzi. Ma mi sono dovuta ricredere quando sono entrata come volontaria nella comunità pubblica di Nisida. Credevo di conoscere già tutto riguardo emozioni. Insofferenze, delusioni, rabbia che tante volte avevo colto nel miei giovani allievi. Non era così. Nei giovanissimi ospiti della comunità, incontrati nel corso di otto lunghi anni, ho colto si gli stessi sentimenti "adolescenziali ma vissuti ed ingigantiti all'ennesima potenza da esperienze di vita e da contesti sociali e familiari a me quasi del tutto estranei perché mai conosciuti cosi da vicino. In una lettera scritta a "Repubblica", qualche anno fa, parlando dei miei "nuovi" ragazzi li definivo "figli di un dio minore". Perché spesso senza famiglie alle spalle, senza guida alcuna e costretti a vivere la quotidianità violenta di quartieri dimenticati e lasciati a se stessi Entrare nelle loro vite e nei loro cuori mi ha fatto bene e, nonostante l'età già matura, mi ha aiutata a crescere e mi ha educato meglio e diversamente alla comprensione, all'ascolto e alla considerazione. A Nisida ho incontrato persone eccezionali negli operatori e negli educatori, il cui lavoro, nel corso di questi lunghi anni, ho imparato ad ammirare ed apprezzare perché hanno dato sempre il massimo di se stessi avvicinandosi ai ragazzi con rispetto e grande umanità. Ebbene dal 29 maggio 2015, cosi da un momento all' altro, "qualcuno" si è arrogato il diritto di chiudere la comunità di Nisida mandando allo sbando tutti e tutto. Ma come è possibile in questa Italia di "ladroni" pensare di privare giovani a rischio della possibilità di recuperare la fiducia in se stessi e negli altri? Si, perché è proprio questo che gli educatori e operatori hanno fatto finora Non si sono mai messi su un piedistallo a giudicare, né eretti a Don Chisciotte di fronte alla varia e giovane umanità che gli si presentava, ma si sono sempre avvicinati ai ragazzi con spirito di abnegazione e con una sensibilità fuori dal comune in tempi in cui si tende a prevaricare ed ignorare. Non si può essere così ottusi anche in una società come la nostra che potrà dirsi civile ed umana solo quando avrà recuperato, attraverso il lavoro di persone come queste, fino all' ultimo ragazzo disagiato dandogli la forza e la capacità per poter ancora credere e sperare in un futuro migliore. Gli operatori e gli educatori della comunità di Nisida hanno organizzato un presidio per attirare l'attenzione delle Istituzioni e dei cittadini sul problema Facciamo in modo che il loro diventi il problema di tutte le persone che hanno a cuore il bene e il futuro di giovani difficili, figli di tutti noi. Bari: nella Casa circondariale di Altamura s'impara a fare l'apicoltore di Pierluigi De Santis ambienteambienti.com, 19 giugno 2015 L'interessante iniziativa realizzata presso la Casa Circondariale di Altamura. Quattro arnie hanno prodotto 20 kg. di miele. L'ambiente offre opportunità di reinserimento sociale, come per esempio imparare la professione di apicoltore. È l'esperienza che hanno fatto 20 detenuti della Casa Circondariale di Altamura con l'interessante progetto, denominato "Apicoltore", realizzato grazie alla collaborazione tra il Ministero della Giustizia e la Federazione apicoltori italiani (Fai), che ha permesso di seguire un corso di formazione professionale di II livello in apicoltura. Il percorso formativo, iniziato nel 2014 ed articolato in 10 lezioni teorico-pratiche di 4 ore ciascuna, è stato affidato ai docenti del Dipartimento di medicina veterinaria dell'Università di Bari. Le attività pratiche sono state svolte grazie alla realizzazione dell'apiario e della mieleria all'interno del carcere. Sono state allestite attualmente 4 arnie con famiglie di api donate all'associazione Unapi di Bari e che in breve tempo sono riuscite a produrre una certa quantità di miele grazie alle piante nettanifere presenti negli spazi all'aperto del penitenziario. Soddisfatta è la Prof.ssa Giuseppina Tantillo del Dipartimento di medicina Veterinaria dell'Università di Bari, per i risultati raggiunti "da questa bella esperienza. La mieleria è stata realizzata con tutte le attenzioni dal punto di vista igienico-sanitarie e permetterà una buona produzione". Sono stati prodotti, infatti, già 20 chilogrammi di miele. "Ci auguriamo - ha proseguito Tantillo - una commercializzazione del prodotto su settori particolari che metta in evidenza il lavoro di questi detenuti e permetta loro anche un certo guadagno". È intenzione della Direzione penitenziaria acquistare altre arnie per aumentare la produzione di miele e soddisfare le richieste di mercato. Positivo è il bilancio tracciato dalla dott.ssa Lidia De Leonardis, direttrice dell'Istituto penitenziario di Altamura, una sezione a custodia attenuata e dove i detenuti sono impegnati durante la giornata in attività di reinserimento sociale e trattamentali, che "spera - ha detto la dirigente - di continuare la fase formativa e l'esperienza del laboratorio e produzione per una forma di autofinanziamento e retribuzione dei detenuti". La sezione di Altamura costituisce un insieme operativo con la Casa Circondariale di Bari, dove la stessa direzione carceraria ha investito sulle attività trattamentali. Ai detenuti sono garantite attività di reinserimento sociale. Una particolare esperienza è "Orto sul cemento", realizzato in uno dei passeggi della seconda sezione ristrutturata dove i detenuti coltivano gli ortaggi secondo la tecnica idroponica, cioè con sacchi di sostanze, fra cui argilla espansa, perlite, vermiculite, fibra di cocco, lana di roccia, zeolite. Il raccolto è destinato ai fabbisogni dei detenuti ed alla Caritas. Secondo il Prof. Antonio Uricchio, Rettore dell'Università di Bari "è un'esperienza importante e bella per il modello di cooperazione inter-istituzionale. Credo che l'Università di Bari debba essere presente sul territorio e promuovere sempre di più le attività di carattere sociale. È uno dei progetti nel quale crediamo". A Taranto, infatti, l'Università ha promosso con la Casa Circondariale un progetto di bonifica low cost attraverso la piantumazione e cura di pioppi. "La natura - ha detto Uricchio - avvicina l'uomo verso la promozione e lo sviluppo del territorio". Milano: "Oltre le dure sbarre", dal carcere di Opera poesie dentellate in onore di Expo 2015 Libero, 19 giugno 2015 Presente con alcuni reclusi, che volontariamente prestano la loro opera all'interno di "Expo 2015", la Casa di reclusione di Opera partecipa idealmente ai festeggiamenti per l'Esposizione mondiale anche con alcuni manufatti che ruotano intorno al francobollo e con un'ampia collezione filatelica. Diciotto poesie "narrate" con l'ausilio di decine, centinaia anzi, di francobolli. È questo il singolare omaggio a "Expo 2015" realizzato da un gruppetto di reclusi coinvolti nel progetto "Filatelia nelle carceri", promosso da Poste italiane col patrocinio dei ministeri della Giustizia, dello Sviluppo economico, e la collaborazione del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, della Federazione fra le società filateliche italiane e dell'Unione stampa filatelia italiana. "Con l'iniziativa "Filatelia nelle carceri" - sottolinea Pietro La Bruna, responsabile di filatelia di Poste italiane - si tende a sviluppare nei detenuti la capacità di aggregazione e di partecipazione, ma anche di tenerli in contatto con quello che è il mondo esterno così da facilitarne, per quanto possibile, il reinserimento". "Il nostro lavoro, condensato in questa corposa raccolta -fanno presente i curatori della collezione: Matteo Nicolò Boe, Vito Baglio, Antonio Albanese, Nicola Mocerino, Diego Rosmini, Luigi Di Martino, Carmelo Latino e Marcello D'Agata, ha avuto un preciso indirizzo, legato al tema dell'Esposizione universale "Nutrire il pianeta". È esposto fino al 27 giugno allo Spazio filatelia di Milano, aperto al piano terra del palazzo delle Poste centrali di via Cordusio 4. Venerdì, 19 giugno, alle 11.30, la rassegna sarà visitata dalla presidente di Poste italiane, Luisa Todini. "Non è stato facile - precisano al gruppo di lavoro - definire il progetto e realizzarlo in maniera ottimale, considerando pure i limiti oggettivi che il "minimalismo" carcerario comporta e che ci ha costretto, ma anche concesso l'opportunità, a divagare in termini concettuali per sopperire a materiale più formale a noi purtroppo precluso". In pratica i francobolli messi in pagina sono stati scelti non già tra quelli che con generosa abbondanza offre il mercato, bensì fra quelli offerti da alcuni benefattori. Non è comunque mancata la buona volontà che, unita alle "capacità personali del gruppo", ha permesso di raggiungere l'obiettivo prefissato, ossia la realizzazione della collezione. Il cui filo narrativo "si dipana su poesie di vari autori (dal "Sabato del villaggio" di Giacomo Leopardi a "Portami il girasole", di Eugenio Montale), accompagnate da una rappresentazione rurale del passato, genuina nei poliedrici cromatismi estetici, nel suo inconsapevole ecologismo, nella sua semplice e sofferta umanità e nel giusto valore riconosciuto al cibo, perché limitato e legato alla tangibile conoscenza del suo valore aggiunto, in termini di sudore nel produrlo". Con i francobolli e la posta i reclusi, si sa, hanno una qual certa dimestichezza. È infatti attraverso i sevizi postali e il francobollo che mantengono i contatti con l'esterno. Di qui alcuni manufatti che palesano la durezza del loro isolamento. Una cassetta postale, innanzitutto, ottenuta con cartone di recupero "affrancata" e completata dalla trascrizione di brani poetici; un cuore-poster abbellito da francobolli a tema rose e frasi che anelano alla libertà e all'amore. E poi un veliero pazientemente costruito con stuzzicadenti e con le vele "affrancate". Mediante francobolli navali, s'intende. Una spiga che si erge turgida di grani maturi oltre le sbarre campeggia sull'annullo postale ricordo, in uso il 19 giugno, la cartolina stampata per l'occasione da Filatelia di Poste italiane offre uno spaccato sull'Italia rurale che fu. Con l'upupa appollaiata sul muretto dove è appesa una falce e appoggiata la vanga con fichi d'india carichi di frutti ed una bottiglia di vino. Sede: Spazio filatelia Milano, via Cordusio 4; orari: lunedì-venerdì: 8.30-14.30, sabato: 8.30-12; info: 0272482141- 2143. Parma: grazie all'intervento del Garante detenuto in 41bis potrà studiare con il computer parmaquotidiano.info, 19 giugno 2015 Ieri, il garante dei detenuti di Parma ha diffuso una lunga lettera in cui lamentava una serie di disagi nel penitenziario di via Burla, tali da sconsigliare il trasferimento qui da Padova di altri condannati in regime di 41bis come invece deciso dalle autorità carcerarie. Nella lettera si parlava anche di un detenuto che ha avuto il permesso di studiare usando un proprio computer, ma che di fatto ancora non poteva procurarselo per ostacoli posti dall'amministrazione del carcere parmigiano. Per questa persona, l'intervento del garante ha avuto un immediato effetto: già oggi il direttore del penitenziario ha sbloccato la situazione e il detenuto potrà iniziare a lavorare sul suo Pc. A riferirlo è lo stesso garante dei detenuti, Roberto Cavalieri: "A seguito della mia comunicazione di ieri il direttore degli Istituti penitenziari di Parma, dr. Carlo Berdini, mi ha invitato ad un incontro alla presenza del Comandante del carcere per analizzare la questione relativa all'ordinanza di ottemperanza N. 2014-4127 Sius - N. 2014/1743 Ord emessa in data 15 luglio 2014 dal competente Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia a seguito di reclamo presentato da un detenuto, ancora presente a Parma, ai sensi dell'art. 35 della legge 26 luglio 1975. In tale ordinanza il Magistrato concedeva al detenuto di potere studiare in una sala dedicata e fornita di pc personale per un numero di ore discreto oltre alle ore di aria previste dal regolamento". "La situazione si era determinata ben prima dell'incarico dell'attuale dirigente del carcere e mai risolta dai predecessori nonostante la sua importanza sul piano del diritto del detenuto. Nel corso dell'incontro e alla presenza di tutti è stato anche sentito il detenuto il quale ha avuto modo di illustrare la cronologia di quanto avvenuto nel corso del tempo". "Al termine del confronto il direttore ha dato immediatamente disposizioni affinché il detenuto possa acquistare a sue spese il pc e utilizzarlo in uno spazio idoneo con i tempi definiti dal Magistrato di sorveglianza". "Doveroso è il presente aggiornamento con una nota di ringraziamento per la tempestività con la quale è stata risolta la questione in coerenza con il percorso intrapreso di miglioramento concreto delle condizioni di vita dei detenuti del nostro carcere che sarebbero però compromesse con l'arrivo di altri detenuti AS1 del carcere di Padova". Trapani: carcere di San Giuliano; gli agenti in agitazione, protesta per personale carente di Margherita Leccio La Sicilia, 19 giugno 2015 Stato di agitazione, al carcere San Giuliano, da parte del personale della polizia penitenziaria. A proclamarlo sono stati i sindacati Sappe, Osapp, Sinappe, Fns-Cisl e Cnpp, con una nota a firma di Nastasi, Patti, Scaduto, Cordaro e Borgese. Tra le rivendicazioni vi è quella del reintegro del numero del personale ad oggi carente e non più in grado di sostenere il ritmo estremamente stressante del lavoro. I sindacalisti rilevano che rispetto a qualche anno fa gli agenti penitenziari sono passati da 380 a 260, facendo registrare una carenza di 120 unità che sulla base della pianta organica, che viene contestata perché prevede la presenza soltanto di 323 agenti, è di 60 unità. "Entro il 2016 - viene spiegato nella nota - si presume la perdita di altri 50 agenti penitenziari che andranno in pensione. La carenza di personale è ancora più gravosa visto che l'età media supera i 50 anni e che l'ultima unità di sesso maschile a indossare il grado di assistente risale ai primi anni 2000". Sappe, Osapp, Sinappe, Fns-Cisl e Cnpp pongono l'accento anche sul fatto che negli ultimi mesi fra il personale si sono registrate diverse assenze per gravi problemi di salute. Stress, depressione e malattie cardiocircolatorie le patologie più diffuse e addebitate "all'eccessivo carico di lavoro". Inoltre, le molte assenze dal servizio provocate dallo stress per i sindacalisti "collassano il sistema organizzativo e le aspettative di chi rimane a lavorare". "Alla casa circondariale - precisano i sindacalisti - vi sono ristretti circa 450 detenuti, divisi su tre reparti con regime di celle aperte per almeno 8 ore e un quarto reparto nel quale si trovano un centinaio di detenuti socialmente pericolosi, con fine pena molto lunga. A fronte di questi detenuti nelle ore pomeridiane vi è la presenza di soltanto quattro agenti penitenziari. Si tratta di una situazione che ci preoccupa seriamente". I sindacalisti evidenziano pure che manca personale nel ruolo di ispettore e di sovrintendente e che un cospicuo numero di assistenti capo svolge le funzioni di capo posto nei reparti detentivi, di capo scorta nelle traduzioni e a volte di sorveglianza generale dell'istituto. Nastasi, Patti, Scaduto, Cordaro e Borgese infine lanciano l'allarme sul fatto che tra qualche mese il personale non potrà più avere garantiti i propri diritti e non potrà assicurare la presenza dei detenuti nelle aule dei Tribunali per le udienze. Garantire i propri diritti agli agenti penitenziari per i sindacalisti significa anche "garantire la sicurezza di tutta la popolazione trapanese che in questo momento storico dell'istituto di pena è in forte rischio". Taranto: Cgil Fp; dipendenti civili del carcere in agitazione, pessimo rapporto con dirigenza Ansa, 19 giugno 2015 La Cgil Funzione pubblica jonica ha proclamato lo stato di agitazione dei dipendenti civili del carcere di Taranto chiedendo al ministero di avviare le necessarie relazioni sindacali e di raccogliere il disagio degli operatori "che lamentano il pessimo stato dei rapporti con l'attuale dirigenza". "Il personale, in grave carenza di dotazione organica, denuncia - è detto in una nota - il moltiplicarsi di ordini di servizio che hanno sovraccaricato di responsabilità e di incombenze burocratico-amministrative i dipendenti delle singole aree, senza effettiva considerazione delle difficoltà operative proprie di un personale numericamente insufficiente; ordini di servizio accompagnati da note sprezzanti e minacce persistenti di sanzioni disciplinari". Gli operatori segnalano "che ogni momento di confronto con la dirigenza, diventa pretesto - sottolinea il sindacato - per la stessa per attaccare ed aggredire sistematicamente i lavoratori, fino a divenire, in alcuni casi, vere e proprie umiliazioni". La Fp Cgil Taranto preannuncia che "in assenza di riscontro e positivo esito non verrà a mancare la dovuta tutela individuale per quei lavoratori che oggi denunciano il grave stato dei rapporti all'interno della casa circondariale". Teramo: convegno Asl sulla salute mentale in carcere e la salute delle donne detenute asipress.it, 19 giugno 2015 Alla Asl di Teramo, il 17 giugno, si è parlato di salute mentale in carcere, salute delle donne detenute in termini di Screening della Mammella, di Prevenzione del Cancro dell'Utero, di Protesi Odontoiatriche e Cure Dentali in Carcere, di minori sottoposti a Procedimento Penale, sono questi alcuni degli argomenti trattati in un incontro di presentazione del Progetto Obiettivo Regionale (Por) sulla Sanità Penitenziaria della Asl di Teramo. Alla presenza della Direttrice Sanitaria della ASL di Teramo Dr.ssa Maria Mattucci, il Dr. Valerio Profeta Coordinatore dell'Assistenza Sanitaria Territoriale, il Dr. Lucio Ambrosj Dirigente Asl, il Dr. Massimo Forlini Responsabile Unità Operativa di Medicina Penitenziaria Asl Teramo, il Dr. Franco Paolini Responsabile del Presidio Sanitario Penitenziario di Teramo, la Responsabile dell'Area Educativa Dr.ssa Elisabetta Santolamazza della Casa Circondariale di Teramo, il Coordinatore dell'Unità Operativa di Sanità Penitenziaria Dr. Franco Pettinelli, in rappresentanza del Provveditorato Regionale Abruzzo e Molise dell'Amministrazione Penitenziaria è stato illustrato lo "Stato dell'Arte" di tali iniziative attuate nella popolazione carceraria di Teramo. L'Unità Operativa di Medicina Penitenziaria della Asl di Teramo gestisce la salute di tutta la popolazione di detenuti del Carcere di Castrogno: uomini, donne detenute anche madri con figli fino a tre anni e minori del territorio provinciale sottoposti a procedimenti penali. Un gruppo complesso ed eterogeneo di persone che, proprio in ragione della loro condizione di detenzione, hanno bisogno di cure ed attenzioni particolari. Attualmente i detenuti ospiti dell'Istituto Penitenziario di Teramo sono circa 400 e la Asl di Teramo ne garantisce la Prevenzione, la Diagnosi, la Cura e la Riabilitazione dalle malattie attraverso Personale Sanitario dedicato che svolge anche attività Medico-Legale per la Polizia Penitenziaria e gestisce tutti i rapporti con la Magistratura Ordinaria e di Sorveglianza sull'intero Territorio Nazionale. Soddisfazione è stata espressa da tutti i vertici dell'Azienda Sanitaria Locale di Teramo. In Autunno ci sarà un Evento Formativo conclusivo dove i dati raccolti da queste iniziative saranno pubblicati e commentati. Milano: dall'Uisp corsi all'Ipm "Cesare Beccaria", quando lo sport è recupero sociale affaritaliani.it, 19 giugno 2015 All'istituto penitenziario minorile Cesare Beccaria di Milano, corsi sportivi per educare i ragazzi presenti. Più di 70 ragazzi, minori dell'istituto penale Cesare Beccaria di Milano, saranno coinvolti per tutto il periodo estivo in corsi di nuoto e attività sportive in piscina. Sarà la Uisp (Unione Italiana Sport Per Tutti), tramite il direttore Antonio Iannetta a organizzare i corsi e a fornire i 7 istruttori che opereranno all'interno dell'istituto. Attività in acqua e in palestra, in luoghi recuperati e riallestiti all'interno del Beccaria stesso. Attività sportive volte a educare alla collegialità, al rispetto delle regole e a dare un avvio ai ragazzi coinvolti alla professione di istruttore sportivo. Il tutto per far capire ai minori che una vita diversa, rispetto a quella che gli ha portati all'interno dell'istituto, è possibile e può essere intrapresa. L'iniziativa è partita questa settimana e andrà avanti fino ai primi giorni di settembre. Gli istruttori della Uisp, tutti volontari, garantiranno 33 ore di piscina e 20 ore di palestra ogni settimana, 4 giorni su sette, compreso il giorno di ferragosto. Nello specifico gli istruttori proporranno esercizi di cultura del fisico, di pesistica, di acquaticità, di tecniche base del nuoto, di trasporto e salvataggio, di apnea oltre giochi collettivi: il tutto volto a stimolare l'instaurarsi di relazioni cooperative tra i ragazzi. I giovani detenuti sono sempre stati molto attenti al lavoro svolto dai propri istruttori nei più di 15 anni durante i quali questo progetto è stato portato avanti. La figura dell'istruttore Uisp diventa veicolo di valori e comportamenti sociali positivi da emulare al di fuori dell'istituto. È di fatto promotore di un'alternativa alla delinquenza, di una possibilità di conduzione di vita retta e dignitosa all'interno della società civile, dimostrando con il suo stesso operato che le tecniche insegnate e apprese dai ragazzi possono trasformarsi in sbocchi professionali. Nello specifico l'impegno è volto a dare una prima formazione come assistente bagnanti e personal trainer in sala pesi. "Sono molti i ragazzi che una volta usciti dall'istituto hanno intrapreso la carriera dell'istruttore sportivo - afferma Antonio Iannetta, direttore generale Uisp - questo ci fa capire come la nostra iniziativa sia un vero strumento di recupero dalla delinquenza. Lo sport, con i suoi valori, diventa un mezzo di salvezza per molti ragazzi. In questa direzione vanno le scelte della Uisp: cercare di contrastare preconcetti, andare oltre al muro della diffidenza, favorendo sensibilmente un impegno concreto in tutti quei luoghi dove la socialità, il rispetto delle regole e l'impegno diventano parole chiave per un futuro migliore per tutti, nessuno escluso". Pisa: Cene Galeotte, al carcere di Volterra arriva lo chef Filippo La Mantia corrieredelvino.it, 19 giugno 2015 Il ricavato della serata all'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), la cui delegazione sarà presente alla cena. Ultimo appuntamento con l'edizione in corso della Cene Galeotte quello in programma Venerdì 26 giugno, una serata davvero speciale che chiude la lunga maratona di solidarietà al carcere di Volterra avviata lo scorso settembre: a guidare i detenuti ai fornelli sarà infatti Filippo La Mantia (filippolamantia.com), firma fra le più conosciute ed apprezzate del panorama ristorativo nazionale, per una serata che amplificherà la sua valenza sociale grazie alla presenza di una delegazione dell'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr - unhcr.it), ente a cui verrà devoluto l'incasso della cena (35 euro a persona). Palermitano doc, fotoreporter di cronaca per tanti anni in Sicilia, dal 2001 Filippo La Mantia ha intrapreso la via dei fornelli in maniera professionale dando sfogo a una passione coltivata a lungo dietro le quinte. Da pochi mesi protagonista a Milano si è affermato a Roma, palcoscenico che ha fatto conoscere ed apprezzare al grande pubblico la sua cucina dalle radici ben salde nella tradizione siciliana, con le sue immancabili contaminazioni mediterranee, personalizzata nei profumi da un uso generoso e sempre equilibrato di piante ed erbe aromatiche. Fra i suoi cavalli di battaglia, piatti che lo hanno accompagnato fin dagli inizi del suo viaggio nell'universo ristorativo, la Caponata di melanzane ed il Cous Cous, immancabili capisaldi della cena che verrà servita al carcere di Volterra: protagonisti più attivi che mai saranno i detenuti, che si occuperanno della preparazione delle altre portate dando vita ad un menu da gustare fino all'ultimo boccone! Ad accompagnarlo i vini offerti dal Podere La Regola di Riparbella (Pi - laregola.com), una delle aziende più dinamiche e interessanti del territorio, con dolce appendice grazie al Vin Santo offerto dalle cantine Leonardo da Vinci (Fi - cantineleonardo.it): il tutto affiancato dagli extra vergini della Montalbano Agricola di Lamporecchio (Pt - oliomontalbano.it). Le Cene Galeotte sono possibili grazie all'intervento di Unicoop Firenze, che oltre a fornire le materie prime assume i detenuti retribuendoli regolarmente. Il progetto è realizzato con la collaborazione del Ministero della Giustizia, la direzione della Casa di Reclusione di Volterra, la supervisione artistica del giornalista Leonardo Romanelli. Un ruolo fondamentale è inoltre ricoperto dalla Fisar-Delegazione Storica di Volterra, che è partner del progetto e si occupa sia della selezione delle aziende vinicole, sia del servizio dei vini ai tavoli. Per informazioni: cenegaleotte.it Roma: dalla Fondazione Decathlon un nuovo campo da basket per le detenute di Rebibbia agensir.it, 19 giugno 2015 Inaugurato questo pomeriggio il nuovo campo da basket nella sezione femminile del carcere romano di Rebibbia. La struttura, da tempo in stato di abbandono, è stata ristrutturata grazie a un finanziamento della Fondazione Decathlon in collaborazione con l'associazione "A Roma insieme". L'obiettivo del progetto è quello di migliorare le condizioni di vita delle oltre 300 donne recluse all'interno della sezione Femminile della struttura penitenziaria, attraverso la partecipazione ad attività sportive che possano favorire il loro reinserimento sociale. L'impianto è stato trasformato in un campo polifunzionale ad uso delle detenute per praticare la pallavolo, il calcetto e la pallacanestro. Lo svolgimento delle attività sportive sarà supervisionato dal personale carcerario e coordinato da volontari appartenenti al personale del negozio di Decathlon di Settecamini di Roma e all'associazione "A Roma Insieme". Il progetto, oltre al rifacimento del terreno di gioco, prevede anche dei corsi sportivi per le detenute svolti dai volontari del gruppo Decathlon di Roma. "Questa iniziativa - ha affermato la vicedirettrice della casa circondariale, Gabriella Pedote - ha un valore particolare perché, grazie allo sport, permette a queste donne di scaricarsi e di passare il tempo, ma soprattutto consente loro di migliorare, attraverso il gioco, il rapporto con gli altri". All'inaugurazione del nuovo campo di Rebibbia erano presenti, oltre ai rappresentanti della casa circondariale, anche il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, e l'ex Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. "Nel nostro Paese - ha dichiarato Ferri - dobbiamo riscoprire l'importanza della rieducazione perché, uscite dal carcere, queste donne troveranno una società pronta ad accoglierle. Da questo punto di vista lo sport è importante perché non solo porta salute, ma permette di ritrovare sé stessi". Su posizioni simili si è espresso anche Angiolo Marroni, per otto anni a carico dell'organo garante dei detenuti del Lazio: "Il carcere è un'esperienza molto traumatica - ha commentato Marroni - soprattutto per le donne. Per questo motivo stiamo lavorando a fondo perché tutti i penitenziari della nostra Regione abbiano adeguate strutture sportive che permettano ai detenuti di stare in gruppo e di apprendere valori fondamentali come il rispetto e la solidarietà". Nel corso dell'inaugurazione ha preso la parola anche il presidente dell'associazione "A Roma Insieme", Gioia Passarelli. "Lo sport - ha dichiarato Passarelli - è fondamentale per il rispetto di sé stessi e degli altri. Ecco perché questa iniziativa è così importante, perché permette a queste donne di passare qualche ora all'insegna della spensieratezza e soprattutto le aiuterà a mantenere una buona salute, oltre che uno stato d'animo positivo". Cagliari: Sdr; domani l'estrazione dei premi della lotteria "Solidarietà ne vale la pena" Ristretti Orizzonti, 19 giugno 2015 "Solidarietà, ne vale la pena" è il nome della lotteria promossa dall'associazione "Socialismo Diritti Riforme" per attivare una raccolta di fondi a sostegno di piccoli progetti destinati ai detenuti indigenti e ai loro familiari. L'iniziativa, che mette in palio cento premi, intende al contempo sensibilizzare l'opinione pubblica sulla realtà detentiva del Villaggio Penitenziario di Cagliari-Uta. La raccolta fondi ha ottenuto il sostegno dell'Asampa (Associazione Sarda Malati Parkinson) che ospiterà, nei locali di via Riva Villasanta 222/B, la serata conclusiva con l'estrazione dei numeri vincenti, in programma domani a partire dalle ore 18. Nell'occasione il maestro di tango argentino Mauro Diana, che cura un progetto di tangoterapia destinato ai soci parkinsoniani, si esibirà con alcune allieve. All'incontro interverranno, oltre al presidente dell'Asampa Giorgio Rocca, coppie di persone affette dal disturbo che praticano il tango come terapia di sostegno. Tra i premi in palio della lotteria: un violino, dipinti su tela e oggetti realizzati da detenuti o messi a disposizione dai soci e molti libri. I premi non ritirati, nel rispetto del regolamento, resteranno a disposizione nella sede di SDR per 30 giorni. I numeri estratti, alla presenza di un funzionario del Comune di Cagliari; saranno resi noti attraverso il sito socialismodirittiriforme.it e la pagina face book di "Socialismo Diritti Riforme". Massa Marittima (Gr): "Due calci liberi", oggi pomeriggio i detenuti scendono in campo Il Tirreno, 19 giugno 2015 Per il sesto anno consecutivo, con il patrocinio dei Comuni di Follonica e di Massa Marittima, la Caritas Diocesana Massa Marittima - Follonica, con la sua articolazione denominata Coordinamento delle Opere caritative di Follonica - Ufficio Pastorale Giustizia, ha organizzato il torneo di calcetto denominato "Due calci liberi al pallone per solidarietà". La manifestazione si terrà oggi pomeriggio, con inizio alle ore 17, sul manto verde dello stadio Nicoletti di Follonica. L'ingresso è alla partita è totalmente libero. Protagoniste saranno le squadre dei volontari della Croce Rossa Italiana di Follonica, il gruppo Interforze (Forze dell'Ordine dei comuni di Massa Marittima e Follonica), una rappresentativa di ragazzi delle scuole Isis di Follonica e Piombino e alcuni detenuti della Casa Circondariale di Massa Marittima. Il Coordinamento, che da anni profonde il suo impegno in favore della collettività, ha realizzato l'evento grazie al contributo di numerosi sponsor: U.S, Cis, Pizzeria Mariòs, Forum del volontariato, l'agenzia viaggi Farolito e la Tecnogardenplanet di Follonica, e la Tecnoimpianti s.n.c. di Piombino, cui va un sincero ringraziamento per la sensibilità dimostrata. Gli organizzatori comunicano anche che per volontà dei partecipanti sarà svolta una raccolta fondi spontanea in favore dell'ospedale Meyer di Firenze. La manifestazione è nata a suo tempo come progetto dei volontari Caritas di Follonica che si occupano del settore penitenziario, rispondendo ad un desiderio dei detenuti del carcere massetano di avere un'occasione per unire sport e solidarietà, per essere parte attiva ed integrante della comunità. Un pomeriggio all'insegna della solidarietà e dell'integrazione, un'opportunità per avvicinare mondi lontani e per condividere un momento di gioia. Libri: "Fuga dall'Assassino dei Sogni", di Carmelo Musumeci e Alfredo Cosco globalist.it, 19 giugno 2015 L'ultimo libro di Carmelo Musumeci e Alfredo Cosco, per Edizioni Erranti. È uscito l'ultimo libro di Carmelo Musumeci e Alfredo Cosco: "Fuga dall'Assassino dei Sogni" (Edizioni Erranti). Riportiamo qui il testo integrale della prefazione di Erri De Luca. La sagoma della prigione s'imprime nell'infanzia. Il castigo di venire rinchiusi fa parte, o ne faceva, di un avviamento alle regole. Per me fu temperato dalla materia del muro: il tufo. Traspirava, attraverso i suoi pori mi arrivava la vita che si svolgeva fuori. Ingiurie, preghiere, richiami, risate, conversazioni: il tufo le faceva passare. Le prigioni presero all'inizio la via del mare, su navi dette appunto galere, con i forzati ai remi. Proseguirono con gli esiliati su isole lontane, rinchiusi dentro il cerchio delle onde. Gli Inglesi spedirono in Australia i condannati e si trovarono in cambio una nazione. Da noi nel Mediterraneo le isole si riempirono di sbarre. Nella mia infanzia è impressa la fortezza di Procida, sotto la quale passavano i battelli della villeggiatura. A Ischia visitavano il Castello Aragonese dove stettero incatenati al muro i napoletani ribelli ai re Borbone. Scrivo questi ricordi per dire che le prigioni non sono un pensiero remoto, ma un edificio al centro dell'educazione. Nella percezione corrente gli istituti di pena sono la botola della giustizia, aperta sotto i piedi dei soliti previsti. Non quelli che pesano di più fanno scattare il meccanismo, ma gli ultraleggeri, i "luftmensch", persone fatte d'aria, senza zavorra di quattrini in tasta. Quelli che davanti alle vetrine illuminate, agli schermi accesi, restano a sentire il loro desidero crescere fino all'ira. Leggo in questo libro le parole di uno di loro, mio coetaneo perché della generazione che ha conosciuto le carceri della persecuzione. La pena erogata veniva eseguita con l'accanimento fisico permesso dall'estremismo repressivo dell'articolo 90, oggi modificato in 41 bis. Al vertice rovescio del sistema penitenziario speciale stava l'Asinara, luogo di demolizione della macchina uomo. Qui è detta, non descritta. Detta a voce a chi sta dirimpetto e la raccoglie per averla condivisa. Topi e isolamento, percosse e privazioni d'acqua, arbitrio puro di chi è autorizzato a opprimere: l'Asinara non meritava altra sorte di quella di essere chiusa dalla rivolta degli arrostiti. Asinara, Goli Otok, Tremiti, Pianosa, Santo Stefano: le isole del Mediterraneo anticipano il destino delle celle, che è di finire chiuse, abbandonate, vuote. Le isole tornano alla loro natura di passaggio per gli uccelli in volo. Le onde smettono di essere il fossato intorno alla fortezza, libere di andare e venire. E un medico di carcere non è più il falsificatore di cartelle cliniche, addetto alla cancelleria dei pestaggi. Leggo l'io narrante di una vita rinchiusa, gli effetti ristretti all'ora di colloquio, le fughe pensate per dare caloria al pensiero, le sue letture davanti al naso per cancellare i muri. È l'esistenza che serve allo Stato per dimostrare il suo diritto di pugno. Quando nel corpo spunta un dolore, anche se in fondo a un piede, quello diventa il centro pulsante dell'intero organismo. Così è per la prigione, centro che deve irradiare intorno a sé il dolore a scopo di terrore. Il resto del corpo cerca di tenersi a distanza, per sottrarsi al contagio. Ma la prigione è un'epidemia che, pure colpendo i più deboli, ammicca a tutti gli altri, che sanno provvisoria la loro immunità. Ergastolo infine è l'ultima bestemmia della negazione, la peggiore profezia a carico della persona umana: la sua impossibilità di espiare. La pena dell'ergastolo non è penitenza ma rifiuto. Leggo chi ha avuto la forza di narrare dal fondo di questa discarica. E questo è un libro, perché a questo serve: mettere al centro una vita e dare al lettore il posto d'onore davanti. Rapporto dell'Onu: sessanta milioni di profughi da Africa e Medio Oriente di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 19 giugno 2015 L'ultimo rapporto dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati segnala la crescita dell'esodo da Africa e Medio Oriente. Ogni giorno 42.500 persone lasciano casa. In fuga da guerre e persecuzioni, alla ricerca di asilo. In Italia i profughi sono 93.715, oltre 200 mila in Francia e Germania. Forse, è il caso di dare i numeri. Alla fine del 2014 in Italia sono stati censiti 93.715 rifugiati con 45.749 casi di richiesta di asilo "pendenti". In Francia, le stesse cifre sono 252.264 e 55.862. In Germania i profughi ammontavano a 216.973 con però 226.191 richieste di asilo. E nel Regno Unito il confronto segnala 117.161 rifugiati con 36.383 domande d'asilo. Fa eccezione, a parità di dimensione, soltanto la Spagna: 5.789 stranieri ospitati e 7.525 richiedenti un permesso d'emergenza. È la statistica certificata da Unhcr, l'Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, che ha pubblicato il suo rapporto annuale. Sono 56 pagine di numeri, grafici, tabelle che raccontano fin nei dettagli non solo i flussi, ma soprattutto l'esodo globale innescato da guerre e conflitti, terrore e povertà, persecuzioni e carestie. Sono 60 milioni in fuga, come se l'intera Italia si mettesse in movimento verso altri Paesi. Antonio Guterres, alto commissario Unhcr, spiega: "Siamo testimoni di un vero e proprio cambio di paradigma. A livello globale, un incontrollato piano inclinato in un'epoca in cui la scala delle migrazioni forzate, così come le necessarie risposte, fanno chiaramente sembrare insignificante qualsiasi cosa vista prima. È terrificante che da un lato coloro che fanno scoppiare i conflitti risultano sempre i più impuniti, mentre dall'altro sembra esserci una totale incapacità da parte della comunità internazionale a lavorare insieme per costruire e mantenere la pace". Uno scenario più che preoccupante, con l'Europa alle prese con 6,7 milioni di migranti forzati ovvero 2,3 in più rispetto al 2013. Ma in prima linea, secondo il rapporto Unhcr, ci sono Turchia e Pakistan con oltre 1,5 milioni di rifugiati a testa. Esattamente come il Libano, dove però il rapporto diventa di 232 rifugiati ogni mille abitanti. Subito dopo vengono Iran, Etiopia e Giordania a testimonianza di quali restano le "zone calde" del mondo. Del resto, sul fronte dei rifugiati è dal 2011 (guerra civile in Siria) che la migrazione dal Medio Oriente si è impennata, aggiungendosi a quella del Nord Africa. L'ultimo lustro ha visto esplodere o riattivarsi 15 conflitti, di cui 8 nel Continente Nero: Costa d'Avorio, Repubblica Centrafricana, Libia, Mali, nordest della Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan e quest'anno Burundi. Più la guerra in Siria, Iraq e Yemen e la crisi in Ucraina. Risultato: nella popolazione planetaria oggi una persona ogni 122 è un rifugiato, uno sfollato interno o un richiedente asilo. Per di più il 51% di questi profughi sono bambini o comunque minori, spesso non accompagnati. È di fatto questa la massima emergenza nell'emergenza rifugiati che cresce a livello globale. Il rapporto dell'Alto commissariato Onu restituisce un'altra immagine più che eloquente. Ogni giorno guerre e persecuzioni producono 42.500 individui costretti alla fuga dai loro Paesi. Nel 2013 erano 32.200, mentre nel 2010 la cifra si limitava a 10.900. E c'è un altro rapporto che permette anche di contabilizzare il costo dell'"Europa Fortezza". Si tratta dell'inchiesta Migrants Files, il database del collettivo internazionale di una ventina di cronisti, statistici ed esperti. A partire dal Duemila, i Paesi dell'Europa hanno speso 11,3 miliardi di euro per le espulsioni dei migranti più altri 1,6 miliardi nel controllo delle frontiere. Cifre che riguardano i 28 membri dell'Unione europea più Norvegia, Svizzera e Islanda. Una singola espulsione, mediamente, comporta una spesa di 4.000 euro di cui la metà solo in spese di trasporto dei migranti. L'Agenzia Ue Frontex ha utilizzato circa un miliardo e i paesi del Mediterraneo almeno 70 milioni per l'acquisto di imbarcazioni, visori notturni, droni e altri mezzi tecnologici. C'è un altro aspetto che riguarda i costi: a partire dal 2011 l'Italia ha pagato 17 milioni al governo della Libia per l'addestramento di chi doveva pattugliare le coste anche a bordo di nuove navi attrezzate. La Spagna, invece, ha pagato 10 milioni la manutenzione delle "cancellate" nei confini di Ceuta e Melilla. L'altra faccia della medaglia è rappresentata dai 15,7 miliardi incassati dai trafficanti grazie ai migranti che volevano sbarcare in Europa. L'inchiesta Migrants files non lascia così troppi margini di equivoco sul flusso di denaro collegato all'esodo del Duemila. "La nostra Ellis Island", l'idea piace a chi lavora tutti i giorni con sbarchi e migranti di Cristina Giudici Il Foglio, 19 giugno 2015 Per capire davvero la proposta del Foglio - da un'idea di Massimo Nava sul Corriere della Sera - di creare un hub umanitario nella ex isola carcere di Pianosa ("la nostra Ellis Island"), serve una premessa. A ogni sbarco sulle nostre coste, la maggior parte dei migranti-profughi rifiuta di essere fotosegnalata. Non vogliono essere costretti a restare in Italia, come prevede il regolamento di Dublino. E i poliziotti - che devono decidere chi va rimpatriato, chi accolto, chi fermato perché scafista o trafficante di esseri umani - non possono identificarli in modo coatto. Perciò si conosce solo in minima parte l'identità di coloro che sbarcano e transitano per il nostro paese (solo dall'inizio del 2015, 55 mila persone). Inoltre nei porti siciliani accade spesso che gruppi numerosi tentino la fuga e scompaiano, letteralmente, per poi affidarsi a reti criminali che li aiutano a raggiungere le loro mete: prima Milano e poi il nord Europa. Se non fuggono dai porti, una volta arrivati nei centri di accoglienza, vanno via il giorno dopo il loro arrivo. A Bruxelles si possono incaponire, sospendere la libera circolazione di Schengen, immaginare di creare muri per respingere l'esodo, ma è inutile. Davanti a questo flusso diventato ingovernabile, chi sta in trincea in Sicilia -mentre l'Europa si limita a potenziare i mezzi per i salvataggi, ma guarda con sospetto l'eventualità di distribuire i profughi secondo quote prestabilite - comincia a trovare interessante la nostra "opzione P", l'idea di un hub sotto controllo da creare a Pianosa. Un campo profughi affidato alla piena responsabilità italiana, ma finanziato dall'Europa, in grado di accogliere, identificare, smistare, rE-distribuire e nel caso (molti casi) rimpatriare i profughi. Idea interessante, ci dicono, anche solo come provocazione politica verso i governi europei. Come spiega al Foglio Francesco Paolo Giordano, procuratore capo di Siracusa, dove dal gennaio del 2015 sono sbarcati oltre 10 mila migranti. "Io non so se l'opzione Pianosa sia praticabile, ma sono convinto che si debba trovare una soluzione alle criticità dell'accoglienza e dello smistamento dei profughi. Io sono un tecnico, quindi non posso entrare nel merito di scelte che spettano al governo", osserva con prudenza, "ma siccome noi non possiamo identificarli tutti, a meno di violare i loro diritti umani, si può e si deve trovare un'opzione alternativa. Se l'idea di Pianosa può servire per suscitare una discussione seria, sia come provocazione sia come strumento di pressione verso i governi dell'Unione europea, per trovare una strategia che ci aiuti a governare con più efficacia l'esodo, sono favorevole". La tiepida apertura del procuratore capo di Siracusa viene rafforzata dal sostituto commissario Carlo Parini, coordinatore del Gicic, il Gruppo interforze per il contrasto all'immigrazione clandestina creato nel 2006 dalla procura di Siracusa per fornire ai magistrati dati e informazioni sui flussi migratori, sulle rotte dei trafficanti e per fermare gli scafisti. Per lui, che come tutti i poliziotti operativi nei porti siciliani ogni giorno deve affrontare a mani nude un nuovo sbarco, la creazione di una sorta di Ellis Island del Terzo millennio, gestita dal Viminale, aiuterebbe a dominare il caos: "Dobbiamo trovare un modus operandi per accogliere con umanità chi scappa da guerre e persecuzioni, ma senza dimenticare che dobbiamo garantire anche sicurezza e legalità ai cittadini. Accolgo volentieri qualsiasi contributo che ci aiuti a combattere meglio il traffico degli esseri umani", commenta. Il commissario della squadra mobile di Ragusa, Antonino Ciavola, anche lui in balìa degli sbarchi nel porto di Pozzallo, è invece scettico: "Mi pare più concreta l'eventualità di modificare le norme nazionali sull'immigrazione e creare un permesso temporaneo che obblighino gli altri paesi europei ad accogliere i profughi". Inaspettatamente, chi accoglie senza riserve l'opzione Pianosa è un sociologo dell'Università Cattolica di Milano, esperto dell'inscindibile connubio immigrazione-sicurezza, Marco Lombardi: "Dobbiamo avere un approccio razionale e ribaltare la valenza simbolica negativa evocata da Ellis Island. L'isola fa riemergere l'idea scabrosa del confino, ma si può creare un hub umanitario che aiuti a controllare e verificare le caratteristiche di questo esodo, che può celare problemi gravi di sicurezza. L'Unione europea non accetterà mai la ripartizione delle quote. Perciò io sposo l'opzione Pianosa, senza se e senza ma". C'è uno scontro di civiltà tra cristiani e barbari… e io sto con i cristiani di Piero Sansonetti Il Garantista, 19 giugno 2015 Bergoglio ha avuto una due giorni scintillanti. Ha fatto infuriare i repubblicani americani, la Lega di Salvini, parecchi capi di Stato europei e sicuramente i reazionari, ma anche i conservatori di tutto il mondo. Ha eretto due pilastri e ha spiegato che sono le colonne d'Ercole della civiltà cristiana. Il primo pilastro è quello che dice che gli esseri umani sono tutti uguali, e un profugo, un clandestino, un rom, sono uguali a un borghese o a un operaio italiano o europeo, ha i suoi stessi diritti, la sua dignità, le sue emozioni, le sue sofferenze. Il secondo pilastro è quello che dice che l'organizzazione sociale che privilegia le banche e punisce i popoli è una organizzazione sociale che va cambiata. Ha messo in discussione i nazionalismi, le piccole patrie, i corporativismi, l'egoismo sociale, e poi ha messo in discussione, attaccandola in modo frontale, l'ideologia liberista, la religione del mercato, e cioè quella uscita trionfatrice dalla fine del novecento e che oggi controlla e domina tutto l'Occidente sviluppato e, dunque, il mondo. Oggi abbiamo scelto per aprire il giornale un titolo un po' giocoso: "Ciao Marx, è arrivato Francesco". Che pero non è solo giocoso. Vogliamo dire questo: oggi il papa assume su di se, sulla chiesa cattolica, sul mondo cattolico, il compito di dare guerra all'ingiustizia sociale, ai danni culturali e di coscienza provocati dal mercato inteso non come strumento dell'economia -da limitare, da governare attraverso la democrazia e la politica - ma come sistema di pensiero, anzi di pensiero unico, e come insieme di valori. Il papa ha offerto il suo magistero e la forza del mondo cattolico e della sua struttura, per fronteggiare il dilagare delle ideologie reazionarie, egoiste, antipopolari, che sono alla base non solo dei grandi movimenti populisti (la Lega, Lepen, Grillo, i vari gruppi più o meno neofascisti che avanzano in Europa), ma anche del pensiero e della politica di quasi tutti i partiti moderati, dai repubblicani americani a settori vasti e vincenti persino della sinistra europea, a partire dal Pd di Renzi. Un po' ce l'aspettavamo, un po' ci ha sorpreso. Ci ha sorpreso la durezza con la quale ha chiesto perdono per gli uomini di stato e i propagandisti politici che propongono di respingere i profughi e di scacciare i Rom. E ci ha sorpreso la nettezza della denuncia contro le banche, e cioè contro il potere liberista vero, contenuta nell'enciclica ispirata dal francescanesimo e dalla difesa della terra. E ci hanno sorpreso anche le reazioni a questa scesa in campo di Francesco. Ci aspettavamo, forse, più prudenza, da parte della destra. Che invece si è sentita ferita profondamente e ha risposto con asprezza. Di fronte a questo scenario vengono dei dubbi su alcune convinzioni che sin qui sono state molto forti. Ad esempio: è vero o no che in questo ventunesimo secolo si è aperto uno scontro di civiltà tra l'Europa cristiana e i suoi nemici? Fino a ieri rispondevamo di no, con indignazione, e considerando una tesi di questo genere come l'espressione di una forma estrema di fondamentalismo cattolico. Oggi alcuni di noi - e io tra questi - si ricredono. Ho fatto questa riflessione: secondo voi cosa ha a che fare il papa Bergoglio, e la dolcezza delle sue parole, e l'umiltà, e la pacatezza (ferma, coraggiosa, ma pacatezza) dei suoi interventi, con Beppe Grillo, per esempio, che paragona i rifugiati alla spazzatura e ai topi e chiede che Roma se ne liberi? Sono persone che appartengono alla stessa epoca e alla stessa civiltà? Viene persino il dubbio che possano appartenere alla stessa specie. Quel che è certo è che fanno parte di civiltà diverse. La civiltà della quale il papa è testimone e rappresentate non è la stessa di Grillo, di Salvini, di Bush, dei leader ungheresi. C'è una distanza abissale tra questi due modi di pensare e di vivere. C'è uno scontro di civiltà difficilmente ricomponibile. O vince il papa o vincono i reazionari. E così mi succede di sentire un sentimento che non credevo mai di poter provare. La simpatia per l'esercito del Papa. E mi viene da dire una frase impronunciabile: c'è uno scontro di civiltà tra cristiani e barbari. E io sto con i cristiani. La rincorsa (sbagliata) a Salvini di Michele Brambilla La Stampa, 19 giugno 2015 La destra italiana si sta salvinizzando. Un po' come quella francese si è lepenizzata. Per capirci: così come in Francia Sarkozy ha preso a cavalcare le stesse battaglie di Marine Le Pen, in Italia quella che dovrebbe essere la destra liberale ha adottato, negli ultimi tempi, le idee e perfino il linguaggio dell'ex impresentabile in felpa. Alla maniera di Salvini parla il mite Toti, appena eletto governatore della Liguria; parlano i giornali di destra; e parla addirittura Alfano, che dovrebbe essere l'ala più moderata del centrodestra e che, per inciso, è il ministro dell'Interno di un governo di centrosinistra. Eppure ieri, a poche ore dal tweet "occorre smantellare i campi rom", Alfano - lungi dal fare marcia indietro - ha rincarato la dose: "Noi dovremo buttare fuori, espellere dal territorio nazionale tutti quei Rom che non vorranno sottoscrivere un patto con lo Stato italiano", ha detto a Radio Uno Rai. Ora, qui bisogna essere chiari e realisti. Il problema dei Rom esiste, come sanno bene coloro che hanno la sventura di vivere accanto ai loro accampamenti. Esiste e se uno come Salvini, invocando le ruspe, riscuote tanti consensi, è anche perché molti hanno fatto finta che non esistesse. C'è in Italia tutto un filone di negazionismo radical chic che parla di accoglienza dai salotti o dalle terrazze del centro, in nome di un "essere di sinistra" che poi non si capisce che cosa voglia dire, perché anche la sinistra dovrebbe avere a cuore la legalità e la tutela dei meno abbienti che abitano nelle periferie. Ma proprio perché il problema esiste, un ministro dell'Interno dovrebbe studiare soluzioni possibili, non annunciare provvedimenti impossibili. Perché: che significa "espellere dal territorio nazionale tutti quei Rom che non vorranno sottoscrivere un patto con lo Stato italiano"? Si tratta quasi sempre di cittadini italiani, e quindi non possono essere espulsi; se non rispettano la legalità si possono anzi si devono mettere in galera: ma accompagnarli fuori dai confini è fantascienza. Un ministro dell'Interno non può dire assurdità del genere. E invece di fare tweet, dovrebbe - semplicemente - fare. Ad esempio. A Milano i pendolari nei giorni scorsi hanno patito disagi pesanti a causa dello sciopero del personale delle ferrovie, che protestava per il ferimento del capotreno colpito con il machete da una banda di latinoamericani. Si può discutere se lo sciopero sia il modo giusto per attirare l'attenzione sul problema, ma c'è poco da discutere su che cosa dovrebbe fare un ministro dell'Interno: mandare più uomini a proteggere la sicurezza di ferrovieri e passeggeri. Ieri sera, dopo uno sciopero e un braccio amputato, è stato annunciato l'intervento. Speriamo che non sia come il tweet sullo sgombero dei campi Rom. Perché anche uno come Alfano, che lasciò il Pdl in dissenso dai "falchi", s'è messo a parlare così? Uno come Alfano che diceva che Berlusconi era finito in mano agli estremisti? Per due motivi, temiamo. Il primo è che in Italia ormai da tempo la politica la si fa solo con annunci ai quali non seguono quasi mai i fatti. Il secondo è che questi annunci li si preferiscono urlati. Chi grida di più la vacca è sua, si diceva una volta alle fiere di paese. Così il centrodestra sembra aver cancellato la prima parte della propria essenza per essere solo destra, anzi destra estrema, ultranazionalista e xenofoba. Una svolta che sicuramente non gioverà al Paese; e che probabilmente non gioverà neppure agli stessi politici che l'hanno voluta compiere. Perché i Toti e gli Alfano che si sono messi a parlare come Salvini potrebbero trovare, nelle urne, una sgradita sorpresa: e cioè scoprire che chi vuol votare a destra, alla fine, preferisce sempre l'originale all'imitazione. Rom, l'unica strada possibile è l'inclusione di Alessandro Capriccioli (Segretario Radicali Roma) Il Manifesto, 19 giugno 2015 Facciamo un patto: se prometti di fare il bravo mamma e papà ti comprano il motorino. È grosso modo questa, a quanto si legge, la strategia per la chiusura dei campi rom concordata dai sindaci dei comuni italiani col ministro Alfano: una strategia che subordina l'erogazione di servizi alternativi all'accoglienza nei campi, e in particolare le soluzioni di carattere abitativo, alla sottoscrizione di "patti" con cui i destinatari di quei servizi dovranno impegnarsi a tenere comportamenti conformi alla legalità. Promettete di comportarvi bene, insomma, e noi vi troviamo una casa. Mettendo da parte per qualche istante le pur intriganti implicazioni giuridiche di simili accordi (quale valore legale potrebbe mai avere l'impegno a non delinquere scritto su un pezzo di carta?), l'angosciosa domanda che sorge spontanea è: e tutti gli altri? Cioè, per quale ragione i rom dovrebbero impegnarsi alla legalità per ottenere dei servizi dai comuni, mentre un adempimento analogo non è previsto per il resto dei cittadini? Non è che così congegnata l'iniziativa sarebbe un tantino discriminatoria, e in quanto tale passibile di richiami e sanzioni da parte dell'Unione Europea? Perché, per dirla tutta, a Strasburgo hanno già avuto da ridire sul modo in cui il nostro paese ha affrontato per decenni la questione rom: e, come si dice, aggiungere altra carne al fuoco non sarebbe esattamente il massimo. Il punto, in realtà, è che alla legalità dovrebbero impegnarsi in primo luogo i sindaci, implementando - una buona volta - i percorsi di inclusione già delineati nella strategia nazionale di inclusione adottata nel 2012 dal governo Monti in ossequio alle indicazioni europee: al di là della fantasiosa stipula di contratti concepiti ad hoc su base etnica, che sul piano del diritto appaiono assai discutibili, per usare un eufemismo. Percorsi di inclusione personalizzati e monitorati, con tempi certi e tappe stabilite, come quelli che a Roma vengono chiesti dalle delibere di iniziativa popolare della campagna "acco?glia?moci?.it", promossa da Radicali Roma insieme a realtà come Associazione 21 luglio, A buon diritto, Arci, Cild, Possibile, Un ponte per, Zalab e Asgi: percorsi che hanno risolto efficacemente il problema in altri paesi europei e che sarebbe possibile attivare cominciando a riconvertire le risorse (soltanto a Roma 25 milioni l'anno) sin qui sperperate nella disastrosa politica dei campi; monitoraggi che sono ormai ineludibili non soltanto nel caso dei rom, ma anche per sanare l'altra piaga aperta dei centri di accoglienza a richiedenti asilo e rifugiati. Soluzioni praticabili, se solo ci si degnasse di uscire dalla retorica logora dei rom che rubano, chiedono l'elemosina e non mandano i figli a scuola. Se solo si abbandonasse la tentazione di dare in pasto all'opinione pubblica l'ennesimo proclama demagogico sperando di racimolare qualche voto in più: e ci si decidesse, finalmente, ad affrontare la questione in tutta la sua complessità. Guinea Equatoriale: "ridateci nostro padre", l'appello dei figli di Roberto Berardi Corriere di Latina, 19 giugno 2015 Proroga della detenzione a fine pena, ennesima ingiustizia. La denuncia della famiglia dell'imprenditore di Latina. "Ridateci nostro padre". La scritta sulla maglietta e le mani incatenate: questa mattina Giulia e Marco Berardi, figlie di Roberto, l'imprenditore 50enne di Latina ancora detenuto nel carcere di Bata, nonostante la fine della pena, hanno palesato il loro dolore per l'ingiustizia subita dal padre davanti alla sede dell'Ambasciata della Guinea Equatoriale presso lo Stato Italiano. Al sit-in, organizzato in via Bruxelles a Roma, ha partecipato anche Rossella Palumbo, madre dei due ragazzi, che davanti alle telecamere del Tg 1, ha denunciato l'abuso giudiziario, l'ennesimo, consistito nella mancata scarcerazione il 19 maggio scorso del suo ex marito. Come si ricorderà, infatti, il Tribunale della Guinea Equatoriale aveva deciso clamorosamente di prorogare la detenzione di altri 50 giorni, fino al 7 luglio 2015. Una scadenza inaccettabile per la famiglia Berardi e per lo stesso imprenditore detenuto. Inaccettabile e illegittima contro la quale lo Stato Italiano non avrebbe saputo intervenire con efficacia. Roberto Berardi, il 19 gennaio 2013 a Bata, è stato sottoposto "ad un processo penale per truffa ed appropriazione indebita senza alcuna prova e senza che nemmeno si presentasse l'accusa". Condannato a 2 anni e 4 mesi di reclusione ha scontato l'intera - "ingiusta" ribadisce la famiglia - pena detentiva tra torture, soprusi e trattamenti inumani e degradanti. Molte Organizzazioni non governative si sono mobilitate e sensibilizzate sul caso umanitario internazionale che riguarda Roberto Berardi: Amnesty International, Human Rights Watch, Open Society Foundation, International Red Cross, EG Justice, Nessuno Tocchi Caino. La vicenda di Berardi è all'attenzione della Corte Penale Internazionale dei Diritti Umani e della Corte di Giustizia Europea, in Italia sono state presentate 13 interrogazioni parlamentari ed il governo si è assunto l'impegno di tutelare l'incolumità di Berardi. Così, anche l'Alto Commissario UE per la Politica Estera Federica Mogherini. Dal 19 maggio scorso i contatti tra Berardi e la sua famiglia sono affidati esclusivamente al console onorario Massimo Spano, italiano incaricato dal nostro Governo ai rapporti con le autorità di Bata. L'appello alla Guinea Equatoriale. La manifestazione di protesta pacifica di questa mattina ha "provocato" l'apertura del portone dell'Ambasciata fino a mezzogiorno. Si spera che la forte denuncia arrivi nelle sedi opportune delle istituzioni della Guinea Equatoriale. Guinea Equatoriale: i figli di Roberto Berardi si incatenano "ora basta chiacchiere" di Andrea Spinelli Barrile Il Manifesto, 19 giugno 2015 Quando lo scorso 19 maggio il Tribunale di Bata in Guinea Equatoriale ha deciso di negare la libertà a Roberto Berardi, imprenditore detenuto innocente e oltre i termini previsti dalla sentenza che lo ha condannato a 2 anni e 4 mesi di carcere, la sua famiglia è piombata nel più profondo sconforto. Uno sconforto che ieri mattina si è trasformato in azione: Giulia e Marco Berardi, figli dell'imprenditore pontino, hanno deciso di incatenarsi di fronte l'ambasciata della Guinea Equatoriale a Roma per protestare contro "l'ennesimo abuso della giustizia" del Paese africano e chiedere con forza "la liberazione immediata di nostro padre". L'imprenditore fu arrestato il 18 gennaio del 2013 e condannato per appropriazione indebita il 16 luglio di quell'anno: al processo farsa l'accusa non presentò nemmeno. Secondo molte ong che si sono occupate del caso Berardi è "il prigioniero personale" dell'ex socio Teodorin Nguema, vicepresidente della Guinea Equatoriale. I due ragazzi si sono incatenati per due ore, fino a quando l'ambasciata ha deciso di chiudere i battenti. "Se Roberto fosse stato veramente colpevole al termine della pena sarebbe uscito" dice con voce rotta Rossella Palumbo, moglie di Berardi "e invece Roberto è ancora in prigione ed ancora in isolamento. Questo significa che è solo un perseguitato". Di Berardi si hanno notizie riflesse: se non fosse per l'impegno del console onorario in Guinea, Massimo Spano, e per il legale guineano Ponciano Mbomio Nvo la famiglia sarebbe da tempo nell'oblio: quel che è certo è che si trova in isolamento da 19 mesi consecutivi, che è stato torturato e che subisce tuttora trattamenti inumani e degradanti. "Era stato detto che sarebbe stato trattato come gli altri e non è stato così. Il Presidente Obiang Mbasogo aveva detto (pubblicamente al Parlamento Europeo, nda) che Roberto sarebbe stato graziato per motivi umanitari ma questa grazia non è stata mai firmata", rassicurazioni e garanzie date anche personalmente alla signora Palumbo, quando un anno e mezzo fa ottenne udienza dall'ambasciata equatoguinana con il senatore Luigi Manconi: "L'ambasciatrice ci disse che Roberto veniva visitato da un medico del carcere, cosa non vera: stiamo ancora aspettando copia della sua cartella clinica". Per questi motivi la famiglia Berardi non riconosce in alcun modo come legittimo il prolungamento della detenzione, ufficialmente fino al 7 luglio: non c'è nulla di scritto, nessun atto che attesti con certezza che Berardi verrà rilasciato in quella data. A chi scrive l'ambasciatore della Guinea alla Fao Crisantos Obama Ondo disse chiaramente, i primi di maggio, che il 19 il detenuto italiano sarebbe stato liberato: una parola che alla luce dei fatti valeva ben poco. Una detenzione crudele e arbitraria, che diventa insopportabile per l'assenza totale di comunicazione da parte italiana, con un silenzio assordante sin qui profuso dalla Farnesina che dal giorno della mancata scarcerazione non ha mai contattato la famiglia. "Vogliamo che nostro padre ritorni a casa, siamo stufi di tutte queste chiacchiere: ora basta" dice la figlia Giulia, che dalla sua ha la forza della verità. Dalla Guinea le notizie sono preoccupanti: il clima nelle carceri sembra essere molto teso, da dove fonti del manifesto raccontano di torture pubbliche come monito ai detenuti, trattati come animali. Tra loro vi è anche Roberto Berardi. Germania: qui le pene si scontano davvero, in Italia invece si minacciano e poi si trattano di Roberto Giardina Italia Oggi, 19 giugno 2015 Condanne tedesche e italiane. Noi siamo severissimi, loro meno. Ma c'è una differenza: da noi nessuno finisce in galera e, se proprio lo chiudono in cella, dopo pochi giorni è a piede libero. In Germania il giudice ti può condannare senza condizionale e senza sconti per buona condotta, e resti dentro fino all'ultimo giorno. Per un mese, o dieci anni. Il senatore Luigi Manconi ha denunciato come populismo voler punire l'omicidio stradale con pene che, secondo le circostanze, potrebbero arrivare fino a 18 anni. Si viene tentati di dargli ragione: a quanto dovrebbe essere condannato chi commette un omicidio a sangue freddo? In Germania, se si provoca un incidente mortale e si è ubriachi, o si fugge, si viene condannati a cinque anni. Però li fai sul serio. Se io graffio una macchina in un parcheggio e mi allontano indisturbato, rischio di perdere la patente per un anno. Un tassista berlinese che truffava i turisti sta scontando tre anni. E così via. Le pene italiane mi ricordano i venditori di tappeti persiani, che devono appartenere tutti a una stessa famiglia, da Roma a Londra passando per Berlino: si parte da 1.000 per arrivare, di sconto in sconto, a 100. Se si patteggia la pena, si ha uno sconto di un terzo; se si è incensurati un altro terzo e, tra buona condotta e altri benefici, quel che rimane si riduce ulteriormente alla metà. E fino a tre anni non si va in galera. Senza dimenticare l'ultima folle riforma firmata dal ministro Orlando che, per snellire la giustizia, la abolisce: i reati che prevedono pene fi no a cinque anni sarebbero bagatelle non perseguibili. Ecco che i 18 anni denunciati da Manconi sono una pura ipotesi. Inoltre il senatore sostiene che non ci sia "un'emergenza stradale", le vittime in 25 anni sono passate da 6.621 a 3.385. Siamo quasi a livelli tedeschi (3.400), ma la Germania ha 82 milioni di abitanti. Però c'è anche un'emergenza "avvertita", come per la temperatura: se ogni settimana qualcuno ubriaco o drogato piomba a velocità folle su un passante in pieno centro, l'allarme è giustificato. L'obiettivo dovrebbe essere, in teoria, di ridurre le vittime a zero. Sarebbe come dire: dato che la mortalità per malattie cardiache è in calo, non pensiamo più all'infarto. Un altro esempio per capire la giustizia alla tedesca. Questa settimana un caso ha turbato l'opinione pubblica. Senel M., un ragazzo turco di 18 anni, è stato condannato a soli tre anni per aver ucciso con un pugno o uno schiaffo una giovane, di 22, sempre turca, lo scorso novembre a Offenbach, alla periferia di Francoforte. Ci si aspettava una condanna, come dice Manconi, populista. Il giudice è stato di diverso avviso. E ha denunciato i mass media che avevano scatenato una campagna d'odio contro l'imputato, mettendo sotto accusa il presidente della repubblica Joachim Gauck che si era precipitato, populista anche lui, a stigmatizzare l'orrenda brutalità del killer, proponendo la vittima Tugee Albayrak per la più alta onorificenza civile. Un'intromissione ingiustificabile, secondo il giudice Jens Aßling. Senel non è un assassino spietato. Si trattò di una lite tra gruppi di giovani ubriachi. Un colpo e la ragazza cade male, morirà dopo alcuni giorni di coma. I tre anni sembrano pochi, ma il ragazzo li sconterà in un carcere giovanile, e si spera che lì possa essere rieducato. A Offenbach la percentuale di residenti stranieri è del 35%, non è facile per un giovane l'inserimento. Ultime considerazioni: la privacy, in Germania, è rispettata, non conosciamo il nome del colpevole né il suo volto; quello della vittima sì, perché fu presentata come un'eroina. In Germania, dei protagonisti di fatti di cronaca, vengono pubblicate sempre solo le iniziali, a meno che si tratti di personaggi noti. O di fatti eclatanti: si discute ancora se sia stato giusto rendere nota l'identità del pilota suicida della Germanwings. Il presidente Gauck non si è vendicato all'italiana sul magistrato e, anzi, ha ritirato la proposta di onorificenza. Aßling ha osato sfidare l'opinione pubblica, e ha spiegato subito la sentenza senza attendere mesi come i suoi colleghi italiani. Che gli sarebbe successo in Italia? Senel ha atteso il processo in carcere, la condanna è arrivata appena sette mesi dopo il fatto. Il difensore ha presentato appello chiedendo la libertà provvisoria. Ma non si finirà fi no in Cassazione. Manconi avrebbe ragione se fosse un politico prussiano. Pakistan: 180 impiccati in sei mesi dopo strage di Peshawar, stop esecuzioni per Ramadan Ansa, 19 giugno 2015 Il Pakistan ha messo a morte in sei mesi 180 condannati alla pena capitale, ma in occasione del mese santo del Ramadan le esecuzioni sono sospese per ordine del governo. Lo scrive oggi The Express Tribune. Dopo un cruento attacco in dicembre ad una scuola pubblica di Peshawar gestita dall'esercito, durante cui il Tehrek-e-Taliban Pakistan (Ttp) ha ucciso oltre 140 persone, per lo più studenti, il premier Nawaz Sharif ha revocato la moratoria sulle esecuzioni delle pene di morte che era stata introdotta nel 2008. Fra le province nelle cui prigioni sono state eseguite le condanne, il Punjab ha fatto la parte del leone (153), seguito da Sindh (15), Khyber Pakhtunkhwa (5), Baluchistan (5) e Azad Kashmir (2). Nei bracci della morte delle carceri pachistane vi sono circa 8.000 persone condannate a morte. La revoca della moratoria sulla esecuzione delle condanne è stata criticata da vari Stati, dall'Onu, dalla Ue e da numerose Ong internazionali.