Antigone con Ristretti Orizzonti: più trasparenza sul 41bis e i circuiti di Alta Sicurezza Ristretti Orizzonti, 18 giugno 2015 L'Associazione Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale sostiene la Redazione di Ristretti Orizzonti nella sua richiesta di promuovere una maggior trasparenza in merito alla gestione del regime 41 bis e dei circuiti differenziati di Alta Sicurezza istituiti presso le Case di Reclusione del Paese. In seguito all'attivazione, da parte delle direzioni degli Istituti, delle procedure d'esame per la declassificazione - come incentivato dalla recente circolare del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria - chiediamo che venga riesaminato il rigetto delle istanze a favore di quei detenuti ristretti nei suddetti circuiti a distanza di decenni dal compimento del reato, in costanza di un'adesione ai programmi di trattamento e in assenza di elementi certi atti a giustificare la differenziazione. Riteniamo doveroso che l'Amministrazione penitenziaria salvaguardi in particolare le posizioni di tutte le persone recluse nei circuiti di Alta Sicurezza che hanno intrapreso percorsi positivi di trattamento attraverso la partecipazione ad attività culturali e formative, com'è senz'altro nell'esperienza delle persone coinvolte nella Redazione di Ristretti Orizzonti, evitando ove possibile trasferimenti in altri Istituti che condurrebbero alla loro vanificazione. Ci preme altresì sottolineare che percorsi di trattamento e opportunità formative come quelli a cui ha avuto accesso parte dei detenuti delle sezioni di Alta Sicurezza della Casa di reclusione di Padova dovrebbero essere offerti anche agli ospiti delle sezioni di Alta Sicurezza istituite nel resto del Paese. Anche ove ritenuto necessario il perdurare della permanenza in circuiti differenziati, le preclusioni previste dalla normativa ai contatti con altri detenuti o alla partecipazione ad attività destinate alle sezioni dei detenuti comuni non sollevano in alcun modo l'amministrazione penitenziaria dal compito di prevedere, anche per gli ospiti dei circuiti differenziati, adeguate attività trattamentali e occasioni di confronto e rielaborazione critica del reato. A fronte dell'impegno ripetutamente sostenuto dal Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria a favore di una pena più umana e di un trattamento responsabilizzante, ci permettiamo di sottolineare come, ferme restando le condizioni di sicurezza, tale sforzo non possa escludere in alcun modo una parte della popolazione detenuta, per la quale devono valere - come per tutti - il principio di dignità della persona e la funzione rieducativa della pena. Detenuti di Padova trasferiti a Parma. Il Garante "non possiamo accoglierli" La Repubblica, 18 giugno 2015 Con la chiusura delle sezioni di massima sicurezza del carcere veneto, alcuni carcerati sono stati mandati in via Burla. Il Garante dei detenuti: "La situazione è al limite e con i nuovi arrivi non farebbe che peggiorare". La chiusura improvvisa delle sezioni di massima sicurezza del carcere di Padova, il conseguente trasferimento dei suoi detenuti. La scelta del dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria di trasferire parte di quegli uomini nella sezione AS1 (detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso) del penitenziario di Parma. E infine, la lettera aperta di Roberto Cavalieri, garante dei detenuti di Parma: "Questa scelta non è condivisibile sotto diversi profili. I trasferimenti - di cui due già avvenuti - non sono ammissibili: il carcere di Parma non può accoglierli". A Parma, solo una sezione sulle sei di alta sicurezza è per detenuti AS1: le restanti cinque sono per detenuti AS3, condannati per reati associativi. "Una sezione può accogliere al massimo 50 persone: in quelle di parma già ce ne sono 28, 30 - spiega Cavalieri - immaginatevi una palazzina, dove su ogni piano ci sono due sezioni: i detenuti AS1 stanno in una di quelle. Di fianco ci sono i detenuti AS3. Non si possono incontrare, sono incompatibili". In pratica, i detenuti AS1 sono una nicchia: "Per ovvi motivi organizzativi del reparto, a loro restano pochissime occasioni di partecipazione ad attività che sono da considerarsi marginali rispetto a quelle degli altri detenuti del circuito". Gli impedimenti ad accogliere i detenuti del carcere di Padova, secondo il garante, sono di due tipi: di convivenza e di disparità di attività trattamentali. "Le celle sono singole, una scelta molto spesso sostenuta e obbligata da esigenze di salute, patologie psichiatriche e di studio dei detenuti. Queste persone sono quasi tutte ergastolane: chiedere di dividere una cella comprometterebbe quelle garanzie minime che oggi hanno". Nel carcere emiliano, si legge nella lettera, le attività sono ridotte all'osso. Le uniche in essere sono gli incontri del progetto Etica e Legalità, gestiti da alcuni volontari ma che termineranno quest'anno; la produzione a cadenza settimanale di prodotti da forno per la locale mensa per i poveri dei frati francescani; un corso di formazione professionale, se finanziato, della durata di 300 ore per anno (pari a quattro mesi di attività); la ginnastica settimanale. "Non è presente nessuna attività lavorativa significativa. Lo studio è affidato all'iniziativa autonoma di alcuni detenuti iscritti a percorsi universitari. In poche parole, la situazione è al limite e con i nuovi arrivi non farebbe che peggiorare". Anche ammettendo un'apertura delle attività che vada oltre l'orario attuale (dalle 9 alle 15), i problemi della convivenza, delle condizioni di vita, del carico sanitario ("le prestazioni sanitarie sono già oggi carenti sotto il profilo della tempestività di erogazione") resterebbero. "I detenuti partenti dalla sezione AS1 di Padova sono oltre 90 - spiega Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti Orizzonti del carcere di Padova - hanno scoperto del loro trasferimento da un momento all'altro: è stata una notizia drammatica. La sezione alta sicurezza del nostro carcere è molto diversa da quelle degli altri: qui alcuni detenuti lavorano anche nella mia redazione, fatto unico. In tanti frequentano l'università o corsi di informatica. Insomma, è una realtà gestita come dovrebbe essere. Improvvisamente, ci è stato comunicato che per razionalizzare sarebbe stata chiusa". Immediatamente, Ristretti Orizzonti e la cooperativa sociale Giotto (che gestisce numerose attività nel penitenziario veneto), sono andati a Roma per incontrare Santi Consolo, capo del dipartimento di Amministrazione penitenziaria: "Siamo partiti dal presupposto che l'alta sicurezza non debba essere che un passaggio a cui segue una declassificazione. Così, abbiamo chiesto la declassificazione per molti dei detenuti che avrebbero dovuto essere trasferiti. Per 20, 25 di loro l'abbiamo ottenuta: potranno restare a Padova e proseguire nei trattamenti. Quanto a tutti gli altri, stiamo lavorando". Due di loro, come scritto, sono già stati trasferiti a Parma ("Ci scrivono e ci dicono che è un disastro: hanno già fatto reclamo al magistrato di sorveglianza", racconta Favero). Ora è tutto bloccato: Ristretti Orizzonti ha chiesto di rivedere le declassificazioni e valutare meglio i pareri antimafia: "Restituiteci allora Giovanni, già trasferito a Parma, e non toglieteci gli altri detenuti della sezione AS1, come Tommaso Romeo, Agostino Lentini, Giovanni Zito, Antonio Papalia e tutti quelli che lavorano con noi da anni - ha scritto in una lettera pubblicata oggi da Il Foglio: per noi sono importanti gli esseri umani, e nel nostro percorso di responsabilità e consapevolezza ogni persona conta, ha un ruolo, vale per quello che è diventata". Giustizia: Manconi (Pd); per riformare le carceri servono più determinazione e coraggio 9Colonne, 18 giugno 2015 "Mi auguro che l'apprezzamento del segretario generale del Consiglio d'Europa Thorbjorn Jagland per le risposte fornite dall'Italia al sovraffollamento penitenziario, possa contribuire a riportare la questione penale al centro dell'agenda politica. Bisogna proseguire, con maggiore determinazione e coraggio, su questa strada". È quanto afferma il senatore del Partito democratico Luigi Manconi. "I provvedimenti recenti per la riduzione dell'ambito di applicazione della custodia cautelare, per l'attenuazione delle preclusioni alla fruizione di misure alternative e per la mitigazione delle pene per gli illeciti minori in materia di stupefacenti stanno dando i primi effetti, utili ad attenuare almeno in parte l'inumanità delle condizioni delle nostre carceri. E tuttavia, alcune deleghe legislative (per esempio quella sulla depenalizzazione), che potrebbero dare un ulteriore contributo importante in questo senso, sono ancora inattuate. Come non ancora esaminati sono molti disegni di legge, alcuni dei quali anche a mia firma, che potrebbero riportare le condizioni delle nostre carceri - conclude Manconi - a uno standard minimo di legalità e il sistema penale a livelli almeno minimi di razionalità". Giustizia: responsabilità civile, perché per i magistrati resta un tabù dalla Giunta dell'Unione Camere penali Il Garantista, 18 giugno 2015 Dalla stampa di questi giorni si apprende che un Giudice di Treviso, intimorito dalla nuova disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati, ha preferito non pronunciare la sentenza e si è rivolto alla Corte costituzionale, dubitando della legittimità della norma che ha introdotto il travisamento del fatto o della prova quale fonte di responsabilità civile del magistrato. Il processo si basava solo su elementi indiziari e dunque, la valutazione di questi sarebbe "particolarmente difficile e "rischiosa", con la conseguenza che, stando a quanto si legge nell'ordinanza di rimessione, il Giudice, "quale essere umano, sarà portato ad assumere soprattutto nei casi più difficili [...] la decisione meno rischiosa che, nel processo penale, è quasi sempre identificabile nell'assoluzione", e questo per non subire il rischio di una possibile azione di risarcimento del danno da parte dello Stato. Di fronte ad un'affermazione di tale tenore, superato l'iniziale momento di sgomento, sorge la necessità in primo luogo di ricordare l'ovvio: se la prova della colpevolezza non è raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio, l'unica pronuncia possibile è quella di assoluzione. Posto che questo Giudice prima ancora che timoroso è, evidentemente, dubbioso, l'assoluzione è l'unica soluzione possibile e non per paura di improbabili azioni risarcitone ma, semplicemente, perché lo prevede il codice di rito. Nel merito il rimettente, malgrado sia dotato di una particolare sensibilità rispetto alle proprie responsabilità professionali, potrà dormire sonni tranquilli per una serie consistente di ragioni tra le quali basta ricordare la più importante: l'azione di rivalsa dello Stato può essere esercitata solo quando il Giudice non solo abbia "travisato" (e non erroneamente valutato) il fatto o le prove, ma lo abbia fatto con dolo (quindi volontariamente), o con negligenza inescusabile. Poiché di negligenza si può parlare quando l'atto è assunto con trascuratezza, incuria, grave dimenticanza è sufficiente che il Giudice operi con una diligenza ordinaria e dia conto nella motivazione del percorso logico in base al quale ha valutato il materiale probatorio, perché sia del tutto fuori luogo ogni accenno ad una possibile responsabilità risarcitoria, anche se la sentenza dovesse poi essere integralmente riformata nei successivi gradi di giudizio. Ciò a tacere del fatto che neppure il Giudice negligente, che abbia travisato il fatto o la prova, può per ciò solo essere chiamato a risponderne: ed infatti, l'attuale disciplina richiede qualcosa in più, ovvero che la negligenza sia di tale gravità da essere "inescusabile"; al di fuori di questa ipotesi non sussiste alcuna responsabilità civile del magistrato. Si aggiunga poi, che stando ai dati forniti dal ministero, ad oggi sarebbero state avviate solo sette azioni di responsabilità nei confronti dello Stato e quindi, le previsioni catastrofiche elaborate per scopi fin troppo manifesti da certa parte della magistratura, hanno rivelato immediatamente tutta la loro inconsistenza. Certo leggendo l'ordinanza e pensando a quanti magistrati si assumano quotidianamente ben altre responsabilità, che talvolta li espongono anche al rischio della vita, la preoccupazione del Giudice di Treviso (che tra l'altro non pagherebbe nulla comunque perché assicurato, come tutti i magistrati) sarebbe apparsa quasi offensiva per l'intera categoria, se non fosse stata seguita da dichiarazioni di pronta condivisione del Presidente locale di Anm e, anche se in termini meno espliciti, dal Presidente nazionale della stessa Associazione. Il tema, evidentemente, più che il timore di manzoniana memoria parrebbe essere il medesimo che ha accompagnato l'intero iter di approvazione della legge, ovvero una prova di forza tutta di carattere politico tra quei magistrati che ritengono sia oltraggioso chiedere loro di rispondere di quello che fanno, anche quando lo fanno con dolo o con una negligenza tale da essere inescusabile. Pensate a cosa accadrebbe se l'esempio del Giudice rimettente fosse seguito da altri, come auspicato dai rappresentati dell'Anm: la paralisi della giustizia fino alla decisione della Corte costituzionale. Ed allora siamo ormai abituati ai magistrati "cantautori", che prima scrivono leggi (dall'Ufficio Legislazione del ministero, con pareri anche non richiesti del Csm, con audizioni nei due rami del Parlamento non solo di Anm, ma anche dei più famosi Procuratori di Italia) e poi le applicano arrangiandole con lo strumento della giurisprudenza creativa (da ultimo basti l'esempio del caso Contrada sanzionato dalla Corte di Strasburgo); siamo abituati a tutto. Ma alla minaccia del blocco dell'intero sistema giudiziario per la difesa di interessi di categoria ancora non eravamo abituati, né intendiamo farlo per il futuro quasi che si trattasse di una cosa normale in un sistema democratico. Se poi invece ci dovessimo sbagliare e il Giudice rimettente fosse solo intimorito, allora forse ci si potrebbe limitare a constatare che, probabilmente, meglio avrebbe fatto a scegliere un mestiere che lo tenesse lontano dall'esercizio di qualunque potere e soprattutto dal potere di decidere della vita dei suoi simili; così certo sarebbe stato lontano da ogni preoccupazione, anche la più piccola. Giustizia: Jobs Act; dipendenti nel mirino, controllo a distanza su pc, tablet e cellulari di Valentina Conte La Repubblica, 18 giugno 2015 Le informazioni raccolte dalle aziende - tramite cellulari, smartphone, tablet, portatili, badge in dotazione al lavoratore, ma anche telecamere di sorveglianza - "sono utilizzabili a tutti i fini". C'è anche questo, in uno dei decreti attuativi del Jobs Act, arrivato martedì nelle commissioni Lavoro di Camera e Senato, per un parere non vincolante. Quindi non solo d'ora in avanti il datore di lavoro non avrà più bisogno di un accordo con i sindacati né del permesso delle Direzioni territoriali del lavoro (il ministero) per controllare da remoto il proprio dipendente tramite vecchi e nuovi strumenti high-tech. Non solo per le telecamere quell'accordo non sarà più obbligatorio, come dal 1970. Ma l'utilizzo dei dati a posteriori (tutti i dati, anche quelli video) potrà essere praticamente infinito. Utilizzo "ad ogni fine, connesso al rapporto di lavoro", si legge nella relazione illustrativa al decreto. "Purché sia data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità d'uso degli strumenti e l'effettuazione dei controlli, sempre comunque nel rispetto del Codice della privacy". Un rispetto che ora i sindacati, uniti e furiosi, mettono in dubbio. Come anticipato da Repubblica, la norma non poteva non sollevare un polverone. "Siamo al colpo di mano", denuncia Serena Sorrentino, segretario confederale Cgil, che parla di "arretramento pesante" rispetto allo Statuto dei lavoratori (il cui articolo 4 in materia di controlli a distanza viene aggiornato). "Non solo daremo battaglia in Parlamento", annuncia. Ma "verificheremo anche con il Garante della privacy se ciò si può consentire". Anche la Cisl chiede una riscrittura del testo. "Così com'è non va bene, va cambiato, perché è attraverso la contrattazione sui luoghi di lavoro che si devono gestire questi aspetti così delicati per la vita di un lavoratore, ma anche per l'azienda", commenta Annamaria Furlan, segretario generale Cisl, in linea con le posizioni della Uil. Si allarma anche Cesare Damiano, presidente pd della commissione Lavoro della Camera: "Non bisogna far rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta. La delega prevede un controllo sugli impianti e non sulle persone. Buon senso vorrebbe che il governo, com'è avvenuto nel passato, affidasse questa regolazione alla contrattazione delle parti sociali. E soltanto nel caso di mancata intesa, far intervenire la legge". La norma tra l'altro non vale per gli statali, altra benzina sul fuoco delle polemiche. "Il Grande fratello è nelle cose, già oggi", commenta il giuslavorista e senatore pd Pietro Ichino a Radio24 . "I controlli a distanza sono stati inseriti nel 1970, nello Statuto dei lavoratori, ma con l'obbligo di negoziazione. Mezzo secolo dopo, passare da accordi con i sindacati vorrebbe dire non fare una rete Internet aziendale oppure le auto con il gps o rinunciare a dotare i lavoratori del cellulare". Il dibattito è aperto. Il decreto sulle Semplificazioni, con la norma incriminata (l'articolo 23), dovrà ora essere esaminato dalla commissioni parlamentari, le cui raccomandazioni potrebbero o meno essere accolte dal governo (con altri decreti del Jobs Act, però, è successo). Giustizia: Jobs Act; spiati pc e telefonini, la Cgil pronta alla lotta Il Garantista, 18 giugno 2015 Il controllo aziendale attraverso Pc o telefonini forniti dall'impresa ai dipendenti è possibile senza il via libera delle organizzazioni sindacali. Lo prevede uno dei decreti attuativi del Jobs Act, come si legge in una relazione illustrativa inviata dal governo alla commissione Lavoro della Camera. Sul tema l'associazione giuslavoristi italiani ha organizzato per venerdì e sabato prossimi un convegno dal titolo "Lavori e diritti dopo il Jobs Act" al quale parteciperanno tra gli altri il ministero del Lavoro Giuliano Poletti, quello della Giustizia Andrea Orlando e il presidente Inps Tito Boeri. Il convegno sarà presieduto dal presidente Agi Aldo Bottini, dal vicepresidente Vincenzo Martino e dal presidente lombardo Andrea Stanchi. "L'accordo sindacale o l'autorizzazione ministeriale non sono necessari per l'assegnazione ai lavoratori degli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa, pur se dagli stessi derivi anche la possibilità di un controllo a distanza del lavoratore", spiega la relazione. Il decreto prevede inoltre che i dati ricavati dal controllo "siano utilizzati ad ogni fine connesso al rapporto di lavoro, purché sia data al lavoratore adeguata informazione circa la modalità d' uso degli strumenti e l'effettuazione dei controlli, sempre, comunque, nel rispetto del Codice della privacy". Per le imprese non sono necessari accordi con i sindacati aziendali, ma con "le associazioni sindacali comporativamente più rappresentative sul piano nazionale" e, in assenza di tale accordo, l'autorizzazione al controllo può essere data dal Ministero del Lavoro. "Il decreto attuativo del Jobs Act sulla conciliazione vita-lavoro che entrerà in vigore da fine giugno non contribuisce in alcun modo ad aiutare chi è iscritto alla Gestione separata dell'Inps, non potendo accedere concretamente alle agevolazioni previste per il lavoratore dipendente in caso di maternità, malattia o assistenza a un famigliare disabile". Lo dichiara Federica De Pasquale, vicepresidente di Confassociazioni con delega alle pari opportunità. "Auspicavamo maggiore coraggio da parte del Governo nei confronti del mondo delle partite Iva che rappresentiamo - prosegue De Pasquale - ma, ancora una volta, dobbiamo prendere atto che si continuano a discriminare i professionisti e i lavoratori autonomi anche quando si parla di famiglia e di diritto alla maternità. Pur avendo esteso l'erogazione dell'indennità anche ai lavoratori e alle lavoratrici iscritti alla gestione separata, per questa categoria di mamme e di papà nei fatti non cambia nulla, permanendo l'assurdo vincolo di astenersi dall'attività lavorativa per tutto il periodo in cui si usufruirebbe del congedo". "Sia chiaro - puntualizza De Pasquale - non è obbligatorio, ma lo diventa perché a questa astensione è subordinato il pagamento dell'indennità. Ancora una finta agevolazione per la nostra categoria visto che le professioniste iscritte alla gestione separata possono accedere all' indennità di maternità a condizione che l'astensione effettiva dall' attività lavorativa sia attestata da apposita dichiarazione". Giustizia: reato di falso in bilancio, il giallo del buco nella nuova normativa di Silvia Barocci Il Messaggero, 18 giugno 2015 Il "giallo" sarà risolto solo dopo che la Cassazione avrà scritto e depositato le motivazioni della sentenza che ha annullato la condanna per bancarotta a 6 anni e 9 mesi del sondaggista Luigi Crespi. Il dubbio è che quel verdetto possa essere la (paradossale) conseguenza dell'entrata in vigore delle nuove norme sul falso in bilancio varate dal governo Renzi per una più incisiva lotta alla corruzione. Perché è vero che il reato di false comunicazioni sociali, depenalizzato nel 2002, è stato ora inasprito, facendo lievitare le pene fino a otto anni di carcere, ma secondo una ricostruzione del Corriere della Sera la nuova norma si limiterebbe a punire "fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero" e non più anche le "valutazioni". Se così fosse, molti processi in corso, come quello a carico di Crespi, riconducibili ai falsi in bilancio per valutazioni, rischierebbero di finire al macero. Il condizionale è però d'obbligo, perché sul punto i giuristi si dividono: magistrati come Francesco Greco e Raffaele Cantone, sentiti in Commissione Giustizia nel corso dei lavori parlamentari, sembrerebbero escludere un'ipotesi così catastrofica. Tutti ripetono che bisogna attendere le motivazioni della Cassazione. Nel frattempo, però, la politica si divide. Il primo a lanciare l'allarme sul "buco pazzesco" è l'ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, che chiede al governo di correre ai ripari con una "correzione urgente" della nuova normativa. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, invita alla cautela: "La Cassazione interviene su un caso specifico. È vero che l'area di punibilità è stata estesa ma senza leggere le motivazioni non è possibile capirne la portata". Nessun intervento correttivo, dunque, fintanto che la Suprema Corte non metterà nero su bianco il perché la condanna di Crespi sia stata annullata. Per ragioni (politiche) assai diverse, grillini e forzisti si trovano uniti nel contestare la riformulazione del falso in bilancio del governo Renzi per lunghi mesi oggetto di un difficile confronto tra i ministeri della Giustizia, dello Sviluppo Economico e dell'Economia. L'ex sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo (Fi), rammenta di essere stato inascoltato quando il Senato bocciò l'emendamento per reintrodurre l'inciso "ancorché oggetto di valutazioni" che il governo aveva cancellato. Identica la denuncia di Roberto Fico (M5S). C'è da dire, tuttavia, che un simile rischio non fu segnalato né dal Consiglio superiore della magistratura né da magistrati esperti in reati economici ascoltati in Parlamento. Tra essi anche il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco che aveva formulato "un giudizio complessivamente positivo" sulla nuova norma. E aveva aggiunto: "Ci sono sicuramente alcuni problemi ma penso siano superabili con l'interpretazione. La nozione di "fatti" era contenuta nel codice nella dizione del 1942. Eppure già allora, e per tutta l'elaborazione che c'era stata successivamente, la dottrina più avveduta non aveva dubbi sulla circostanza che l'interpretazione sistematicamente corretta del riferimento ai fatti come oggetto di falsità autorizzasse comunque a comprendere anche le componenti valutative. Ritengo che, in base alla giurisprudenza e anche alla dottrina che si sono sedimentate sul falso in bilancio dal 1942 a oggi, questo problema, in realtà, non dovrebbe sussistere". Falso in bilancio, è subito caos (Italia Oggi) Entra in vigore il falso in bilancio ed è subito caos. Dopo la pronuncia della Corte di cassazione con cui i supremi giudici hanno annullato una condanna di 6 anni e 9 mesi per bancarotta dando applicazione alle nuove disposizioni, in parlamento lo scontro è stato immediato. Per i più, infatti, la nuova norma è ulteriormente depotenziata rispetto alla precedente. E mentre per il Movimento 5 stelle e Forza Italia la pronuncia della Corte è una vera e propria bocciatura della riforma, la presidente della Commissione giustizia della camera, Donatella Ferranti (Pd), invita alla cautela. "Prima di lanciare allarmi, meglio sarebbe attendere e leggere le motivazioni della sentenza ancora non depositata". Ad avviso della presidente, infatti, "per una nuova riforma occorre un periodo di rodaggio giurisprudenziale. Occorre cioè che la giurisprudenza si assesti tenendo conto dei lavori parlamentari dai quali emerge in modo esplicito che nei fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero che costituiscono il falso in bilancio non possono non rientrare anche alterazioni di natura valutativa". Sulla stessa lunghezza d'onda anche David Ermini (Pd), membro della seconda commissione della camera, che ha spiegato come, "nella dei lavori parlamentari è scritto la semplice lettura delle disposizioni del codice civile, degli articoli 2.423 e seguenti, che fissano i parametri fondamentali per la redazione del bilancio, dello stato patrimoniale e del conto economico, chiarisce che tutte le voci e poste importano la traduzione, in grandezze convenzionali, di elementi necessariamente fattuali". Oggetto del contendere la frase, eliminata dalla versione definitiva della disposizione, "ancorché oggetto di valutazioni". Il venire meno di questa espressione lascia, infatti, spazio ai casi più elaborati di falso in bilancio. Nei reati tributari contestabile il metodo mafioso, anche se colposo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 17 giugno 2015 n. 25353. Nei reati tributari l'aggravante del metodo mafioso può essere contestata anche a titolo di colpa a prescindere dal fatto che l'imputazione principale sia di carattere doloso. La Cassazione, con la sentenza 25353 , sgombra il campo dall'equivoco che ad un indagato per frode fiscale, e dunque per un reato doloso, non sia possibile contestare anche il favoreggiamento della cosca. Per la Cassazione basta, infatti, che il reo abbia agito al fine di agevolare l'attività dell'associazione criminale per far scattare l'aggravante del metodo mafioso che, avendo natura oggettiva può pesare a suo carico non solo quando questa gli era nota ma anche se la ignorava per colpa o la riteneva "inesistente per errore determinato da colpa". Per evitare dunque che la pena lieviti da un terzo alla metà, come previsto dall'articolo 7 del Dl 152/1991 che detta le norme di contrasto alla criminalità organizzata, non basta che non sia provata la piena consapevolezza degli affari del clan. Nel caso esaminato il ricorrente, titolare di una stazione di servizio, aveva fatto ricorso contro l'ordinanza di sequestro preventivo della ditta individuale e dei beni che formavano il patrimonio dell'azienda. Alla base della misura l'accusa di frode fiscale e di riciclaggio. La prima giustificata da un giro di fatture per inesistenti operazioni di compravendita di carburante, la seconda relativa al riciclaggio, era supportata da uno scambio tra denaro pulito e assegni sporchi, frutto di reati vari: dall'estorsione attraverso il pagamento del "pizzo", al contrabbando, al traffico di droga. Per entrambi i delitti era scattata l'aggravante del metodo mafioso perché il ricorrente era accusato di aver agito per procurare liquidità alla famiglia mafiosa a cui facevano capo le ditte con le quali erano avvenute le operazioni fantasma e il "lavaggio" degli assegni. Non passa dunque la tesi della difesa secondo la quale per l'aggravante del metodo mafioso è necessario dimostrare che le azioni siano strumentali e volutamente dirette a fornire un supporto alla cosca. Concordati e cessione di asset anche in concorrenza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2015 Riforma del concordato preventivo, istituzione di una procedura di ristrutturazione del debito in caso di forte esposizione con le banche, disciplina dell'afflusso di nuova finanza all'impresa in crisi, revocatoria con pignoramento anticipato e revisione delle norme sui curatori. E questa è la sola parte diritto fallimentare. Che però non esaurisce i contenuti del decreto legge in materia di giustizia civile che sta prendendo forma in vista della presentazione in Consiglio dei ministri. Nel testo infatti potrebbero confluire anche misure sull'esecuzione, sul processo telematico e l'accesso in magistratura. E, ultimo ma non in ordine di importanza, la concessione di un credito d'imposta per incentivare negoziazioni e arbitrati. Nel segno della concorrenza le modifiche alla legge fallimentare su offerte e piani. Per le prime, il giudice, quando il piano di concordato prevede un'offerta da parte di un soggetto già individuato sull'azienda intera o su asset di questa, può decidere per l'apertura di un "procedimento competitivo" con la presentazione di offerte concorrente in grado di meglio soddisfare i creditori. Per i secondi, si prevede la possibilità per i creditori, che rappresentino almeno il 10% dei crediti, di presentare una proposta di concordato preventivo alternativa a quella dell'imprenditore. A prevalere sarà poi la proposta in grado din strappare il consenso della maggioranza dei crediti (non dei creditori); in caso di parità, a prevalere sarà quella del debitore. L'afflusso di finanza in una fase nella quale l'impresa è in crisi, ma non ancora irreversibile, sarà reso possibile a favore del debitore che presenta domanda di ammissione al concordato preventivo, anche in assenza di piano, domanda di omologazione di accordo di ristrutturazione del debito. La richiesta di finanziamenti, che saranno assistiti dal beneficio della prededuzione, dovrà essere presentata al tribunale, chiarendo la necessità dei finanziamenti stessi alla prosecuzione dell'attività d'impresa, la loro destinazione e la dichiarazione che l'imprenditore non è in grado di trovare in altro modo i mezzi necessari. In campo viene messo poi un inedito accordo di ristrutturazione quando un'impresa ha debito nei confronti di banche e intermediari finanziari in misura non inferiore alla metà dell'indebitamento complessivo. I crediti di banche e intermediari vengono inseriti in una categoria specifica. Via libera poi a un'azione revocatoria semplificata per gli atti a titolo gratuito. Il creditore potrà procedere a esecuzione forzata anche prima di avare ottenuto una sentenza dichiarativa di inefficacia dell'atto sospetto, a patto che il precedente pignoramento sia stato trascritto entro un anno dalla data in cui l'atto stesso è stato compiuto. Per quanto riguarda i curatori, la bozza di decreto estende da 2 a 5 anni la finestra di tempo sensibile ai fini della rilevazione del conflitto d'interessi come pure esclude che possa essere nominato curatore chi ha svolto la funzione di commissario giudiziale in una procedura di concordato per il medesimo debitore. Il giudice, nella sentenza di dichiarazione del fallimento, dovrà dare conto dell'assenza di conflitti facendo riferimento, eventualmente, anche alle indicazioni dei creditori formulate nel corso del procedimento antecedente. Viene infine istituito un Registro nazionale nel quale confluiranno i provvedimenti di nomina. Niente ricettazione per il direttore che pubblica scatti "rubati" se non c'è vantaggio diretto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2015 Al direttore del settimanale che acquista e pubblica gli scatti "rubati" dell'ex premier Silvio Berlusconi a Villa Certosa in compagnia di giovani ospiti, non può essere contestato il reato di ricettazione se manca la prova di un vantaggio economico o di carriera. La Cassazione (sentenza 25363 ) annulla la condanna della Corte d'Appello e rinvia per un nuovo giudizio. I giudici trovano fondato il rilevo del difensore Caterina Malavenda, secondo la quale per sostenere l'accusa di ricettazione non basta individuare l'elemento del profitto - necessario per configurare il reato insieme alla consapevolezza - nel presunto aumento delle vendite per effetto dello scoop. E se il fine di lucro non può essere l'incremento della tiratura manca un tassello. Ammesso che il direttore fosse consapevole della provenienza delittuosa degli scatti, sarà necessario dimostrare che da quelli ha tratto, per sé o/e per l'editore un vantaggio almeno nella carriera se non patrimoniale. Ma così non sembra, visto che il ricorrente non fece passi avanti nell'organico aziendale e lasciò la direzione un anno dopo lo scoop. La Cassazione ha comunque ribadito il carattere illecito delle foto scattate in una privata dimora e ricorrendo a mezzi "invasivi" come il teleobiettivo e il Photoshop a dimostrazione che le immagini "captate" non sarebbero state visibili all'occhio umano. La Suprema corte bolla come paradossale l'argomento degli atteggiamenti privi di riserbo comportamentale" da parte delle persone fotografate, interpretati come una sorta di via libera alla violazione della privacy. La Cassazione chiarisce però che il diritto va rispettato a prescindere da come lo esercita il suo titolare. Sì alla revisione della patente anche senza violazione del codice di Tiziana Krasna Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2015 La revisione della patente non ha finalità sanzionatorie o punitive e può ricollegarsi non solo a una violazione delle norme sul traffico o di quelle penali o civili, ma a qualunque episodio (si ribadisce, non necessariamente una violazione) che giustifichi un ragionevole dubbio sulla persistenza dell'idoneità psico-fisica o tecnica dell'interessato. Una misura di tipo precauzionale, dunque, ove sussistano dei dubbi sul permanere della capacità di guida dell'interessato (nella specie disposta in modo non irragionevole, considerato che il ricorrente per sua stessa ammissione aveva investito un soggetto mentre attraversava le strisce pedonali). Con sentenza 12.06.2015, n. 283, la sezione I del Tar Friuli Venezia Giulia ha rammentato che ai sensi dell'articolo 128 del codice della strada "Gli uffici competenti del Dipartimento per i trasporti terrestri, nonché il prefetto nei casi previsti dagli articoli 186 e 187, possono disporre che siano sottoposti a visita medica presso la commissione medica locale di cui all'articolo 119, comma 4, o ad esame di idoneità i titolari di patente di guida qualora sorgano dubbi sulla persistenza nei medesimi dei requisiti fisici e psichici prescritti o dell'idoneità tecnica". L'articolo 128 ter del codice della strada, afferma che "È sempre disposta la revisione della patente di guida di cui al comma 1 quando il conducente sia stato coinvolto in un incidente stradale se ha determinato lesioni gravi alle persone e a suo carico sia stata contestata la violazione di una delle disposizioni del presente codice da cui consegue l'applicazione della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida". La giurisprudenza amministrativa ha più volte chiarito che il presupposto che legittima la revisione della patente di guida risiede, ai sensi dell'articolo 128, comma 1, del Codice della Strada (Dlgs n. 285 del 1992), nell'insorgenza di dubbi sulla persistenza, nel titolare, dei requisiti fisici e psichici o della idoneità tecnica; ciò che legittima l'Autorità competente a disporre la revisione della patente di guida non è quindi rappresentato dalla certezza della responsabilità del conducente, bensì dal dubbio, ingenerato dalla dinamica di un sinistro ovvero dalla complessiva condotta di guida tenuta, sulla persistenza dei requisiti psico-fisici ovvero dell'idoneità tecnica (di recente Consiglio di Stato, sezione IV, n. 2430 del 2013). In tale quadro si è anche precisato che tale provvedimento, a differenza di quello assunto ai sensi dell'articolo 126-bis del Dlgs n. 285 del 1992, non ha finalità sanzionatorie o punitive e non presuppone l'accertamento di una violazione delle norme sul traffico o di quelle penali o civili, ma è - per l'appunto - adottato in dipendenza di qualunque episodio che giustifichi un ragionevole dubbio sulla persistenza dell'idoneità psico-fisica o tecnica (Consiglio di Stato, sezione IV, n. 4962 del 2011; Tar Piemonte, sezione II, n. 270 del 2014). In altri termini, come statuito in modo conforme da una costante e condivisa giurisprudenza, la revisione della patente non costituisce una sanzione ma una misura di tipo precauzionale ove sussistano dei dubbi sul permanere della capacità di guida dell'interessato. Nella specie, il ricorrente contestava la revisione della patente disposta dall'autorità competente, ancorché per sua stessa ammissione avesse investito un soggetto mentre attraversava le strisce pedonali. Lettere: quel lessico smemorato, lasciamo i topi dove sono di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 18 giugno 2015 "Uomini e topi" è il titolo di un meraviglioso romanzo di John Steinbeck. L'accostamento tra "topi" e "clandestini", anche se poi corretto, mitigato, attenuato da Beppe Grillo, è invece il lascito più pericoloso di un'abitudine che in passato ha provocato solo lutti, rovine, persecuzioni. La bestializzazione dell'umanità è l'antefatto del trattamento disumano da riservare a esseri umani ridotti al ruolo di bestie immonde. Per i nazisti gli ebrei erano sotto-uomini molesti e pericolosi: da sterminare. Non era concessa nessuna pietà, così come il derattizzatore non ha pietà quando allestisce trappole per i topi invasori. Relegare interi gruppi umani allo stato di insetti, scarafaggi, topi è la premessa della peggiore barbarie conosciuta dalla storia. È un'esagerazione? Un eccesso allarmistico. No, perché l'orrore è una catena che parte da un anello all'apparenza innocuo per poi ingigantire in un'arma micidiale a disposizione degli apologeti dello sterminio. Accostare un clandestino a un topo familiarizza una parte dell'opinione pubblica con la necessità di una politica che smarrisca ogni parvenza di umanità. I diritti umani si chiamano così perché presuppongono un fondo di intangibile umanità che non può essere manomesso da chi è capace di trattare gli esseri umani come animali. L'emergenza in cui Roma sprofonda nella spazzatura non c'entra: c'entra l'incuria della politica. Nemmeno il dramma degli immigrati clandestini, gestita in modo demenziale dell'Europa, c'entra. C'entra l'uso di un lessico dinamitardo, irresponsabile, smemorato. Che evoca lo spettro dell'umiliazione degli esseri umani, anche al di là delle intenzioni di chi ha pronunciato una frase di cui subito, viste le reazioni, si è pentito. E quindi l'allarme è giustificato. I topi lasciamoli dove sono. E cerchiamo di rendere pulite le città e Roma in particolare perché non crescano nella sporcizia. La bestializzazione delle persone, dei bambini, delle vittime deboli e disperate no, non può passare inosservata e sotto silenzio. Uomini, non topi. Lettere: i magistrati nella società che nasconde il disagio mentale di Francesco Cananzi (membro del Csm) La Repubblica, 18 giugno 2015 Il tema del disagio mentale, della chiusura dei manicomi prima e degli ospedali psichiatrici giudiziari oggi, richiede una riflessione sul ruolo della magistratura. Argomento più che mai attuale perché oggi dalle 9 alle 14, presso l'istituto Leonardo Bianchi a Calata Capodichino 230, si svolge la prima conferenza cittadina di servizi sulla salute mentale (introduce l'assessore al Welfare Roberta Gaeta, modera Stella Cervasio di "Repubblica"). La Costituzione attribuisce alla magistratura un ruolo politicamente significativo, lì dove politicamente non vuol dire ideologicamente: al giudice è affidato il compito di dare attuazione concreta ai valori fondanti la convivenza civile. Mentre il legislatore "fa" il diritto, al giudice spetta la declinazione della norma nel caso di specie, operando il confronto con i principi costituzionali. La nostra Costituzione assegna al giudice il compito di affermare - in ogni caso concreto - la dignità della persona, i diritti fondamentali dell'uomo, prima ancora che del cittadino. Il magistrato è dunque il ponte fra la legge e l'individuo: il giudice ha il compito di dire giustizia di fronte alla situazione reale. In questo, il suo atto è intrinsecamente politico. Quando la situazione concreta nella quale dire giustizia ha a che fare con la fragilità, con la debolezza della persona, con la disabilità o la follia, il giudice ha un compito ancora più grave, delicato. Di fronte alla fragilità ed alla debolezza, la magistratura deve allora raccogliere la sfida di non cadere nel tabù dell'imperfezione. L'uomo del post-umano è vittima del tabù della morte e della malattia: se la perfezione è il modello da perseguire, ciò che non la rispecchia va messo da parte, i pezzi dell'uomo vanno sostituiti, ciò che non è governabile, sostituibile o riparabile, come la mente umana, deve essere oggetto di nascondimento. Basaglia, e la legge che da lui prende nome, con la chiusura dei manicomi scoperchia la pentola della malattia, la getta in faccia alla società, pone la persona malata al centro, compiendo un atto tre volte terapeutico. Una prima volta per il malato, liberandolo dall'isolamento, trascinandolo dalla segregazione al centro della socialità. Una seconda volta per le istituzioni e per la società, chiamate a confrontarsi con la debolezza e la fragilità e ad accettarne l'esistenza, senza nasconderla. Una terza per la magistratura, richiamata ai suoi compiti di riconoscimento dei diritti della persona. Il confronto con i diritti negati sollecita la magistratura ad essere funzione di progresso - quella del dire giustizia - respingendo la tentazione del ripiegarsi su se stessa, in logiche, anche indotte dall'esterno, che rischiano di trasformarne la funzione in formale e burocratica. Occorre fare attenzione quando una società estrania chi è debole. Hanna Arendt, ricostruendo le cause dei totalitarismi, dice dell'estraniazione come della condizione di chi viene sradicato, è considerato superfluo, non ha un posto riconosciuto e garantito altri nella comunità. È quello che rischia di accadere, oltre che per i malati di mente, anche per i detenuti: per questo, il carcere deve essere visibile, al centro delle città, perché la comunità civile non dimentichi che parte di sé vive tra quelle mura. Il superamento del manicomio ed ora dell'ospedale psichiatrico giudiziario è atto di profondo spirito costituzionale. Le difficoltà conseguenti certamente non possono essere nascoste e non devono ricadere sulle famiglie. Pertanto, è necessario attivare percorsi che coinvolgano tutti i soggetti chiamati ad avere cura del malato mentale: magistrati, operatori sanitari e sociali, amministrazione regionale e comunale. È altresì necessario che si superi il dualismo oppositivo fra diritto (e diritti) ed economia, guardando anche in termini economici non solo ai costi della spesa pubblica, ma anche ai costi sociali che l'assenza di Stato sociale produce. Lettere: quando e perché le norme-manifesto non aiutano la giustizia di Renato Balduzzi Avvenire, 18 giugno 2015 Il caso è di quelli che possono considerarsi di scuola: la recente legge sul falso in bilancio, nonostante sia stata presentata come il riallineamento del nostro ordinamento a standard etici e giuridici più severi e corretti nelle comunicazioni societarie, in realtà (stando almeno a una recentissima decisione della Cassazione) lascerebbe impuniti i comportamenti più frequenti e subdoli di falso in bilancio, cioè quelli diversi dalla mera esposizione di "fatti materiali" non rispondenti al vero (o dall'omissione dei medesimi, ove rilevanti) e consistenti invece in stime o valutazioni irrealistiche o palesemente scorrette secondo i comuni e condivisi criteri e princìpi contabili. Questo sarebbe accaduto a causa della soppressione, da parte di due emendamenti governativi nella fase finale di approvazione della norma, dell'inciso (riferito ai fatti materiali) "ancorché oggetto di valutazione", con la conseguenza di far escludere il rilievo penale dei fatti oggetto di valutazioni alterate. E questa situazione riguarderebbe non soltanto le società non quotate in Borsa, ma anche quelle quotate. Va poi detto che taluni commentatori (penso soprattutto a Luigi Ferrarella sul "Corriere") avevano per tempo segnalato l'effetto boomerang della modifica della fattispecie incriminatrice e che lo stesso Consiglio superiore della magistratura aveva, in sede di parere sulle modifiche al codice penale, sottolineato la debolezza tecnica di alcune previsioni poi confluite nella legge. In questa situazione, diventa immediato riandare con la memoria alle celebri gride manzoniane, con l'aggravante che nel nostro caso vengono in rilievo fenomeni purtroppo talvolta presenti quali la frettolosità e l'autoreferenzialità del procedimento legislativo. Difficile anche non pensare alle conseguenze negative per il sistema Paese ove tale interpretazione venga confermata come l'unica possibile, ancorché comporti l'evidente irrazionalità interna della nuova normativa (il legislatore, da una parte, aumenta le pene e ripristina come delitto il falso per le società non quotate; dall'altra, riduce l'ambito dei comportamenti delittuosi): sapere che nel nostro Paese può esser lecito alle società, anche quotate, dichiarare valori anche significativamente sovrastimati o sottostimati non aiuta l'affidamento nei rapporti economici e non incoraggia gli investimenti. Meno giustizia rima con meno competitività. Lombardia: boom di misure alternative; uffici dell'esecuzione penale esterna al collasso Redattore Sociale, 18 giugno 2015 In Lombardia in cinque mesi seguiti 11 mila casi. Gli assistenti sociali sono 90, ne occorrerebbero il doppio. In fila per chiedere di non finire in carcere soprattutto "persone normali", alle prese per la prima volta con la giustizia per reati minimi. C'è il caso dello studente che ha litigato con la fidanzata e per la rabbia ha rotto gli specchietti di alcune auto parcheggiate. Oppure del signore di mezza età che litiga con la moglie, intervengono i carabinieri e finisce per essere denunciato per oltraggio a pubblico ufficiale. O ancora, l'anziano con la pensione minima che ruba qualche scatola di biscotti al supermercato. Negli uffici per l'esecuzione penale esterna (Uepe) della Lombardia ormai passano persone "normali", che mai hanno avuto guai con la giustizia. Solo nei primi cinque mesi del 2015 gli Uepe di Milano, Brescia, Como, Mantova, Varese e Bergamo hanno seguito 11 mila casi, di cui circa 6.500 tra affidamenti in prova al servizio sociale, detenzioni domiciliare, semilibertà, libertà vigilata, messa alla prova e lavori di pubblica utilità. Tutte pene alternative sulle quali il Governo un anno fa ha puntato molto con il cosiddetto decreto svuota carceri. Il problema, però, è che ora gli Uepe sono sommersi di lavoro: gli assistenti sociali in tutto la Lombardia che lavorano in questi uffici sono una novantina, ne occorrerebbero almeno il doppio. A Pavia sono sette, l'organico previsto è di 20. Per questo motivo, Cgil, Cisl e UIl della funzione pubblica e Usb hanno proclamato lo stato di agitazione. Nel 2014 sempre in Lombardia sono stati seguiti circa 13.500 misure alternative e circa 10 mila casi per attività di consulenza e indagine per conto dei tribunali. Prima della concessione di una misura alternativa, infatti, il giudice chiede all'Uepe di preparare un dossier sull'imputato. "Se non riusciamo a fare il nostro lavoro chi ci va di mezzo sono i nostri utenti - aggiunge Floriano Fattizzo, della Rsu dell'Uepe di Milano. E si tratta ormai soprattutto di gente che solo per caso ha a che fare con la giustizia. La nostra sala d'aspetto è sempre piena di avvocati che chiedono di poter avviare per i loro clienti l'affidamento in prova o i lavori di pubblica utilità. Il vantaggio per gli imputati, infatti, è che se il progetto va a buon fine, poi nel loro casellario giudiziario non risulta nulla". Rimangono insomma con la fedina penale pulita. "Le misure alternative sono una cosa molto positiva - aggiunge Fattizzo. Ma metteteci in condizione di lavorare bene". Abruzzo: pubblicato bando Garante persone sottoposte a misure restrittive della libertà abruzzoweb.it, 18 giugno 2015 Il Consiglio Regionale ha proceduto all'Avviso pubblico per la presentazione delle candidature per l'elezione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Il bando è stato pubblicato ieri sul Bura. Ad esultare è l'ex consigliere regionale di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo, essendo sua l'iniziativa politica che portato all'approvazione della Legge regionale 35 del 2011, che introduce questa figura. "In qualità di proponente della legge ringrazio il Presidente del consiglio Giuseppe Di Pangrazio - spiega in una nota Acerbo - per aver mantenuto l'impegno assunto nelle scorse settimane durante la conferenza stampa con Marco Pannella a Teramo". "Nei mesi scorsi come Rifondazione Comunista, insieme ai Radicali e all'Associazione Amnistia Libertà Giustizia, abbiamo più volte sollecitato la Regione a dare attuazione alla legge e segnalato il ritardo ingiustificabile visto che bisognava procedere entro 90 giorni dall'insediamento del Consiglio. Ora si auspica che nello spirito della legge tutte le forze presenti in Consiglio Regionale, esaminati i curricula che perverranno, convergano nell'individuazione di persona competente e appassionata". "Nonostante l'ufficio del Garante dei detenuti - prosegue Acerbo - sia attivo da tempo in tante regioni (Piemonte, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Marche, Puglia, Sicilia, Toscana, Umbria, Valle D'Aosta, Veneto) ci son voluti anni di battaglie in Abruzzo". L'attivazione della figura del Garante rappresenta un contributo concreto da parte della Regione all'attuazione del dettato della Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". La legge assegna all'Ufficio del Garante le seguenti funzioni: assume ogni iniziativa volta ad assicurare che alle persone siano erogate le prestazioni inerenti al diritto alla salute, al miglioramento della qualità della vita, all'istruzione e alla formazione professionale e ogni altra prestazione finalizzata al recupero, alla reintegrazione sociale e all'inserimento nel mondo del lavoro; segnala agli organi regionali eventuali fattori di rischio o di danno per le persone, dei quali venga a conoscenza in qualsiasi forma, su indicazione sia dei soggetti interessati sia di associazioni o organizzazioni non governative che svolgono un'attività inerente a quanto segnalato; interviene nei confronti delle strutture e degli enti regionali in caso di accertate omissioni o inosservanze rispetto a proprie competenze, che compromettano l'erogazione delle prestazioni sanitarie, formazione e reintegrazione, qualora dette omissioni o inosservanze perdurino, propone agli organi regionali titolari della vigilanza su tali strutture ed enti le opportune iniziative, ivi compresi i poteri sostitutivi. E ancora, "propone agli organi regionali gli interventi amministrativi e legislativi da intraprendere per contribuire ad assicurare il pieno rispetto dei diritti delle persone e, su richiesta degli stessi organi, esprime pareri su atti amministrativi e legislativi che possono riguardare anche dette persone; propone agli organi regionali gli interventi amministrativi e legislativi da intraprendere per contribuire ad assicurare il pieno rispetto dei diritti delle persone e, su richiesta degli stessi organi, esprime pareri su atti amministrativi e legislativi che possono riguardare anche dette persone; propone all'assessorato regionale competente iniziative concrete di informazione e promozione culturale sui temi dei diritti e delle garanzie delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". Tra i compiti del Garante c'è anche quello di vigilare sul mondo della psichiatria in quanto tra le persone sottoposte a limitazioni della libertà personale vi sono anche le persone presenti nelle strutture sanitarie in quanto sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio. Macomer (Nu): no al carcere-lager, perplessità sull'ipotesi di ospitare i migranti La Nuova Sardegna, 18 giugno 2015 Se l'ipotesi denunciata dal deputato di Unidos Mauro Pili di utilizzare il carcere di Macomer per accogliere i disperati che scappano da guerre, dittature e persecuzioni dovesse trovare conferma, si porrebbero tutta una serie di problemi, a partire dalla dimensione e dalle caratteristiche della struttura, nata per accogliere detenuti e modificata per garantire la massima sicurezza, non certo per ospitare con dignità chi scappa dall'inferno. A Macomer la notizia, diffusa con un comunicato del parlamentare, è stata accolta con una certa incredulità. Nessuna reazione razzista, semmai perplessità per un tipo di accoglienza che saprebbe di lager. Mauro Pili ha denunciato che "il tutto passa attraverso una comunicazione in codice tra ministeri: liberare entro pochi giorni le strutture carcerarie chiuse di Iglesias e Macomer" e altre carceri. Macomer dovrebbe accogliere da 300 a 400 immigrati in un complesso che aveva una capienza 46 detenuti, uno per cella, mentre la capienza tollerabile era di 92. Perplessità, ma nessun rifiuto anche dal Comune "Siamo sempre stati solidali con tutti e sempre lo saremo - ha scritto in una nota il sindaco Antonio Succu, riteniamo però che la Sardegna debba essere messa in condizioni di fare una sua politica in merito, con specifiche risorse umane e finanziarie e con l'esercizio dei poteri necessari ad affrontare un problema così delicato e complesso in termini umani e organizzativi. Inutile dire che se oggi avessimo uno Stato Sardo costruito per fare il bene di tutti i suoi cittadini, vecchi e nuovi, la situazione sarebbe diversa. Purtroppo, invece, ancora una volta subiamo decisioni imposte da Roma. Ci relazioneremo con il Governo regionale per le strategie di merito, ma è chiaro che la solidarietà va declinata anche in termini di dignità, tanto per le persone da accogliere quanto chi le accoglie. Non vogliamo campi profughi o l'utilizzo inappropriato di strutture come il carcere, per il quale abbiamo altri progetti. Nel Marghine è presente un tessuto di cooperazione sociale di primo livello che può dare un grande contributo, ed eventualmente soluzioni logistiche più appropriate". Sulmona: detenuto in fin di vita, ma il sistema rimanda la decisione; l'appello della figlia globalist.it, 18 giugno 2015 L'appello della figlia di un uomo detenuto nel carcere di Sulmona, ricoverato per male incurabile. La famiglia chiede che possa morire a casa, il magistrato non si pronuncia. Una ragazza di 22 anni, Teresa Tuccillo, ha lanciato un "appello disperato" per suo padre, Gennaro Tuccillo, 56 anni, "attualmente detenuto presso la casa di reclusione di Sulmona e gravemente malato". Il padre, in fin di vita, vorrebbe poter lasciare questa vita tra le mura di casa ma il sistema non risponde e tra un rinvio e l'altro su rischia che la decisione del magistrato arrivi troppo tardi. "Temo che mio padre morirà nelle mani dello Stato, di quello Stato che avrebbe dovuto punirlo per i reati commessi, ma anche curarlo. Perché mio padre è gravemente malato", racconta Teresa, spiegando anche le patologie da cui è affetto l'uomo. "Mio padre non deve stare in carcere - ha spiegato la ragazza - perché non può rimanervi ancora. Lo hanno detto i sanitari della casa di reclusione di Sulmona. Non sono praticabili adeguate cure presso la casa di reclusione e il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, considerato che anche nella rete carceraria, con riferimento alle specifiche patologie, non esistono istituti caratterizzati dalle condizioni atte a rendere compatibile il regime detentivo con lo stato di salute di mio padre, ne ha disposto il trasferimento presso l'Ospedale civile di L'Aquila. Lo hanno detto i medici dell'ospedale civile di Sulmona, che non è in grado di assicurare la dovuta assistenza sanitaria. Lo hanno rappresentato i legali con istanze rivolte all'ufficio di Sorveglianza dell'Aquila di ricovero urgente presso strutture altamente specializzate, nonché con istanze di differimento pena con procedura d'urgenza e, poi, di sospensione della esecuzione della pena. Però, tutte le istanze difensive e tutti i solleciti per la decisione urgentissima rivolti all'ufficio di Sorveglianza dell'Aquila dopo oltre 10 giorni non sono stati ancora decise". "La mancata decisione, nonostante i medici abbiano relazionato al magistrato di sorveglianza che mio padre è a rischio di morte improvvisa a breve termine e che è persino peggiorato. Mio padre, in questo momento, è condannato a morire. Tante volte, seguendo la cronaca - aggiunge la ragazza - in casi simili ho pensato: "se succedesse a me farei l'impossibile, protesterei, mi incatenerei". Adesso che, invece, sono coinvolta io in prima persona, avverto forte il senso di impotenza, il senso di abbandono da parte delle istituzioni". "Questo è un ulteriore tentativo - ha concluso la giovane - affinché sia consentito a mio padre di lasciare il carcere e di curarsi, alleviando i dolori di morte che lo affliggono. Spero che questo mio disperato appello venga raccolto. Voglio solo esprimere pacificamente il mio dolore per evitare che, in futuro, si verifichino altri casi del genere". Genova: Ferdinando Boccia "le guardie mi hanno pestato, poi mi hanno imposto di tacere" di Francesco Lo Dico Il Garantista, 18 giugno 2015 Il giallo di Marassi comincia il 14 aprile a partire dal nero. Nero come le molte sfumature di quel colore inconfondibile che ti lasciano addosso le botte dopo un pestaggio. Neri e tumefatti come gli occhi che si ritrova davanti la psichiatra Silvia Oldrati. Appartengono a Ferdinando Boccia, 36 anni, detenuto nel carcere genovese per precedenti legati alla droga. I modi evasivi dell'uomo, lo sguardo basso, l'aria sofferente di chi avverte un male cane soltanto a respirare, mettono in allerta la dottoressa Oldrati, che subito informa il medico della sezione, Silvano Bertirotti. Boccia viene trasferito d'urgenza in ospedale: il referto recita che sono state riscontrate una "contusione cranica, escoriazioni ed ecchimosi al volto, al braccio, all'addome, al gomito e al dorso. Riferite percosse". Bertirotti scrive una lettera sull'accaduto al direttore del carcere Salvatore Mazzeo. A questo punto, sulla vicenda di Ferdinando Boccia cala un blackout di due settimane: all'interno del carcere si fanno "accertamenti interni". Ma il 24 aprile, quando la notizia di reato arriva in Procura, del pestaggio di Ferdinando non c'è traccia: la versione ufficiale dell'agente di guardia parla di un piccolo bisticcio tra detenuto (che naturalmente ha provocato) e secondino (che naturalmente si è difeso), una bagattella, insomma. Una lite così piccina e trascurabile, che intanto il detenuto è stato mandato in fretta e furia al carcere di Pontedecimo, e ha ritrattato quello che aveva detto al proposito del pestaggio. Che cosa è successo a Ferdinando Boccia? Chi e perché l'ha conciato in quel modo? E perché, se le sue condizioni erano talmente gravi, non una guardia o un medico ha presentato denuncia? Sono tante le domande al quale deve tentare di rispondere il pm Giuseppe Longo. Di tutti i medici che all'indomani della segnalazione di Silvia Oldrati hanno preso parte a una riunione in carcere, tra i quali la "torturatrice" di Bolzaneto Marilena Zaccardi, Giuseppe Papatola, Ilias Zannis e, forse, altri due colleghi, nessuno ha sporto denuncia. Così che i cinque medici finiscono nel registro degli indagati. Ma il pm Longo sospetta un peccato di omissione anche tra gli agenti: sei vengono coinvolti nell'inchiesta perché forse distrattamente non hanno notato i gentili omaggi che i manganelli hanno lasciato impressi sulle ossa di Boccia. Man mano che l'inchiesta procede, viene fuori il verbale del detenuto, che racconta la sua versione dei fatti. Ad aggredirlo sarebbe stato l'agente Dario Pinchera, ancora in servizio anche se era arrestato nel 2007 per aver sparato a due persone che erano coinvolte (ma che erano state assolte) con lui nel lancio di sassi killer da un cavalcavia autostradale. Boccia racconta che Pinchera si era molto piccato perché sollecitato a fornirgli la dose di metadone, che non aveva potuto ricevere secondo le modalità previste perché si stava lavando i denti. Dopo un'accesa discussione, gli agenti lo avrebbero fatto uscire di cella in modo da consentirgli di andare a prendere le medicine al piano inferiore. Ma a quel punto, con un'imboscata sulle scale, Pinchera esce dal buio e gli si avventa addosso con un "manganello sottile che gli ho visto altre volte portare attaccato alla cintola". Ma insieme a lui ci sarebbero stati "altri due poliziotti", di cui ancora non si conosce l'identità, "che mi trattenevano". "Mi ha colpito con uno schiaffo -racconta il detenuto - indossava guanti neri. Ha continuato a colpirmi mentre ero a terra e urlavo: "Aiuto, basta!". Perdevo sangue dalla testa. Sono riuscito a scendere le scale e a raggiungere l'infermeria, ma gli agenti mi hanno impedito di farmi soccorrere. C'erano due infermiere che distribuivano metadone, erano molto spaventate, io urlavo. In una stanza ho visto Don Paolo (il cappellano, ndr), con un detenuto, non può non avermi visto. Mi hanno riportato in cella. Poi è venuta un'altra guardia e mi ha detto: "Facciamo finta che non è successo niente". E Pinchera? La versione dell'agente è del tutto differente. Ma la certezza è che il manganello estensibile che ama portarsi dietro non è regolamentare, e gli viene sequestrato insieme a due bombolette di spray urticante. "Venni contattato da Boccia - racconta la guardia. Mi disse che il medico voleva convincerlo a denunciare qualcosa che non era mai avvenuto". Finiscono indagati cinque medici, per omesso referto, e sei colleghi di Pinchera. "Sono molto amareggiato - dice il direttore del carcere Salvatore Mazzeo - questa vicenda danneggia tutti i nostri sforzi. Chi ha sbagliato deve pagare". "Premesso che nessuno è colpevole fino a condanna definitiva, eventuali responsabili vanno cacciati - dichiara il sindacato Sappe. Questi comportamenti non appartengono al dna della polizia penitenziaria". Con l'equanimità che sempre lo contraddistingue, il leader del Sappe Donato Capece commenta che "la notizia che 11 tra agenti di Polizia Penitenziaria ed altri operatori in servizio nel carcere genovese di Marassi sono stati destinatari di avvisi di garanzia per il presunto pestaggio di un detenuto è certo notizia che colpisce e amareggia. Ma, fermo restando che una persona è colpevole solamente dopo una condanna passata in giudicato, deve essere chiaro che non appartengono certo al dna della Polizia Penitenziaria i gravi comportamenti dei quali sono accusati i poliziotti". "Le guardie in servizio nel carcere di Genova Marassi - ricorda Capece - hanno salvato in tempo la vita nel 2014 a 9 e nel 2013 a 8 detenuti che hanno tentato di togliersi la vita". Sulle scale che mettono in comunicazione i due piani, ossia il luogo del pestaggio, dovrebbero esserci in teoria le telecamere della videosorveglianza. Ma a oggi, pare che non esistano riprese che possano documentare l'accaduto. Comunque sia andata, dev'essere chiaro a tutti che Ferdinando Boccia, però, non si è preso a manganellate da solo. Lucca: Garante dei detenuti, fino al 22 giugno è possibile presentare l'autocandidatura gonews.it, 18 giugno 2015 C'è ancora tempo fino al 22 giugno per presentare l'autocandidatura e partecipare all'avviso per ricoprire il ruolo di Garante dei Detenuti del Comune di Lucca. Tale figura è stata istituita a seguito di una specifica delibera del Consiglio Comunale (n.14 del 24/03/2015) con la quale è stato appositamente modificato lo Statuto Comunale. Potranno presentare la propria candidatura tutti i soggetti che abbiano raggiunto il diciottesimo anno di età. Le candidature dovranno pervenire al Protocollo del Comune di Lucca entro e non oltre le ore 13 di lunedì 22 giugno 2015 corredate da lettera di presentazione contenente le motivazioni a sostegno della candidatura e un curriculum vitae indicante l'esperienza nel campo della tutela dei diritti umani, delle scienze giuridiche e sociali, nonché le capacità di esercitare efficacemente le funzioni richieste. Le domande dovranno essere consegnate a mano inviate con raccomandata A/R al Protocollo Generale del Comune di Lucca in via S. Giustina n.6 (lunedì, mercoledì e venerdì dalle ore 8.45 alle 13.15; martedì e giovedì dalle ore 8.45 alle 17.15), oppure via pec all'indirizzo comune.lucca@postacert.toscana.it. In tutti i casi si richiede di indicare sulla busta o nell'oggetto della PEC che si tratta della candidatura alla nomina del Garante dei Detenuti. Per maggiori informazioni sull'avviso è possibile consultare il sito internet del Comune di Lucca (comune.lucca.it). La giunta municipale, con apposita delibera del dicembre 2014, aveva dato avvio al percorso per istituire la figura del Garante dei Detenuti scopo di permettere la partecipazione alla vita civile e di migliorare le condizioni di vita delle persone private della libertà personale. Tutto ciò si muove nella direzione di dare, ad esempio, la possibilità di istruzione e formazione ai detenuti al fine di un reinserimento nel mondo del lavoro a fine pena. Un atto che esprime la volontà di garantire le dignità di tutte quelle persone che per un momento della loro vita si trovano limitate nelle proprie libertà. Il Garante dovrà promuovere una cultura dell'umanizzazione della pena anche mediante iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani fondamentali, operando di intesa con le altre istituzioni pubbliche per la fruizione di tutti i diritti delle persone detenute e limitate nelle libertà personale. Secondo quanto previsto dallo Statuto Comunale (art. 15) il Garante dei diritti dei Detenuti viene eletto - a scrutinio segreto - dal Consiglio Comunale, dura in carica 3 anni ed è rieleggibile per una sola volta. Trani (Bat): oggi il convegno su "Competenze Lavoro Vita", presso il Museo Diocesano andrialive.it, 18 giugno 2015 Si discuterà del reinserimento delle detenute fine-pena nel contesto familiare, sociale e lavorativo. La Camera penale di Trani, insieme con il Centro di Orientamento "Don Bosco" di Andria e con l'Associazione degli Avvocati Andriesi, promuove giovedì 18 giugno, alle ore 18,30 un convegno imperniato sulla triade "Competenze Lavoro Vita", con particolare riferimento alle misure alternative alla detenzione. L'incontro, che si svolgerà presso il Museo Diocesano, in Via De Anellis, conclude il Progetto Europeo I.S.I. (Inmates Social Inclusion), condotto dal Centro "don Bosco" all'interno della Casa di Reclusione Femminile di Trani e finalizzato al reinserimento delle detenute fine-pena nel contesto familiare, sociale e lavorativo. In tale circostanza sarà presentato l'opuscolo "L'Abc per l'inclusione sociale", che costituisce il prodotto finale del progetto. Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Trani ha riconosciuto 2 crediti formativi (per ciascuna ora di effettiva partecipazione all'evento, materia "Diritto e procedura penale") a coloro che si iscriveranno nell'apposita sezione del sito. All'incontro prenderanno parte: Nicola Giorgino Sindaco di Andria, Giuseppe Martone provveditore amministrazione penitenziaria regionale. Interventi di Rosa del Giudice, Presidente del Centro di Orientamento "Don Bosco"; Bruna Piarulli, Dirigente Istituti penitenziari di Trani; Elisabetta Pellegrini Responsabile area pedagogica Carceri di Trani; Giuseppe Losappio, presidente della Camera penale di Trani; Francesco Di Marzio Responsabile Carceri della Camera Penale di Trani; Luciano Lopopolo direttore dell'Accademia Effedi; Agnese Calandrino Presidente della Cooperativa sociale "Trifoglio" ed Elisabetta Brattoli, Referente del Progetto Europeo I.S.I. Verona: Baudelaire in carcere, il teatro come nuova libertà. In scena "Spleen 3rd section" L'Arena di Verona, 18 giugno 2015 Gli attori sono i detenuti del progetto "Bagliori ai margini". La regia è di Renato Perina. Oggi alle 16,30 si conclude con la messa in scena di Spleen 3rd section di Charles Baudelaire, il laboratorio teatrale "Bagliori ai margini", tenuto da Renato Perina e realizzato nella Casa Circondariale di Montorio nel periodo tra novembre 2014 e giugno 2015. Il progetto teatrale, gestito e finanziato attraverso il 5x1000 dalle Acli Provinciali di Verona con il prezioso supporto della "Garante dei diritti delle persone private della libertà personale" Margherita Forestan, ha visto coinvolti, in questo secondo anno di replica, attori/detenuti della terza sezione che, in quest'occasione, all'interno della struttura penitenziaria, metteranno in scena la rappresentazione alla quale potranno assistere gli altri detenuti (l'accesso al pubblico non è previsto). L'esperienza, che si traduce in un percorso che intende intrecciare la particolare dimensione umana della detenzione con la pratica teatrale promuovendo l'ispirazione creativa e drammaturgica dei detenuti, rappresenta un ulteriore strumento per la rieducazione al fine di evitare la recidiva. Diretti da Renato Perina, con immagini a cura di Lara Perbellini, Stefano Zampini e lo stesso regista, saranno in scena Odair Massola, Vincenzo Manduca, Hector Gustavo Jimenez Chimborazo, Càtàlin Popescu Grigore, Kurt Haller, Roberto Stropparo, Gray Gerelle Lamarcus, Daniele Scarpa. Benevento: a Capodimonte Solot e Motus hanno "trasformato" in attori 35 detenuti di Stefania Repola Il Mattino, 18 giugno 2015 Oltre i "Limiti" delle sbarre parole e gesti di libertà. A Capodimonte Solot e Motus hanno "trasformato" in attori 35 detenuti. Superare i propri limiti si può ed uno degli strumenti per farlo è senza dubbio il teatro. L'hanno dimostrato la Compagnia Stabile di Benevento Solot e l'associazione culturale Motus che insieme ieri hanno dato vita ad uno spettacolo teatrale che si è svolto nella palestra della Casa circondariale di Benevento. Attori protagonisti 35 detenuti (uomini e donne) che con grande impegno per sei mesi si son preparati portando in scena uno spettacolo di forte impatto, carico di emozione. Attori per la prima volta che hanno "raccontato il loro percorso incentrato sul limite, sulla ridefinizione della propria identità, del proprio spazio, della propria libertà". Così i detenuti hanno potuto assaporare il senso di libertà attraverso l'immaginazione immedesimandosi in ruoli e storie. E proprio le loro storie e i loro vissuti saranno poi raccontati, tramite il blog "Senza Cravatta". Il progetto è denominato appunto "Limiti" ed è finanziato nell'ambito del piano di Azione Coesione "Giovani no profit" dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale. Ad arricchire lo spettacolo, l'esibizione di Martina Giammarini, una ballerina sorda che con la sua danza ha commosso la platea dimostrando ancora una volta che seppur dinanzi alle difficoltà, passione e impegno possono superare ogni ostacolo. Nel caso dei detenuti questi due ingredienti possono aiutare a superare le barriere e proiettarsi in un "altrove" dove ricominciare è possibile. Lo spettacolo itinerante si è svolto in tre momenti scanditi perfettamente dagli attori che si sono susseguiti con grande professionalità. E proprio di professionalità degli organizzatori ha parlato la direttrice del carcere Maria Luisa Palma ricordando la potenza e la magia del teatro, "che è riuscito - ha detto - ad avvicinare persone che hanno un vissuto molto difficile, lontano da questo tipo di esperienze. Solot e Modus - ha spiegato - hanno saputo adeguare il tempo del teatro a quello del carcere". Un plauso anche al personale della casa circondariale, "senza il quale tutto questo non sarebbe stato possibile". Un riconoscimento anche agli attori, al quale ha poi rivolto anche un messaggio di speranza per il futuro: "Vedete di cosa siete capaci, vedete - ha aggiunto - quali emozioni riuscite a dare. Avete tutte le possibilità e le capacità per uscire dalla condizione in cui vi trovate". Il finale emozionante nelle parole di Michelangelo Fetto e Antonio Intorcia della compagnia Solot che han- Da Napoli per scoprire Santa Sofia no ricordato il primo giorno, la diffidenza, gli sguardi e la timidezza, congratulandosi poi con gli attori per essere riusciti a portare in scena "uno spettacolo colorato m un mondo in bianco e nero". Fetto ha poi approfittato per strappare una promessa all'assessore alla Cultura Raffaele Del Vecchio: la possibilità a questi ragazzi di poter mettere in scena lo spettacolo al di fuori del carcere. L'assessore ha risposto con un cenno di assenso, segno probabilmente che la richiesta sarà esaudita. Proseguono gli appuntamenti del Grand Tour di Campania-Artecard con "La Campania dei Sapori" che propone sabato 20 giugno "I Sapori del Sannio, gli antichi grani e il Museo del Sannio" con visita al Chiostro di Santa Sofia e, appunto, al Museo del Sannio. In abbinamento alla visita del Museo, il laboratorio del gusto curato da Slow Food Campania con degustazione di prodotti della Comunità del cibo di grani antichi delle colline beneventane. Il tour parte da Napoli alle 9 in bus. Agli appuntamenti del Grand Tour si partecipa con la Grand Tour Card. Le Card (una per ogni tema: Musica, Sapori, Vini, Notte e Artigianato) hanno il costo di 12 euro. Estate in scena ad Eboli con i reclusi dell'Icatt Si alza stasera il sipario sulla rassegna teatrale estiva organizzata dai detenuti dell'Icatt di Eboli. La compagnia "Le canne pensanti", diretta Massimo Balsamo, uno dei ragazzi dell'istituto a custodia attenuata, ha messo in cartellone quattro spettacoli nell'ambito del progetto "Diversamente Uberi", promosso dalla direzione dell'istituto penitenziario guidato da Rita Romano. Location il teatro di corte del castello Colonna dove ha sede la casa di reclusione. Nel progetto sono coinvolti, con diverse mansioni, gran parte dei Estate in scena ad Eboli con i reclusi dell'Icatt detenuti. Dall'allestimento scenografico, ai costumi, dalle musiche alla performance attoriale, sono gli ospiti stessi dell'Icatt a curare tutto nei minimi dettagli. Le storie portate in scena sono scritte e dirette da Balsamo. Start con lo spettacolo sul brigantaggio "Diversamente italiani: briganti, emigranti, terroni". Al centro del plot narrativo il Regno delle Due Sicilie e la Questione Meridionale. Il 3 luglio sarà la volta de "La Gatta Cenerentola". Il 17 luglio va in scena "Purché sia purè", ispirato alla commedia di Salemme "E fuori nevica". Si chiude il 24 luglio con lo spettacolo di riflessione "Uomini contro" dedicato alle vittime della criminalità organizzata. Forlì: palestra in carcere, nuove attrezzature da una donazione dei Lions club Forlì Host di Elisa Gianardi Corriere della Romagna, 18 giugno 2015 Il nuovo carcere al Quattro non sarà pronto prima di un triennio e, l'attuale penitenziario, non disponeva di spazi idonei alla pratica sportiva. Da ieri anche la Casa circondariale di Forlì ha la sua palestra, attrezzata con 15 macchinari da fitness, una donazione dei Lions club Forlì Host, approvata e incoraggiata dalla direttrice della struttura, Palma Mercurio. "Lo sport è fondamentale per chi sconta una pena detentiva, non solo finalizzato al miglioramento della condizione carceraria ma anche al trattamento dei detenuti attraverso il movimento e il rispetto delle regole" assicura la responsabile del carcere di Forlì. Solo che, in via della Rocca, le risorse a favore delle attività ludiche sono sempre più esigue. "Faccio questo mestiere dal 1997 e sono arrivata a Forlì quattro anni fa - spiega Mercurio -. Posso dire che i fondi che lo Stato dà per iniziative ricreative da 100, oggi sono scese a 20. In rapporto l'80 per cento in meno". Inoltre, sottolinea ancora la direttrice, "qui viviamo in un limbo perché, con la costruzione del nuovo carcere, non viene più eseguito tutto ciò che non rientra nell'ordinaria manutenzione. La stazione appaltante per il nuovo istituto penitenziario è il Ministero delle infrastrutture, ma il cantiere ha avuto diversi intoppi, dalla scoperta di ordigni esplosivi a materiali risalenti addirittura al Neolitico". Per questo, secondo il Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria, "la nuova struttura non sarà aperta prima di tre anni, al termine del 2016 se proprio tutto procedesse spedito". Ai 98 detenuti di via della Rocca, tra i quali anche 18 donne, da poco è stato vietato, non senza proteste, anche il gioco del calcio: lo spazio all'aperto, infatti, non era idoneo e ci sono stati infortuni. Grazie ad alcune associazioni, a partire dal Centro di solidarietà, si riescono a svolgere alcuni tornei di ping-pong, ma adesso saranno disponibili in pianta stabile anche macchinari nuovi come cyclette e tapis roulant. Un'inaugurazione accolta con entusiasmo anche dallo stesso personale penitenziario, al quale è stato infatti riservato un macchinario nel proprio spazio relax. "Nell'ottica - interviene il presidente Lion, Giorgio Maria Verdecchia - di rispondere a un'esigenza avvertita non solo dai carcerati, ma anche di chi svolge tra queste mura un lavoro delicato, impegnativo e di grande responsabilità". Gli attrezzi potranno essere trasferiti nella nuova struttura, quando pronta. Il club si è impegnato anche a finanziare due borse lavoro per gli "emittenti", come viene definito chi riacquista la libertà al termine del periodo di condanna, per l'aiuto a reinserirsi in modo produttivo nella società. Torino: alla tavola di Papa Bergoglio ci saranno anche dieci giovani detenuti dell'Ipm di Maria Teresa Martinengo La Stampa, 18 giugno 2015 Domenica al pranzo in Arcivescovado una famiglia rom e un gruppo di senza dimora. Lunedì l'incontro con i profughi che vivono nelle case occupate e con le famiglie torinesi. A pranzo con Papa Francesco, nel salone dell'Arcivescovado, domenica ci saranno alcune decine di invitati. Tutti ospiti d'onore per lui, per tanti invece, gli "ultimi" della città. Alla tavola di Bergoglio ci saranno dieci giovani detenuti del carcere minorile Ferrante Aporti, una famiglia rom, una rappresentanza di immigrati, una di senza dimora. Sarà un pranzo semplice, preparato nelle cucine del Sermig, ha raccontato l'arcivescovo, monsignor Cesare Nosiglia. Certamente, un pranzo indimenticabile per tutti coloro che vi parteciperanno. Lunedì, poi, prima di lasciare l'Arcivescovado, Francesco incontrerà una rappresentanza di profughi che vivono nelle case occupate dell'ex Moi e di via Madonna de la Salette, nelle famiglie del progetto "rifugio diffuso", nei centri Sprar. Ieri si è tenuta a Palazzo Civico la presentazione del libro "Il cortile dietro alle sbarre: il mio oratorio al Ferrante Aporti", Elledici, di Marina Lomunno, un dialogo con il salesiano don Domenico Ricca, cappellano del carcere minorile da 35 anni: sarà lui ad accompagnare i ragazzi in Arcivescovado, domenica. Don "Mecu" li conosce bene, per loro - a prescindere dalla fede e dalla cultura di ciascuno - è una figura di riferimento importante. "Faremo ancora un incontro prima di domenica, ma in definitiva ognuno vivrà l'incontro con il Papa come si sentirà. Perché dobbiamo fornire noi interpretazioni?", rifletteva ieri don Ricca. "A loro l'idea di pranzare con Francesco fa l'effetto che fa ai bambini quando dici loro una cosa grandissima. "Ma è vero? sul serio?" Io voglio lasciare che capiscano il senso di questo incontro da soli. So già che staranno imbambolati. Fanno gli sbruffoni, ma alla fine". Ma chi sono questi ragazzi tra i 17 e 20 anni che, come altri 30 circa, stanno scontando la pena in carcere a Torino? "Abbiamo scelto il criterio della rappresentanza delle nazionalità e religioni, non abbiamo guardato la gravità del reato. Andiamo alla mensa di Francesco e lui vuole incontrare chi nella società è ultimo". Per il cappellano, molti di questi ragazzi non sono diversi "da quelli che incontravo nelle scuole quando insegnavo religione, che incontro in oratorio. Fa comodo a noi pensare che siano "diversi dai nostri". Invece, un'amicizia sbagliata, un momento particolare ed è possibile che un ragazzo qualsiasi faccia cose molto gravi. Oggi, poi, si commettono reati molto violenti, come le aggressioni senza motivo: è una violenza gratuita, non finalizzata magari, come avveniva anni fa, ad avere qualche soldo in più. Oggi riempie il vuoto, mezz'ora di vita". Sarà invece Sergio Durando, direttore della Pastorale Migranti della diocesi, ad accompagnare la (numerosa) famiglia rom e il gruppo di immigrati fino alla porta dell'Arcivescovado. "Questa famiglia - racconta Durando - viveva nel campo di lungo Stura Lazio, è una di quelle che, con molte fatiche, hanno fatto un percorso di inserimento. Una comunità cristiana ha cercato di supportare il loro percorso di integrazione". Per individuare i migranti da portare al pranzo con Francesco, "si è cercato di formare una rappresentanza di quel 15% di torinesi che ha origini nel mondo - prosegue, tenendo conto delle storie, degli equilibri di genere, dei percorsi. Oggi tra le persone immigrate a Torino c'è chi ha avuto la cittadinanza, chi ha costruito e ha dato un senso alla propria esperienza. Oggi siamo stimolati dagli sbarchi, ma alla tavola di Francesco siederà anche chi è arrivato 30 anni fa e qui ha cresciuto i suoi figli". Immigrazione: quel filo spinato sul nostro cuore di Adriano Sofri La Repubblica, 18 giugno 2015 Ci sono muri superbi, che servono a esaltare la potenza, e a tener fuori dal regno i proscritti. Siano maledetti i loro committenti e ingegneri. Ci sono muri di lazzaretti, per chiudere gli appestati. Due lezioni utili. La prima: investire in reticolati e fili spinati, il futuro è là. La seconda: con i muri di cinta, regolarsi come con le statue dei tiranni deposti, che vanno bensì abbattute durante le rivolte, ma avendo cura di salvarne gli stivali, che torneranno buoni per i tiranni in entrata. Economia. Così i muri. Erano drizzati, non so, al confine fra Bulgaria e Turchia, 160 chilometri, per impedire di evadere dal paradiso del socialismo reale all'occidente capitalistico. Fu una festa demolirli, e però, appena una ventina d'anni dopo, ecco che bisognava rifabbricarli, tali e quali, gli stessi 160 chilometri, gli stessi miliziani armati ogni cento metri, gli stessi usurpati cani lupo, solo che ora devono stare voltati dal lato opposto, e mirare, invece che ai fuggiaschi da qui a là, ai fuggiaschi da là a qui. Adesso tocca all'Ungheria. La repubblica parlamentare ungherese esiste perché crollò la cortina di ferro e fu smantellato il muro di Berlino: gran festa, ciascuno fratello di ciascuno. Ventisei anni dopo, annuncia di voler edificare un muro che la metta al sicuro dall'arrivo degli appestati alla frontiera meridionale con la Serbia: siriani, afghani, pakistani, iracheni. La Grecia ha a nordest un confine di 200 chilometri con la Turchia, segnato in gran parte dal fiume Evros: troppo facile da varcare dagli appestati provenienti dal lontano oriente e dall'oriente vicino, sospinti dai turchi. Non bastando il fiume (nemmeno il mare costellato di isole e scogli, così che tenta la traversata come saltando dall'uno all'altro) il governo greco aveva scavato un fossato, troppo costoso, e poi anche qui la barriera di filo spinato e reticolato. (Il nuovo governo ha allentato la stretta). La Grecia fu infatti la prima a pagare il conto dell'estorsione di Dublino 2. Il muro - metà reticolato, metà prefabbricato tra Marocco e l'enclave spagnola di Melilla ha regalato al mondo l'immagine splendida che nessuna regia avrebbe saputo comporre: i fuggiaschi appollaiati sulla cima dell'alta barriera, a cavalcioni, variamente in bilico, mentre di sotto sul curatissimo green si gioca una partita amatoriale - femminile - di golf, sicché piuttosto che tentati migranti sembrano spettatori abusivi, che non vogliano pagare il biglietto ma non rinuncerebbero ad assistere al torneo. Ogni tanto - anche nella fotografia - uno di quei golfisti perde l'equilibrio e cade, o di qua o di là, in Africa o in Europa, spacciato in ogni caso. C'è anche un poliziotto che sta arrampicandosi sul bordo della recinzione, si distingue, più che per la divisa e il casco, perché lui ha usato una lunga scala: non so che cosa farà, una volta arrivato, se striscerà a dare martellate sulle dita degli appollaiati, o che altro. Ogni tanto, del resto, la polizia spagnola apre il fuoco, per sbrigarsi meglio. Le giocatrici sono indifferenti a quel contorno, magari lusingate, ma deplorarlo è altrettanto futile che deplorare i bagnanti sulla spiaggia accanto ai corpi degli annegati: la vita continua, e anche chi non si trovi così vicino agli invasori, vivi o morti, ne deve sentire il fiato addosso. Dunque i muri, che vengano a separarci dai vivi e dai morti. Siamo strani, noi umani, coi muri. In Israele, Eretz Israel, santa di tutte le santità, si sta schiacciati fra due muri: l'avanzo solenne del muro occidentale detto del pianto , e il muraglione che striscia come un serpente dentro la Palestina e vuole proteggere gli uni e soffocare gli altri. I muri sono incolpevoli, e diventano belli e amichevoli quando rovinano, e servono a passeggiarci sopra o attorno, come nelle mille nostre città cintate, e per sovrappiù torrite all'interno, che ciascuna famiglia e ciascun palazzo doveva guardarsi dall'odio e la sfida del vicino. Ci stiamo tornando. La Lega Nord, quando era genuina, e le sparava abominevoli non per calcolo impudente, come oggi, ma per sentita sordidezza, quando scriveva sui muri Forza Etna, Forza Vesuvio, discuteva dove andasse costruita la Muraglia padana, se sopra o sotto Bologna. Il capo di una Lega Ticinese - è morto - voleva un muro di 4 metri d'altezza e 40 centimetri di spessore che tenesse gli svizzeri veri (c'è sempre qualcuno che ti guarda dal nord al sud) al riparo dai frontalieri padani. Giorni fa c'è stata a Bruxelles una commemorazione di Alexander Langer - il vero ispiratore dell'enciclica di Francesco sull'ecologia, credetemi - a vent'anni, il prossimo 3 luglio, dal suicidio. Il presidente Martin Schulz ha voluto descrivere il mutamento d'atmosfera del parlamento europeo dal tempo di Alex - e del suo amico ed estimatore Otto d'Asburgo - a oggi: quando si può sentire un deputato dire in aula che "in fondo, anche gli zingari possono essere considerati esseri umani", quando si può sentire un primo ministro dell'Unione auspicare il ritorno alla pena capitale. Ieri l'Ungheria di Viktor Orbán ha avuto gioco facile. Mentre in Europa si chiacchiera, ha detto, noi tiriamo su il nostro muro. Del resto, nessuna legge lo proibisce, e non facciamo che seguire quello che tanti altri hanno già realizzato. Il muro del Messico non è il muro di Berlino, non separa due superpotenze, non verrà smantellato in una grande sera liberatrice né venduto a prezzi d'amatore mattone per mattone, ma corre per 3200 chilometri, ha la sua sequela di croci e le sue migliaia di morti. Poveri muri: li guardi alzarsi, e li vedi già abbattuti. Ci sono muri domestici, che servono a coprire dalle intemperie e unire a una tavola e rendere affabili le voci: siano benedetti, e benedette le loro reliquie, ad Aleppo e a Kobane, a Donetsk e a Ramadi. Ci sono muri superbi, che servono a esaltare la potenza, e a tener fuori dal regno i proscritti. Siano maledetti i loro committenti e ingegneri. Ci sono muri di lazzaretti, per chiudere gli appestati. Ecco che alcuni si credono sani e minacciati dal contagio, e si chiudono loro dentro muraglioni di lazzaretto, per tener fuori il mondo di appestati che sale come una marea. Un giorno i figli dei figli si arrampicheranno su quei muri di ruggine, per guardare che cosa c'è di là, perché si sentiranno soli. "Senza riguardo senza pietà senza pudore mi drizzarono contro grossi muri./Adesso sono qua che mi dispero. Non penso ad altro: una sorte tormentosa;/con tante cose da sbrigare fuori! Mi alzavano muri, e non vi feci caso./ Mai un rumore una voce, però, di muratori. Murato fuori del mondo e non vi feci caso". Immigrazione: quelle soluzioni irrealizzabili sui rimpatri di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 18 giugno 2015 Sui migranti, l'incontenibile fretta di alcuni politici nel far parlare di sé sta producendo pericolose bolle di illusioni. Rimpatri veloci o di massa delle persone sbarcate in Italia, ad esempio, sono irrealizzabili; così come l'installazione di campi per trattenere i migranti in Libia. Né si possono obbligare le navi che soccorrono barconi carichi di profughi a portarli nello Stato del quale battono bandiera le navi stesse. Su profughi e migranti l'incontenibile fretta di alcuni dirigenti politici nel dichiarare o nel far parlare di sé sui mezzi di informazione sta shakerando la logica, produce bolle di illusioni e un proliferare di obiettivi impossibili. Rimpatri veloci o di massa delle persone sbarcate in Italia sono attualmente irrealizzabili, innanzitutto per mancanza del numero necessario di accordi per la riammissione degli espatriati nei rispettivi Paesi di origine. Per avere un'idea, l'Italia non ha questo tipo di intese con il Bangladesh, il Senegal, la Costa d'Avorio, il Ghana, il Sudan, il Mali. Stipulare accordi di riammissione costa soldi - fondi e crediti per convincere le controparti - e tempo per negoziarli. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, lunedì, ne ha firmato uno con la Macedonia. Le trattative erano state aperte dalle autorità di polizia nel 2009. Un pressappochismo dettato, in proporzioni ardue da distinguere, da malafede e pigrizia mentale sta trascurando dati di fatto. Diritto internazionale e civiltà impongono di valutare le richieste di asilo di stranieri provenienti da terre in guerra e di possibili perseguitati. Gli sbarcati non possono essere rimandati indietro come palline da ping pong. In una delle parti del Sud che più fa arrivare povera gente da noi, il Corno d'Africa, l'Eritrea è una bellicosa patria della tortura. In Siria è in corso una guerra. Senza sottovalutare i disagi di quegli italiani - di loro, non di noi tutti - a diretto contatto con flussi diretti verso Nord e incagliatisi, non sarebbe male nei dibattiti politici e nelle chiacchierate televisive tenere presenti le dimensioni del fenomeno del quale si parla. Dal 1° gennaio al 16 giugno 2014 in Italia sono arrivati per vie irregolari 57.624 stranieri. I rimpatriati sono stati 15.726. Non proprio pochi. Quest'anno, fino al 16 giugno gli arrivi sono stati 52.237. I rimpatri, al 31 maggio, 6.036. Oltre a politici italiani, anche Regno Unito e Francia premono per rimpatri veloci. Tutto è migliorabile, comunque per eseguirli in genere si impiegano aerei. Significa che non si può imbottire un jet di linea di possibili ribelli o dividere i posti di un charter metà per i respinti e metà per agenti tenuti a impedire sommosse volanti. Tra le ipotesi in circolazione brilla quella di installare in Libia campi per trattenere i migranti diretti in Italia e di selezionare lì i richiedenti asilo. Peccato che in Libia manchino di fatto uno Stato, un governo (ce n'è più d'uno) e che il Paese non abbia mai ratificato le convenzioni dell'Onu sui rifugiati. E se nazioni europee non vogliono gli stranieri entrati in Europa dall'Italia, e tre presidenti di Regioni neppure, quale elisir potrebbe convincere un Paese africano di transito a sobbarcarsi oneri destinati a Stati tappa successiva nei viaggi? Perfino la Tunisia, collaborando, non ha mai preso in considerazione campi del genere. Curiosa un'altra trovata (virtuale): obbligare le navi che soccorrono imbarcazioni cariche di stranieri a portarli nello Stato del quale battono bandiera le navi stesse. Se sono militari, il coordinamento della missione Triton è italiano. Principio internazionale è portare gli scampati ai naufragi nel porto sicuro più vicino. Quindi in Italia o nella piccola Malta. E se i soccorritori fossero civili? Un peschereccio giapponese sbarcherebbe i profughi in Giappone? Tanti equipaggi lascerebbero affondare più disgraziati di adesso. I viaggi di povera gente dal Sud verso l'Italia non sono un fenomeno passeggero. Sono una caratteristica dei nostri tempi. "Il problema dell'immigrazione non va risolto", ha osservato con realismo il ministro Gentiloni, sottolineando che "la grande divergenza dei prossimi dieci-venti anni è quella del divario economico e demografico tra Europa e Africa". Sul problema dell'immigrazione ha constatato: "Va gestito". È indispensabile. Non nascondiamoci però che già gestirlo - incanalarlo, distribuirlo - è un obiettivo ambizioso. Immigrazione: Salvatore (M5S) "abolire il reato di clandestinità, riempie le carceri" di Alice Salvatore cittadellaspezia.com "Il reato di clandestinità, tuttora vigente, fa sì che la persona accusata di tale reato sia costretta a restare in Italia per essere processata e poi (in caso di condanna) detenuta nelle nostre carceri (il tutto a spese dei contribuenti italiani), o infine rimpatriata. Il punto è che con tale normativa, voluta e introdotta dalla Lega nel 2009, si produce praticamente l'effetto contrario, vale a dire si produce e si moltiplica la clandestinità: negli ultimi anni solo un denunciato su cinque, infatti, è stato espulso dal Paese e la percentuale dei trattenuti allontanati dall'Italia ha raggiunto livelli bassissimi. Per questo il M5S ha chiesto - purtroppo senza successo - l'abolizione di questo reato: 1) perché è ingiusto 2) perché anziché aiutarci a risolvere il problema dei clandestini, che andrebbero invece rimpatriati come accade in tutti i paesi civili, crea infinite spese di tribunale e lungaggini, il tutto a carico nostro, e qualora la persona arrivi ad essere condannata (ma i tempi di tribunale sono talmente lunghi che la persona fa presto a sparire nel frattempo), creerebbe inutile sovraffollamento nelle nostre carceri. 3) In ultimo: paradossalmente ci costringe a tenere in Italia proprio i clandestini che andrebbero invece rimpatriati. Alla luce anche delle intercettazioni di Mafia Capitale, dove Buzzi dichiara che il traffico di clandestini e immigrati è più redditizio che il traffico di droga, tutte le considerazioni qui sopra ci fanno capire che dietro alla falsa propaganda leghista c'è in realtà un ricchissimo business: dove politica e mafie si incontrano a scapito dei cittadini onesti e dei diritti umani! Inoltre, a causa del Regolamento di Dublino che stabilisce lo scellerato principio secondo cui "chi prima accoglie, poi gestisce", firmato sempre anche dalla Lega quando era al governo con Forza Italia nel 2003, se la persona viene identificata in Italia è poi costretta a rimanervi, cioè non potrà trasferirsi in un altro paese della UE. Non mi capacito come sia stato possibile firmare un tale regolamento vista e considerata la posizione geografica dell'Italia, porta meridionale dell'Europa e primo ingresso per i rifugiati d'Africa. Chiedetelo anche a Maroni e ai leghisti. M5S ne chiede da tempo il superamento e quanto sta accadendo in questi giorni a Ventimiglia conferma che l'unica soluzione è sospendere Dublino III. Negli ultimi vent'anni sia la destra sia la sinistra hanno prodotto due leggi per contenere il flusso di migranti: la Turco-Napolitano (centrosinistra) e la Bossi-Fini (centrodestra). Due flop pilotati. In particolare la seconda, che porta un'altra volta la firma della Lega Nord, proprio come il reato di clandestinità ha finito per produrre clandestini. Basta rintracciare le stime di qualche anno fa diffuse da Ares 2000 Onlus, che nei primi sei mesi dall'applicazione della legge registrò un aumento degli sbarchi irregolari del 35%. Ebbene, le responsabilità della Lega dietro l'emergenza immigrati sono molto chiare: il reato di clandestinità e la Bossi-Fini sono stati gli strumenti attraverso cui il Carroccio ha trascinato l'Italia nel caos e aperto le porte all'ingresso di centinaia di migliaia di immigrati, salvo poi usare i clandestini come merce di scambio elettorale. Intanto tra sinistra e destra si intascavano mazzette con i Cie e i Cara, Mafia Capitale docet. È il solito inganno, ma noi siamo stufi di lasciarci ingannare. Chiediamo di cambiare subito il Regolamento di Dublino". Libia: Human Rights Watch "governo Tobruk responsabile di tortura su detenuti" Askanews, 18 giugno 2015 Il governo libico di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale, e le sue forze alleate sono responsabili di detenzioni arbitrarie e di torture e maltrattamenti inflitti nei centri di prigionia sotto il loro controllo nell'Est del Paese. È quanto ha denunciato oggi Human Rights Watch (Hrw), che tra gennaio e aprile scorsi ha potuto visitare le strutture detentive di Beida e Bengasi, controllati dall'Esercito libico e dai ministri di Giustizia e Interno, intervistando 73 detenuti senza la presenza degli agenti di custodia. Tra questi, anche bambini con meno di 18 anni. A Hrw molti prigionieri hanno raccontato di essere stati torturati per "confessare" gravi crimini, denunciando altri abusi, quali assenza di un giusto processo, mancanza di assistenza medica, divieto di ricevere le visite dei familiari, assenza di notifica alle famiglia riguardo alla loro detenzione e cattive condizioni di prigionia. "I ministri del governo, i comandanti militari e i direttori di prigione dovrebbero immediatamente dichiarare una politica di tolleranza zero contro la tortura e chiamare a rispondere chiunque si sia macchiato di abusi - ha detto Sarah Leah Whitson, direttore di Hrw per Medio Oriente e Nord Africa - dovrebbero comprendere che rischiano un'indagine e un procedimento internazionali se non intervengono per mettere fine alla tortura praticata dalle forze sotto il loro comando". Nei tre centri di detenzione visitati da Hrw, l'esercito libico e l'unità antiterrorismo del ministero dell'Interno hanno rinchiuso circa 450 "detenuti di sicurezza" nell'ambito del conflitto in corso con il governo rivale di Tripoli e altri gruppi armati. Tra quelli incontrati da Hrw, 35 hanno detto di essere stati torturati sotto interrogatorio o durante la detenzione: 31 hanno accusato quanti li hanno interrogati di averli costretti a "confessare" dei crimini, gli altri quattro hanno detto che le autorità hanno trasmesso in tv le loro "confessioni", innescando rappresaglie contro le loro famiglie. Tutti e 35 hanno riferito di non aver avuto un avvocato e di non essere stati portati davanti a un giudice, né di essere stati formalmente incriminati nei molti mesi di detenzione. Secondo Hrw, gran parte dei detenuti sono stati percossi con tubi di plastica sul corpo o sulla pianta dei piedi; alcuni con cavi elettrici, catene o bastoni. I prigionieri hanno riferito di scosse elettriche, di lunghe sospensioni in aria, di oggetti introdotti negli orifizi, di isolamento e cibo e servizi igienici negati. Stando al racconto dei prigionieri, almeno due persone sotto custodia sono morte per le torture. Tra quanti sono stati intervistati da Hrw figurano persone sospettate di terrorismo o di appartenenza a gruppi estremisti quali lo Stato islamico (Isis) e Ansar Al-Sharia, membri delle forze libiche impegnate in scontri contro il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, esponenti dei Fratelli musulmani o di altri movimenti islamici. Tra i prigionieri ci sono anche cittadini di altri Paesi arabi e africani. Sahar Banoon, viceministro della Giustizia del governo di Tobruk, ha riferito a Hrw, in un incontro del 14 aprile scorso, del collasso del sistema di giustizia penale nell'Est della Libia, dove al momento non ci sono tribunali in attività, e della nomina da parte del procuratore generale di Bengasi di un comitato di magistrati per la revisione dei casi di detenzione. Faraj al-Juweifi, direttore dei procedimenti militari a Beida, ha riferito di indagini in corso e di una corte militare ancora operativa con un solo giudice, mentre la corte militare di Bengasi ha smesso di operare. Nella nota, Hrw ha chiesto che tutti i detenuti siano portati davanti a giudici indipendenti, che siano formalmente emessi capi di accusa contro di loro e che siano rilasciati quelli contro cui non ci sono prove di crimini. "Le autorità dovrebbero proteggere tutti i detenuti da tortura e maltrattamenti, e chiamare a risponderne chi li ha inflitti - ha dichiarato Hrw - le autorità dovrebbero concedere accesso illimitato ad osservatori indipendenti quali quelli della missione Onu in Libia (Unsmil) ai luoghi di detenzioni sotto il loro controllo". Iran: impiccato il prigioniero politico curdo Mansour Arvand perché "nemico di Dio" Adnkronos, 18 giugno 2015 Mansour Arvand, noto prigioniero politico curdo, è stato impiccato in Iran, dove nel 2011 era stato riconosciuto colpevole del reato di Moharebeh, ovvero "inimicizia nei confronti di Dio". La famiglia non era stata informata prima dell'esecuzione, che ha scatenato l'ira degli attivisti curdi in Iran e all'estero. Arvand aveva 39 anni ed era un lottatore e un allenatore di wrestling originario di Mahabad, nel nord ovest dell'Iran. Era stato anche riconosciuto colpevole di "propaganda contro il sistema e di far parte del Partito democratico del Kurdistan". L'imputato aveva sempre negato le accuse. "Durante i quattro anni di detenzione in vari carceri, compresa la prigione dell'intelligence di Mahabad e di Evin, ha subito gravi torture e sofferto di varie malattie, compresa un'infezione renale", ha scritto il Consiglio nazionale della Resistenza in Iraq. "È stato giustiziato nonostante la sua condanna fosse stata tramutata in ergastolo", prosegue il comunicato. Nel 2014 Arvand era stato trasferito nel carcere di Mahabad, dove appunto avrebbe dovuto scontare l'ergastolo, ma il mese scorso era stato portato nel carcere di Miandoab, come avevano denunciato i siti dell'opposizione lamentando la mancanza di spiegazioni. L'Associazione per la difesa dei diritti umani del Kurdistan ha riferito che solo lunedì la famiglia di Arvand è stata informata del fatto che il detenuto era stato impiccato il giorno prima. Secondo Amnesty International in Iran sono stati giustiziati 289 prigionieri l'anno scorso. Stati Uniti: detenuti di Guantánamo scrivono a Obama "la guerra è finita, lasciaci liberi" Ansa, 18 giugno 2015 "Ormai è giunto il momento che ci lasciate andare": questo l'appello che due detenuti del carcere di massima sicurezza di Guantánamo hanno rivolto al presidente Barack Obama e, attraverso i loro avvocati, anche alla giustizia federale Usa, con una azione legale ben precisa in cui citano le stesse parole del presidente, quando ha detto che la guerra in Afghanistan è di fatto finita. La questione non è da poco perché secondo la Corte Suprema, il governo può trattenere prigionieri catturati in guerra solo finché esiste un conflitto "attivo" nel Paese in questione. I due detenuti, un kuwaitiano e uno yemenita catturati in Afghanistan, sostengono che ora la loro detenzione è divenuta illegale e, scrive la Ap, chiedono ai giudici federali di considerare a che punto può dirsi finita anche alla luce del fatto che lo scorso dicembre Obama ha affermato che per l'America "la missione di combattimento in Afghanistan sta volgendo al termine". L'amministrazione Obama per ora non sembra avere una risposta se non che "le attività ostili ancora persistono contro i Talebani e al Qaeda" e che Obama non ha mai lasciato intendere che tutte le operazioni militari e di antiterrorismo sarebbero finite. Inoltre, secondo il ministero di Giustizia le questioni riguardanti lo stato di una guerra sono di competenza del Congresso e del presidente e non dei tribunali. Attualmente gli Usa mantengono in Afghanistan una presenza militare limitata, con poco meno di 10 mila soldati, il cui compito è di assistere l'esercito afghano. Egitto: Human Rights Watch chiede stop di condanne a morte contro Fratelli musulmani Nova, 18 giugno 2015 Human Rights Watch (Hrw), l'organizzazione non governativa con sede a New York Human Rights Watch, ha chiesto al governo del Cairo di fermare le esecuzioni capitali contro il deposto presidente egiziano, Mohamed Morsi, e altri esponenti dei Fratelli musulmani confermata ieri dalla Corte penale del Cairo. "Hrw si oppone alla pena e ha chiesto al governo egiziano di fermare le esecuzioni", riferisce la Ong. Dall'estromissione del primo presidente eletto democraticamente in Egitto, avvenuta nel luglio del 2013, secondo Hrw le autorità egiziane hanno giustiziato sette persone con l'accusa di aver commesso crimini violenti contro il nuovo governo o i suoi sostenitori, condannando a morte 600 persone circa. "I casi che hanno portato alla condanna a morte dell'ex presidente Morsi e di altre 114 persone il 16 giugno 2015 sono stati compromessi da violazioni del giusto processo e sembrano politicamente motivati. Le sentenze si basano quasi esclusivamente su testimonianze degli ufficiali di sicurezza", si legge in una dichiarazione della Ong. Gli esperti legali di Hrw che hanno esaminato il fascicolo dei procedimenti hanno trovato "poche prove al di fuori delle testimonianze di ufficiali militari e di polizia a sostegno delle condanne contro Morsi e altre 130 persone per l'evasione dal carcere nel 2011, e contro Morsi e altre 35 persone per cospirazione con potenze straniere contro lo Stato". La Ong, peraltro, sottolinea che i testi delle sentenze complete non sono ancora stati pubblicati. "Queste azioni penali dimostrano che i tribunali egiziani sono pronti a condannare a morte gli oppositori del governo senza il benché minimo riguardo del giusto processo", ha detto Sarah Leah Whitson, capo della divisione di Hrw per il Medio Oriente e il Nord Africa. Un gruppo di cittadini statunitensi di origine egiziana ha avviato oggi una protesta a Times Square scandendo slogan contro il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi e in favore di Morsi. I giudici egiziani hanno confermato ieri la sentenza capitale contro l'ex presidente islamista per l'evasione dal carcere di Wadi Natrun nel gennaio 2011, durante la rivoluzione contro Hosni Mubarak. La corte ha confermato la condanna a morte anche per cinque leader dei Fratelli musulmani, tra cui la guida suprema del gruppo Mohamed Badie, per aver partecipato all'evasione. Altre 100 persone sono state condannate al patibolo in contumacia; tra queste, il teologo islamico Yusuf Qaradawi, volto noto dell'emittente televisiva satellitare qatariota "al Jazeera". Sempre ieri, gli stessi giudici avevano mutato in ergastolo la pena capitale precedentemente comminata a Morsi e altri 16 coimputati accusati di aver cospirato con il gruppo palestinese Hamas e il libanese Hezbollah di effettuare attacchi terroristici in Egitto. La corte ha anche condannato a morte altri 16 imputati con accuse simili. Egitto: il presidente al Sisi concede la grazia a 165 giovani detenuti per il Ramadan Nova, 18 giugno 2015 Il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi ha concesso la grazia a 165 giovani detenuti in occasione del mese sacro del Ramadan. Lo ha reso noto quest'oggi il sito internet del quotidiano governativo egiziano "al Ahram". I nomi di coloro dei detenuti graziati devono ancora essere annunciati. È usanza del capo dello Stato garantire delle grazie in occasioni di importanti festività nazionali e religiose. Turchia: 21 mesi di carcere a direttore quotidiano Today's Zaman per "insulti" a Erdogan Aki, 18 giugno 2015 Il direttore del quotidiano turco in lingua inglese Today's Zaman, Bulent Kenes, è stato condannato a 21 mesi di carcere con la condizionale perché riconosciuto colpevole dal Tribunale penale di Ankara di avere "insultato" il presidente Recep Tayyip Erdogan su Twitter. Come riferisce il quotidiano Hurriyet, nel tweet incriminato Kenes aveva scritto che se la madre di Erdogan fosse stata ancora in vita si sarebbe vergognata di quello che il figlio stava facendo alla Turchia. La madre del presidente turco, Tenzile, è morta nel 2011. Il tweet risale al luglio del 2014 quando Erdogan era ancora primo ministro, ovvero un mese prima di essere eletto presidente nell'agosto di quello stesso anno. In sua difesa, Kenes ha detto di avere dalla sua parte la legge sulla libertà di espressione e di parola, precisando che nel tweet non ha fatto alcun riferimento diretto a Erdogan. Il Tribunale ha però respinto le sue argomentazioni condannandolo a un anno e nove mesi di detenzione. La pena verrà però applicata solo se Kenes commetterà altri reati nei prossimi cinque anni.