Appello contro il carcere barbaro di Ornella Favero (con presentazione di Adriano Sofri) Il Foglio, 17 giugno 2015 Storia di tre detenuti lasciati marcire in carcere a causa di una parola: "declassificazione". Fra le esperienze di riscatto di carcerati e carceri in Italia, quella padovana e veneziana di "Ristretti Orizzonti" è, non dirò la più ammirevole - perché tutte le associazioni e le persone di buona volontà che si impegnano a rendere le galere meno indegne sono comprensibilmente gelose dei propri faticati successi - certo la più universalmente preziosa. Oltre all'edizione di libri e di una rivista a stampa ben fatta, redatta da detenuti italiani e stranieri, Ristretti pubblica in rete un notiziario quotidiano completo su informazioni e commenti riguardanti il carcere e la giustizia, e un archivio storico di 15 anni e 130 mila notizie, strumenti indispensabili a chiunque voglia conoscere, studiare e contribuire a fare qualcosa di buono. Ornella Favero è stata l'animatrice volontaria di questa esperienza, i cui risultati principali sono stati, credo, di rendere i detenuti protagonisti della conoscenza e del riconoscimento di sé, e di suscitare il loro confronto continuo con i giovani delle scuole e con le vittime di reati e loro famigliari. La lettera aperta indirizzata al dipartimento Penitenziario del ministero di giustizia, qui ospitata, offre un esempio della ricchezza reciproca di questo incontro, e delle difficoltà enormi che deve affrontare, per una specie di insormontabile inerzia, un lavoro cui autorità e pubblico dovrebbero esser grate come per un adempimento dei loro fini e di lettera e spirito delle leggi. Adriano Sofri Storia di tre detenuti lasciati marcire in carcere a causa di una parola: "declassificazione" Gentili dirigenti del Dap, se non ne sapete nulla, voglio raccontarvi un'esperienza avvenuta di recente nella Casa di reclusione di Padova, la Giornata di Studi "La rabbia e la pazienza", e ve la racconto attraverso le parole di Lucia Annibali, una giovane donna, avvocato di professione, sfigurata dall'acido che le è stato tirato in faccia. Per quel terribile atto sono stati condannati due uomini, ritenuti gli esecutori del gesto, e un terzo, ritenuto il mandante, che con Lucia aveva avuto una tormentata relazione. Scrive Lucia su Io donna "Il momento più interessante e toccante dell'intera giornata, è stato ascoltare le storie dei detenuti: scoprire, attraverso i loro racconti, il motivo che aveva aperto per loro le porte del carcere, il momento in cui avevano scelto di essere persone violente, le cause che stavano alla base di quella scelta. La loro voce si spezzava mentre provavano a comunicare a tutti i presenti quanto fosse difficile la vita del carcere, quanto fosse grande il vuoto per il distacco dagli affetti familiari, soprattutto per chi un fine pena non ce l'ha. Erano le testimonianze di persone che avevano iniziato un difficile percorso di presa di coscienza delle proprie responsabilità. Mentre li ascoltavo, mi scoprivo a commuovermi; la loro rabbia, la tristezza, il dispiacere per se stessi e per il male che quella scelta di tanti anni fa aveva generato, anche nella vita di altri, mi arrivavano dritti al cuore". Fra i detenuti di cui scrive Lucia Annibali c'era Giovanni Donatiello, che è intervenuto di fronte a seicento persone, arrivate da tutta Italia per entrare in un carcere, e ha raccontato la sua esperienza di pena "rabbiosa" trascorsa al 41 bis e poi per ben quindici anni in Alta Sicurezza, e il cambiamento radicale avvenuto in lui da quando è a Padova, frequenta la redazione di Ristretti Orizzonti, si confronta con centinaia di studenti, dialoga con vittime come Lucia. Ma c'è qualcuno che le cose significative, importanti, che avvengono in carcere non le guarda molto, e preferisce decidere a tavolino che Giovanni non merita di restare a Padova, che 29 anni di galera sono pochi per considerarlo non più pericoloso e metterlo non fuori libero!, per carità, ma semplicemente in una sezione di media sicurezza: quella stramaledetta declassificazione che tutti noi di Ristretti avevamo sperato per lui. Quindici anni fa Giovanni usciva dal 41 bis perché "vista la nota (…) con la quale la procura distrettuale della Repubblica di Lecce ha segnalato di non ritenere più attuale il collegamento del Donatiello con l'ambiente criminale associato di appartenenza" il ministro revocava il decreto con il quale era stato disposto nei suoi confronti il regime detentivo speciale di cui all'art. 41 bis, e ora invece il Dap respinge la richiesta di declassificazione perché sembra (non so le parole esatte perché al detenuto non è stata data copia del rigetto dell'istanza di declassificazione, pare non abbia diritto di sapere da chi e da che cosa si deve difendere, diciamo che deve sentirsi sotto indagine a vita, e basta) che la Direzione Distrettuale Antimafia, dopo lunghe ed articolate indagini, coperte da segreto investigativo, ritenga che il suo gruppo criminale sia ancora operante sul territorio e che Donatiello non abbia mutato la sua posizione al vertice. Quindi nelle sezioni di Alta Sicurezza hanno vigilato così male da riuscire a far rinascere l'organizzazione criminale di cui faceva parte Giovanni Donatiello nel lontano 1984 e a rimetterlo a capo della stessa? E perché allora non lo riportano al 41 bis? Continua Lucia Annibali: "E così mi sono chiesta: è possibile, ed è giusto provare ancora umanità, dopo che qualcuno ha scelto di arrecare un dolore alla tua vita? Chi soffre a causa d'altri, spesso prova rabbia, rancore, persino odio nei confronti del responsabile della sua sofferenza; è un suo diritto e, forte di questo, può arrivare a decidere che quei sentimenti saranno, da ora in poi, il filo conduttore della sua intera esistenza. Ma può anche succedere che decida di fare la scelta opposta e di trasmettere il proprio dolore senza rabbia né rancore. È in questo caso che ci si scopre ancora capaci di provare umanità. Essere "umani" significa, dunque, guardare oltre il male, staccarsi da esso, impedirgli di condizionare un'intera vita. Non necessariamente ha a che fare con il perdono, né vuol dire non sentire dolore: piuttosto riguarda la capacità e la volontà di trasformare qualcosa di brutto in qualcosa di bello. Provare umanità aiuta a sperare, e se è vero che sperare è già resistere al male, la nostra umanità può essere un modo attraverso cui chiedere, a chi è stato capace di fare del male, di non farlo più, di cambiare per diventare una persona migliore, per sé e per gli altri. È giusto allora provare umanità, se questo può servire a preservare altri da un dolore e aiutare chi soffre, a farlo in modo costruttivo. Essere "umani", dunque, per chiedere, in cambio, un po' di umanità. Ecco perché la vittima può decidere di confrontarsi con gli autori di reato". A scuola di umanità da Lucia bisogna mandarci le persone detenute, ma bisogna anche mandarci le istituzioni. Mentre scrivo questo pezzo, mi arriva una notizia "Carcere: muore da solo, di cancro, al 41 bis. Non ha potuto dire addio alla famiglia. Il Tribunale di Napoli aveva dato l'ok a un colloquio con i cari: l'autorizzazione del Dap non è arrivata in tempo". Ma tanto forse non è così importante, si tratta pur sempre dei cattivi più cattivi, dei mafiosi, e noi siamo i buoni. E a decidere della sorte dei cattivi chi sarà? Pedagogisti con grande competenza, esperti di rieducazione, teorici di una pena sensata, tesa davvero a responsabilizzare chi ha fatto del male? Certo che no, sarebbe tutto troppo semplice, nel nostro Paese a decidere del "trattamento" delle persone detenute, dunque dei loro percorsi di risocializzazione, sono dei magistrati. E non magistrati di Sorveglianza, esperti di esecuzione della pena, sarebbe troppo normale! no, meglio magistrati inquirenti, ex procuratori della Direzione Antimafia, magari quegli stessi che prima ti hanno condannato all'ergastolo, o alla "pena di morte nascosta", come l'ha definito Papa Francesco, e ora dovrebbero finalmente decretare che non sei più lo stesso di venti o trent'anni fa, e magari avere il coraggio di non prendere per oro colato i pareri dei loro ex colleghi dell'Antimafia. In questi ultimi due mesi, a partire dalla chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza di Padova, si è scoperto che da anni si lasciavano logorare, a volte anche "marcire" le persone in questi circuiti senza fare quasi nessuna declassificazione. Da Padova stavano già partendo 96 detenuti, ma noi di Ristretti Orizzonti abbiamo combattuto, con la forza della competenza e dell'umanità, a partire dal fatto che da anni a Padova le sezioni di Alta Sicurezza sono integrate nella vita del carcere, e non isolate e tagliate fuori da tutto, e quelle partenze sono state bloccate, ed è stata fatta addirittura una nuova circolare sulle declassificazioni, che accoglie le nostre osservazioni, presentate direttamente al capo del Dap. È anche vero che le Circolari si emanano, ma non sempre si applicano (ne è prova la circolare sui trasferimenti, che ancora non riesce a portare umanità nella materia delicata delle persone spostate spesso come pacchi senza vita, e costrette ogni volta in questi spostamenti a perdere speranza. Cosa succederà a Giovanni se dall'esperienza calda e forte di Ristretti Orizzonti sarà ributtato in un carcere ben più povero di iniziative e di possibilità come Parma?): però aspettiamo per lo meno, rispetto alla mancata declassificazione di Giovanni Donatiello dopo 29 anni di galera, una operazione Trasparenza, chiediamo che ci dicano come ha fatto Giovanni, con i pochissimi colloqui che ha avuto (in tutto l'ultimo anno due colloqui in totale, con la figlia e con il fratello) a ritornare ai vertici della sua organizzazione criminale. O che abbiano il coraggio di cambiare rotta, e di ammettere che la comunità carceraria non corre nessun rischio se Giovanni resta a Padova e viene trasferito in una sezione di Media Sicurezza. Restituiteci allora Giovanni, e non toglieteci gli altri detenuti della sezione AS1, come Tommaso Romeo, Agostino Lentini, Giovanni Zito, Antonio Papalia e tutti quelli che lavorano con noi di Ristretti da anni: perché per noi sono importanti gli esseri umani, e nel nostro percorso di responsabilità e consapevolezza ogni persona conta, ha un ruolo, vale per quello che è diventata. Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti Giustizia: le nostre carceri scoppiano, ma per Strasburgo sono un modello di Francesco Lo Dico Il Garantista, 17 giugno 2015 "Sulle risposte da dare per risolvere la questione del sovraffollamento carcerario l'Italia è diventato un esempio di buone pratiche per diversi altri Stati membri". Le parole del segretario generale del Consiglio d'Europa, Thorbjorn Jagland, dopo l'incontro col ministro della Giustizia, Andrea Orlando, suonano provenire, più che dall'Europa, da un altro continente rimasto nello scantinato del mondo, ignaro che lassù, al primo piano va in scena una ben più tragica realtà. Frasi che iniettano anche tra chi ogni giorno naviga a vista nell'odissea giudiziario-carceraria del nostro Paese, una massiccia dose di sbigottimento. "Ma questo Thorbjorn Jagland - si interroga piccata il segretario dei Radicali Rita Bernardini - sa qualcosa dell'irragionevole durata dei processi in Italia?". "Il fatto che con incredibile ritardo paghiamo finalmente le sanzioni in denaro della legge Pinto (da verificare comunque se sarà efficace l'accordo con la Banca d'Italia) - argomenta la leader radicale - non significa che i processi sono di una durata "ragionevole" ma che lo Stato italiano "paga" cifre spaventose (oggetto peraltro di una nostra denuncia per danno erariale confezionata da Deborah Cianfanelli della Direzione di Radicali italiani) per violare la Costituzione italiana e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo". "Premesso che non si comprende a quale titolo il Segretario Generale del Consiglio d'Europa rilasci dichiarazioni "politiche" sull'operato dei governi - prosegue Rita Bernardini - colpiscono le parole secondo le quali Thorbjorn Jagland promuova l'Italia in merito alla sentenza Torreggiani e si spinga a congratularsi con il ministro Orlando su quanto l'Italia avrebbe fatto per ridurre la lunghezza dei processi". Sebbene al Guardasigilli Orlando vada riconosciuta maggiore sensibilità dei predecessori sui temi detentivi, che hanno portato tra l'altro all'apertura di un dibattito sulla materia con gli Stati generali delle carceri, la situazione ereditata dal ministro, numeri alla mano, rimane ancora disastrosa. I dati diffusi dal Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria dicono che al 31 marzo 2015 i detenuti che inzeppano le nostre 200 carceri sono 54.122, e cioè di nuovo in aumento dopo i piccoli segnali di miglioramento legati ai provvedimenti "svuota carceri" e la sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale la legge Fini-Giovanardi che equiparava le sostanze stupefacenti leggere (hashish e marijuana) a quelle pesanti (eroina, cocaina). E va ricordato poi, come già chiarito dalla stessa Rita Bernardini, che nonostante i miglioramenti degli ultimi cinque anni (nel 2010 i detenuti in attesa di giudizio erano il 43 per cento) a oggi vivono tra le sbarre, ancora in attesa di un processo 19.799 persone, e cioè quasi tre detenuti su dieci. In particolare, desta allarme la grande quantità di detenuti in attesa di primo giudizio, che sono in tutto quasi diecimila. E il sovraffollamento rimane una piaga dalle enormi conseguenze, che lede la dignità di chi spende la propria esistenza in gattabuia. Le carceri italiane che presentano un sovraffollamento superiore al 130 per cento sono 58. Il triste record tocca alla Casa circondariale di Udine, che con 164 detenuti stipati come polli negli 82 effettivi, tocca il 200 per cento di sovraffollamento. Ma dovrebbero far rizzare anche i capelli inamidati dei burocrati di Bruxelles, il 199% del carcere di Busto Arsizio (303 detenuti in 145 posti effettivi), il 196% del carcere di Latina (149 detenuti in 76 posti). E poi Milano-San Vittore, dove c'è un "overbooking" del 182% (963 detenuti in 530 posti effettivi), Roma-Regina Coeli (178%,) Verona Montorio (608 detenuti in 345 posti), Padova-2 Palazzi (738 detenuti in 436 posti), a Lecce-Nuovo complesso (1.017 detenuti in 622 posti), Napoli Secondigliano (1.353 detenuti in 886 posti), Bologna-Dozza (734 detenuti in 489 posti), Milano- Opera (1.303 detenuti in 893 posti). "Quel che preoccupa - ha avuto modo di osservare Rita Bernardini - e quindi come radicali ci "occupa" di più, sono i tanti detenuti che si trovano ancora in carcere perché non hanno potuto rivedere al ribasso la pena che è stata loro comminata in base ai vecchi minimi e massimi edittali della legge Fini-Giovanardi che andavano dai 6 ai 20 anni senza fare distinzione fra droghe pesanti e droghe leggere mentre, dopo la dichiarazione di incostituzionalità per i derivati della cannabis, si è passati a pene edittali che vanno dai 2 ai 6 anni". Se è questa l'Italia che improvvisamente è assurta dagli altari dell'Europa a modello di giustizia ed equità della pena, l'Italia dei 4milioni e 600mila processi pendenti, l'Italia dove sei detenuti su dieci sono ammalati e tre su dieci usano droghe, l'Italia dei 44 suicidi in cella soltanto nel 2015, allora la spiegazione è una sola. Gli applausi che si levano nella nostra direzione, devono essere quelli beffardi di "Scherzi a parte". Giustizia: Ue; sulle carceri l'Italia è diventata un esempio, ma il sovraffollamento rimane Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2015 "Sulle risposte da dare per risolvere la questione del sovraffollamento carcerario l'Italia è diventato un esempio di buone pratiche per diversi altri Stati membri". Lo afferma il segretario generale del Consiglio d'Europa, Thorbjorn Jagland, dopo l'incontro col ministro della giustizia, Andrea Orlando. "Apprezziamo molto - aggiunge Jagland - tutti gli sforzi messi in campo dall'Italia per quanto riguarda la questione del sovraffollamento carcerario". Il segretario generale si è poi congratulato con il Guardasigilli anche per quanto si sta facendo per risolvere la questione della lunghezza dei processi: "Il ministro mi ha informato delle interessanti iniziative messe in campo, che potrebbero diventare anche queste, esempi di buone pratiche per altri Paesi". Ma le reazioni critiche in Italia non si fanno attendere. Molto critica la segretaria dei radicali italiani Rita Bernardini: "Non si comprende a quale titolo il Segretario Generale del Consiglio d'Europa rilasci dichiarazioni politiche sull'operato dei governi, e colpiscono le parole secondo le quali Thorbjorn Jagland promuova l'Italia in merito alla sentenza Torreggiani e si spinga a congratularsi con il Ministro Orlando su quanto l'Italia avrebbe fatto per ridurre la lunghezza dei processi". "Ma Thorbjorn Jagland - prosegue Bernardini - sa qualcosa dell'irragionevole durata dei processi in Italia? Il fatto che (con incredibile ritardo) paghiamo gli indennizzi della legge Pinto (da verificare, comunque, se sarà efficace l'accordo con la Banca d'Italia) non significa che i processi siano di una durata ragionevole, ma che lo Stato italiano ‘pagà cifre spaventose (oggetto peraltro di una nostra denuncia per danno erariale) per violare sistematicamente la costituzione italiana (art. 111) e la convenzione europea (art. 6)". Del resto, sempre nella giornata di oggi i Radicali hanno presentato una memoria al Consiglio d'Europa sulla sentenza Torreggiani, con la quale l'Italia è stata condannata per il sovraffollamento delle carceri. "Nella nostra memoria, redatta con la collaborazione dell'avvocato Giuseppe Rossodivita, oltre a documentare come, nonostante la diminuzione della popolazione detenuta, in 58 istituti ci sia ancora un sovraffollamento che va dal 130 al 200%, Radicali italiani - spiega Bernardini - si soffermano sui cosiddetti rimedi preventivi e risarcitori che il nuovo art. 35 ter dell'Ordinamento Penitenziario assicura solo ad un'estrema minoranza delle decine di migliaia di reclusi che hanno subito quei trattamenti disumani e degradanti. La sentenza Torreggiani, invece, chiedeva fossero ‘effettivì e non semplicemente scritti sulla carta ma inarrivabili". "Nella documentazione inviata a Strasburgo - chiarisce ancora Bernardini - i radicali evidenziano il dato drammatico dei suicidi e tutte le altre violazioni dei diritti umani in atto ancora oggi negli istituti penitenziari: dal mancato accesso alle cure alla diffusione di malattie anche infettive, dalle carenze igienico-sanitarie a quelle trattamentali come il lavoro e la scuola alle quali hanno accesso solo il 20/30% dei reclusi". Giustizia: i Radicali presentano una memoria sulle carceri al Consiglio d'Europa Adnkronos, 17 giugno 2015 Bernardini, nonostante diminuzione detenuti, in 58 istituti sovraffollamento tra 130 e 200%. I Radicali hanno presentato una memoria al Consiglio d'Europa sulla sentenza Torreggiani, con la quale l'Italia è stata condannata per il sovraffollamento delle carceri. "Nel giorno in cui il ministro della Giustizia Andrea Orlando presenta a Strasburgo le misure messe in atto e da incardinare per corrispondere a quanto richiesto dalla sentenza pilota della Corte europea dei diritti dell'uomo, che nel 2013 aveva condannato l'Italia per i trattamenti inumani e degradanti inferti ai detenuti nelle nostre carceri - sottolinea il segretario dei Radicali Italiani Rita Bernardini - ci auguriamo che la nostra documentazione sia vagliata dai delegati del Consiglio d'Europa". "Nella nostra memoria, redatta con la collaborazione dell'avvocato Giuseppe Rossodivita, oltre a documentare come, nonostante la diminuzione della popolazione detenuta, in 58 istituti ci sia ancora un sovraffollamento che va dal 130 al 200%, Radicali italiani - spiega Bernardini - si soffermano sui cosiddetti rimedi preventivi e risarcitori che il nuovo art. 35 ter dell'Ordinamento Penitenziario assicura solo ad un'estrema minoranza delle decine di migliaia di reclusi che hanno subito quei trattamenti disumani e degradanti. La sentenza Torreggiani, invece, chiedeva fossero ‘effettivì e non semplicemente scritti sulla carta ma inarrivabili". "Nella documentazione inviata a Strasburgo - chiarisce ancora Bernardini - i radicali evidenziano il dato drammatico dei suicidi e tutte le altre violazioni dei diritti umani in atto ancora oggi negli istituti penitenziari: dal mancato accesso alle cure alla diffusione di malattie anche infettive, dalle carenze igienico-sanitarie a quelle trattamentali come il lavoro e la scuola alle quali hanno accesso solo il 20/30% dei reclusi". "Il fatto che il ministro Orlando abbia definito criminogena le nostre carceri, è stato salutato con favore da noi e dal leader radicale Marco Pannella: è la prima volta, infatti - sottolinea Bernardini - che un ministro della Giustizia fa un'ammissione di questa portata. L'analisi è dunque giusta e, se è giusta l'analisi, occorrono comportamenti riformatori e di "legalizzazione" del sistema conseguenti". "Per noi radicali continua ad essere obbligato un intervento di amnistia che consenta alla giustizia penale italiana, oggi paralizzata da 4.600.000 procedimenti penali pendenti, di ripartire - denuncia il segretario. Non è sufficiente fare accordi con la Banca d'Italia per risarcire finalmente i tantissimi italiani ai quali viene riconosciuta l'irragionevole durata dei processi se la macchina della giustizia produce sistematicamente ritardi che da trent'anni, secondo il Consiglio d'Europa, colpiscono nell'insieme decine di milioni di cittadini italiani". Giustizia: intervista a Giancarlo De Cataldo "ecco perché quella di Roma è vera mafia" di Francesca Sforza La Stampa, 17 giugno 2015 Intervista a Giancarlo De Cataldo, autore di "Romanzo Criminale", che racconta come è cambiata la malavita romana dagli Anni Settanta a oggi: "La maledizione di un'imprenditoria che non riesce a pensare in termini di legalità". Magistrato e scrittore, Giancarlo De Cataldo non può non guardare all'inchiesta di Mafia Capitale con gli occhi che lo hanno portato a scrivere prima Romanzo Criminale e poi, insieme al giornalista di Repubblica Carlo Bonini, Suburra. "Non abbiamo ancora il titolo - ci dice - ma stiamo già lavorando a una Suburra 2". Non un reportage, piuttosto un racconto parallelo della realtà: "Bisognava aspettare 1992 di Sky per ricominciare a narrare la grande epica nera della corruzione italiana". De Cataldo, partiamo dalle parole. Quanta mafia c'è in Mafia Capitale? "Siamo abituati a pensare alla mafia come a un fenomeno regionale, e ancora oggi c'è chi nega che si possa parlare di mafia a Roma. Io sto all'ultima sentenza della Cassazione, che ha accolto in pieno l'impianto accusatorio per questo titolo di reato: c'è intimidazione, c'è pressione, c'è anche qualcosa di tradizionale, perché se vogliamo la passeggiata dell'imprenditore con il mafioso o il capobastone, è il chiaro segno che la violenza, se serve, si usa. Non è necessario richiamarsi a tutto l'apparato rituale dei mandamenti o dei santini, né praticare violenza estrema, perché l'intimidazione è un concetto più largo. Trovo intollerabile considerare il fenomeno come se ci trovassimo di fronte a una compagnia di raccogliticci. Le inchieste stanno dimostrando una penetrazione molto forte nelle strutture di potere del territorio". Cosa ha pensato leggendo le intercettazioni dell'ultima inchiesta? "Il linguaggio non è nuovo, è una tradizione di Roma, sempre stata una città di affari e di confini tra lecito e illecito, anche se prima era tipicamente della strada e oggi è penetrato nel mondo politico e imprenditoriale. La vera novità sono le intercettazioni, che ci restituiscono sonorità molto vivide. Forse era così anche qualche anno fa, ma noi ne sapevamo di meno". Nei suoi libri ha spesso insistito nel legame tra malaffare e "progetto", e ha anche descritto il passaggio da Romanzo Criminale al narcisismo di Subburra, dove il "progetto" si incrina. Cosa resiste di quelle esperienze in Mafia Capitale? "È evidente che il tentativo di un controllo militare come quello della Banda Magliana tra il 76 e l'83 è un disegno irripetibile per Roma, qui si procede per progetti di genere diverso, ma la malavita non è quasi mai generica. Ci sono sempre obiettivi concreti: controllare un pezzo del potere pubblico, muoversi sugli appalti, sfruttare i campi dei migranti. E c'è anche una grande ambiguità di fondo che noi - persone "normali" - ci ostiniamo a non vedere: la maledizione di un'imprenditoria che non riesce a pensare dei paletti di legalità. Vale per Roma, ma anche per il Mose, l'Expo, la Salerno-Reggio Calabria". Corruzione, affiliazione, terra di mezzo. Che evoluzione ideologica c'è stata dagli anni Settanta a oggi? "Negli anni Settanta e Ottanta buona parte della filiera dell'estrema destra romana era composta da gente che ci credeva, prendiamo Carminati. Poi col tempo è successo che l'esperienza militare è stata rivolta al denaro. E di nuovo il mondo criminale diventa un segno dei cambiamenti che avvengono nella storia. Ogni epoca ha la sua criminalità: per un verso l'adeguamento alle cose che cambiano, per l'altro lo zoccolo duro della rapacità, che si può sintetizzare in "prendere tutto quello che si può prendere a danno del bene comune". Una grande corsa ai soldi. Ma per farci che? Che idea si è fatto della vita dei protagonisti di Mafia Capitale? "Direi che offrono la stessa varietà umana di una qualsiasi consorteria criminale. Mediamente i mafiosi, i camorristi, i latitanti fanno una vita pessima, vanno a dormire e non sanno se si sveglieranno il giorno dopo. Mi chiedo - e me lo sono sempre chiesto per davvero - che senso ha vivere in un bunker, e accumulare soldi magari per comprarsi un quadro d'autore che nessuno potrà vedere. È una vita tremenda. Se c'è un insegnamento morale nella storia dei banditi, è che è una vita brutta". Cosa sa, e cosa pensa, di Salvatore Buzzi? "Conoscevo Buzzi, è stato l'emblema del carcerato rieducato. Quando facevo il giudice di sorveglianza, ho contribuito insieme ai miei colleghi alla costruzione di queste cooperative, che erano e restano un luogo di riscatto sociale. Ecco, l'uomo a un certo punto ha avuto un cambiamento che non sono in grado di definire, ma che ha lasciato sorpresi moltissimi di noi. Ancora adesso la cooperativa "29 giugno" dà lavoro a oltre mille persone tra detenuti e ex detenuti, e tra questi lavoratori la percentuale di recidiva è stata dello 0,6%. Statisticamente possiamo dire che questi lavoratori reinseriti commettono meno delitti di noi persone comuni. Ancora adesso che la cooperativa è commissariata, partecipa a delle gare d'appalto e le vince perché è comunque in grado di fornire dei servizi. C' è una schizofrenia tra il progetto concretizzato del lavoro dei detenuti e una dirigenza che poi ha cominciato a fare affari sporchi. Ma ci tengo a dire che l'idea della rieducazione dei detenuti non possa essere stroncata dagli errori che qualcuno ha commesso". Mafia Capitale, tra le altre cose, ha chiamato il Pd di Matteo Renzi a fare i conti con vecchi apparati, vecchie collusioni. Che possibilità ha un partito di cambiare verso a una città come Roma? "Il problema non riguarda solo il Pd, ma tutti gli schieramenti politici: la classe politica, da sola, non è in grado di reggere l'impatto. Non basta un Ignazio Marino, un assessore come Sabella: la politica senza la società civile non ce la fa. E la dimostrazione è nella percentuale di astensionismo al voto. Io stesso, che ho sempre preso molto sul serio l'esercizio del diritto di voto, mi sorprendo a pensare quello che rimproveravo a mio padre quando ero un ragazzo: "Sò tutti uguali". Quando una classa politica assume l'atteggiamento da "non infastidite il manovratore", il legame con la società civile si consuma". Pensa che Ignazio Marino sia comunque un argine all'illegalità? "Fra i tanti politici che ho conosciuto, Marino mi è sembrato quello meno influenzato dalla mutazione genetica dell'homo politicus, cioè del professionista che valuta sempre freddamente l'interlocutore in termini di do ut des. Mi è sembrato lontano da questo modello, ed è evidente che una figura così inceppa un meccanismo consolidato, dà fastidio". I fratelli Vanzina hanno detto che sì, Mafia Capitale potrebbe diventare un film. Comincia una nuova stagione per la narrativa criminale? "Attenzione però alla trappola della commedia, la grande commedia all'italiana degli anni Cinquanta e Sessanta mordeva: da Sonego al primo Scola, fino alla stessa Dolce Vita di Fellini, la realtà veniva raccontata con la stessa forza che oggi ritroviamo in House of Cards. Dopo di loro è arrivato il tempo di una commedia più blanda e leggera, un po' caricaturale, all'insegna di "italiani brava gente". E invece gli italiani sanno essere molto feroci e protervi, lo stiamo dimostrando in questi tempi, e i tratti neri dell'italianità meritano di essere narrati". La Cassazione e la nuova legge: reato falso in bilancio più debole di Luigi Ferrarella Il Corriere della Sera, 17 giugno 2015 Una sentenza della Cassazione, annullando ieri sera la condanna per bancarotta a 6 anni e 9 mesi dell'ex sondaggista di Berlusconi, Luigi Crespi, avverte in controluce che la nuova legge sul falso in bilancio, in vigore da appena 48 ore, non solo non sarà in grado di punire quasi più alcun serio caso di falso in bilancio, ma anche che sta già iniziando a falciare i processi in corso. Con il paradosso quindi che la nuova legge, rivendicata dal governo Renzi come ripristino della portata penale del reato depotenziato nel 2002 da Berlusconi, ha invece l'effetto pratico contrario di cancellare anche quel poco che era rimasto. Tutta colpa di quattro parole - "ancorché oggetto di valutazioni" - che in marzo un emendamento governativo eliminò dall'iter di approvazione della norma, lasciando fuori dal perimetro di ciò che è reato i casi più frequenti e insidiosi di falso in bilancio: che ovviamente non sono quelli grossolani nei quali si comunica di avere ciò che palesemente non si ha, ma sono quelli raffinati nei quali si dichiara di possedere qualcosa stimato a un valore in realtà sballato se tarato correttamente alla luce del Codice civile, dei principi contabili nazionali elaborati dagli appositi organismi, e degli standard internazionali Ias/Ifrs. Magazzini, ammortamento dei crediti o stime immobiliari sono tipiche "valutazioni", alle quali persino la deprecata legge Berlusconi conservava almeno un minimo di punibilità se si scostavano dalla realtà per più del 10%. Il problema era stato segnalato su queste colonne il primo aprile, prima dell'ultimo voto sulla nuova legge che ha rialzato la pena sino a 8 anni di carcere (la più alta d'Europa, meno solo degli Usa), eliminato le soglie quantitative (5% del risultato economico, 1% del patrimonio, 10% delle stime), introdotto la procedibilità d'ufficio anziché a querela, e incluso anche le holding di controllo e le società che raccolgono risparmio. Tutte cose ottime. Ma, nel contempo, un caso da manuale di diritto simbolico. Perché questo formidabile arsenale - si notava - sarebbe rimasto pressoché inutilizzato visto il buco nella condotta-reato descritta dalla legge. Veniva infatti approvato un testo che puniva chi, al fine di conseguire un ingiusto profitto, "consapevolmente" espone "fatti materiali non rispondenti al vero". Era qui che si scorgeva già il problema: rispetto al testo precedente la formulazione "fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero" perdeva infatti il successivo inciso "ancorché oggetto di valutazioni", che invece c'era nel residuo falso in bilancio dell'era Berlusconi (con soglia fissata al 10% delle stime). E appariva difficile sostenere che fosse una svista o una dimenticanza, giacché questo inciso c'è ancora nella norma che la relazione governativa asseriva di aver ripreso come dichiarato parametro (l'art. 2638 sul reato di ostacolo alle funzioni dell'autorità di vigilanza), e c'è ancora nei reati tributari della legge 74/2000. Le segnalazioni caddero nel vuoto, in Parlamento nessuno argomentò né a favore né contro, la legge fu approvata così, e la sua entrata in vigore fissata a lunedì 15 giugno. Venerdì 12 giugno la Cassazione si trova a esaminare la condanna di Crespi per bancarotta del suo gruppo Hdc, dissesto cagionato in larga parte da moltissimi falsi in bilancio per valutazioni. Gli avvocati (Elia, Chiappero, Rossodivita e Sisto) fanno presente che fra 48 ore entra in vigore la nuova legge sul falso in bilancio, che a loro sembra non ammettere più le valutazioni tra gli elementi costitutivi del reato. A questo punto la Cassazione rinvia da venerdì a ieri, e in serata esce con un verdetto che annulla senza rinvio, cioè definitivamente, i segmenti di bancarotta di Crespi riconducibili ai falsi in bilancio per valutazioni, mostrando con ciò di ritenere appunto che la nuova legge non le ricomprenda più nel perimetro di reato (e che dunque l'imputato non possa essere condannato né riprocessato per qualcosa che oggi non è più reato). Via i 6 anni e 9 mesi di Luigi Crespi, i 4 del fratello Ambrogio e i 3 della moglie Natascia. Passa in giudicato solo la piccola porzione di pena (da rideterminare in un nuovo Appello) che si regge su una residua imputazione di falso in bilancio per fatti materiali. Diffamazione per il portale che non blocca le offese di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2015 Corte europea dei diritti dell'Uomo - Grande Camera - Sentenza 16 giugno 2015 n. 64569/09. Un portale di news, con finalità commerciali, che permette la diffusione di commenti che offendono la reputazione o incitano all'odio, senza procedere alla rimozione immediata, è responsabile per diffamazione. Nessuna violazione della libertà di espressione, garantita dall'articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, da parte dello Stato che, attraverso i tribunali nazionali, procede così ad applicare una sanzione al portale che non blocca i commenti. Lo ha stabilito la Grande camera della Corte europea dei diritti dell'uomo, il massimo organo giurisdizionale di Strasburgo, nella sentenza Delfi contro Estonia depositata ieri (ricorso n. 64569/09 ), primo caso di responsabilità di un portale di news per i commenti di terzi pubblicati sul sito affrontato da Strasburgo. La Corte ha respinto il ricorso di una società estone, che gestisce un portale di informazione, pubblicando articoli e notizie e consentendo l'aggiunta di commenti, senza moderazione e senza registrazione obbligatoria. Il manager di una società di traghetti era stato vittima di commenti offensivi e ne aveva chiesto la rimozione, avvenuta dopo 6 settimane. Di qui l'azione giudiziaria e la condanna del portale a una sanzione pecuniaria di 320 euro. Una conclusione conforme alla Convenzione europea. La Grande Camera, infatti, ha respinto il ricorso, confermando così la conclusione già raggiunta dalla Camera nel 2013. Strasburgo riconosce l'importanza di internet e di alcune caratteristiche proprie, come l'anonimato, ma ha tenuto anche a sottolineare i rischi che esso presenta vista la diffusione e la permanenza dei contenuti diffamatori. Trattandosi del primo caso in materia, la Grande Camera ha delimitato le proprie valutazioni allo specifico contesto del caso che vede al centro un portale di news, con finalità economica e non, invece, la diffusione di commenti tramite un forum autonomo esterno, attraverso social media in cui il provider non fornisce il contenuto o un blog amatoriale. Nel caso di specie, l'azienda non solo aveva il controllo dei contenuti pubblicati, ma ha anche invitato gli utenti a trasmetterli, integrandoli nel sito. Senza dimenticare che il portale era l'unico ad avere la possibilità di bloccare o rimuovere il commento, senza che l'autore, una volta postato, potesse fare nulla dal punto di vista tecnico per eliminarlo. Una combinazione di fattori che spinge la Grande Camera a escludere che il portale possa rivendicare un ruolo puramente tecnico, tipico dei providers, proprio per il controllo esercitato. Di conseguenza non è contrario alla Convenzione considerare il portale responsabile per i commenti che risultano illegittimi in modo evidente. In questi casi, infatti, non vi è alcuna protezione dell'articolo 10 della Convenzione che certo non tutela la diffusione di messaggi di odio, il negazionismo o la diffamazione. È vero che gli Stati hanno un ampio margine di apprezzamento quando vengono in rilievo due diritti in gioco (libertà di espressione da un lato e diritto alla reputazione dall'altro), ma con un preciso obbligo di non accordare protezione ai commenti diffamatori o di incitamento all'odio e, anzi, di prevenirne la diffusione. Desta poi stupore che la rimozione sia avvenuta dopo ben sei settimane e solo dopo la richiesta del legale. In ultimo, la Grande Camera ha giudicato la sanzione di soli 320 euro del tutto proporzionata. Abogados, l'abilitazione alle Corti superiori spagnole non vale per la Cassazione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 16 giugno 2015 n. 25210. Doccia fredda per gli avvocati italiani che hanno preso l'abilitazione in Spagna. Anche se in terra iberica si sono abilitati all'esercizio della professione presso le "Corti superiori", in Italia, per patrocinare in Cassazione devono comunque essere iscritti nella speciale sezione prevista per gli "avvocati stabiliti" (che prevede un minimo di 12 anni di anzianità professionale). Il chiarimento arriva dalla Suprema corte, sentenza 16 giugno 2015 n. 25210. Era stata la stessa imputata (condannata ad una ammenda per molestie telefoniche) a perorare la causa del proprio legale firmando di suo pugno una memoria aggiuntiva in cui sosteneva la sussistenza dell'abilitazione anche in Cassazione in quanto l'avvocato risultava iscritto "all'ordine degli avvocati di Foggia e nel collegio de advocat di San Feliu de Llobregat, abilitato all'esercizio della professione forense innanzi al Tribunale supremo spagnolo". La motivazione - La Suprema corte premette che il ricorso per Cassazione che non sia proposto personalmente dall'imputato deve essere sottoscritto, a pena d'inammissibilità, da un difensore iscritto nell'apposito albo speciale e che la relativa causa di inammissibilità integra un vizio originario dell'atto che "non potrebbe essere sanato nemmeno dal successivo conseguimento da parte del difensore della specifica abilitazione richiesta, né dai motivi nuovi che fossero presentati da un difensore cassazionista dopo la scadenza del termine per impugnare". Così ricostruito il quadro, gli "ermellini" osservano che le argomentazioni dell'imputata sono del tutto inconfererenti "per l'assorbente decisivo motivo che l'atto di gravame è stato proposto dal difensore in qualità avvocato iscritto nell'albo del Foro di Foggia" senza però essere iscritto nell'albo indicato nell'articolo 613 del codice di rito. Tuttavia, prosegue la sentenza, se anche il difensore avesse inteso far valere la diversa abilitazione professionale conseguita in Spagna, avrebbe comunque "dovuto dimostrare la sua iscrizione nella sezione speciale dell'albo degli avvocati stabiliti di cui all'articolo 6 Dlgs n. 96 del 2001 (SU 28340/2011), che postula, per l'esercizio del patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, l'iscrizione nella sezione speciale dell'albo degli avvocati cassazionisti prevista dall'art. 9 del suddetto Dlgs". Il decreto - emanato in attuazione della direttiva 98/5/CE - ha infatti ridisegnato l'intera disciplina della materia relativa all'esercizio della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello cui è stata acquisita la qualifica professionale, superando la precedente disciplina (art. 8 legge n. 31/1982) evocata dalla ricorrente. Avvocati, la formazione professionale non legittima il rinvio dell'udienza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 16 giugno 2015 n. 25262. Il corso di formazione professionale, seppure con frequenza obbligatoria, non costituisce mai un "legittimo impedimento" a comparire in udienza per il legale. La crescita professionale infatti non può essere equiparata alla necessità di assistere un altro cliente in un procedimento contestuale. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 25262/2015, respingendo il ricorso di un legale che aveva eccepito la nullità di una sentenza di condanna (falso giuramento, ex articolo 371 c.p.) per omesso rinvio dell'udienza "in relazione all'esigenza di seguire un ciclo di lezioni obbligatorie presso la Sacra Rota romana, asseritamente indispensabili per sostenere gli esami mensili a pena di esclusione dal corso". Le condizioni per il rinvio - La suprema corte nel respingere il motivo ricorda come l'assoluta impossibilità a comparire ai sensi dell'art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen, con conseguente diritto al rinvio dell'udienza è ravvisabile qualora il difensore: a) prospetti l'impedimento non appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni; b) indichi specificamente le ragioni che rendono essenziale l'espletamento della sua funzione nel diverso processo; c) rappresenti l'assenza in detto procedimento di altro codifensore che possa validamente difendere l'imputato; d) rappresenti l'impossibilità di avvalersi di un sostituto. Solo in presenza di queste condizioni, dunque, il giudice effettuerà una valutazione comparativa dei diversi impegni "al fine di contemperare le esigenze della difesa e quelle della giurisdizione, accertando se sia effettivamente prevalente l'impegno privilegiato dal difensore" o se abbia natura dilatoria. La formazione - Nessuna verifica va fatta invece qualora "il concomitante impegno professionale non riguardi l'esigenza di prestare il patrocinio nell'ambito di un altro procedimento penale, come nel caso in cui il patrono debba assistere un cliente in una causa civile o - come nel caso in oggetto - debba seguire un corso di riqualificazione professionale". Infatti, una volta riconosciuta la natura "subvalente" del procedimento civile, ne consegue che non sussiste neppure un legittimo impedimento a comparire "in caso di concomitante impegno del difensore dell'imputato legato, non all'esigenza di esercitare il patrocinio in un altro processo, bensì di seguire un corso di formazione professionale, seppure con frequenza obbligatoria". Il "legittimo impedimento" contemplato dall'articolo 420-ter, comma 5, infatti, "è suscettibile di assumere valenza impeditiva assoluta soltanto allorquando si tratti di contestuale impegno professionale che imponga la presenza del difensore e che assuma un rilievo preponderante". E proprio tale necessità di operare un bilanciamento dei valori in gioco "rende all'evidenza recessivo il diritto del legale - pur meritevole di considerazione - ad una crescita professionale, rispetto alle esigenze costituzionalmente presidiate di tutela del diritto di difesa dell'imputato e della giurisdizione nonché di una ragionevole durata del processo". Tempi rapidi - I giudici di legittimità bacchettano, poi, anche il giudice a quo perché a fronte di un tempestivo deposito della richiesta di rinvio da parte del difensore, la pronuncia sull'istanza si è fatta attendere. Per cui, chiosa la Corte, anche se non sono previste sanzioni processuali "all'onere di tempestiva comunicazione dell'impedimento facente capo al patrocinante dovrebbe corrispondere un correlativo onere del decidente di dare una tempestiva risposta all'istanza difensiva di rinvio, in un quadro di collaborazione fra i diversi soggetti processuali". Rinvio per la tenuità del fatto - In ultimo, con riguardo alla diversa richiesta di rinvio della trattazione in attesa dell'entrata in vigore della legge sulla "particolare tenuità dei fatto", la Cassazione afferma che "la necessità di attendere l'entrata in vigore di una legge che, in via meramente ipotetica, possa risolversi in un vantaggio per l'imputato, non è contemplata fra le cause di rinvio". E che del resto la materia processuale "è regolata dal principio del tempus regit actum, di tal che un procedimento può essere ritualmente celebrato e deciso senza tenere conto di una legge ancora non vigente". Lettera aperta sulla Sezione di Alta Sicurezza AS1 del carcere di Parma di Roberto Cavalieri (Garante dei detenuti di Parma) Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2015 Mi rivolgo con la presente alle SS.LL. per rappresentare alcune criticità che deriverebbero, qualora confermate, dalle notizie diffuse da alcuni organi di stampa e relative alla chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza nel carcere di Padova e al conseguente trasferimento dei detenuti ivi reclusi. Tali notizie riportano la decisione del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria di trasferire parte di questi detenuti presso la sezione AS1 (detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso)del carcere di Parma. Ad oggi risulterebbero essere stati realizzati già due trasferimenti fatto che ha di conseguenza intensificato le preoccupazioni sul degrado delle proprie condizioni di reclusione dei detenuti presenti a Parma. Come noto presso gli Istituti penitenziari di Parma è presente una sola sezione per detenuti AS1 sulle sei sezioni di Alta sicurezza, le restanti 5 sono per detenuti AS3 (detenuti condannati per reati associativi). A questa "nicchia" di detenuti, per ovvi motivi organizzativi del reparto Alta Sicurezza, restano poche occasioni di partecipazione ad attività che sono da considerarsi marginali rispetto a quelle destinate agli altri detenuti del circuito AS3. A quanto risulta allo scrivente le attività trattamentali presenti a Parma per i detenuti AS1 sono: - incontri del progetto Etica e Legalità gestito da alcuni volontari e che terminerà nel corso di quest'anno. - una attività con cadenza settimanale di produzione di prodotti da forno per la locale mensa per i poveri del Frati Francescani. - un corso di formazione professionale, se finanziato, della durata di 300 ore per anno (pari a 4 mesi di attività). - una attività sportiva strutturata di ginnastica con cadenza settimanale. Non è presente alcuna attività lavorativa significativa e solo ed unicamente, quando presente, ristretta ai lavori alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria per porta-vitto e poco più. Sotto il profilo dello studio questo è in gran parte rappresentato dalla autonoma iniziativa di alcuni detenuti che sono iscritti a percorsi universitari. Sotto il profilo della collocazione nelle celle questa è in parte soddisfatta in termini di assegnazione in cella singola, molto spesso sostenuta e obbligata anche da esigenze di salute, patologie psichiatriche e di studio dei detenuti. Ora, non entrando nel merito delle motivazioni che hanno orientato il Dipartimento verso la chiusura della sezione Alta Sicurezza del carcere di Padova, non posso non segnalare che il trasferimento di questi detenuti presso il carcere di Parma rappresenta una scelta non condivisibile sotto diversi profili che illustro di seguito: - l'offerta trattamentale presente nel carcere di Parma non è in alcun modo paragonabile a quella presente nel penitenziario di Padova e pertanto si penalizzerebbero in modo profondo le scelte, anche intraprese da anni, da parte di questi detenuti che qui a Parma non troverebbero altro che poche attività di trattamento spesso senza disponibilità di posti e con una erogazione assai rarefatta nel corso della settimana; il carico sanitario presente nel carcere di Parma, conseguente alla detenzione di persone con serie e complesse problematiche di salute e bisognose di prestazioni che spesso sono carenti sotto il profilo della tempestività di erogazione, si aggraverebbe con una ricaduta negativa per tutti i detenuti oltre che per il personale sia sanitario che dell'amministrazione penitenziaria; - le condizioni di vita dei detenuti AS1 sarebbero compromesse dovendo collocare due detenuti per cella con ricadute negative sia sul piano delle relazioni che della qualità psico-fisica della vita detentiva (in particolare per gli studenti e per i detenuti con problematiche sanitarie); - i detenuti del circuito AS1 e reclusi a Parma non hanno prospettive di sviluppo trattamentale e di partecipazione ad attività le quali, anche se proposte dal volontariato o dalla Comunità esterna, non sono realizzabili per problematiche organizzative legate ai divieti di incontro con i detenuti AS3, alla mancanza di spazi idonei e alle note questioni di disponibilità di personale addetto alla sorveglianza che possa permettere una "apertura" alle attività che vada oltre al normale, e ristretto, orario attuale che va dalle 9.00 alle 15.00 con un'ora di pausa. Solo a titolo di esempio rispetto a quanto esposto si vuole ricordare che ad oggi risulta essere non rispettata l'ordinanza di ottemperanza N. 2014-4127 Sius - N. 2014/1743 Ord emessa in data 15 luglio 2014 dal competente Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia a seguito di reclamo presentato da un detenuto, ancora presente a Parma, ai sensi dell'art. 35 della legge 26 luglio 1975. In tale ordinanza il Magistrato concedeva al detenuto di potere studiare in una sala dedicata e fornita di PC personale per un numero di ore discreto oltre alle ore di aria previste dal R.E. Per quanto illustrato si chiede alle SS.VV. di volere scongiurare il piano di trasferimento di detenuti AS1 presso il penitenziario di Parma al fine di garantire il livello attuale dei diritti dei detenuti anche se non del tutto soddisfacente e non sempre conforme ai dettami normativi. Lombardia: la Regione paga l'avvocato a chi si difende dai malviventi di Giannino della Frattina Il Giornale, 17 giugno 2015 La Regione offre assistenza legale gratis alle vittime di assalti accusate di eccesso colposo di legittima difesa. Fondi antimafia per 4 milioni. La Lombardia sarà la prima Regione a offrire gratuitamente la difesa legale alle vittime di reati contro il patrimonio o la persona accusati di eccesso colposo di legittima difesa. Una promessa fatta due anni fa in campagna elettorale dall'oggi governatore Roberto Maroni e da tutto il centrodestra e diventata ieri realtà in uno degli articoli della nuova legge per la "Prevenzione e il contrasto della criminalità organizzata e per la promozione della cultura della legalità" approvata ieri in consiglio. Un testo che comprende tutta una serie di interventi contro la delinquenza e le mafie, votato all'unanimità dall'intero emiciclo. E così chi dallo scorso gennaio è finito nei guai per essersi difeso magari da rapinatori armati entrati in casa o in un negozio, potrà già attingere al fondo per il gratuito patrocinio nei procedimenti penali. Nella legge già previsti per il solo 2015 quasi 4 milioni di euro per "contrastare la criminalità e diffondere la cultura della legalità". Di questi, spiega l'assessore Simona Bordonali, 200mila per spese di assistenza e aiuto alle vittime dei reati di stampo mafioso e della criminalità organizzata, per la prevenzione e il contrasto della criminalità comune e il contrasto delle truffe agli anziani, 300mila per la diffusione della cultura della legalità tra studenti e docenti, 100mila per assistenza e aiuto ai familiari delle vittime della criminalità e 350mila al fondo per il recupero sociale dei beni confiscati. "Una legge importante per contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata - ha detto ieri Maroni che da ministro dell'Interno ha fatto della lotta alle mafie la sua principale battaglia - Siamo la prima Regione a farlo e ho voluto essere presente in aula per testimoniare l'impegno che la Regione sta mettendo per garantire a chi vive e lavora in Lombardia di poterlo fare secondo le regole del mercato e non subire le distorsioni che genera la criminalità". Soddisfatto anche il Pd che con il presidente della commissione Antimafia Gian Antonio Girelli parla di "una giornata importante per la Lombardia che non è, come qualcuno dice, una regione mafiosa ma un territorio dove bisogna fare i conti con la forte presenza delle mafie e dare supporto alla parte sana della società, delle istituzioni e del mondo imprenditoriale". Ricordando la creazione di due nuovi organismi: il Comitato tecnico-scientifico a supporto degli organismi consigliari per la conoscenza della materia e il Comitato regionale per la legalità e la trasparenza dei contratti pubblici presso la giunta regionale. E poi il nuovo codice di autoregolamentazione per i consiglieri, la rivisitazione dei regolamenti anticorruzione, i corsi di formazione per amministratori locali e funzionari dei Comuni, il rafforzamento del rapporto con il mondo della scuola e l'università. Per il relatore della legge Stefano Carugo (Ncd) "vogliamo essere sentinelle contro la mafia e aiutare le vittime dal punto di vista economico e anche psicologico. Importante aver istituito la Giornata contro le mafie e in ricordo delle vittime, da celebrare in Lombardia ogni 21 marzo coinvolgendo le scuole". Per il capogruppo Fi Claudio Pedrazzini "importante è aver istituito due fondi: uno per gli enti locali che vogliano recuperare a fini sociali i beni confiscati alle mafie e l'altro per sostenere le vittime dell'usura e dell'estorsione. Ma con 1,5 milioni di euro abbiamo anche pensato anche alle vittime della violenza e dei danni durante le manifestazioni, come quelli dei no-Expo che il Primo maggio hanno devastato Milano". Per la portavoce "grillina" Silvana Carcano "finalmente i gruppi politici dovranno dotarsi di strumenti attivi di contrasto alla corruzione". Molise: nove infermieri per tre carceri e da gennaio rischiano di restare a casa di Rita Iacobucci primopianomolise.it, 17 giugno 2015 Nove infermieri professionali per tutte e tre le carceri molisane. A Campobasso operano h24 su tre turni, a Larino e Isernia non fanno più le notti. Sono precari. Anche loro precari della sanità del Molise, i meno visibili. Quelli di cui difficilmente ci si occupa. Entro ieri avrebbero dovuto firmare un nuovo contratto che "ci mette fuori a fine anno e se non ci saranno i soldi per il progetto non ci richiameranno", spiegano alcuni di loro. Non lo hanno sottoscritto e si sono rivolti ad un legale. In precedenza gestita dal ministero della Giustizia, dal 2008 la sanità penitenziaria è passata alle Asl con tutte le conseguenze in caso di piano di rientro. Gli infermieri lavorano con un rapporto libero professionale (alcuni da circa 25 anni), che prima era contemplato da una convenzione con il dicastero di via Arenula. Veniva rinnovata ogni due anni. E hanno una norma che li tutela, la 740/70. "Nel 2008 - scrivono in una lettera, con il passaggio della sanità penitenziaria alle Asl, la Regione Molise ha firmato un protocollo di intesa con il ministero della Giustizia, lo stesso protocollo, insieme alle linee guida nazionali, prevedeva entro un anno dal passaggio che il personale transitato doveva essere assorbito dalle Asl con un contratto migliorativo per non disperdere la professionalità acquisita, con concorsi interni o con posti riservati al personale che già vi opera. Nulla di questo è stato fatto". Anzi, da gennaio hanno saputo dalla direzione generale dell'Asrem che avrebbero dovuto essere sostituiti da infermieri di ruolo. "A nulla sono valsi i tentativi di giungere a una soluzione accettabile da entrambe le parti, tenendo conto anche delle difficoltà finanziarie in cui l'azienda versa", affermano ancora gli infermieri penitenziari del Molise. "Sono state prospettate al direttore generale varie soluzioni adottate anche da altre Regioni", proseguono, ma a loro è stato risposto "che sono soluzioni fantasiose e la Corte dei Conti ha deciso (chissà perché dopo 7 anni) che i nostri contratti sono illegittimi". Contestano al manager Pirazzoli di averli inseriti in un "progetto pensato apposta per mandarci via alla fine di dicembre 2015 di fatto uguale al contratto originario (adesso non è più illegittimo?). Si fa presente che un contratto stipulato con un libero professionista va concordato". Sono stati già effettuati tagli, evidenziano, per circa 250mila euro all'anno. Nemmeno la legge in discussione, di riforma della sanità regionale, risolve la loro situazione e poi, aggiungono, "le Regioni con piano di rientro non possono legiferare. La cosa più grave, è che ci sono colleghi di ruolo e quindi con contratto a tempo indeterminato che già lavorano in ospedale o ambulatori, disposti a sostituirci contribuendo a peggiorare la nostra situazione mettendo in mezzo ad una strada nove famiglie". Lecce: reinserimento lavorativo dei detenuti, intesa tra Scuola Edile e Casa circondariale leccenews24.it, 17 giugno 2015 L'obiettivo è ammirevole. Corsi di formazione se organizzano tanti. E spesso sono rivolti a laureati, diplomati o comunque categorie professionali specifiche. Pochi però si preoccupano di puntare sulle persone, ancor prima che del processo produttivo. Le aziende - o almeno quelle poche che assumono - dovrebbero considerare anche il lato umano. Scommettendo su uomini e donne con la voglia di ricominciare. Ebbene, tale aspetto potrebbe rappresentare un surplus non indifferente e perché no, anche un eventuale vantaggio competitivo. Questa rappresenta solo una delle ragioni per cui la Scuola Edile di Lecce e la Casa Circondariale di "Borgo San Nicola" intendono sottoscrivere un protocollo d'intesa molto, molto particolare e lodevole. Il protocollo si pone, infatti, la finalità di attivare una serie di progetti congiunti di collaborazione e sviluppo delle attività rivolte al miglioramento delle competenze professionali e alla riqualificazione dei detenuti ospitati presso la casa circondariale salentina. All'incontro con la stampa prenderanno parte: Massimiliano Dell'Anna, Presidente della Scuola Edile di Lecce; Rita Russo, Direttore della Casa Circondariale di "Borgo San Nicola" e Sandro Russo, Direttore della Scuola Edile di Lecce. Iniziativa di formazione professionale che va ad aggiungersi ad un'altra attività compiuta ultimamente presso il carcere del capoluogo salentino. Si ricordi, infatti, il progetto GAP (un esteso laboratorio territoriale di sperimentazione e contaminazione dei linguaggi contemporanei dell'arte nel dialogo), tramite cui venne effettuato un restyling che permise la costruzione una cucina nuova di zecca. Nell'occasione, gli stessi detenuti collaborarono alla progettazione e alla realizzazione dello spazio interessato assieme ai designer. Catania: detenuto ingiustamente per 5 anni, ora viene "risarcito" con mezzo milione La Sicilia, 17 giugno 2015 Risultato estraneo a un omicidio e assolto dopo sentenza di revisione della Corte d'Assise d'Appello di Catania ora ottiene 500 mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. Protagonista di questa storia è un agricoltore di Delia, ma molto noto a Canicattì, il bracciante agricolo Giuseppe Giuliana, di 50 anni. La sentenza è stata emessa dalla Corte di Appello di Catania che ha accolto l'istanza. I giudici hanno riconosciuto e liquidato allo stesso Giuliana, con l'ordinanza emessa il 14 ottobre dello scorso anno, a titolo di riparazione per errore giudiziario, quale indennizzo per la carcerazione ingiustamente subita, la somma di mezzo milione di euro ponendone il pagamento a carico dello Stato, in persona del Ministero dell'Economia e delle Finanze. L'omicidio per il quale Giuseppe Giuliana venne condannato ingiustamente è quello dell'imprenditore Luigi Lovalente, avvenuto 21 anni fa in contrada Cusatino, a Serradifalco. Somma che Giuliana, assistito dall'avvocato Angela Porcello, dopo un complesso iter amministrativo ha percepito ed incassato per come erogatagli dal Ministero dell'Economia e delle Finanze. Il risarcimento è scaturito a seguito dal giudizio di revisione definito con sentenza di proscioglimento emessa dalla Corte d'Assise d'Appello di Catania del 6 dicembre dello scorso anno. Giuseppe Giuliana è stato dapprima condannato con sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta del 4 luglio 1997 e confermata dalla Corte di Assise di Appello di Caltanissetta a 19 anni di reclusione per omicidio, detenzione e porto d'armi da fuoco, rapina aggravata commessi a Serradifalco l'11 settembre 1994. Successivamente fu promosso giudizio di revisione disposta all'assoluzione di Giuliana ritenendosi veritiero l'alibi fornito dall'imputato: in pratica i magistrati accertavano che la condanna di Giuliana era stato un errore giudiziario. Così l'uomo è stato assolto e scarcerato dopo avere ingiustamente subito 5 anni e 29 giorni di detenzione: a questo lasso di tempo trascorso ingiustamente in carcere dall'agricoltore di Delia, vanno aggiunti 2 anni 5 mesi e 4 giorni trascorsi con l'obbligo di dimora e di divieto di espatrio. Da qui l'indennizzo riconosciutogli quale liquidazione stimata in via equitativa per il subito danno morale ed esistenziale. Per l'omicidio di Luigi Lovalente sono stati condannati all'ergastolo, con sentenza passata in giudicato, altri due imputati di Delia, Cesare Genova e Cesare Giuliana, fratello di Giuseppe. Milano: attentato al Museo del Bardo, Touil resta in carcere "elevato pericolo di fuga" Il Giorno, 17 giugno 2015 I giudici della quinta Corte d'Appello di Milano hanno rigettato la richiesta di scarcerazione avanzata dall'avvocato di Abdel Majiid Touil, il 22enne marocchino arrestato a Gaggiano il 19 maggio con l'accusa di aver fatto parte del commando che assaltò il Museo del Bardo a Tunisi. I giudici hanno ritenuto che se Touil, attualmente detenuto ad Opera in una cella di alta sicurezza, dovesse uscire dal carcere potrebbe fuggire e il pericolo potrebbe essere elevato. Il difensore del 22enne, l'avvocato Silvia Fiorentino, aveva chiesto per lui l'obbligo di dimora a Gaggiano, dove risiede la famiglia, o in alternativa gli arresti domiciliari. "Al momento - ha commentato i difensore - mi riservo di valutare se sarà opportuno proporre ricorso in Cassazione contro il provvedimento o aspettare che il quadro ipotizzato da Tunisi sia più chiaro per ripresentare, dopo aver letto gli atti, una nuova istanza di modifica della misura cautelare". Torino: detenuto protesta salendo sul tetto del carcere, convinto a scendere dopo 5 ore torinotoday.it, 17 giugno 2015 L'uomo, di origine romena e recluso fino al 2018, protestava dichiarandosi innocente e pretendendo di essere lasciato libero. Dopo una lunga trattativa è stato convinto a scendere. È sceso senza nessuna conseguenza il detenuto che ieri mattina era salito per protesta sul tetto di un edificio del carcere di Torino. L'uomo, di origine romena e condannato alla reclusione fino al 2018 per possesso d'armi e reati di furto, aveva dato vita, in tarda mattinata, ad un'azione di contestazione contro l'istituzione penitenziaria. Salendo sul tetto del padiglione 5 del carcere Lorusso e Cutugno, si era professato innocente e aveva chiesto apertamente di essere scarcerato per poter rientrare in Romania. Sul posto nel primo pomeriggio sono intervenuti anche i Vigili del Fuoco e dopo una lunga trattativa, l'uomo è stato convinto a scendere ed è stato accompagnato in ospedale. Rientrerà in cella in serata. Determinante è stata la mediazione del console romeno nel capoluogo piemontese che dopo circa tre ore è riuscito nell'intento di farlo desistere. Il detenuto, secondo il sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe, aveva già tentato un gesto clamoroso nei giorni scorsi per gli stessi motivi. Padova: Sappe; carcere Due Palazzi, due detenuti preparavano l'evasione di Roberta Polese Corriere Veneto, 17 giugno 2015 Trovati nella cella degli arpioni in ferro, droga e altre quindici schede telefoniche. Quello di ieri è l'ennesimo caso di ritrovamento di droga e tessere telefoniche all'interno del carcere Due Palazzi. Due inchieste hanno portato davanti al giudice decine tra guardie carcerarie e detenuti. Padova Con ogni probabilità stavano preparando un'evasione i detenuti del carcere di Padova. In una operazione che si è conclusa nei giorni scorsi gli agenti della polizia penitenziaria hanno trovato una decina di piccoli arpioni in ferro, costruiti artigianalmente dai carcerati con materiale di recupero come le reti in ferro del letto. Sequestrate anche una quindicina di schede sim che erano a completa disposizione dei detenuti, in barba a ogni divieto. Sempre nell'ambito degli interventi è stato sequestrato anche qualche grammo di hashish. Sono due le persone che sono state segnalate alla procura: si tratta di due detenuti che avevano nascosto le schede dentro il materasso, intagliandolo con cura per non farle trovare. La polizia penitenziaria ha redatto una dettagliata informativa sull'operazione, che si aggiunge a quelle che gli agenti fanno quotidianamente, visto che è da mesi ormai che i sequestri di materiale vietato sono all'ordine del giorno. "Cerchiamo ovviamente di fare quello che si può - dice Giovanni Vona del Sappe - siamo sotto organico ci mancano almeno altre 36 persone che non sono mai state sostituite dall'autorità competente - aggiunge - è vero che questo è il nostro lavoro, ma le condizioni diventano sempre più precarie, in carcere entra di tutto, teniamo conto che dentro la struttura entrano almeno 200 civili al giorno, tra visite e altro, da quando c'è stata l'operazione della squadra Mobile, che ha tolto di mezzo le mele marce, i casi di ritrovamento delle Sim sono aumentati, anche perché per noi ora diventa più facile trovarle". Il riferimento è all'inchiesta che ha portato alla denuncia di molte guardie carcerarie conniventi con carcerati e disposte, dietro al compenso di denaro da parte dei parenti dei detenuti, portavano in carcere sim, droga e video hard. Rapinatore pagava per esser trattato bene (L'Arena di Verona) I primi arresti furono nel luglio dello scorso anno, ne seguirono altri e l'indagine alla fine si è "suddivisa" in tre filoni il cui comune denominatore sono le "regole" dettate al Due Palazzi di Padova da un gruppo formato da detenuti e agenti di polizia penitenziaria. In meno di un anno l'indagine della squadra Mobile di Padova iniziata nel 2013 è arrivata davanti al gup. E tra coloro che sono accusati di aver pagato alcuni agenti per ottenere un trattamento "di minor rigore", recita il capo di imputazione, c'è anche il rapinatore veronese Alex Mosca. L'altro giorno lui e altri tre imputati (due detenuti e un agente in servizio al Due Palazzi) sono comparsi davanti al giudice dell'udienza preliminare Domenica Gambardella (che sta trattando il primo filone) ma torneranno in aula il 1° luglio, quando l'intera operazione sarà riunita in un unico procedimento e solo allora saranno delineate le linee processuali, anche se Mosca (difesa Maurizio Milan e Marcello Manzato) non intenderebbe avvalersi di riti alternativi. Il trentenne, condannato in passato perché ammise di aver effettuato una quarantina di rapine (ma per una presentò ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo) e nell'aprile 2012 condannato per detenzione illegale di armi, è accusato di aver fatto arrivare denaro a Francesco Corso, agente di polizia penitenziaria in servizio al Due Palazzi, nel corso del 2010 (quando in carcere a Padova) perché la vigilanza fosse meno rigorosa. Lo stesso agente (difesa Simona Buda) è accusato di corruzione perché avrebbe ricevuto denaro da altri due detenuti, Goran Jelisic (difesa Pellizzari) e Salvatore Allia (Mario Murgo il suo legale). Al primo aveva ceduto in alcune occasioni il cellulare affinché potesse effettuare chiamate non autorizzate, al secondo tra gennaio e maggio 2012 avrebbe invece procurato un telefono e piccole quantità di sostanza stupefacente. Era questo il quadro che emerse al termine dell'indagine che culminò con 15 arresti in luglio e decine di perquisizioni oltre che di indagati. A capo dell'organizzazione un capoposto, Pietro Raga, già arrestato dalla Dda per fatti analoghi nel 2001 quando lavorava nel carcere di Avellino. Raga, soprannominato "capo" o "uomo brutto", riceveva il denaro, anche tramite Western Union, che poi smistava agli altri agenti. Un'inchiesta che scosse il sistema carcerario e dopo gli arresti di luglio due indagati si sono suicidati. In luglio saranno ratificati i patteggiamenti, si discuteranno gli abbreviati e verranno disposti i rinvii a giudizio. Velletri (Rm): Ugl; sistema al collasso, serve una vera riforma del sistema penitenziario omniroma.it, 17 giugno 2015 "L'Ugl Polizia Penitenziaria chiede al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, una vera e concreta riforma del sistema penitenziario. Più tempo passa e più la situazione per le carceri italiane diventa insostenibile". Lo afferma in una nota Alessandro De Pasquale, responsabile nazionale della Federazione Ugl Polizia Penitenziaria, "che indica come esempio la casa circondariale di Velletri, emblema della crisi del sistema penitenziario, visto lo stato di degrado in cui versa da anni". "È preoccupante registrare - precisa il sindacalista - oltre i tanti disagi cronici che la struttura è costretta a subire, come il sovraffollamento e la carenza d'organico, il ritrovamento di telefoni cellulari all'interno della struttura usati dagli stessi detenuti". "È giunto il momento che i vertici dell'amministrazione penitenziaria valutino con attenzione come e quando agire - prosegue De Pasquale - tenendo conto della necessità di inviare altri agenti, vista la forte carenza di personale. Lo scorso 31 marzo, infatti, i detenuti presenti all'interno della struttura - evidenzia - erano 539, ben oltre la capienza regolamentare". "La tensione che si respira a Velletri - conclude - viene confermata anche dai numeri, sempre più in aumento, di tentati suicidi oltre che di casi di violenze ed aggressioni. Negli ultimi due anni sono stati registrati circa 64 episodi di autolesionismo e 6 colluttazioni". Torino: Osapp; al Cpa per minori nove agenti impiegati a fare nulla di Claudio Laugeri La Stampa, 17 giugno 2015 Nove agenti di polizia penitenziaria impiegati a fare nulla. E i loro vicini di ufficio, costretti a fare i salti mortali per il superlavoro. È la situazione del "Centro di prima accoglienza" (Cpa, collegato al carcere minorile "Ferrante Aporti"), che il sindacato Osapp definisce "paradossale". Il segretario generale Leo Beneduci ha denunciato la questione ai vertici dell'amministrazione penitenziaria, ma soprattutto ha scritto alla Corte dei Conti "per la verifica dello straordinario effettuato in assenza di minori". L'amministrazione ribatte: "Non è così, quando non sono occupati gli agenti aiutano a sorvegliare procura e tribunale dei minori". La denuncia Paradosso nel paradosso, è proprio il sindacato a segnalare l'emergenza "non-lavoro". Ma ci sono agenti della penitenziaria costretti a "turni massacranti, che possono superare anche le 10-13 ore" a causa della "discutibile organizzazione del lavoro". Con tanto di straordinari conteggiati "dalle 50 alle 70 ore al mese", rinunce al riposo settimanale e agenti "costretti a lavorare senza sosta fino a 40 giorni consecutivi". Tutto questo a causa della "politica abnorme di distacchi "dal "Ferrante Aporti" al Cpa. Il segretario Osapp Beneduci definisce "incomprensibile" la scelta "di spostare personale" dal carcere minorile in una struttura "a un metro di distanza, divisa da un solo cancello-muro". Soprattutto, quando c'è poco o nulla da fare. Il sindacalista punta il dito contro Antonio Pappalardo, dirigente del Centro giustizia minorile di Piemonte e Valle d'Aosta, che "non assume alcuna determinazione intesa a migliorare le condizioni". "Il protocollo è stato sottoscritto da tutti i sindacati - risponde Pappalardo. Il personale è impegnato anche nell'apertura e nella chiusura della palazzina, dopo il pensionamento del custode". "È un impegno di mezz'ora al mattino e alla sera. Nulla di più" spiega l'Osapp, che ricorda come "l'accordo sia stato fatto due anni fa. Di recente, abbiamo segnalato la mutata situazione. Aspettiamo risposte". Le proposte Il documento indirizzato alla Corte del Conti definisce "inusuale per un sindacato" l'intervento in questione, puntato sullo "spreco di risorse" umane. Ma lo stesso segretario Beneduci passa, poi, a "suggerire proposte per alleviare tale drammatica quanto ingiustificata carenza di personale". La prima soluzione è di "far rientrare immediatamente il personale distaccato" oppure di far diventare quel servizio "a chiamata", per evitare l'impiego di agenti quando il Cpa è vuoto. Come è accaduto sovente, negli ultimi tempi. Un esempio su tutti: a gennaio, per 24 giorni su 31 nessun minorenne è stato portato nel Centro. Firenze: l'Opg apre le porte ai cittadini, ecco il calendario di "R…estate a merenda" gonews.it, 17 giugno 2015 L'Ospedale Psichiatrico Giudiziario apre le porte alla cittadinanza con l'obiettivo di sensibilizzare la popolazione e l'opinione pubblica al tema della salute mentale e favorire la reciproca conoscenza. Oggi la lotta allo stigma è un percorso importante in previsione anche della chiusura dell'O.P.G. e del ritorno dei pazienti psichiatrici autori di reato nei territori di appartenenza. L'iniziativa, promossa dall'unità operativa complessa Salute in Carcere dell'Ausl 11 di Empoli, e condivisa e sostenuta dal Ministero della Giustizia-Direzione O.P.G., si articolerà durante tutta l'Estate secondo il seguente calendario: 30 giugno, 15 luglio, 31 luglio, 11 agosto. Dalle ore 17.00 alle ore 19.00 all'interno dell'Istituto. Sono previsti momenti di intrattenimento, di convivialità e sarà offerta una merenda. È prevista per ogni data la partecipazione di massimo 30 persone che dovranno prenotarsi almeno 8 giorni prima della data prescelta, inviando via mail copia del documento di identità al seguente indirizzo: areatrattamento.op.montelupofiorentino@giustizia.it. Per info: 0571/913098 ufficio educatori. Si ricorda che tutti coloro che faranno richiesta di partecipazione, saranno sottoposti ai controlli previsti per l'ingresso e dovranno rilasciare autocertificazione per carichi pendenti e pregiudiziali penali. "Migranti in carcere 6 mesi se non si riesce a espellerli", la linea dura dell'Europa di Marco Zatterin La Stampa, 17 giugno 2015 "Voi avete davanti tre amici che si confrontano con un problema difficile e cercano di risolverlo insieme", comincia il francese Bernard Cazeneuve, pressato dai giornalisti, stretto fra il tedesco De Meziers e Angelino Alfano. È un chiaro invito alla pace, a dimenticare le polemiche e a trovare una risposta "europea" all'ondata di disperati che fugge dalle guerre attraverso il Mediterraneo. "Abbiamo sempre rispettato le regole e continueremo a farlo", gli risponde l'uomo del Viminale, negando che a Roma si pensi a permessi temporanei che consentano agli illegali di scappare. "Pensiamo al futuro - insiste, lavoreremo con Parigi anche rafforzando la cooperazione di polizia alla frontiera, per evitare che ciò che è successo a Ventimiglia torni a ripetersi". È un auspicio che aiuta a calmare le acque. Meglio ancora se di qui a fine mese l'Ue riuscirà a trovare un compromesso sulla mossa con cui la Commissione ha proposto ai Ventotto una redistribuzione d'emergenza e temporanea di 40 mila migranti aventi diritto di protezione, 24 mila presi dall'Italia e 16 mila dalla Grecia. Ieri i ministri degli Interni, riuniti a Lussemburgo, hanno compiuto qualche passo avanti, come ci si attendeva. L'orientamento indica una possibile soluzione: meccanismo di riallocazione volontario e coordinato; creazione di centri "hotspot" finanziati dall'Ue per centralizzare e ottimizzare i controlli e le identificazioni; interventi per rendere efficace l'azione di rimpatrio visto che, in media, solo il 40% degli espulsi esce dall'Ue. Di qui al vertice europeo del 25, e poi al nuovo incontro in formazione Interni a metà luglio, il pacchetto dovrebbe essere chiuso. I lussemburghesi, dal 1° luglio guida di turno dell'Ue, dicono che si può fare entro il mese prossimo. Ma Alfano spinge: "Abbiamo chiesto e ottenuto che le quote siano vincolanti per tutti". Non c'è ancora decisione, anche se una fonte Ue conta in "14-15" i sostenitori dell'obbligatorietà. "Prenderemo tutti i migranti che potremo e anche di più ma su base volontaria", assicura una fonte spagnola. Questa sarà la linea. In dubbio l'idea della Commissione di varare entro l'anno una proposta per un meccanismo permanente. Ma gli interessati vogliono andare avanti. I quarantamila saranno dunque con ogni probabilità redistribuiti da quest'estate nell'arco di due anni. È la solidarietà che deve essere bilanciata con la responsabilità. Il vertice europeo punterà pertanto sui rimpatri carenti (solo un cacciato su cinque da Italia e Francia sene va davvero). Il commissario Avramopoulos ha scritto Ai ministri suggerendo soluzioni. Nel testo, anticipato ieri da lastampa.it, si ricorda che "per assicurarsi che i migranti irregolari siano effettivamente rimpatriati, si dovrebbe ricorre all'incarcerazione come una legittima misura di ultima istanza", sino a un massimo di 6mesi. Il greco promette un "hand book" che riassuma le migliori soluzioni usate dai virtuosi (baltici, britannici, tedeschi) che respingono davvero oltre il 60per cento degli irregolari; l'Italia è al 20%. Bruxelles studierà la possibilità di "introdurre le decisioni di espulsione decretate dagli Stati nel sistema informativo di Schengen".Oggi, è difficilissimo sapere se un fermato è già stato espulso altrove. "La solidarietà non può essere volontaria", avverte Avramopoulos. Si appoggerà agli "hotspot" pagati dall'Ue che dovrebbero agevolare le procedure. L'imperativo è distinguere chi ha bisogno di protezione da chi deve partire. "L'Italia vuole anche superare il muro di Dublino", aggiunge Alfano. È il regolamento che impone di portare i ripescati nel porto più vicino (cioè da noi). Il Consiglio capisce che serve una soluzione. Tedeschi e francesi restano scettici, ma hanno un piano. Ci vorrà altro tempo. Migranti ed elezioni Renzi, non sta sereno di Daniel Rustici Il Garantista, 17 giugno 2015 Senza ombra di dubbio è una vera e proprio disfatta per il Partito Democratico quella che che emerge da questo secondo turno di elezioni amministrative. I dem oltre alla sfida più importante, quella di Venezia, dove il senatore ed ex pm Felice Casson- in testa al primo turno- è stato scavalcato con il 53,2% dall'imprenditore Luigi Brugnaro hanno infatti perso anche quelle di Arezzo, Rovigo, Fermo, Matera e Nuoro: tutte città in cui due settimane fa il centro-sinistra era risultato in testa. I democratici ammettono a metà la sconfitta: "Dai ballottaggi" dice il vice-segretario Guerini, "vengono risultati con luci e ombre. Brucia la sconfitta di Venezia come quelle di altre città importanti. Aver riconquistato città simbolo come Mantova o Trani o confermato buoni amministratori a partire da Lecco non è sufficiente a giudicare positivo questo risultato". "L' analisi puntuale, aggiunge poi il vice di Renzi, "conferma che il Pd è nettamente il primo partito in Italia anche nel numero dei sindaci, ma non è sufficiente a farci brindare stanotte". Minimizza l'esito del voto il ministro alle Infrastrutture Graziano Del Rio: "I risultati sono a macchia di leopardo, in qualche posto ha vinto il centrosinistra, in qualche altro il centrodestra, è la politica, sono le scelte dei cittadini. Il dato che sempre mi preoccupa è l' astensionismo". Mentre per l'ex candidata alle primarie del Pd Laura Puppato, almeno in Veneto, siamo davanti a una sconfitta innegabile del partito del premier :"Se in Italia si può parlare di un sostanziale pareggio, nella nostra regione la sconfitta è palese e innegabile e riguarda tutte le anime del Partito, dobbiamo chiederci a questo punto quale possa essere la via alternativa per rifondare il Pd veneto. Credo che a questo punto il Congresso non sia più rimandabile". Esultano invece le varie anime del centro-destra anche se, almeno stando ai dati dell'affluenza che dicono che ad andare alle urne è stato solo poco più del 47% degli aventi diritto, la disaffezione degli elettori per la politica sembra a trecentosessanta gradi. "È certamente positivo", commenta il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri "che il risultato del ballottaggio alle comunali per il centrodestra. Passano da sinistra a destra Arezzo, Matera, Venezia, Lamezia, Viareggio ed altri centri, si afferma in molti altri casi un modello di proposta civica che comunque sconfigge la sinistra e si dimostra che il fenomeno Renzi si sta sgonfiando". Gli fa eco il capogruppo azzurro alla Camera Renato Brunetta: "Si può tranquillamente dire che il centrodestra unito vince". Esulta anche Salvini che affida a Twitter il suo commento: "Bellissimi risultati per sindaci #Lega e sostenuti da Lega. Da oggi subito al lavoro: cambiare si può. #Renzi, stiamo arrivando". E poi a "Otto e mezzo" su La7 aggiunge: "Ho in programma un incontro con Berlusconi per capire se possiamo ragionare assieme ad esempio sull' Europa. Ci stiamo preparando per un governo alternativo, vediamo se Berlusconi è interessato alle nostre proposte". Il Cav ieri ha festeggiato ad Arcore con i suoi sta ragionando anche lui a un alleanza stabile con la Lega. Ma Sacconi, di Area Popolare, invita il Carroccio a mettere giù le mani dai risultati elettorali: "La vittoria di Luigi Brugnaro a Venezia", spiega l'ex ministro del Lavoro, "premia innanzi tutto il coraggio di un uomo che in un tempo difficile si è messo in gioco per il bene della sua comunità. Non ha senso etichettarlo ora come banale espressione del vecchio centrodestra o peggio ancora della sua estremizzazione ad opera di Salvini". "Nel Veneto", prosegue Sacconi, "è legittimo ora auspicare l' aggregazione di tutti i moderati, a partire dalla sei liste che hanno sostenuto Tosi per comprendere le molte liste municipali alternative alla sinistra ed insieme ben distinte dall' estremismo della nuova Lega". Da Sel arriva invece un'altra lettura del voto: "Nella sconfitta secca e pesantissima ai ballottaggi in città molto importanti come Venezia, Arezzo e Matera", spiega il capogruppo alla camera dei vendoliani Arturo Scotto, "l' elettorato ha detto una cosa molto semplice e molto chiara: se metti in atto l' agenda della destra loro votano l'originale. I ballottaggi ci dicono inoltre che finisce l' autosufficienza del Partito della Nazione, l' illusione su cui Renzi ha costruito l'Italicum. C'è molto da riflettere per il Pd e per il governo". Mentre a Beppe Grillo basta una parola per commentare questa tornata elettorale che ha regalato ai 5stelle altri tre sindaci: "TripleteM5S". Una bella rimpatriata di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 17 giugno 2015 L'Unione europea prepara rimpatri e muri, l'Italia si accoda e mostra il pugno duro. Vergogna di Ventimiglia e ideologia dell'esclusione. Le scene al confine di Ventimiglia con la polizia italiana scatenata contro i migranti rincorsi fin sugli scogli, è un'estate al mare difficilmente dimenticabile quanto a vergogna del Belpaese e odiosità. Il ministro Alfano, con la coda fra le gambe di fronte alla protervia dei ministri degli interni europei, l'ha perfino rivendicata in pieno dal vertice di Lussemburgo. Come a dire: guardate che anche noi siamo capaci di essere forti con i deboli e di respingere con la violenza i migranti. In più coniando - copiando da film - la parola hot spot, per la necessità dichiarata di avere a disposizione "siti" necessari per la verifica dei possibili rimpatri. "L'efficacia del sistema - ha detto Alfano - dipende da come si gestiscono gli ‘hot spot', centri d'identificazione in cui separare i rifugiati da chi emigra per ragioni economiche, che va rimpatriato. se gli hot spot non funzionano, salta il sistema". Eccola l'Europa unita, l'area economica più ricca della terra, ecco l'Italia che si fa "protagonista": dal prezioso soccorso ai disperati sui barconi di Mare Nostrum siamo passati, sotto l'incubo delle varie elezioni interne, alla missione Triton di blocco e respingimento (solo perché è sotto le telecamere di mezzo mondo, che vengono aiutati, sbarcati e avviati nei centri d'accoglienza dai quali saranno respinti), per annunciare una impossibile - per ora - guerra in Libia; poi da Triton siamo precipitati alle quote, rifiutate da tutta l'Unione nonostante l'esiguità (solo 40mila profughi da ripartire tra 28 Paesi); adesso dalle quote approdiamo ai rimpatri, anche violenti, dei cosiddetti profughi economici. Perché si può fuggire dalle guerre - almeno a chiacchiere - per sottoporsi poi alla verifica infernale del diritto d'asilo sì diritto d'asilo no, ma dalla miseria e dai disastri economici è vietato fuggire. Impossibile abbandonare le diseguaglianze di accesso ai beni che la nostra economia occidentale ha creato in Africa. Lì dove in molte economie ricchissime di risorse minerarie, di terre e di agricoltura, i popoli invece vivono in miseria, assoggettati a poteri e leadership che noi ben conosciamo, ben ricompensiamo e che siamo pronti a ben remunerare se riprendono indietro gli "scarti umani": siamo all'accaparramento delle vite altrui, altro che land grabbing. Il profugo economico non passerà mai più dalla fortezza europea. Naturalmente siamo ormai fuori da ogni sistema di convenzioni internazionali che sostengono l'impianto - residuo - delle Nazioni unite che ormai impallidiscono con il loro diritto internazionale, già ampiamente svalutato dalla pratica della guerra, di fronte al fortino del Vecchio Continente e alle sue nuove regole devastanti ogni principio di civiltà e umanità. Perché se continua così anche il diritto d'asilo sarà rimesso in discussione di fronte all'autorità di chi ha condotto le guerre "umanitarie" nelle terre da dove oggi fuggono i migranti: chi arriva dal Mali, dov'è in corso l'intervento francese che riguarda anche Niger e Ciad, vale a dire la fascia sottesa al deserto della Libia, distrutta da un altro "nostro" intervento militare, come può mai pensare di fuggire e chiedere asilo se le truppe francese stanno già "garantendo" democrazia e civiltà? E chi fugge dal Kosovo - dalla cui miseria sono in fuga in più di centomila dall'inizio dell'anno - la terra che ha visto il primo intervento umanitario della Nato, come potrà mai rivendicare il diritto d'asilo se i nostri bombardamenti del 1999 sono stati giustificati proprio per risolvere e "pacificare" quella crisi? Rimpatriamoli e basta: soprattutto perchésono i testimoni dei nostri, ripetuti fallimenti bellici. E poi? La risposta arriva da Parigi e da Budapest: si avanza la proposta di nuovi muri, dopo quello spagnolo di lame e filo spinato di Ceuta e Melilla, ne viene previsto uno dall'immaginario concentrazionario europeo anche a Calais e, minaccia il duro Viktor Orbán, subito sulla frontiera serbo-ungherese. E allora via alla bella rimpatriata. Ventimiglia, al confine della realtà di Luca Fazio Il Manifesto, 17 giugno 2015 Una mattina di paura e sgomento per decine di migranti che la polizia ha trascinato a forza su furgoni diretti alla stazione. Mani sulla faccia, persone trascinate a forza, donne che urlano, fuggi fuggi generale. Una mattina di paura e sgomento per decine di migranti che la polizia ha trascinato a forza su furgoni diretti alla stazione ferroviaria. Un'operazione inutile che non ha disinnescato la protesta dei migranti che ancora ieri notte hanno dormito arrampicati sugli scogli della cittadina ligure. Per alcune persone gli scogli sono il posto più sicuro al mondo. Pochi centimetri quadrati di libertà, almeno quella di non farsi mettere le mani in faccia. Hanno viaggiato per mesi e hanno sfidato la morte prima di accovacciarsi nell'unico luogo dove nessuno, credono, può trattarli come delle bestie. Nemmeno la polizia, perché sarebbe troppo pericoloso (un sussulto di buon senso, forse). Sono ottanta persone costrette ad aggrapparsi a un lembo di terra tra l'Italia e la Francia, gli scogli di Ventimiglia, Europa, dove i più elementari diritti umani sono stati sospesi in nome di un'emergenza che non esiste. Hanno paura, loro malgrado sono diventati il simbolo della disumanità di un continente moribondo, ma comprendono che le loro vite in bilico esibite in riva al mare sono un messaggio fortissimo, difficile da sopportare anche per le burocrazie del vecchio continente. Vogliono restare lì per non rischiare di scomparire in qualche stanzone improvvisato per chissà quale accoglienza. Li chiamano "irriducibili". Di giorno si riparano dal sole con gli ombrelloni regalati dai cittadini di Ventimiglia, di notte si scaldano con le coperte termiche. "Quelle immagini sono un pugno in faccia all'Europa" ha detto il ministro dell'Interno Angelino Alfano, un marziano, un incapace, come se ieri non ci avesse messo del suo comandando un intervento inutile, disordinato e violento per allontanare con la forza alcuni migranti che dormivano in una pineta vicino al mare, quelli che non si sono rifugiati sugli scogli. Un'azione insensata che almeno per una questione di "decoro" (in questi giorni sono tutti così affezionati al "decoro") le autorità italiane avrebbero potuto risparmiarsi. Mani in faccia e sul collo, persone braccate e caricate a forza sui furgoni della Croce Rossa, donne che piangevano, urla, bambini spaventati, il tutto per "invitare" i migranti a spostarsi alla stazione di Ventimiglia. Secondo la polizia, lo sgombero si sarebbe reso necessario anche per non meglio precisati motivi di igiene. Alla fine del parapiglia due eritrei sono stati fermati con l'accusa di aggressione e resistenza a pubblico ufficiale. Gli scogli però non sono stati liberati: "Abbiamo bisogno di passare, non torneremo indietro" gridavano ieri sera gli ottanta profughi aggrappati in riva al mare. Anche la Croce Rossa "prende le distanze dallo sgombero" scrivendo in una nota "di non aver prestato il fianco ad azioni di forza". Quel furgone, scrive la Cri, doveva essere utilizzato solo per operazioni di soccorso. Una nota inusuale. L'Arci Imperia (e l'Arci Nazionale) invece parla di vergogna europea e impotenza italiana. Secondo l'associazione il blitz improvviso sarebbe stato pensato per inqualificabili esigenze mediatiche: "Un modo per accontentare le telecamere sempre alla ricerca di immagini cruente e per tentare di dimostrare efficienza e autorevolezza". Con questo risultato: "È stata liberata l'aiuola antistante un noto ristorante di lusso, una decina di migranti sono stati riportati alla stazione mentre gli animi si sono ancora più surriscaldati al confine di Stato, dove un centinaio di persone allo stremo continuano a sollecitare un intervento dei governi europei affinché venga riconosciuto il loro diritto a circolare liberamente". Un pugno in faccia anche all'Italia e al suo governo. Per Nicola Fratoianni (Sel), che è a Ventimiglia con una delegazione del suo partito, è stata "una prova di forza inutile ed umiliante per persone che già hanno sofferto abbastanza". Sullo spicchio di mondo al confine tra Italia e Francia intanto gli uomini liberi di circolare continuano a fare avanti indietro. Costa Azzurra, riviera di Ponente. C'è chi si ferma a curiosare, qualcuna dona qualcosa, altri imprecano, molti solidarizzano e altri ancora continuano a fare il loro mestiere. La polizia ieri sera presidiava anche i sentieri che dalla frontiera scendono fino alla scogliera per intercettare i profughi respinti dalla Francia, mentre la Croce Rossa Italiana e l'omologa francese si sono riunite per cercare di gestire al meglio una questione di natura religiosa: domani in Italia inizia il Ramadan e sugli scogli ci sono molti musulmani osservanti. Droghe, un milione di sanzioni di Sergio Segio Il Manifesto, 17 giugno 2015 Il numero di quanti sono finiti in galera in un quarto di secolo per la legge sulle droghe è impressionante e probabilmente incalcolabile per intero. "Troveremo una soluzione per dire con più chiarezza che drogarsi non è lecito. Ma il carcere per i tossicodipendenti, quello no. In coscienza non mi sento di arrivarci. E per la verità mi sembra non ci pensino neanche i socialisti". Così dichiarava, certamente in buona fede, Rosa Russo Iervolino, madre della disciplina sulle droghe all'epoca in discussione ("la Repubblica", 30-31 ottobre 1988). Il numero di quanti sono finiti in galera per quella legge in un quarto di secolo (sic!), nonostante le mitigazioni introdotte dal referendum del 1993 e, all'opposto, grazie anche alla recrudescenza portata dalla legge Fini-Giovanardi del 2006, è impressionante e probabilmente incalcolabile per intero. Basti solo ricordare che i detenuti presenti in carcere al 31 dicembre sono passati dai 29.113 del 1990 ai 34.857 del 1991 e ai 46.968 del 1992. Un numero invece definito è quello delle sanzioni amministrative (per modo di dire, dato che in caso di inottemperanza possono divenire penali). Secondo i dati più recenti, contenuti ne "Le tossicodipendenze in Italia", anno 2013, a cura del ministero dell'Interno, dall'11 luglio 1990 al 31 dicembre 2013 le segnalazioni ai Prefetti a norma dell'art. 75 T.U. 309/90 - che sanziona le condotte di minore gravità, vale a dire la detenzione per uso personale - sono state in totale 989.702, 243.220 le sanzioni comminate e 142.953 le richieste di programma terapeutico, mentre le persone segnalate sono state ben 828.416 (33.431 nel solo 2013), di cui 72.754 minorenni. Le segnalazioni riguardano in larghissima misura il possesso di cannabinoidi (727.842 in totale, di cui 28.362 nel 2013), seguiti a distanza da eroina (rispettivamente 134.581 e 2230) e cocaina (99.146 e 4350). Esattamente rovesciata la casistica dei morti: nel 2013 si sono registrate 349 vittime (secondo i dati aggiornati al 5 novembre 2014); dei 199 casi in cui è stato possibile risalire alla presunta sostanza causa del decesso, 148 sono da eroina, 30 da cocaina e solo 2 da hashish, numero di cui oltretutto è lecito dubitare, giacché "si tratta di dati non sempre supportati da esiti peritali o da esami autoptici e/o tossicologici". Insomma, la sostanza meno pericolosa è quella più pesantemente criminalizzata e perseguita. Il fallimento delle norme in vigore è testimoniato dai numeri ma anche ammesso dagli addetti. Come scrive in premessa la pubblicazione: "Il consumo di sostanze stupefacenti, pur coinvolgendo in gran parte il mondo giovanile, continua ad avere grande diffusione nella popolazione in generale. Infatti, l'uso di droga risulta molto diffuso anche tra persone adulte e ben integrate nel contesto sociale e lavorativo, configurandosi come fenomeno esteso a tutti gli strati della società e quindi non più relegato alla condizione di emarginazione sociale". Si potrebbe concludere con le parole di allora del vicepresidente del Consiglio, il socialista Gianni De Michelis, tifoso della linea punizionista: "È apparso chiaro che la legge del 1975 non è servita ad arginare il fenomeno della droga né a impedirne l'aggravarsi. Quindi è ormai necessario compiere un salto di qualità" ("la Repubblica", 29 ottobre 1988). Quel "salto di qualità", la nuova legge del 1990 imposta dagli oltranzisti catto-socialisti, oltre a non arginare, ha prodotto centinaia di migliaia di inquisiti, sanzionati, imprigionati, talvolta suicidati, costretti a un uso di sostanze reso più pericoloso dalla clandestinità e dal governo mafioso del mercato, con relativo maggior rischio di contrarre Aids e altre malattie. In un paese civile sarebbe materia di "class action" e richiesta di risarcimento dei danni, individuali e sociali. "Prigionieri del silenzio" aiuta tremila cittadini italiani nelle carceri di tutto il mondo di Roberta Falasca La Repubblica, 17 giugno 2015 Detenuti italiani all'estero. L'associazione sostiene i parenti dei condannati per dare loro appoggio dal punto di vista giudiziario e si batte per garantire assistenza legale, sanitaria e un interprete specializzato. A loro non interessa se si siano colpevoli o innocenti. Importa se i diritti dei detenuti italiani all'estero siano rispettati. L'associazione Prigionieri del silenzio fa questo dal 2008, in nome dei circa tremila italiani detenuti all'estero. Un "popolo di invisibili" rinchiusi nelle carceri di tutto il mondo, donne e uomini italiani per anni e anni sottoposti a condizioni di vita lesive dei più elementari diritti e assolutamente non compatibili con gli obiettivi di riabilitazione cui la pena deve essere finalizzata. Niente assistenza, né legale, né sanitaria. Molto spesso, al momento dell'arresto, mancano strumenti di assistenza, con la conseguenza che i detenuti all'estero non ricevono, nel caso ne abbiano bisogno, le cure mediche del caso, né un'appropriata difesa legale. Il governo italiano non prevede, in questi casi, l'istituto del "gratuito patrocinio" e gli aiuti che potrebbero (dovrebbero) essere concessi dai consolati italiani sparsi per il mondo sono solo facoltativi. Tutto ciò causa condizioni di detenzione drammatiche e una tutela legale debole, se non inesistente, che comporta spesso condanne ingiuste. Senza parlare poi delle famiglie dei detenuti, che si trovano ad affrontare problemi enormi solo con le loro forze. Parla il legale dell'associazione. "Lo scopo della nostra organizzazione - spiega l'avvocato penalista Francesca Carnicelli - è quello di dare, prima di tutto, assistenza alle famiglie che si trovano a migliaia di chilometri lontani dai propri cari detenuti. Con il nostro lavoro, del tutto gratuito e volontario, vorremmo arrivare a raggiungere un obiettivo importante: la garanzia di un interprete specializzato al momento dell'arresto e per tutto il processo ad un'assistenza legale degna di questo nome. Sono convinta - conclude il legale - che se lo Stato intervenisse in maniera diretta, le condizioni dei detenuti italiani all'estero sarebbero migliori e di conseguenza anche quelle delle famiglie coinvolte". Gli obiettivi di Prigionieri del silenzio. La Onlus si prefigge di fare proposte e suggerimenti su come dare il corretto supporto alle famiglie residenti in Italia che vivono il problema della detenzione oltre confine. Uno dei grossi problemi che le famiglie si ritrovano ad affrontare sono i costi elevati dell'assistenza al familiare recluso, per il mantenimento e le spese legali. "Siamo il tramite tra le famiglie dei detenuti, e le istituzioni - aggiunge la presidente della onlus, Katia Anedda - e ci battiamo affinché i diritti dei carcerati siano rispettati e garantiti. Tremila detenuti italiani all'estero sono evidentemente troppo pochi per le pubbliche autorità italiane, affinché intervengano a tutela della sopravvivenza e della dignità dei carcerati. Per gli italiani in difficoltà all'estero non ci sono fondi, non ci sono progetti, non ci sono investimenti". Brasile: appello di 14 senatori a Orlando per evitare l'estradizione di Henrique Pizzolato Ansa, 17 giugno 2015 Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, e la senatrice Cecilia Guerra, rivolgono un appello al ministro della Giustizia Andrea Orlando affinché eviti l'estrazione, in Brasile, di Henrique Pizzolato, il banchiere italo-brasiliano coinvolto nella tangentopoli del paese sudamericano scoppiata nel 2005. Dopo la sospensione del provvedimento, ieri, in attesa che il Consiglio di Stato si pronunci nel merito nella camera di consiglio fissata per il 23 giugno, oggi in una conferenza stampa la moglie di Pizzolato, Andrea Haas, e il suo legale Camilla Ovi hanno ripercorso le tappe di quello che definiscono un "processo politico" nel quale il banchiere è stato il "capro espiatorio". "È certificato che le condizioni nelle carceri brasiliane sono disumane - ha spiegato Manconi in conferenza stampa - non bastano e non devono bastare le rassicurazione del Brasile. Il governo ha detto che Pizzolato verrebbe collocato in un'area del carcere per "vulnerabili" ma questo non garantisce il nostro cittadino per tutta la durata della pena. Qui non si chiede di non far scontare la pena ma di consentire di farlo Italia". 14 parlamentari Pd firmano appello a Orlando Si allunga l'elenco dei senatori che rivolgono un appello al ministro della Giustizia, Andrea Orlando per evitare l'estradizione, in Brasile, del banchiere italo brasiliano Henrique Pizzolato coinvolto nella tangentopoli del paese sud americano scoppiata nel 2005 e condannato a 12 anni di carcere. A "firmare" l'appello sono i parlamentari del Pd Cecilia Guerra, Luigi Manconi - che stamattina hanno tenuto una conferenza stampa con la moglie di Pizzolato e il suo legale - Stefano Vaccari, Sergio Lo Giudice, Monica Cirinnà, Federico Fornaro, Silvana Amati, Stefania Pezzopane, Maria Grazia Gatti, Laura Fasiolo, Aldo Di Biagio, Davide Baruffi, Carlo Galli e Manuela Ghizzoni. "Henrique Pizzolato, di origine brasiliana con cittadinanza italiana, rischia in questi giorni di dover lasciare il carcere di Sant'Anna a Modena, dove sta scontando una pena di più di 12 anni inflitta dal tribunale supremo brasiliano nell'ambito di un'inchiesta per corruzione e riciclaggio - si legge nell'appello - Pizzolato potrebbe essere estradato e trasferito a Papuda, una delle galere più violente e degradate del Brasile. Il ministro della Giustizia ha deciso, su richiesta delle autorità Brasile, di concedere l'estradizione la cui esecuzione da parte del ministero dell'Interno è stata sospesa lunedì scorso, in attesa della decisione del consiglio di Stato sul ricorso presentato dai legali della famiglia". I senatori sottolineano che "le più importanti organizzazioni internazionali negli ultimi anni hanno denunciato la situazione gravissima in cui versano le carceri brasiliane, inadeguate strutturalmente, sovraffollate, terribilmente carenti dal punto di vista igienico e sanitario, ma soprattutto luoghi dove dominano ferrei meccanismi di sopraffazione a opera di bande criminali". "Il trattato che regola l'estradizione tra Italia e Brasile prevede che essa non venga concessa se vi è fondato motivo di ritenere che la persona richiesta verrà sottoposta a pene o trattamenti che comunque configurano violazione dei diritti fondamentali – aggiungono. E proprio a febbraio scorso il Senato ha approvato in via definitiva un disegno di legge per la ratifica del trattato del 2008 tra i due paesi sul trasferimento delle persone condannate, che prevede la possibilità di scontare la pena nel paese di cui si è cittadini". "Alla luce di questi elementi, chiediamo al Ministro della Giustizia Orlando di rivedere la decisione sull'estradizione di Pizzolato affinché si arrivi a una soluzione che possa salvaguardarne l'incolumità fisica e tutelare i suoi diritti inviolabili", concludono i senatori. Stati Uniti: Nebraska; 42 anni contro la pena di morte, alla fine Ernie Chambers ha vinto bergamopost.it, 17 giugno 2015 Lo chiamano "Difensore degli Oppressi" (Defender of the Downtrodden), quasi un supereroe dei fumetti Marvel. Ernie Chambers è invece un uomo di 77 anni, sempre vestito in jeans e maglietta, nonostante sia uno dei senatori del Nebraska, l'unico di colore. Ernie Chambers è un anticonformista nel senso più nobile del termine. Non è uno di quelli che si mettono "contro" a prescindere, ma è un uomo che è "contro" quello che viene accettato anche quando non è eticamente e umanamente giusto. Gli studi e gli scontri con la polizia. Figlio di un pastore protestante, studia alla Facoltà di Legge, ma non vuole esercitare l'avvocatura, per disprezzo nei confronti dell'Ordine. Nel 1963 comincia a guadagnarsi da vivere come impiegato delle Poste, ma viene ben presto licenziato per insubordinazione. In seguito, lavora come barbiere. Sono tuttavia i drammatici eventi del 1966 che rivelano la vera vocazione di Chambers. Durante i durissimi scontri tra la polizia e la comunità nera di Omaha, la città più popolosa del Nebraska, Chambers è infatti scelto come portavoce della sua comunità, quella afroamericana. Qualche anno più tardi, nel 1970, è eletto nel Parlamento dello Stato, in qualità di rappresentante dell'undicesimo Distretto, dalla zona che comprende la parte settentrionale di Omaha. L'organo legislativo dello Stato ha la particolarità di essere composto da una sola camera, costituita interamente da senatori formalmente indipendenti, ma in realtà fortemente orientati verso posizioni conservatrici. La carriera politica di Chambers riflette il suo carattere tenace e indipendente. Riscuote molto successo tra gli elettori, tanto che il suo mandato è ripetutamente rinnovato. Le proposte contro la pena di morte. La sua attività politica è dominata da una nota costante. Ogni anno, dal 1973 fino al 2009, Ernie Chambers avanza una proposta di legge per abolire la pena di morte, ancora in vigore in Nebraska. Per motivi procedurali, la proposta è messa ai voti ogni due anni e nel 1979 sembra essere sul punto di venire approvata, ma l'allora governatore, Charles Thone, impone il suo veto. Per lunghi decenni, la proposta non sortisce più alcun risultato positivo. Nel 2009 Chambers non può ricandidarsi per la carica di Senatore, perché una modifica alla Costituzione dello Stato, introdotta proprio in quell'anno, sancisce l'impossibilità di ricoprire due mandati consecutivi. Ma nel 2012 il determinato Ernie Chambers si ripresenta alle elezioni, viene votato da moltissime persone e la sua proposta contro la pena di morte riporta, finalmente, una grande vittoria. La Commissione di Giustizia del Nebraska, infatti, la approva a maggioranza assoluta (7-0). Proprio mentre la battaglia di Chambers sembra essersi messa sulla giusta strada, un'azione di ostruzionismo blocca tutti i lavori. Il Senatore è di nuovo al punto di partenza, ma con la consapevolezza che, finalmente, la sua voce non solo è stata ascoltata, ma ha anche destato l'interesse di molti. Le parole incaute sulla polizia. Nel 2014, il testardo Senatore in jeans e t-shirt presenta, per l'ennesima volta, quello che da noi si chiamerebbe un Ddl. Nel marzo 2015, poco prima che venga messa ai voti, un'imprudente uscita dello stesso Senatore potrebbe rovinare tutto. Durante una seduta parlamentare, infatti, un deputato conservatore chiede una più libera circolazione delle armi nello Stato e, a un'obiezione di Chambers, che fa notare che in Nebraska ce ne sono già troppe, il deputato afferma che potrebbero essere usate come mezzo di difesa contro i terroristi dell'Isis. Chambers, ricordando i cittadini afroamericani uccisi dalle forze dell'ordine, risponde allora che i cittadini del Nebraska, soprattutto quelli di colore, conoscono qualcosa che assomiglia molto, per mentalità, ai terroristi dell'Isis, e sono i poliziotti che sparano a persone disarmate, senza pagare le conseguenze. Fortunatamente l'incauta affermazione di Chambers, ben poco politically correct, non lede la riconosciuta necessità della sua proposta abolizionista. Quando passa ai voti viene così approvata con una maggioranza schiacciante. Approvata dalla Commissione di Giustizia, è accettata per tre volte anche dall'aula parlamentare. Il voto in Parlamento. La proposta di Chambers sta per diventare una legge a tutti gli effetti, ma si profila un nuovo ostacolo. Il Governatore repubblicano del Nebraska, Pete Ricketts, pone il veto alla proposta di Chambers il 26 maggio, esattamente il giorno dei funerali di una poliziotta uccisa in servizio. Ricketts vuole sicuramente fare leva sull'emotività della cittadinanza; inoltre, sostiene che "lo Stato ha solo dieci persone nel braccio della morte, e questo dimostra che da noi la pena di morte è usata in modo prudente e giudizioso". L'ultima esecuzione in Nebraska è avvenuta infatti nel 1997. A questo punto resta un'ultima possibilità, prima che le speranze di Chambers e di tutti coloro che chiedono l'annullamento della pena di morte naufraghino completamente: il Parlamento. Negli Stati Uniti, infatti, il veto di un governatore è nullo, qualora il Parlamento approvi una proposta di legge con almeno i due terzi dei voti. Nel caso del Parlamento del Nebraska, composto da quaranta membri, sono richiesti almeno trenta voti a favore. E così è stato: il 27 maggio 2015 trenta deputati, di cui sedici conservatori, hanno votato per l'abolizione della pena di morte. I senatori repubblicani che hanno votato a favore hanno spiegato di averlo fatto per motivi religiosi, perché il sistema nel complesso è molto costoso e perché le condanne a morte hanno colpito anche degli innocenti. Convergenza di posizioni. Chambers non si è preso i meriti della vittoria, nonostante sia stato lui l'uomo che per trentasette volte, nel corso di più di cinquant'anni, ha persistito nel proporre l'abolizione della pena di morte. Con molta lucidità, ha riconosciuto che i suoi sforzi non sarebbero valsi a nulla, se non ci fosse stata una convergenza di posizioni particolarmente favorevole: "Mi piacerebbe si potesse dire che è stato merito mio raggiungere questo risultato, ma questo non sarebbe vero, e lo sappiamo tutti. Se un gruppo di conservatori non avesse deciso che era ora di cambiare impostazione, quello che sta per avvenire oggi non avrebbe mai potuto avvenire. Si è verificata una confluenza di individui, gruppi e circostanze che hanno messo il Nebraska sulla soglia dell'entrare nella storia, dalla parte giusta della storia". I 10 condannati non saranno giustiziati. La parte giusta della storia: ma come farci entrare anche quei dieci detenuti in attesa della sentenza capitale? Per la legislazione americana sono ancora condannati a morte, poiché la sentenza è stata emessa prima dell'introduzione della legge Chambers. Tuttavia, mancando i mezzi materiali per l'esecuzione, non saranno giustiziati. L'unica via d'uscita possibile, per loro, è quella di attendere che qualcun altro sia condannato per i loro stessi delitti e che sia conformemente giudicato. A quel punto, gli avvocati difensori potranno chiedere che anche loro vengano giudicati nello stesso modo, poiché non può coesistere un delitto punito in due modi diversi all'interno di uno stesso Stato. L'Onnipotente citato in giudizio. Oltre ad essere diventato noto per la profonda tenacia con cui ha continuato a sostenere l'abolizione della pena di morte, nel 2007 Chambers ha anche sostenuto un'azione legale "contro Dio", come provocatoria risposta ad un'altra causa che Chambers giudicava "frivola e inappropriata". Nel caso in questione, una donna aveva citato in giudizio il giudice Jeffre Cheuvront presso la corte federale, perché le aveva imposto di non usare le parole "stupro", "kit di violenza sessuale", "vittima" e "assalitore" nella sua testimonianza. Chambers affermò che il caso era inappropriato, perché la Corte Suprema del Nebraska "aveva già considerato la causa e la Corte Federale segue le decisione della Corte Suprema sulle questioni di Stato". Dal momento che era stata fatta causa contro il giudice Cheuvront, su basi tecniche così deboli, Chambers decise allora di citare in giudizio Dio, su basi che invece definiva molto più consistenti. Nella sua azione legale il Senatore chiedeva che l'Onnipontente imputato desistesse da certe dannose attività contro l'uomo e cessasse di arrecare sofferenza a innumerevoli persone. Quando altri senatori dello Stato cercarono di fermare la sua causa, per impedire che fosse registrata presso la Corte, Chambers replicò: "La Costituzione richiede che le porte della Corte siano aperte, quindi voi non potete proibire la registrazione delle cause. Tutti possono citare in giudizio tutti, persino Dio". Questo è l'uomo che ha fatto abolire la pena di morte nel suo Stato. Un ateo che ha chiesto a Dio di rendere ragione agli uomini. Stati Uniti: Indiana: il detenuto modello merita una pizza di Anna Guaita Il Messaggero, 17 giugno 2015 Lo sceriffo della contea di La Porte, nell'Indiana, vuole premiare i detenuti che si distinguano per buona condotta con il permesso di ordinare una pizza calda dai ristoranti della città una volta al mese. Lo sceriffo John Boyd spiega che i detenuti userebbero i loro soldi, e ordinerebbero attraverso lo spaccio del carcere. L'idea è subito piaciuta ai commercianti, che gli hanno fatto arrivare i loro menu, proponendogli di allargare "il pasto premio" a includere non solo pizza, ma anche bistecche e altri piatti saporiti che in prigione non si trovano. Immediate le proteste di una parte della popolazione, che condanna un simile "premio", giudicandolo un lusso che i criminali non meritano. Lo sceriffo tuttavia non sembra affatto intenzionato a fare marcia indietro. Il pasto premio, ha spiegato, non costerà nulla allo Stato perché è interamente pagato dal detenuto. Inoltre una percentuale del ricavato verrà destinato all'acquisto di giocattoli per i bambini di famiglie indigenti. Ma lo sceriffo è anche assolutamente convinto che la possibilità di godere periodicamente di un pasto che non sia quello insapore ed economico della prigione spingerebbe i detenuti a comportarsi meglio: "Sono esseri umani come noi" ha protestato. E ha aggiunto un auspicio che dovrebbe convincere tutti: "Se la speranza di mangiare la pizza dovesse spingerli a comportarsi meglio, le nostri prigioni sarebbero un po' più sicure. E non vedo come ciò possa generare proteste". Cibo nelle prigioni, le reazioni (Il Giornale) Persone libere hanno assaggiato il Nutraloaf, un cibo che viene dato nelle prigioni statunitensi come punizione: ecco le reazioni in un video. Le persone libere alla scoperta del cibo dei detenuti. Si è tenuta nei giorni scorsi a Philadelphia una particolare manifestazione, la Prison Food Weekend, in cui la gente che non ha mai messo piede in prigione ha potuto constatare le condizioni cui sono sottoposti i detenuti a partire dal cibo. Sotto la lente d'ingrandimento è finito il Nutraloaf, un pappone informe composto da differenti ingredienti, che viene usato per punire i detenuti. Le reazioni della gente comune all'assaggio sono davvero significative e mostrano come in effetti il Nutraloaf sia una vera e propria punizione, che viene applicata ai carcerati per alcuni giorni o addirittura delle settimane, se tengono dei cattivi comportamenti. Il Nutraloaf cambia ingredienti da stato a stato, ma il succo non cambia. "La mia bocca è spaventata da questo cibo", dice un uomo all'interno del video. Alcuni ingredienti ricorrenti sono la purea di ceci, la farina d'avena, un formaggio non derivato dal latte, riso, spinaci e polvere d'aglio. Ma, nonostante le combinazioni di ingredienti che parrebbero normalissimi, le proteste sono tante. In molti stati come Illinois, Maryland, Nebraska, New York e Washington, i detenuti hanno citato come incostituzionale il Nutraloaf o qualunque altro pappone sia servito come punizione. E nel Vermont, nel 2008, la Corte suprema dello stato ha stabilito che debba essere data udienza ai detenuti, prima che venga loro somministrato il Nutraloaf. Egitto: il patibolo per Morsi preoccupa l'occidente di Francesco Battistini Corriere della Sera, 17 giugno 2015 Il Gran Muftì ha detto sì. Pollice verso. L'ex presidente islamista Mohammed Morsi alla fine è stato condannato a morte: a sentire i tre giudici, e l'autorità religiosa sunnita che ha l'ultima parola, l'unico rais dell'Egitto moderno che sia mai stato eletto democraticamente è, pensa un po', colpevole d'evasione dal carcere durante la rivolta del 2011 contro Mubarak. Morsi, colpevole soprattutto d'aver imposto agli egiziani un islamismo soffocante e non richiesto, potrà appellarsi. E forse ci vorranno due anni prima che sia impiccato. E non è detto che l'esecuzione avvenga davvero: delle centinaia di forche inflitte da Al Sisi, il generale che due anni fa depose Morsi e imprigionò i Fratelli musulmani, solo un paio sono state eseguite. Tutto questo non allevia la "preoccupazione" - usando l'eufemismo di Usa e Ue - che la condanna comporta. È la prima volta che un presidente egiziano finisce sul patibolo. La sentenza viene pronunciata nella stessa aula dove si condannò al carcere Mubarak (poi scagionato). È il cerchio che si chiude, le Primavere arabe che tornano all'inverno da cui nacquero, come certifica anche Mona Eltahawy, la giornalista che la polizia egiziana torturò nel 2011 e che sul New York Times si domanda: "Siamo diventati come l'Argentina delle giunte militari?". Da quando il generale Al Sisi è al potere ci sono stati 1.400 morti, 40 mila incarcerati, centinaia di desaparecidos. Il suo neo-mubarakesimo è l'opposto di quel "lavorate per la democrazia" che Obama venne a chiedere al Cairo un secolo fa, nel 2009. Cinismo e realismo oggi impongono il lavoro sporco: accettare le forniture d'armi, bloccare i fondamentalisti, riportare ordine & disciplina (assieme a un imbarazzante 97% dei voti). Perfino quel campione di democrazia d'Erdogan si permette di maramaldeggiare: accusate me d'essere autoritario e poi tollerate uno come Al Sisi? Ebbene sì. L'unica, vera "preoccupazione" dell'Occidente è che la condanna di Morsi ne faccia un martire. E costringa a fabbricare un altro Al Sisi, prima che ci pensi l'Isis. Turchia: spari contro direttore carcere Kocaeli, muore in ospedale Aki, 17 giugno 2015 Il direttore di un carcere di Kocaeli, provincia del nord-ovest della Turchia, è morto in ospedale dopo essere stato raggiunto da una raffica di colpi di pistola mentre viaggiava a bordo della sua auto. Lo riporta il sito del quotidiano Zaman, secondo il quale la vittima è Ismet Akturk, direttore della prigione di Kandira, che ospita detenuti condannati per reati connessi al crimine organizzato. Gli spari sono arrivati da un altro veicolo, che poi si è dato alla fuga.