Appello contro il carcere barbaro di Ornella Favero (con presentazione di Adriano Sofri) Il Foglio, 16 giugno 2015 Storia di tre detenuti lasciati marcire in carcere a causa di una parola: "declassificazione". Fra le esperienze di riscatto di carcerati e carceri in Italia, quella padovana e veneziana di "Ristretti Orizzonti" è, non dirò la più ammirevole - perché tutte le associazioni e le persone di buona volontà che si impegnano a rendere le galere meno indegne sono comprensibilmente gelose dei propri faticati successi - certo la più universalmente preziosa. Oltre all'edizione di libri e di una rivista a stampa ben fatta, redatta da detenuti italiani e stranieri, Ristretti pubblica in rete un notiziario quotidiano completo su informazioni e commenti riguardanti il carcere e la giustizia, e un archivio storico di 15 anni e 130 mila notizie, strumenti indispensabili a chiunque voglia conoscere, studiare e contribuire a fare qualcosa di buono. Ornella Favero è stata l'animatrice volontaria di questa esperienza, i cui risultati principali sono stati, credo, di rendere i detenuti protagonisti della conoscenza e del riconoscimento di sé, e di suscitare il loro confronto continuo con i giovani delle scuole e con le vittime di reati e loro famigliari. La lettera aperta indirizzata al dipartimento Penitenziario del ministero di giustizia, qui ospitata, offre un esempio della ricchezza reciproca di questo incontro, e delle difficoltà enormi che deve affrontare, per una specie di insormontabile inerzia, un lavoro cui autorità e pubblico dovrebbero esser grate come per un adempimento dei loro fini e di lettera e spirito delle leggi. Adriano Sofri Storia di tre detenuti lasciati marcire in carcere a causa di una parola: "declassificazione" Gentili dirigenti del Dap, se non ne sapete nulla, voglio raccontarvi un'esperienza avvenuta di recente nella Casa di reclusione di Padova, la Giornata di Studi "La rabbia e la pazienza", e ve la racconto attraverso le parole di Lucia Annibali, una giovane donna, avvocato di professione, sfigurata dall'acido che le è stato tirato in faccia. Per quel terribile atto sono stati condannati due uomini, ritenuti gli esecutori del gesto, e un terzo, ritenuto il mandante, che con Lucia aveva avuto una tormentata relazione. Scrive Lucia su Io donna "Il momento più interessante e toccante dell'intera giornata, è stato ascoltare le storie dei detenuti: scoprire, attraverso i loro racconti, il motivo che aveva aperto per loro le porte del carcere, il momento in cui avevano scelto di essere persone violente, le cause che stavano alla base di quella scelta. La loro voce si spezzava mentre provavano a comunicare a tutti i presenti quanto fosse difficile la vita del carcere, quanto fosse grande il vuoto per il distacco dagli affetti familiari, soprattutto per chi un fine pena non ce l'ha. Erano le testimonianze di persone che avevano iniziato un difficile percorso di presa di coscienza delle proprie responsabilità. Mentre li ascoltavo, mi scoprivo a commuovermi; la loro rabbia, la tristezza, il dispiacere per se stessi e per il male che quella scelta di tanti anni fa aveva generato, anche nella vita di altri, mi arrivavano dritti al cuore". Fra i detenuti di cui scrive Lucia Annibali c'era Giovanni Donatiello, che è intervenuto di fronte a seicento persone, arrivate da tutta Italia per entrare in un carcere, e ha raccontato la sua esperienza di pena "rabbiosa" trascorsa al 41 bis e poi per ben quindici anni in Alta Sicurezza, e il cambiamento radicale avvenuto in lui da quando è a Padova, frequenta la redazione di Ristretti Orizzonti, si confronta con centinaia di studenti, dialoga con vittime come Lucia. Ma c'è qualcuno che le cose significative, importanti, che avvengono in carcere non le guarda molto, e preferisce decidere a tavolino che Giovanni non merita di restare a Padova, che 29 anni di galera sono pochi per considerarlo non più pericoloso e metterlo non fuori libero!, per carità, ma semplicemente in una sezione di media sicurezza: quella stramaledetta declassificazione che tutti noi di Ristretti avevamo sperato per lui. Quindici anni fa Giovanni usciva dal 41 bis perché "vista la nota (…) con la quale la procura distrettuale della Repubblica di Lecce ha segnalato di non ritenere più attuale il collegamento del Donatiello con l'ambiente criminale associato di appartenenza" il ministro revocava il decreto con il quale era stato disposto nei suoi confronti il regime detentivo speciale di cui all'art. 41 bis, e ora invece il Dap respinge la richiesta di declassificazione perché sembra (non so le parole esatte perché al detenuto non è stata data copia del rigetto dell'istanza di declassificazione, pare non abbia diritto di sapere da chi e da che cosa si deve difendere, diciamo che deve sentirsi sotto indagine a vita, e basta) che la Direzione Distrettuale Antimafia, dopo lunghe ed articolate indagini, coperte da segreto investigativo, ritenga che il suo gruppo criminale sia ancora operante sul territorio e che Donatiello non abbia mutato la sua posizione al vertice. Quindi nelle sezioni di Alta Sicurezza hanno vigilato così male da riuscire a far rinascere l'organizzazione criminale di cui faceva parte Giovanni Donatiello nel lontano 1984 e a rimetterlo a capo della stessa? E perché allora non lo riportano al 41 bis? Continua Lucia Annibali: "E così mi sono chiesta: è possibile, ed è giusto provare ancora umanità, dopo che qualcuno ha scelto di arrecare un dolore alla tua vita? Chi soffre a causa d'altri, spesso prova rabbia, rancore, persino odio nei confronti del responsabile della sua sofferenza; è un suo diritto e, forte di questo, può arrivare a decidere che quei sentimenti saranno, da ora in poi, il filo conduttore della sua intera esistenza. Ma può anche succedere che decida di fare la scelta opposta e di trasmettere il proprio dolore senza rabbia né rancore. È in questo caso che ci si scopre ancora capaci di provare umanità. Essere "umani" significa, dunque, guardare oltre il male, staccarsi da esso, impedirgli di condizionare un'intera vita. Non necessariamente ha a che fare con il perdono, né vuol dire non sentire dolore: piuttosto riguarda la capacità e la volontà di trasformare qualcosa di brutto in qualcosa di bello. Provare umanità aiuta a sperare, e se è vero che sperare è già resistere al male, la nostra umanità può essere un modo attraverso cui chiedere, a chi è stato capace di fare del male, di non farlo più, di cambiare per diventare una persona migliore, per sé e per gli altri. È giusto allora provare umanità, se questo può servire a preservare altri da un dolore e aiutare chi soffre, a farlo in modo costruttivo. Essere "umani", dunque, per chiedere, in cambio, un po' di umanità. Ecco perché la vittima può decidere di confrontarsi con gli autori di reato". A scuola di umanità da Lucia bisogna mandarci le persone detenute, ma bisogna anche mandarci le istituzioni. Mentre scrivo questo pezzo, mi arriva una notizia "Carcere: muore da solo, di cancro, al 41 bis. Non ha potuto dire addio alla famiglia. Il Tribunale di Napoli aveva dato l'ok a un colloquio con i cari: l'autorizzazione del Dap non è arrivata in tempo". Ma tanto forse non è così importante, si tratta pur sempre dei cattivi più cattivi, dei mafiosi, e noi siamo i buoni. E a decidere della sorte dei cattivi chi sarà? Pedagogisti con grande competenza, esperti di rieducazione, teorici di una pena sensata, tesa davvero a responsabilizzare chi ha fatto del male? Certo che no, sarebbe tutto troppo semplice, nel nostro Paese a decidere del "trattamento" delle persone detenute, dunque dei loro percorsi di risocializzazione, sono dei magistrati. E non magistrati di Sorveglianza, esperti di esecuzione della pena, sarebbe troppo normale! no, meglio magistrati inquirenti, ex procuratori della Direzione Antimafia, magari quegli stessi che prima ti hanno condannato all'ergastolo, o alla "pena di morte nascosta", come l'ha definito Papa Francesco, e ora dovrebbero finalmente decretare che non sei più lo stesso di venti o trent'anni fa, e magari avere il coraggio di non prendere per oro colato i pareri dei loro ex colleghi dell'Antimafia. In questi ultimi due mesi, a partire dalla chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza di Padova, si è scoperto che da anni si lasciavano logorare, a volte anche "marcire" le persone in questi circuiti senza fare quasi nessuna declassificazione. Da Padova stavano già partendo 96 detenuti, ma noi di Ristretti Orizzonti abbiamo combattuto, con la forza della competenza e dell'umanità, a partire dal fatto che da anni a Padova le sezioni di Alta Sicurezza sono integrate nella vita del carcere, e non isolate e tagliate fuori da tutto, e quelle partenze sono state bloccate, ed è stata fatta addirittura una nuova circolare sulle declassificazioni, che accoglie le nostre osservazioni, presentate direttamente al capo del Dap. È anche vero che le Circolari si emanano, ma non sempre si applicano (ne è prova la circolare sui trasferimenti, che ancora non riesce a portare umanità nella materia delicata delle persone spostate spesso come pacchi senza vita, e costrette ogni volta in questi spostamenti a perdere speranza. Cosa succederà a Giovanni se dall'esperienza calda e forte di Ristretti Orizzonti sarà ributtato in un carcere ben più povero di iniziative e di possibilità come Parma?): però aspettiamo per lo meno, rispetto alla mancata declassificazione di Giovanni Donatiello dopo 29 anni di galera, una operazione Trasparenza, chiediamo che ci dicano come ha fatto Giovanni, con i pochissimi colloqui che ha avuto (in tutto l'ultimo anno due colloqui in totale, con la figlia e con il fratello) a ritornare ai vertici della sua organizzazione criminale. O che abbiano il coraggio di cambiare rotta, e di ammettere che la comunità carceraria non corre nessun rischio se Giovanni resta a Padova e viene trasferito in una sezione di Media Sicurezza. Restituiteci allora Giovanni, e non toglieteci gli altri detenuti della sezione AS1, come Tommaso Romeo, Agostino Lentini, Giovanni Zito, Antonio Papalia e tutti quelli che lavorano con noi di Ristretti da anni: perché per noi sono importanti gli esseri umani, e nel nostro percorso di responsabilità e consapevolezza ogni persona conta, ha un ruolo, vale per quello che è diventata. Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti L'Unione delle Camere Penali Italiane: non trasferite i detenuti di Padova Ristretti Orizzonti, 16 giugno 2015 La Giunta dell'Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, raccoglie il grido di allarme lanciato dalla Redazione di "Ristretti Orizzonti", in merito al trasferimento di alcuni detenuti dall'Alta Sicurezza di Padova in altri istituti. Già nell'aprile scorso l'Unione era intervenuta chiedendo un incontro urgente con il Capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, manifestando forte preoccupazione per le modalità con le quali il Dipartimento stava procedendo, interrompendo irrimediabilmente il percorso educativo di molti detenuti. Da allora, anche e soprattutto per l'intervento della redazione di Ristretti Orizzonti, grazie ad una nuova circolare sulle "declassificazioni", alcuni trasferimenti sono stati evitati. Ma molti ancora rischiano di vedere vanificato il percorso trattamentale fino ad ora svolto, a causa di valutazioni sulla personalità che si rifanno a episodi ormai di venti o trent'anni addietro. Si chiede, pertanto, che vada rivista tutta la materia in ordine ai circuiti e che si tenga conto, nell'esprimere giudizi, soprattutto dell'attualità, dando un significato concreto e operativo alle parole "rieducazione" e "trattamento individualizzato", espressamente riportate dalle norme penitenziarie e più volte invocate dallo stesso Ministro della Giustizia, che proprio nella sezione di Padova hanno trovato attuazione, laddove, nella gran parte degli istituti di pena del nostro Paese altro non sono che lettera morta. Chiediamo che l'amministrazione penitenziaria ponga immediatamente rimedio alla situazione e salvaguardi la condizione di tutte le persone ospitate nella sezione alta sicurezza del carcere di Padova che hanno in atto positivi percorsi di trattamento. Avv. Beniamino Migliucci, Presidente dell'Unione camere penali Italiane Avv. Riccardo Polidoro, Responsabile dell'Osservatorio carcere dell'Ucpi Giustizia: Orlando al Consiglio d'Europa "meno detenuti e indennizzi rapidi legge Pinto" Ansa, 16 giugno 2015 Un numero di detenuti che è sceso dai 66mila di tre anni fa e si è stabilizzato a 53mila, a fronte di 49mila posti disponibili. La riforma del sistema penitenziario allo studio del Parlamento. L'approvazione della legge sulle misure alternative al carcere, che rende più stringenti le valutazioni per l'applicazione della pena detentiva e amplia la possibilità di ricorrere a sanzioni interdittive, eccetto per i reati gravi. E ancora l'accordo con Bankitalia per accelerare e rendere certo il pagamento degli indennizzi legati ai processi troppo lungi e alla legge Pinto. Questi i principali dati che il ministro della Giustizia Andrea Orlando presenta oggi al Consiglio d'Europa sulla situazione carceraria: un anno fa Strasburgo diede il via libera alle azioni messe in campo per rispondere alla sentenza Torreggiani con cui la Corte di Strasburgo aveva condannato l'Italia per aver sottoposto i detenuti a trattamenti inumani e degradanti; ma aveva anche annunciato una verifica un anno dopo. Il nuovo passaggio al Consiglio d'Europa serve ora a chiudere definitivamente il percorso: l'Italia dovrà dimostrare di aver predisposto soluzioni strutturali. Alla base della condanna sancita dalla Torreggiani c'erano il sovraffollamento e celle troppo piccole, con spazi sotto i 3 metri quadri a detenuto. Una situazione che già a febbraio il capo del Dap, Santi Consolo, indicava come superata. Sul fronte carceri, il ministero ha al suo attivo una serie di protocolli con la gran parte delle Regioni per potenziare l'accesso alle misure alternative alla detenzione per i detenuti con problemi legati alla tossicodipendenza e per incentivare il reinserimento sociale; la firma del decreto ministeriale per l'istituzione del garante nazionale dei detenuti; i progetti per rivedere la funzionalità delle strutture per minori. Tra gli obiettivi principali, come ha più volte dichiarato lo stesso Orlando, c'è ora quello di incentivare le iniziative per il lavoro dei detenuti dentro e fuori le carceri. Il 19 maggio a si sono aperti inoltre gli Stati generali dell'esecuzione penale, un percorso di 6 mesi per arrivare alla definizione di un progetto di riforma. Giustizia: Manconi (Pd): fallimento totale del carcere, la sua funzione educativa si è persa Ansa, 16 giugno 2015 "Il buonsenso ci permette di constatare il fallimento totale del carcere rispetto allo scopo per cui è stato pensato e realizzato. Oggi il carcere rappresenta il più insidioso attentato alla sicurezza dei cittadini perché il suo esito è riprodurre all'infinito crimini e criminali. La sua funzione educativa, proclamata dalla Costituzione, si è rivelata totalmente persa e in alcun modo realizzata. Se pensiamo che chi sconta interamente la sua pena in carcere, torna in cella nel 70% dei casi, è già chiaro che il carcere lo incattivisce e lo rende ancora più criminale". Lo ha detto il senatore Pd Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, a margine della presentazione del suo libro a Firenze intitolato "Abolire il carcere". "Abolire il carcere non vuol dire abolire le sanzioni - ha sottolineato - ma inventare, applicare ed estendere misure alternative che possono essere molto più efficaci e utili di un carcere che invece fallisce rispetto al suo scopo. Dobbiamo realizzare sanzioni che siano utili e efficaci verso la società, verso la vittima e verso il reo". Con l'esito dei ballottaggi "si sconta la debolezza dell'inserimento territoriale del partito, o meglio la crisi del partito. Da quando è diventato segretario Renzi, ci sono state certo iniziative molto forti che hanno sancito il successo di Renzi ma non si è data grande attenzione al partito". Così il senatore Pd Luigi Manconi, parlando con i giornalisti a Firenze, a margine della presentazione del suo libro "Abolire il carcere". "Sui territori, dove c'è bisogno sociale che emerge e chiede risposte - ha aggiunto, se non c'è un partito diffuso e organizzato, inevitabilmente emerge la debolezza di un Pd eccessivamente concentrato sull'immagine, la figura e le parole di Renzi". "L'Italia è un creditore attivo nei confronti dell'Europa, ovvero dà più di quanto riceva dall'Ue. È necessario che l'Italia assuma una posizione conflittuale e si autoriduca la parte della quota che siamo tenuti a versare all'Unione europea e si tenga queste risorse per realizzare una grande politica dell'immigrazione". Lo ha detto il senatore Pd Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, parlando con i giornalisti a Firenze sulla situazione degli immigrati alla frontiera francese. "Questo è un gesto estremo - ha aggiunto - a cui non si doveva arrivare ma bisognava tenere una politica condivisa con tutta l'Europa, rispetto a un tema che è dell'intera Europa. L'Italia deve entrare in conflitto con l'Ue per una grande politica migratoria che, se realizzata, il beneficio sarebbe per tutta l'Ue. A questo punto non ci sono altre soluzioni". Giustizia: Di Matteo; mafiosi e corrotti continuano a scambiarsi favori per gestire il potere di Fabrizio Roncone Corriere della Sera, 16 giugno 2015 Toto Riina ha emesso contro di lui una sentenza di morte. Ma Di Matteo, il magistrato che conduce le indagini sulla trattativa Stato-mafia, non si ferma: "Non posso farmi condizionare". "Per la prima volta, in un solo processo sono stati incriminati mafiosi, esponenti politici di primo livello, vertici di polizia e servizi segreti". "E ingiustificabile che la politica non consideri il problema mafia come cruciale per la democrazia". Il giudice Nino Di Matteo è il primo obiettivo di Cosa Nostra. Per questo, la sua vita è blindata (gli uomini della scorta, ogni tanto, gli fanno l'improvvisata di portarlo a fare jogging nel piazzale di una caserma, sempre diversa). Palermitano, 54 anni, una moglie, due figli: fu nel picchetto d'onore ai lati delle bare di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, tra le colonne di marmo del tribunale di Palermo. Dottor Di Matteo, Totò Riina ha emesso, nei suoi confronti, un ordine di morte. Oggi lei vive sottoposto a un dispositivo di sicurezza che, in Italia, è riservato solo al Capo dello Stato. Cos'è, per lei, la paura? "Se dicessi che non ho paura, sarei un bugiardo. Non puoi restare indifferente quando ascolti le intercettazioni di Riina o le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che spiegano, nel dettaglio, un attentato che ti riguarda e che sarebbe già in preparazione. Alla paura si contrappongono però la passione per il lavoro e la dignità che il mio ruolo mi impone. Non posso farmi condizionare da niente e da nessuno. Devo andare avanti". Lei ha recentemente detto che sì respira un'aria strana, carica della falsa e pericolosa illusione che Cosa Nostra sia ormai alle corde. "Non mi piacciono gli allarmismi eccessivi o disinvolti, ma sento il dovere di denunciare un clima complessivo, che coinvolge anche parti consistenti delle istituzioni, incomprensibilmente orientato a sottovalutare la capacità criminale della mafia siciliana, storicamente la più potente al mondo, e la concreta possibilità di un ritorno a una strategia stragista o comunque di attacco frontale allo Stato anche mediante omicidi eccellenti". Nel libro che ha pubblicato con Rizzoli, Collusi, sostiene che politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia. Anche la storia delle indagini di questi ultimi anni continua a dimostrare che Cosa Nostra ha nel suo dna, più di ogni altra mafia, la ricerca esasperata del rapporto con il potere. Loro sanno che quello è il vero punto di forza. Purtroppo, lo scopriamo con le indagini più recenti, ancora troppi politici, imprenditori, professionisti e uomini delle istituzioni continuano ad accettare, o addirittura a cercare spontaneamente, il rapporto con il mafioso. Lo fanno per brama di potere o convenienza economica". Se è vera che Cosa Nostra ha cambiato sembianze e metodi, passando dall'uso del tritolo alla frequentazione dei salotti, quali nuove strategie di indagini è necessario attuare? "È necessario partire da una considerazione: esiste, in Italia, un sistema criminale integrato nel quale mafiosi e corrotti si scambiano i ruoli e i favori per gestire il potere al di fuori di ogni controllo. Per questo bisogna finalmente mettere la magistratura in condizione di aggredire efficacemente queste manifestazioni criminali con gli stessi strumenti, anche legislativi, con i quali possiamo contrastare le manifestazioni classiche dell'agire mafioso: le estorsioni e i traffici di droga". Ci sono interi territori, in Campania, Calabria e Sicilia, dove lo Stato non è sovrano: perché, secondo lei, i governi che si succedono tendono a sottovalutare questa emergenza? "Oggi, dopo quanto è emerso negli ultimi 20 anni di indagini e processi, non è più giustificabile una. sottovalutazione dovuta, magari, a ignoranza o a una scarsa conoscenza del fenomeno. Credo di più all'incidenza di un atteggiamento "culturale". Una parte consistente della politica non considera il problema mafia come cruciale e drammatico per la salvaguardia della democrazia". Trattativa Stato-mafia: un'indagine controversa, che ha coinvolto anche l'ex presidente della Repubblica e che le è costata molti tìtoli in prima pagina e critiche aspre. "Non parlo di processi in corso. Certo non mi stupiscono le critiche, le polemiche, neppure le tante false e strumentali accuse che sono piovute da ogni parte. È evidente che il tema è scottante, soprattutto perché, per la prima volta, nel contesto di un solo processo sono stati incriminati mafiosi, esponenti politici di primo livello e rappresentanti di vertice delle forze di polizia e dei servizi segreti. Ma noi siamo sereni, cerchiamo di fare solo il nostro dovere". L'uomo più potente di Cosa Nostra è Matteo Messina Denaro: quanto manca al suo arresto? "Non mi sono mai piaciute certe previsioni. Spero che Messina Denaro venga arrestato presto. E spero pure di non scoprire tra qualche anno che nella sua latitanza è stato protetto da uomini o apparati delle istituzioni magari per inconfessabili ragioni di Stato". Lei è in polemica durissima con il Consiglio superiore della magistratura responsabile, a suo parere, di aver boicottato la sua candidatura alla Procura nazionale antimafia. Sostiene di essere stato "scientificamente umiliato". "Saranno i giudici del Tar, ai quali ho presentato ricorso, a valutare le mie ragioni. Il problema dell'autogoverno della magistratura è più grave e più generale. Credo che sempre più spesso le decisioni del Csm siano influenzate da criteri di appartenenza correntizia o da valutazioni di opportunità politica che dovrebbero restare fuori dal meccanismo dell'autogoverno. Quando si verifica il contrario si finisce con l'incidere pesantemente sull'autonomia e la reale indipendenza di ogni singolo magistrato, vero presidio di garanzia di ogni cittadino". Giustizia: firmato il Decreto Ministeriale su messa alla prova e lavori di pubblica utilità di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2015 In attesa della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il nuovo regolamento ministeriale per lo svolgimento di attività lavorativa non retribuita in favore della collettività da parte di imputati che abbiano il diritto di richiedere la sospensione del processo per accedere alla cosiddetta messa alla prova. Il ministro della Giustizia Orlando ha, infatti, firmato il decreto recante lo specifico regolamento ministeriale sulla messa alla prova. Il regolamento ministeriale dà attuazione alla legge 67/2014 con cui si amplia la possibilità di far ricorso al lavoro di pubblica utilità (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili). Il nuovo regolamento sarà in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione. Attualmente attende il vaglio della Corte dei conti. Già oggi gli imputati di reati puniti con la sola pena pecuniaria o con una pena detentiva non superiore a quattro anni hanno la possibilità di chiedere la sospensione del processo con messa alla prova e conseguente avviamento a lavori di pubblica utilità. Con il nuovo regolamento viene rafforzata l'offerta di tali lavori dando agli uffici giudiziari la possibilità di sfruttare al meglio le finalità deflattive dell'istituto. Con il provvedimento del Guardasigilli vengono disciplinate punto per punto le diverse convenzioni in materia di lavori di pubblica utilità che il Ministero o i Presidenti dei Tribunali competenti possono stipulare con Stato, enti locali e organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Le convenzioni, raggruppate per distretto di Corte d'appello, saranno di volta in volta rese pubbliche attraverso l'inserimento in una apposita sezione del sito internet del ministero della Giustizia. Il regolamento prevede che la prestazione lavorativa non sarà retribuita, verrà svolta in favore della collettività, non sarà inferiore ai dieci giorni né superiore alle otto ore giornaliere e dovrà tener conto delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell'imputato. Il decreto ministeriale elenca inoltre le mansioni a cui i richiedenti potranno essere adibiti: - prestazioni socio-sanitarie; - di protezione civile, anche in caso di calamità naturali; - di tutela del patrimonio ambientale e culturale e infine - di manutenzione di immobili e servizi pubblici. Nessun onere è previsto a carico del ministero della Giustizia, perché saranno sostenuti delle amministrazioni, degli enti locali e delle organizzazioni presso i quali viene svolta l'attività gratuita in favore della collettività. Giustizia: responsabilità civile dei magistrati; prova "travisata" solo se decisiva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2015 Travisamento delle prove. Adesso la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati prevede anche questo caso (insieme al travisamento dei fatti) tra quelli possono fondare il diritto al risarcimento a favore del cittadino. Ma certo la categoria del travisamento si presta più di altre, per la sua scivolosità e difficoltà di inquadramento, a margini di incertezza. Che ora la Corte di cassazione prova a limitare, se non dissipare, con la sentenza della Prima sezione civile n. 10749. Per la Corte, infatti, si presenta un caso tipico di travisamento delle prove quando l'informazione probatoria riportata e utilizzata dal giudice per fondare la decisione è diversa ed inconciliabile con quella contenuta in un atto processuale (nella fattispecie, la relazione del Ctu). Farlo valere con ricorso per Cassazione presuppone che il ricorrente specificamente indichi e alleghi l'atto stesso, e assume rilievo a patto che l'informazione probatoria, risultante dalla prova travisata, sia decisiva, cioè capace da sola di portare il giudice di merito in sede di rinvio a rovesciare i contenuti della precedente decisione. In questo senso, la Cassazione non è chiamata a valutare la prova, ma deve accertarne il travisamento e quindi l'esistenza di un dato probatorio non equivoco e non suscettibile di essere interpretato in modi diversi e alternativi. L'informazione probatoria indicata in sentenza e valutata dal giudice mancherebbe del tutto nell'atto cui fa riferimento che, invece, ne conterrebbe una diversa: il ragionamento del giudice di merito senza quel dato sarebbe del tutto vano e illogico. Ci sarebbe pertanto una contraddittorietà tra il dato che esiste negli atti e quello preso in considerazione dal giudice. Il dato travisato non deve però essere marginale, ma tale da mettere in crisi irreversibile tutta la struttura argomentativa che ha condotto alla decisione. Deve però essere chi intende fare valere il travisamento a mettere in evidenza e allegare l'atto in cui la prova è stata acquisita al processo. Nel caso esaminato quest'atto è costituito dalla relazione del perito che, anche se formalmente recepita dal giudice, si sarebbe poi rivelata come sostanzialmente diversa da quella poi esposta nella sentenza impugnata. Quest'ultima sarebbe così irrimediabilmente viziata in una sua parte determinante. Va detto però che la sentenza della Prima sezione ha negato questo carattere di decisività alla relazione del perito, facendo invece notare come questa stessa non si ponesse in termini ultimativi nei confronti del magistrato che l'aveva commissionata, ma lasciasse in qualche modo "aperta" la questione tecnica. Per quanto riguarda l'estensione del perimetro della responsabilità del magistrato al travisamento (sul quale ancora ieri dal Consiglio superiore della magistratura, dopo una due giorni di studio delle novità normative, sono arrivate forti preoccupazioni) una parola importante dovrà dirla la Core costituzionale. Che, sul punto specifico è stata chiamata in causa dal tribunale di Verona. Per quest'ultimo infatti, la riforma della Legge Vassalli consente di censurare qualsiasi valutazione dei fatti o del materiale probatorio compiuta dal giudice che sia non gradita o sfavorevole, semplicemente qualificandola come travisamento. Una scelta poi che, di conseguenza, estende la possibilità di un sindacato disciplinare sui provvedimenti giudiziari. L'imprenditore che "buca" il piano di rientro Inps sconta la pena in carcere di Debora Alberici Italia Oggi, 16 giugno 2015 Sconta il carcere che non può essere convertito in pena pecuniaria l'imprenditore accusato di omissione contributiva che non versa tutte le rate concordate nel piano di rientro con l'Inps. Lo ha sancito la Cassazione che, con la sentenza n. 24900 di ieri, ha reso definitiva la condanna inflitta a un imprenditore di Milano, che aveva omesso il regolare versamento dei contributi, per un totale di 3 mila euro. L'uomo aveva rateizzato il suo debito ma alla fine erano risultate mancanti alcune tranche. Per questo era stato condannato alla reclusione, nonostante la domanda della difesa di ottenere la conversione della pena detentiva in quella pecuniaria. La tesi del legale non ha fatto breccia neppure in Cassazione. Infatti, la terza sezione penale ha respinto il ricorso sottolineando che l'omissione contributiva dell'imputato, già di per sé di non scarsa rilevanza, è parte di una situazione più ampia di debito verso l'Inps e il piano di rateizzazione per sanare la sua posizione non era completato alla data dell'udienza dibattimentale, nella quale si era dato atto del fatto che l'ultimo versamento risaliva al agosto 2010 e che perdurava un residuo dovuto; e ciò senza che la difesa abbia puntualmente contestato la permanenza del debito neanche con il ricorso per cassazione. Del tutto generiche risultano, poi, le deduzioni difensive circa un preteso stato di crisi economico-finanziaria della società, perché esclusivamente basate sull'intervenuto fallimento, dichiarato non nell'immediatezza, ma addirittura circa sei anni dopo rispetto alla commissione del reato. La decisione si discosta da un precedente con il quale la stessa Cassazione aveva collegato conseguenze penali meno gravi in caso di omissione contributiva. Infatti, con la sentenza 16102 dello scorso 15 aprile, è stata affermato che anche l'imprenditore fallito può beneficiare della sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria. In quell'occasione è stato inoltre stabilito che la procedura concorsuale non osta alla condanna per il mancato versamento delle ritenute previdenziali. Il prefetto può revocare il porto d'armi a tutela della sicurezza pubblica di Massimiliano Atelli Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2015 Con la sentenza del 5 giugno 2015 n. 963, la sezione I del Tar Piemonte ha ribadito che, come per costante giurisprudenza amministrativa, "il provvedimento prefettizio di cui all'x articolo 39 del Tulps non ha carattere sanzionatorio nei confronti del destinatario, ma cautelativo della sicurezza pubblica. È, infatti, finalizzato ad evitare il pericolo per tale bene giuridico, determinato dalla possibile disponibilità di armi in capo ad un soggetto che non possa garantirne il corretto uso. La legislazione affida a tale scopo all'Autorità di Pubblica sicurezza il compito di valutare con il massimo rigore qualsiasi circostanza che consigli l'adozione del provvedimento di divieto della detenzione stessa, in quanto la misura persegue la finalità di prevenire la commissione di reati e, in genere, di fatti lesivi della pubblica sicurezza. Ne consegue che, in base al quadro normativo di riferimento, il titolare dell'autorizzazione a detenere armi, deve essere persona assolutamente esente da mende o da indizi negativi e assicurare la sua sicura e personale affidabilità circa il buon uso, escludendo che vi possa essere pericolo di abusi. Pertanto, qualunque elemento di pericolo giustifica l'esercizio del potere riconosciuto all'autorità di Pubblica sicurezza" (cfr. ex multis, Tar Puglia, Bari, 18.12.2013 n. 1702; Tar Campania, Napoli, Sezione V, 14.01.2014 n. 280). Ciò premesso, per il Tar Piemonte può essere sufficiente, a giustificare il divieto di detenzione armi e di revoca del porto d'armi uso caccia, una forte conflittualità in ambito familiare (nella specie, la figlia aveva fra l'altro presentato querela contro il padre per ingiuria e minacce). Tale situazione di grave dissidio familiare, rappresenta, in verità, come evidenziato anche dal Consiglio di Stato "un caso tipico tra i tanti che giustificano gli interventi" in materia di armi e rispetto ai quali "le cronache dimostrano sin troppo spesso che vi è, semmai, da lamentare che certe precauzioni non siano state più severamente adottate" (Consigli di Stato, Sezione III, 19.09.2014 n. 4666). Del resto, "la contiguità che si crea in ambito familiare … è spesso causa di conflitti che non sopiscono, ma tendono ad esasperarsi con il decorso del tempo: da cui la non opportunità di lasciare ai protagonisti di tali conflitti la disponibilità di armi da sparo, ancorché l'uso improprio di esse non si sia già verificato" (Tar Piemonte, Sezione I, 15.06.2012 n. 724) Nella specie, si controverteva sulla sufficienza del riferimento all'esistenza di forti dissidi familiari per giustificare il divieto di detenzione armi e il conseguente provvedimento di revoca del Questore (atto, in realtà, vincolato, una volta emesso da parte del Prefetto il divieto di detenzione). La decisione del Tar Piemonte persuade, atteso che l'esperienza comune e il buon senso confermano l'assunto giudiziario secondo il quale "la contiguità che si crea in ambito familiare … è spesso causa di conflitti che non sopiscono, ma tendono ad esasperarsi con il decorso del tempo: da cui la non opportunità di lasciare ai protagonisti di tali conflitti la disponibilità di armi da sparo, ancorché l'uso improprio di esse non si sia già verificato". Non è certamente l'unico ambiente in cui ciò accade, beninteso, ma che accada anche in esso è un dato oggettivo. Antitrust: nuovo procedimento contro il Cnf, nel mirino le resistenze sulla pubblicità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2015 Autorità garante della concorrenza, provvedimento n. 25487. L'Antitrust prosegue l'offensiva contro il Cnf. E con il provvedimento n. 25487 contesta al Consiglio nazionale forense l'inerzia nel dare corso a quanto richiesto dalla medesima Autorità nell'autunno scorso (con un provvedimento con il quale il Cnf venne anche sanzionato sul piano economico) e, nello stesso tempo, mette nel mirino il nuovo codice deontologico. Al centro c'è uno dei temi di tradizionale frizione con i professionisti e cioè la pubblicità e le sue forme lecite o anche solo tollerate. Il Garante ricorda che nell'ottobre 2014 venne accertata la condotta anticoncorrenziale del Cnf che aveva limitato la libertà degli avvocati nella determinazione della propria condotta sul mercato, da una parte considerando illecito disciplinare la richiesta di compensi inferiori alle tariffe e, dall'altra, limitando l'utilizzo di un canale promozionale e informativo attraverso il quale rendere nota la convenienza della prestazione professionale offerta. In particolare, con riferimento a quest'ultimo punto, cruciale nella lettura dell'Antitrust è stato il parere del Cnf n. 48 del 2012 che considerava accaparramento della clientela l'attività pubblicitaria svolta dai professionisti attraverso l'uso di piattaforme come AmicaCard, ritenendo che le stesse consentono al professionista, dietro pagamento di un corrispettivo, di "pubblicizzare l'attività del suo studio evidenziando la misura percentuale dello sconto riservato ai titolari della carta". Nel provvedimento dell'ottobre 2014, l'Autorità dava conto dei vantaggi economici svolta dalla pubblicità in un'economia di mercato, respingendo poi l'argomentazione del Cnf secondo cui sarebbe legittima la pubblicità effettuata dagli avvocati utilizzando solo siti con nomi di dominio propri, mentre sarebbe deontologicamente scorretto l'utilizzo di siti messi a disposizione da terzi per svolgere la medesima attività. Ora il Garante rimprovera due cose al Cnf. La prima: non avere dato, malgrado ripetute sollecitazioni, alcuna risposta sulle misure prese per rimuovere l'accertata situazione di lesione della concorrenza. La seconda più grave: non solo non avere revocato il parere, ma anzi averlo conservato come disponibile sul sito istituzionale il parere stesso (disponibilità verificata da ultimo attraverso 3 diversi accessi effettuati a maggio) e poi, reiterando la condotta censurata, avere inserito nel Codice deontologico una disposizione che, nella sostanza, riproduce il contenuto del parere. Sotto la lente è finito così l'articolo 35 in base al quale "L'avvocato può utilizzare, a fini informativi, esclusivamente i siti web con domini propri senza indirizzamento, direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipi, previa comunicazione al Consiglio dell'Ordine di appartenenza della forma e del contenuto del sito stesso", aggiungendo che "le forme e le modalità delle informazioni devono comunque rispettare i principi di dignità e decoro della professione" e stabilendo, infine, che "la violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l'applicazione della sanzione disciplinare della censura". Di qui l'apertura di un nuovo procedimento per inottemperanza. Dopo la bocciatura del regolamento elezioni l'avvocatura chiede l'intervento del ministero di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2015 Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Sezione I - Sentenza 6 giugno 2015 n. 15617. Il ministero della Giustizia deve intervenire per mettere ordine nella confusione che si è creata dopo la bocciatura da parte del Tar del regolamento di Via Arenula utilizzato per l'elezione dei nuovi consigli dell'Ordine. All'indomani del verdetto del tribunale amministrativo del Lazio (si veda il Sole24ore del 14 giugno) che ha contestato soprattutto la scarsa tutela delle minoranze, non si sono fatte attendere le reazioni dell'avvocatura. Si rallegra per il trionfo della democrazia il segretario dell'Associazione nazionale forense Ester Perifano, che ha presentato il ricorso, anche se non può fare a meno di rammaricarsi per non essere stata ascoltata prima: "Eravamo profondamente convinti della nostra tesi e delle criticità che indicavamo e stupisce che il ministero della Giustizia, di fronte a contestazioni precise e suggerimenti circostanziati, abbia scelto di confermare un regolamento che era chiaramente illegittimo. Ora ci aspettiamo - prosegue Perifano - che il ministero responsabilmente si impegni per rimediare al caos che si è creato: alcuni ordini hanno votato con le regole messe fuori gioco dal Tar, altri non hanno votato affatto e c'è un tasso di ricorsi altissimo davanti al Cnf, che riguarda circa il 30% degli ordini in cui le consultazioni si sono svolte". Dal presidente dell'Oua Mirella Casiello, arriva l'invito al confronto per uscire dell'impasse: "L'Oua aveva segnalato le criticità del regolamento, specie per quel che riguardava la tutela delle minoranze, chiedendo l'intervento del ministero per porre rimedio alle incongruenze poi evidenziate dal Tar. Ora abbiamo Ordini che si sono rinnovati e altri che hanno atteso e si ritrovano orfani del regolamento elettorale. Ribadiamo l'invito di qualche mese fa: sediamoci attorno ad un tavolo e troviamo una soluzione condivisa. Ne va della tenuta e delle credibilità del sistema ordinistico, ma anche dell'immagine e dell'unità dell'avvocatura, in un momento delicato come questo, alla vigilia di un forte dibattito sul Ddl Concorrenza". Per il presidente dell'Associazione nazionale avvocati italiani Maurizio De Tilla, che ha "firmato" l'altro ricorso, gli ordini che fino a oggi non hanno ancora votato possono farlo ora in base alle regole del Tribunale amministrativo del Lazio che ha dichiarato l'illegittimità degli articoli 7 e 9 per la parte in cui non tutelano le minoranze. Secondo De Tilla si accingono a convocare le elezioni almeno 40 ordini tra i quali Roma e Napoli. "Resta in dubbio la sorte per le elezioni già celebrate - spiega De Tilla - ad eccezione di Salerno, Spoleto e Pisa che si sono attenuti al "criterio" Tar". Per Milano - ha sottolineato il presidente dell'Anai - la lista Danovi è stata l'unica che mettendo il paletto dei due terzi di consiglieri da leggere ha vinto le elezioni nel rispetto della legge. L'udienza di opposizione alla confisca deve essere pubblica di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2015 Corte costituzionale - Sentenza 15 giugno 2015 n. 109. L'udienza di opposizione contro l'ordinanza di confisca deve essere pubblica. La Corte Costituzionale, con la sentenza 109 depositata ieri, afferma il diritto dell'interessato che lo richieda a presenziare al procedimento nel quale si decide sul suo ricorso contro la misura patrimoniale. La Consulta fa così cadere anche la "riserva" sulle porte aperte nei procedimenti di applicazione della confisca, dopo aver dato il via libera (sentenze 93/2010, 135/2014 e 97/2015) alla pubblicità nelle udienze per l'applicazione delle misure di prevenzione, di sicurezza e nei procedimenti davanti al tribunale di sorveglianza. Un solco sul quale il giudice delle leggi si è mosso in armonia con la Corte dei diritti dell'Uomo, affermando la necessità di rendere pubbliche le procedura giudiziarie a tutela delle persone soggette alla giurisdizione, contro una giustizia segreta. La via della pubblicità, come sottolineato da Strasburgo, è un modo per conservare le fiducia nei giudici. Possibili le eccezioni alla regola, quando ad esempio esistono esigenze di protezione della vita privata di terze persone o il contenzioso ha un carattere "altamente tecnico". Un distinguo sul quale aveva puntato proprio l'avvocatura di Stato per mantenere chiusa la camera di consiglio nel caso esaminato. Con l'ordinanza di rinvio la Corte di cassazione si è trovata a trattare un contenzioso sulla confisca di una statua di bronzo attribuita allo scultore Greco Lisippo trovata in mare. Nell'affermare la necessità di rendere pubblici anche i procedimenti che riguardano la confisca i giudici costituzionali fanno notare che si tratta di udienze nelle quali la posta in gioco può essere particolarmente alta, proprio come nel caso analizzato. La decisione da adottare comporta prima di tutto accertamenti sul fatto e quindi il collegamnto bene- reato e, in secondo luogo, nel caso di confisca di un bene di proprietà o in possesso di terzi, la verifica delle condizioni per dare il via libera alla misura nei suoi confronti. Un'ipotesi in cui il provvedimento ablativo può colpire un soggetto che non ha partecipato neppure al giudizio di cognizione perdendo così anche l'opportunità di usufruire della garanzia offerta dalla pubblicità di quel giudizio. Per la Consulta è significativo che la prima pronuncia della corte di Strasburgo (Bocellari e Rizza contro Italia 2007) abbia sancito proprio il contrasto con la Cedu di una procedura camerale sull'applicazione della confisca. Ferma la regola generale della necessità di aprire le porte delle aule dei tribunali - l'esigenza non riguarda i giudizi in Cassazione dedicati al diritto- i giudici sottolineano che il problema di legittimità costituzionale si pone in particolare per l'ordinanza di confisca. Il giudice dell'esecuzione in prima battuta decide, infatti, de plano e dunque senza alcuna formalità, facendo salva la possibilità per gli interessati di opporsi. La norma esclude però la partecipazione del pubblico alla camera di consiglio. Per questo la Consulta dichiara il contrasto con la Carta degli articoli 666, comma 3, 667 coma 4 e 676 del codice di procedura penale. Lettere: non consegnare l'italiano Pizzolato alle galere brasiliane di Luigi Manconi Il Manifesto, 16 giugno 2015 Davvero bizzarra, se non fosse tragica, la vicenda dell'estradizione di Henrique Pizzolato. L'uomo, di origine brasiliana con cittadinanza italiana, rischia in questi giorni di dover lasciare il carcere di Sant'Anna a Modena - dove sta scontando una pena di più di 12 anni inflitta dal tribunale supremo brasiliano nell'ambito di un'inchiesta per corruzione e riciclaggio - per essere trasferito nel carcere di Papuda. Ovvero in una delle galere più violente e degradate del Brasile. Ed è sufficiente leggere i recenti rapporti di Amnesty International e di Human Rights Watch per avere conferma delle condizioni disumane delle carceri brasiliane, inadeguate strutturalmente, sovraffollate, terribilmente carenti dal punto di vista igienico e sanitario, ma soprattutto luoghi dove dominano ferrei meccanismi di sopraffazione a opera di bande criminali. Ciò nonostante, e nonostante il caso di Pizzolato sia stato oggetto di diverse interrogazioni parlamentari, il ministero della Giustizia ha concesso l'estradizione la cui esecuzione da parte del ministero dell'Interno è stata sospesa in attesa della decisione del consiglio di Stato sul ricorso, fissata per il prossimo 23 giugno. Un altro elemento va inserito in questo quadro, quasi a rendere ulteriormente incredibile ciò che potrebbe avvenire. Il trattato di estradizione tra la Repubblica italiana e la Repubblica federativa del Brasile, ratificato nel 1991, prevede che l'estradizione non venga concessa "se vi è fondato motivo di ritenere che la persona richiesta verrà sottoposta a pene o trattamenti che comunque configurano violazione dei diritti fondamentali". Inoltre, proprio a febbraio scorso il Senato ha approvato in via definitiva un disegno di legge per la ratifica e l'esecuzione del trattato del 2008 tra Italia e Brasile, sul trasferimento delle persone condannate, in cui è contemplata la possibilità di scontare la pena nel paese di cui si è cittadini. Va ricordato che già la corte d'appello di Bologna aveva respinto la richiesta di estradizione proprio ritenendo che il sistema carcerario e le garanzie fornite dal governo brasiliano non assicurassero l'incolumità di Pizzolato. La Corte di cassazione ha però successivamente annullato senza rinvio, e quindi senza alcuna possibilità di riesame, quella sentenza ritenendo legittima la richiesta di estradizione del governo brasiliano. A questo punto - era il febbraio 2014 - Pizzolato si è costituito e ha dichiarato di essere disposto a scontare la pena in Italia, chiedendo al ministero della Giustizia di concedergli la possibilità di ricelebrare il processo nel nostro paese per poter dimostrare la propria innocenza. L'uomo è stato condannato per corruzione, peculato, auto riciclaggio a una pena elevata, inusuale per i nostri tribunali, nell'ambito della vicenda Mensolao, uno dei maggiori scandali finanziari del Brasile: il processo si è celebrato in un unico grado senza possibilità di appello e davanti al Supremo Tribunale. Motivo per cui l'uomo ha deciso di fuggire dal Brasile per essere nuovamente giudicato in Italia, alla ricerca di un processo giusto che consentisse di riesaminare la sua posizione. In queste ore si succedono numerosi gli appelli affinché venga revocata la misura. Perché affidare Pizzolato a una carcerazione in condizioni che non garantiscono il rispetto dei diritti umani e decidere di interrompere quel percorso di rieducazione che ha già intrapreso nei mesi scorsi con buoni risultati a Modena, quando ci sono gli strumenti perché possa scontare la pena in Italia? A questo punto è necessario un intervento immediato dei ministri competenti affinché si riapra il caso di Henrique Pizzolato e si arrivi a una soluzione che possa salvaguardarne l'incolumità fisica e tutelare i suoi diritti inviolabili. È questo il tema della conferenza stampa che si terrà oggi, martedì 16 giugno, alle ore 10.30 a Roma, nella sala Nassirya del Senato. Lettere: caro Casson, le manette non pagano di Tiziana Maiolo Il Garantista, 16 giugno 2015 Felice Casson ha perso le elezioni non solo nei confronti di Luigi Brugnaro, da ieri sindaco di Venezia dopo ventidue anni di governo delle sinistre, ma anche e soprattutto verso Massimo Mallegni, tornato sindaco a Pietrasanta. Il magistrato e l'imputato. Non sempre a prevalere è il primo, non solo perché a volte i processi si concludono con le assoluzioni, ma anche perché non tutti i cittadini amano vedere le toghe capitalizzare il frutto del loro lavoro travasandolo in politica. E ormai gli elettori sono smaliziati - come il caso Ingroia insegna - e hanno capito che non basta la popolarità acquisita (grazie anche ai tanti mezzi di comunicazione che fungono da house horgan delle Procure) con le inchieste su personaggi famosi per essere considerati anche bravi amministratori. Gli esempi non mancano. Felice Casson non sfugge alla regola. Un magistrato come tanti, cioè un burocrate che si è laureato, ha studiato doviziosamente per superare l'esame di Stato, poi si è seduto, mentre la sua carriera scorreva in modo automatico senza badare troppo ai suoi meriti, o demeriti. Poi, mentre indagava sulla strage di Peteano e mentre la prima Repubblica era agli sgoccioli, ebbe la sua occasione che, poco dopo, lo condurrà per mano a cercare di realizzare le sue ambizioni politiche. Siamo alla fine del 1991, e la scoperta di "Gladio" e "stay behind" in cui incappò Francesco Cossiga, allora presidente della repubblica, grazie anche alla malizia del presidente del Consiglio Andreotti che rese pubbliche le carte di un'attività anticomunista che non fu mai illegale ma sicuramente segreta, trasformò l'oscuro giudice istruttore di Venezia nel personaggio che fece cadere il presidente della Repubblica. Il duello Casson-Cossiga, con il magistrato che voleva interrogare il presidente, e quest'ultimo che lo chiamava "l'efebo di Venezia" e tirava le sue famose picconate, sfociò nella proposta di impeachement presentata dal Pds di Occhetto, fino a che, nel marzo 1992, Cossiga si dimise. E fu l'inizio della valanga che portò, nel giro di un anno, alla fine della prima Repubblica. Ritroviamo il ringalluzzito Casson nel 2005 candidato (perdente, già allora, nel ribaltone del secondo turno) contro Massimo Cacciari a sindaco di Venezia, e un anno dopo in parlamento. Non uscirà più dalla politica, Di Pietro docet. Ma la toga ce l'ha dentro, e se la porta anche al Senato. La sua attività preferita è nella giunta delle autorizzazioni a procedere, quella che ha espulso Silvio Berlusconi ma che ha salvato Antonio Azzollini dalle intercettazioni telefoniche, lo stesso che oggi un Pd grillizzato vuol mandare agli arresti domiciliari. Ma un anno fa il partito di Renzi votò contro, e Casson, di fede civatiana, si autosospese per protesta. Manette, manette e ancora manette, pare la sua parola d'ordine. Pare strano che oggi, dopo lo scandalo del Mose, che in Veneto ha travolto partiti di destra e di sinistra, i cittadini di Venezia non abbiamo voluto affidarsi alle mani sicure e salvifiche di un magistrato così rigoroso. E pare altrettanto strano che a Pietrasanta, provincia di Lucca, gli elettori abbiano pervicacemente voluto riportare sul seggio più alto della città un ex sindaco che era stato arrestato con 51 capi d'imputazione, tra cui associazione per delinquere, corruzione, estorsione, truffa, reati gravissimi per chiunque, ma particolarmente infamanti per un pubblico amministratore. Massimo Mallegni è stato vittima della politica degli intrighi giudiziari e politici di un mondo tutto interno al "cerchio magico" del presidente del consiglio. Denunciato dal capo dei vigili di Pietra-santa, Antonella Manzione, arrestato dal di lei fratello, il magistrato di Lucca Domenico Manzione: 39 giorni in carcere, 120 agli arresti domiciliari nel 2006, poi assolto perché "il fatto non sussiste". Nessun ricorso da parte del Pm. Ma carriera politica finita. Quella dell'ex sindaco. Non così quella dei fratelli Manzione: Domenico sottosegretario dei governi Letta e Renzi, Antonella prima capo dei vigili nella Firenze del sindaco Renzi, infine direttrice del Dipartimento affari giudici e legislativi di Palazzo Chigi, pur con la bocciatura della Corte dei conti che ha denunciato la mancanza dei requisiti della signora. Che importa se i due fratelli avevano contribuito a sbattere in galera un innocente? Domenica scorsa i cittadini hanno fatto giustizia. Hanno premiato l'ex galeotto Mallegni e bocciato il magistrato integerrimo Casson. Se non proprio un giudice a Berlino, quanto meno a Venezia e Pietrasanta c'è. Lettere: il sindaco Marino è stato eletto, sbagliato chiederne le dimissioni di Vincenzo Vitale Il Garantista, 16 giugno 2015 Il tema politico del giorno è costituito dalle dimissioni del sindaco di Roma Ignazio Marino: invocate dalle opposizioni, sperate da Renzi, negate dal diretto interessato, oggetto di chiacchiera da parte di tutti i commentatori. Da un certo punto di vista, non c'è dubbio che la situazione in cui versa il comune di Roma sia allarmante, anche a causa della diffusa corruzione. Tuttavia, è necessario introdurre opportune distinzioni che conducono a vedere le cose in modo diverso. Innanzitutto, a tutti coloro che invocano, caldeggiano o auspicano lo scioglimento del comune di Roma per fatti di mafia, va subito risposto che i fatti venuti alla ribalta della cronaca stanno alla mafia come il gioco del "lego" alle ruspe che sventrano la terra per costruire una vera galleria. In questi fatti non c'è nulla, ma proprio nulla della mafia e dei suoi tratti caratteristici: la forza di intimidazione, la soggezione da questa causata, l'omertà prodotta fra i componenti della associazione protesa a commettere delitti. Immaginare Carminati o Buzzi quali colleghi di Bagarella o di Riina induce soltanto al riso. Essi erano piuttosto i protagonisti di un malaffare organizzato che serpeggiava ovunque, nel comune di Roma, vi fosse l'odore di ingenti somme alle quali potersi abbeverare: nulla di più o di meno. Proprio per questo, qualunque cosa possa dirne la Cassazione - la quale prima o poi si ricrederà (e se non lo facesse, testimonierebbe la illegittimità costituzionale dell'art. 416 bis in quanto del tutto privo di determinatezza) - parlare di scioglimento del comune di Roma per mafia è una semplice boutade, che come tale va considerata. In secondo luogo, se è vero che alcuni assessori e consiglieri comunali sono stati accusati di diversi reati, non risulta che Marino vi sia implicato, neppure indirettamente: anzi, risulta, proprio al contrario, che egli abbia cercato di ripulire dall'inizio, per quanto possibile, l'amministrazione capitolina da ogni intromissione indebita. Critico fortemente che, per far ciò, egli abbia chiesto ad un magistrato di collaborare dall'interno dell'organizzazione comunale a tale opera di pulizia, ma va detto che anche per questa ragione è privo di senso chiederne le dimissioni. Chi lo fa sembra obbedire più ad un copione prestabilito che, in casi del genere, gli impone di recitare una parte, che ad una reale aderenza ai fatti come si presentano ed ai ruoli occupati da ogni protagonista. A proposito di ruoli, molti dimenticano che mentre gli assessori sono semplicemente nominati e non rappresentano nessuno se non e stessi, al contrario, il sindaco viene eletto direttamente dal popolo e perciò gode di una investitura molto significativa, perfino più forte di quanto possa invece godere quella del capo del governo, il quale, nel nostro sistema elettorale e costituzionale, non riceve i voti direttamente dal popolo, ma viene incaricato dal capo dello Stato di formare il governo in quanto capo del partito che fa parte della coalizione elettoralmente vittoriosa. Ciò significa che chi pretende le dimissioni di Marino intende travolgere la volontà del popolo che lo ha eletto quale sindaco, e, per di più, senza che ve ne sia una motivazione plausibile. Se tutti fossimo avvezzi ad una buona educazione costituzionale, comprenderemmo come una carica alla quale si accede per diretto mandato popolare debba essere necessariamente considerata quasi intoccabile, perché chi la ricopre è destinatario dell'ufficio pubblico in virtù della volontà di chi detiene la sovranità, ed anzi ne è il padrone: il popolo. Purtroppo, questa buona educazione oggi appare latitante, e perciò si producono in modo frequente strappi di varia natura al tessuto politico ed istituzionale del nostro sistema. Uno di questi strappi, grave ed ingiustificato, si consumerebbe se davvero Marino accedesse alla richiesta di dimettersi. Se lo facesse, infatti, tradirebbe la fiducia di centinaia di migliaia di romani che l'hanno votato proprio perché lo volevano quale sindaco della loro città. Tanto per dire e per contrasto: Renzi non l'ha votato nessuno per Palazzo Chigi. Perciò le sue eventuali dimissioni non sarebbero una ferita costituzionale. Quelle di Marino sì. Campania: Garante; il coro giovanile del Teatro S. Carlo si esibisce nelle carceri regionali Ristretti Orizzonti, 16 giugno 2015 Mi è gradito comunicarvi l'iniziativa da me assunta in collaborazione con il Teatro S. Carlo di Napoli. Entro tale accordo il coro giovanile del S. Carlo diretto dal maestro Carlo Morelli, composto da 50 giovani cantori, si sta esibendo, a titolo volontario e gratuito, negli Istituti penitenziari della Campania. Finora sono stati visitati gli Istituti di Poggioreale, Secondigliano, Carinola, S. Angelo dei Lombardi. Il maestro adatta il repertorio alle particolari sensibilità degli ospiti degli Istituti, alternando brani tratti dal repertorio dei più noti artisti internazionali e brani tradizionali della canzone napoletana. Per di più con grande bravura e cordialità coinvolge i reclusi in esibizioni di canto e suono, talvolta con sorprendenti risultati di ottime esibizioni. Per gli ospiti reclusi si tratta di un momento liberatorio. A questo proposito è bello ricordare ciò che ha detto un ospite della casa di reclusione di S. Angelo dei Lombardi "Oggi tutti voi vi siete resi colpevoli di un reato perché avete contribuito alla nostra evasione. Ci avete fatto uscire da queste mura, dunque siete tutti pregiudicati". Questo è stato il miglior riconoscimento e la gratificazione più grande per tutti noi. Adriana Tocco, garante detenuti Regione Campania. Consiglio Regionale della Campania Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Viterbo: Ugl; il carcere di Mammagialla non è attrezzato per ricevere malati psichiatrici tusciaweb.eu, 16 giugno 2015 A lanciare l'allarme è Danilo Primi, delegato regionale dell'Ugl polizia penitenziaria, secondo il quale "una recente direttiva del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) prevede l'inserimento di una sezione di osservazione psichiatrica nel carcere Mammagialla". Significa, in pratica, che il penitenziario viterbese dovrebbe dotarsi di una struttura a parte per accogliere detenuti con particolari patologie psichiche. A dir poco impensabile, secondo Primi, con le risorse di cui il carcere dispone attualmente. "Per mandare in porto un progetto simile serve personale altamente specializzato e non solo - spiega il sindacalista. A conti fatti, l'introduzione di questa nuova sezione all'interno del carcere viterbese richiederebbe 40 agenti di polizia penitenziaria di nuova formazione, con competenze in ambito sanitario; 24 ore in più di medico di guardia; un presidio psichiatrico h24 e locali idonei, per collocare i detenuti con patologie psichiatriche in un'attrezzata struttura a parte. Mammagialla, per ora, non ha niente di tutto questo". La preoccupazione di Primi è che i detenuti con patologie psichiatriche possano arrivare al carcere viterbese da un momento all'altro, in assenza di strutture idonee per accoglierli. "Il problema è serio - spiega Primi -. Non vorremmo che questa direttiva fungesse come una specie di lasciapassare esecutivo subito o in tempi brevi, perché per ora Mammagialla non ha né il personale né i locali adeguati per tamponare un flusso di detenuti con esigenze così particolari. Di conseguenza, la sicurezza non potrebbe mai essere garantita, così come l'assistenza sanitaria ai detenuti". Il carcere viterbese è strutturato in sezione giudiziaria, con i detenuti ancora in attesa di giudizio, e sezione penale, che accoglie i condannati con sentenza definitiva. A queste si aggiungono la sezione protetta, per i reati sessuali, e il braccio del 41bis. Dal 2013, non c'è più il reparto di alta sicurezza, che raccoglieva ergastolani, colpevoli di reati come l'associazione a delinquere o lo spaccio internazionale e tutti i detenuti declassati dal 41bis. Se e quando l'osservazione psichiatrica diventerà una nuova sezione di Mammagialla è ancora da capire. Ma Primi annuncia già la mobilitazione: "Qualora Mammagialla si ritrovi allo sbaraglio ad accogliere questi detenuti senza personale e locali idonei, attueremo ogni forma di protesta". Genova: Sappe "ma quale rogo a Pontedecimo? le detenute hanno bruciato una t-shirt" di Francesco Lo Dico Il Garantista, 16 giugno 2015 All'indomani della presunta rivolta delle detenute nel carcere femminile di Pontedecimo, molti quotidiani avevano punteggiato di particolari degni di un block-buster hollywoodiano quello che non era un "mega incendio" corredato da grida, lanci di scope e violenze barbariche, ma il ben più modesto rogo di una t-shirt. Secondo le fantasiose ricostruzioni dei drammaturghi nostrani, l'esplosione della protesta scaturita dal divieto di usare il fornelletto in cella, avrebbe generato lanci di bastoni, secchi d'acqua, roghi di lenzuola, e un tam tam di oggetti metallici che le detenute avrebbero ripetutamente infranto sulle sbarre per dare all'inferno scatenato in gabbia una colonna sonora di sicura suggestione alternato a cori da stadio e slogan da film d'azione. A completare l'efficace montaggio, ci sarebbe stato persino un pennacchio nero a sormontare l'edificio, che avrebbe coronato l'incendio della giusta macabra viratura. Tutto molto appetitoso, degno di una buona fiction americana. Ma soprattutto molto falso. A rivelare la grande bufala di Pontedecimo è stato lo stesso Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria, il Sappe, che ha smentito le ricostruzioni precedenti. "È destituita di ogni fondamento la notizia, diffusa da un Sindacato confederale del pubblico impiego, su una presunta rivolta con tanto di incendio delle detenute della Sezione femminile del carcere di Pontedecimo - scrivono al Sappe. Alcune detenute hanno sì contestato una determinazione assunta dalla direzione sull'uso dei fornelletti a gas ma nelle loro proteste si sono limitate a bruciare una sola maglietta e a proferire grida". "La situazione è tornata alla normalità in poco tempo - ha chiarito il segretario del sindacato di polizia penitenziaria Donato Capece -le notizie stanno ingenerando preoccupazioni nei detenuti, che temono inasprimenti e reazioni rispetto a un fatto che, ripeto, non è accaduto nei termini catastrofici denunciati dal sindacato confederale". "I poliziotti penitenziari di Pontedecimo ci hanno confermato che la situazione non è affatto quella che è stata rappresentata dal Sindacato confederale del pubblico impiego - ha precisato per parte sua il segretario regionale ligure del Sappe Michele Lorenzo. "Non c'è stato cioè alcun incendio ed alcuna rivolta e la situazione interna è assolutamente tranquilla e sotto il controllo della Polizia Penitenziaria. Qualsiasi indagine interna e ministeriale lo potrà accertare". "Quando si fanno certe affermazioni, bisognerebbe prima accertarsi che abbiano un fondamento di verità", concludono Capece e Lorenzo. "Perché altrimenti si potrebbero ingenerare allarmismi inutili e determinare altrettanto inutili tensioni interne nelle carceri". Le tensioni sono l'ultima cosa di cui nelle nostre celle si sente il bisogno. Reggio Emilia: accordo tra carcere, Opg e Comune, detenuti lavoreranno come giardinieri Gazzetta di Reggio, 16 giugno 2015 Parte il progetto di reinserimento in collaborazione tra Comune, Opg e istituto penitenziario per affidare ai carcerati i lavori di manutenzione del verde pubblico. I detenuti del carcere e dell'ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Reggio Emilia cureranno nel 2015 il verde pubblico della città. Lo prevede una delibera della giunta comunale proposta dal vicesindaco e assessore al welfare Matteo Sassi, che dà corso all'attivazione di un progetto speciale con gli istituti penitenziari della città. In particolare il progetto fa parte del programma della Regione Emilia-Romagna per gli "interventi rivolti alle persone sottoposte a limitazioni della libertà personale, promossi dai comuni sedi di carcere", con l'obiettivo di "creare un modello che contribuisca al miglioramento della qualità della vita delle persone recluse, e fornisca a queste ultime un modo per apprendere quelle competenze e abilità professionali finalizzate all'inserimento in percorsi di formazione o all'inserimento lavorativo". Non "dobbiamo dimenticare - commenta infatti Sassi - che la funzione della pena è quella di rieducare la persona detenuta e favorirne il pieno reinserimento nella società". Progetti come questo "si inseriscono dunque nell'alveo della costituzione che resta, ancora una volta, di straordinaria attualità e lucidità". Il vice sindaco spiega inoltre: "È dimostrato che laddove le istituzioni, in collaborazione con le comunità locali e il terzo settore, riescono a mettere in campo progetti di reinserimento sociale diminuisce notevolmente la probabilità di recidiva. credo che anche così si contribuisca concretamente a tutelare la sicurezza individuale e collettiva". Vibo Valentia: Sappe; nella caserma del carcere situazione di inadeguatezza strutturale di Stefano Mandaranci Quotidiano del Sud, 16 giugno 2015 Problematiche strutturali e carenze ai servizi che interessano il comparto giustizia, sono ancora una volta al centro di segnalazioni e contestazioni da parte dei sindacati di categoria. Gli stessi che, puntualmente, si appellano alle autorità più alte in grado, nella speranza di arrivare alla risoluzione di questioni che interessano e condizionano il lavoro quotidiano degli operatori. Problemi che, in casi estremi, arrivano a condizionare anche il regolare funzionamento della macchina giudiziaria, come nel caso di importanti processi messi a rischio - come del resto denunciato nei giorni scorsi dal sindacato - dai problemi relativi alle condizioni inadeguate degli automezzi adibiti al trasporto detenuti. Ora è il Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), tramite il segretario nazionale Donato Capece, a segnalare le gravi carenze strutturali e igieniche della struttura destinata a caserma all'interno della casa circondariale di Vibo Valentia. Lo ha fatto tramite una lettera inviata ai dipartimenti nazionale e regionale dell'Amministrazione penitenziaria. Capece, dopo aver ricordato la recente riorganizzazione delle strutture destinate al pernottamento e alle esigenze di servizio del personale dipendente, distinti dagli spazi destinati al personale in missione, "che ha tra l'altro determinato l'utilizzo di tutti gli spazi a disposizione", segnala come si verifichino ancora "situazioni di inadeguatezza strutturale delle caserme". In particolare, rispetto al presidio vibonese, l'esponente del sindacato fa riferimento ad "infiltrazioni d'acqua in tutti e cinque i piani, con crepe dell'intonaco che lasciano intravedere il ferro delle armature nella tromba delle scale al terzo, quarto e quinto piano". E, ancora, si segnala che "mancano le plafoniere e i fili elettrici sono sfoderati; l'acqua è color ruggine; le infiltrazioni hanno deteriorato la tinteggiatura dei locali con la conseguente presenza di muffa". Come se non bastasse, si è in presenza di "infissi obsoleti, servizi igienici che lasciano a desiderare, stanze che non sono dotate di televisori e nelle quali in ogni caso manca il segnale digitale". Problemi anche nella pulizia dei locali "affidata a due detenuti lavoranti che sono impiegati anche in diversi altri compiti e, quindi, non riescono ad effettuare le pulizie in maniera continuativa e corretta; tante che vengono effettuate solo ogni tanto e in maniera superficiale". Perfino il cambio lenzuola "viene fatto raramente". Problematiche che si ripropongono con insistenza proprio allorquando, come in questi giorni, si sta provvedendo all'assegnazione delle camere al personale dipendente che ne ha fatto richiesta e che, però, "non accetta di sottoscrivere gli accordi a causa di quanto rappresentato". Tutte queste criticità, e in particolare quelle strutturali, "necessitano chiaramente di interventi straordinari e dello stanziamento di appositi fondi". Infine, Capece si appella all'osservanza delle disposizioni vigenti in materia e in particolare "allo standard di arredo previsto al punto "A" dell'Anq del 2004" ma insiste anche sulle "condizioni igieniche delle stanze e dei materiali dati in uso alle persone" chiedendo "iniziative concrete". Cagliari: Sdr; "Ramadan, cultura e preghiera" da giovedì inizia digiuno per 40 detenuti Ristretti Orizoznti, 16 giugno 2015 È tutto pronto nel carcere di Cagliari-Uta per il grande digiuno sacro che quest'anno, dal 18 giugno al 17 luglio, interesserà una quarantina di detenuti fedeli musulmani. L'associazione "Socialismo Diritti Riforme", in collaborazione con l'Area Educativa e la Direzione della Casa Circondariale di Cagliari, ha promosso, per il quinto anno consecutivo, l'iniziativa "Ramadan, cultura e preghiera" rivolta ai detenuti di religione islamica praticanti. Venti chilogrammi di datteri, acquistati da SDR anche con il contributo di Paola Melis Agente Generale UnipolSai, sono stati consegnati all'Istituto e saranno distribuiti ai musulmani per rispettare il rito durante i 30 giorni di digiuno. Ciascuno dei detenuti praticanti, che rispettano il dettato del Ramadan, riceverà infatti un sacchettino contenente i datteri. Ogni sera, a conclusione della giornata di astinenza dal cibo, consumerà il frutto e berrà del latte prima di nutrirsi. Durante l'intero mese, nel rispetto della volontà dei praticanti, verrà distribuito il cibo solo dopo il tramonto. "La sempre più consistente presenza di detenuti extracomunitari di fede musulmana anche nella nuova struttura penitenziaria di Uta ha richiamato l'attenzione sul problema della pratica della fede islamica. Se ne sono fatti interpreti gli operatori dell'Area Educativa e i volontari. La cultura e la spiritualità infatti costituiscono per i detenuti aspetti di alto valore umano e sociale. Con queste finalità l'associazione - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente di Socialismo Diritti Riforme - è impegnata a offrire anche quest'anno un segno tangibile della cura umana verso chi vive un difficile momento". "Il Ramadan è vissuto come un'occasione di profonda purificazione, di rinascita, di pura preghiera. La fede è per tutti i detenuti la fonte primaria di consolazione e di speranza soprattutto nelle lunghe attese che precedono i processi ma anche durante l'intero periodo di perdita della libertà. La preghiera rituale rappresenta per i fedeli musulmani un momento collettivo di riflessione e di crescita interiore irrinunciabile. Il gesto solidale verso chi pratica il Ramadan - conclude la presidente di Sdr - è un modo per esprimere reciproco rispetto e rafforzare i sentimenti di condivisione pacifica". Pistoia: "Pena di morte e giustizia negli Usa", un incontro con l'ex detenuto Karl Guillen Il Tirreno, 16 giugno 2015 "Pena di morte e giustizia negli Usa, parliamone con un protagonista" è il tema dell'incontro che si terrà mercoledì 17 giugno alle 21,30 nella saletta incontri dell'assessorato alla cultura in via Sant'Andrea 16. Protagonista della serata sarà Karl Guillen, autore del libro-denuncia "Il tritacarne" ed ex detenuto americano. Saranno presenti anche Giuliano Capecchi dell'associazione Liberarsi e l'avvocato Cecilia Turco. L'incontro, a ingresso libero, è patrocinato dal Comune di Pistoia e promosso da Art-11 (composta dal gruppo esperantista "Umberto Stoppoloni", dal centro studi umanisti Toscana "Ticonzero" e da Incontriamoci sull'Arno, circolo arci La Torre), dall'associazione editoriale umanista Multimage, con il contributo della sezione soci Coop di Pistoia. "Il tritacarne" è stato scritto da Karl Guillen nel carcere di massima sicurezza di Florence in Arizona, mentre era in attesa di un processo e di una condanna a morte. Quando Karl Guillen è entrato in carcere era un ragazzino sbandato, dedito a furtarelli e con storie di droga. Eppure il "tritacarne" (come Fiamma Lolli ha tradotto il titolo originale del libro The grinder) lo inghiotte e comincia a fare il suo lavoro: un essere umano diventa un piccolo ingranaggio di quella macchina che è il sistema giudiziario-penitenziario statunitense. Così, in carcere, Karl Guillen inizia a prendere coscienza della sua umanità e di quella degli altri, ma anche delle ingiustizie, fino a scoprire di essere un uomo con talenti e capacità: studia, scrive, legge, dipinge. Si ribella all'apparente destino e dimostra, con l'esperienza, che c'è sempre un'altra possibile strada da seguire, non solo quella che le circostanze sembrano suggerire. Porta avanti le sue battaglie per i diritti dei detenuti, che riguardano anche l'impossibilità di potersi difendere se non si hanno i soldi per pagare gli avvocati e sistemi di carcerazione che prevedono poche forme di riabilitazione e reinserimento. Karl Guillen sta portando il racconto della propria drammatica esperienza carceraria in molte città italiane. Gli appuntamenti sono organizzati in collaborazione con Amnesty International. Bologna: Coro Papageno del carcere Dozza, il 4 luglio primo concerto pubblico dell'anno Ansa, 16 giugno 2015 Il lavoro del Coro Papageno, il coro polifonico del carcere di Bologna nato da un progetto della direzione del carcere e dell'Orchestra Mozart di Claudio Abbado non si ferma, e anzi aumenta in vista del concerto di sabato 4 luglio, quando alle 15 la Casa circondariale della Dozza ospiterà il primo concerto pubblico dell'anno. Lo spettacolo dei detenuti, guidati come sempre dal maestro Michele Napolitano, toccherà tutti i canti tipici di Papageno, con un repertorio multietnico e multiculturale. "Siamo abituati a pensare al carcere come a un luogo di assoluta bruttezza e a volte, purtroppo, questo è vero - spiega la direttrice della Dozza, Claudia Clementi - Ma le persone detenute rimangono comunque persone. La condizione detentiva non priva gli individui della loro capacità innata di produrre bellezza, e di fruirne". Per questo l'apertura del carcere alla cittadinanza è un'occasione straordinaria: "Riteniamo che il carcere sia un luogo, fisico e metaforico, distante da ciò che individuiamo come arte. Non è così. I talenti delle persone non vengono meno perché si è privati della libertà, ed anzi, per alcuni, proprio la privazione della libertà è l'occasione per scoprire talenti che non pensavano di avere. In carcere si produce costantemente arte, si dipinge, si recita, si scrive di prosa e di poesia, si creano manufatti, si cucina in maniera creativa. E si fa musica". Il Coro Papageno ha coinvolto dal 2011 oltre 120 detenuti. Attualmente il coro è composto da 20 uomini e 30 donne. Dall'inizio delle attività ad oggi sono state svolte oltre 480 ore di prove e lezioni, con più di 160 incontri. Da quest'anno l'Associazione Mozart14 - che prosegue le attività sociali volute dal maestro Abbado - ha attivato un corso di alfabetizzazione musicale finalizzato a introdurre i detenuti allo studio della musica. L'Associazione Mozart14 nasce e si sviluppa infatti come naturale prosecuzione dei progetti sociali ed educativi lasciati da Claudio Abbado, eredita e fa proprio il suo messaggio: "la musica è necessaria alla vita: può cambiarla, migliorarla, e in alcuni casi addirittura salvarla". Attualmente i progetti attivati da Mozart14 sono Tamino, Papageno e Leporello, quest'ultimo mira a proporre laboratori di musico-terapia nei carceri minorili. Il nome di ogni percorso rappresenta un personaggio dell'universo mozartiano, al cui significato l'associazione si ricollega. Mozart14 infatti vuol essere "il punto di riferimento per ogni attività che valorizza la potenzialità sociale e socializzante della musica". Roma: "Un amore bandito" al teatro Golden, in scienza detenuti Compagnia Stabile Assai Ansa, 16 giugno 2015 "Un amore bandito": è lo spettacolo che la Compagnia stabile assai, il più antico gruppo teatrale penitenziario italiano, mette in scena da oggi a giovedì prossimo in anteprima nazionale al teatro Golden di Roma. "Un amore bandito", scritto da Antonio Turco e Patrizia Spagnoli, narra la storia d'amore tra Michelina Di Cesare e Franceschino Guerra, due giovani briganti morti a 24 anni. Attraverso i loro ricordi viene ripercorsa la storia dell'Italia postunitaria e del brigantaggio, con particolare attenzione al ruolo delle donne e della Chiesa. La Compagnia Stabile Assai mette in scena sempre testi inediti, basati il più delle volte sulle esperienze dei detenuti: il suo organico è composto proprio da condannati che tuttora stanno scontando in carcere pene severe per reati di mafia, camorra, ndrangheta. Nella sua lunga storia (ha esordito al festival di Spoleto nel luglio del 1982), la Compagnia ha vinto il Premio Troisi nel 2010 e ha ottenuto la medaglia d'oro del Capo dello Stato Giorgio Napolitano nel 2012. Si è esibita, unica in Italia, nella Sala della Regina della Camera dei Deputati (2009) e nella Sala della protomoteca del Campidoglio (2011). Ha al suo attivo oltre 800 spettacoli fuori dalle mura del carcere, in tanti teatri stabili del territorio nazionale, in Università e in Musei. Roma: "Palla-volovia", a Rebibbia, ristrutturato il campo di pallavolo per le detenute Ansa, 16 giugno 2015 Si chiama "Palla-volovia" il progetto dell'associazione A Roma Insieme, finanziato con 53.143 euro dalla Fondazione Decathlon per migliorare le condizioni di vita delle donne recluse all'interno della Sezione Femminile del carcere romano di Rebibbia (in tutto circa 400), attraverso la partecipazione ad attività sportive che possano favorire il loro reinserimento sociale. "Lo sport, in particolare quello di squadra - sottolinea la presentatrice dl progetto per "A Roma Insieme", Tullia Passerini - assolve ad una funzione rieducativa di grande rilievo, poiché insegna il rispetto delle regole, incrementa il senso di autostima e della fiducia in se stessi; la crescita del sentimento di appartenenza alla collettività e dunque del rispetto dell'altro; lo sviluppo del senso del dovere". Il finanziamento della fondazione Decathlon è servito a ristrutturare il campo da pallavolo situato all'interno della struttura penitenziaria, ma da tempo in stato di abbandono. L'impianto è stato così trasformato in un campo polifunzionale ad uso delle detenute per praticare lo sport della pallavolo, il calcetto e la pallacanestro. Lo svolgimento delle attività sportive sarà supervisionato dal personale carcerario e coordinato da volontari appartenenti al personale del negozio di Decathlon di Settecamini di Roma e all'Associazione A Roma Insieme. Giovedì prossimo, 18 giugno, il campo verrà inaugurato dalla direttrice Ida Del Grosso, dalla presidente dell'Associazione A Roma Insieme, Gioia Passarelli e da alcuni rappresentanti della Decathlon, il gruppo francese che ha "regalato" il campo alle detenute. Sono stati invitati a partecipare l'assessore ai servizi sociali del Comune di Roma, Francesca Danese, il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri. Cinema: in arrivo un nuovo film sull'esperimento della prigione di Stanford ilpost.it, 16 giugno 2015 È stato un famoso e molto criticato esperimento psicologico: è uscito il trailer del film che ne racconta la storia. È stato diffuso negli ultimi giorni - e sta girando molto su internet - il trailer di The Stanford Prison Experiment, un film che racconta il controverso esperimento della prigione di Stanford: un esperimento psicologico che nel 1971 ricreò le dinamiche di un carcere, dividendo dei volontari che scelsero di parteciparvi tra carcerati e secondini. L'esperimento faceva parte di una ricerca del Dipartimento di psicologia dell'Università di Stanford, in California, si svolse nei sotterranei dell'università e aveva lo scopo di studiare "Cosa succede se si mette della brava gente in un posto "cattivo?". The Stanford Prison Experiment uscirà nei cinema statunitensi il 17 luglio e per il momento non ci sono informazioni sulla sua eventuale distribuzione in Italia. Il film è stato presentato nel gennaio 2015 al Sundance Film Festival, un festival dedicato al cinema indipendente, ed è dal 2002 che si parla della sua realizzazione. Il regista è lo statunitense Kyle Patrick Alvarez e lo sceneggiatore è Tim Talbott, uno degli sceneggiatori di South Park. Nel cast ci sono Olivia Thirlby, Ezra Miller e Billy Crudup. Il film ha ricevuto fin qui poche ma buone recensioni: su Imdb ha una valutazione media di 6,8 su 10 da parte degli utenti e una valutazione di 77 su 100 dai critici cinematografici. Il trailer mostra alcuni momenti dell'esperimento sociale: la selezione dei volontari (si presentarono in 75, furono scelti in 24), la presentazione della ricerca da parte del professor Philip Zimbardo, la divisione tra guardie e secondini e il progressivo deterioramento dell'esperimento, dovuto a un estremizzarsi delle relazioni tra i soggetti del test. Terminate le selezioni, l'esperimento di Stanford incominciò con gli arresti dei carcerati, che quando si erano offerti volontari non sapevano che tutto sarebbe iniziato con un vero arresto. Una volta trasportati nel luogo dell'esperimento i detenuti furono perquisiti e spogliati secondo le vere procedure allora in vigore negli Stati Uniti. Ai secondini non furono invece date molto indicazioni su come comportarsi: gli venne solo detto che per mantenere l'ordine nella prigione potevano fare qualsiasi cosa, ma era loro vietato di nuocere all'integrità fisica dei detenuti. Il team di ricercatori e psicologi guidato da Philip Zimbardo seguì l'intero esperimento attraverso delle videocamere, senza mai interferire con i soggetti e le loro azioni. Per rendere il tutto più realistico, ai detenuti fu vietato di riferirsi alla loro situazione come a un esperimento, una prova, qualcosa di non reale. I secondini sembravano inizialmente a disagio nella loro situazione, ma dopo solo un giorno le posizioni si fecero estreme: modi e comportamenti delle guardie divennero più convinti e drastici. I prigionieri iniziarono invece a sentirsi vessati e maltrattati: fecero delle rivolte (per cui furono puniti dai secondini) ed elaborarono dei piani di fuga (che non finirono bene): tutto questo portò dopo sei giorni alla sospensione dell'esperimento, che sarebbe dovuto durare 14 giorni. Nei colloqui seguenti i prigionieri dimostrarono tutti di essere sollevati e contenti della conclusione anticipata; le guardie invece ne erano molto insoddisfatte. Seppur molto controverso, l'esperimento di Stanford è stato spesso citato per la sua importanza negli studi di psicologia sociale, e prima di The Stanford Prison Experiment altri film hanno raccontato quelle vicende: il più famoso è stato Das Experiment, film tedesco del 2001. Lasciapassare a tempo per i richiedenti asilo di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 16 giugno 2015 La sfida dell'Italia se le frontiere saranno blindate L'ipotesi di rilasciare documenti di viaggio validi tre mesi per circolare in tutta l'Unione. Si muove su un doppio fronte la trattativa del governo per affrontare l'emergenza migranti. Perché le ultime notizie parlano di almeno 2 mila stranieri che questa mattina approderanno sulle coste italiane, segnale di un flusso che riprende e nei prossimi giorni potrebbe continuare in maniera costante. Non c'è solo la polemica con Regioni e Comuni che fanno muro di fronte alla necessità di accogliere i profughi: lo scontro si allarga all'Europa e le conseguenze appaiono imprevedibili. Dopo la decisione della Francia di tenere chiusa la frontiera di Ventimiglia, il timore forte è che anche Germania e Austria possano prendere analoghi provvedimenti, addirittura sospendere Schengen. Se così fosse, l'Italia è pronta a sfidare gli altri Stati con il rilascio ai richiedenti asilo dei lasciapassare validi tre mesi che consentono di circolare liberamente entro i confini della Ue. La scelta avrebbe comunque l'effetto di provocare una frattura profonda e dunque la sensazione è che al momento venga evocata come arma di pressione da usare solo se la situazione dovesse effettivamente degenerare. La scelta del presidente del Consiglio Matteo Renzi, che ieri sera ha visto Alfano, di alzare i toni alla vigilia della riunione dei ministri dell'Interno europei in Lussemburgo fa comunque ben comprendere che la partita rischia di chiudersi escludendo la possibilità di costringere gli altri Paesi ad accogliere 40 mila stranieri (24 mila dall'Italia e 16 mila dalla Grecia). Tra le ipotesi esplorate in queste ore, se davvero l'Italia non dovesse trovare collaborazione internazionale, c'era quella di chiedere all'Ue l'applicazione della direttiva 55 del 2001 che consente la protezione umanitaria, ma la condizione necessaria per avviare la procedura è un "afflusso massiccio di sfollati" e al momento il governo è consapevole che non ci sono le condizioni per sollecitare un provvedimento di portata straordinaria. Anche tenendo conto che sin dalla sua approvazione non è mai stata messa in atto. Dunque si sta valutando la strada alternativa con il rilascio dei permessi temporanei da parte delle prefetture, una misura che rimane comunque sospesa in attesa di capire che cosa farà l'Unione. Più incisiva e immediata la posizione sulla presenza delle navi straniere nel Mediterraneo. La diplomazia ha già comunicato che nessuno potrà soccorrere i migranti in acque internazionali e poi trasferirli in Italia. Anche perché i natanti sono considerati territorio del Paese di bandiera e dunque possono essere considerati luogo di primo ingresso per chi richiede asilo. La situazione rimane comunque grave, tanto che il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha concordato l'ampliamento delle strutture di accoglienza in Lombardia (i Cara per i richiedenti asilo e i Cie per gli "irregolari") nel tentativo di alleggerire la pressione alla stazione Centrale di Milano e in tutta la Regione. Non si tratta comunque di una soluzione, l'obiettivo rimane quello di distribuire gli stranieri sul territorio costringendo i governatori ad accettare le "quote" calcolate dal Viminale sulla base di parametri uguali per tutti che comprendono tra l'altro, l'estensione del territorio, il numero di abitanti, la media del reddito pro capite. Non a caso, al termine della sua missione in Veneto, il prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento Immigrazione del Viminale, ribadisce la necessità che in ogni Regione ci sia un "hub per l'accoglienza" dove sistemare almeno 300 persone "per dividere chi ha diritto alla protezione internazionale da chi non ce l'ha". La normalità dell'accoglienza di Filippo Miraglia Il Manifesto, 16 giugno 2015 L'Europa a 28 sembra essersi infranta di fronte alle sue responsabilità internazionali con l'arrivo di poche migliaia di persone in cerca di protezione. I numeri spiegano chiaramente quanto sia strumentale e inaccettabile la reazione dei governi con l'attivazione di misure straordinarie utili solo a consolidare la retorica dell'invasione e ad alimentare il razzismo. Intorno al bacino del Mediterraneo, è vero, c'è un'emergenza umanitaria. Solo guardando i dati della Siria si capisce come la comunità internazionale debba attivare strumenti straordinari per far fronte alle conseguenze di una guerra che dura da più di due anni e costringe milioni di persone a fuggire. Il Libano dal 2014 sta accogliendo più persone da solo di quanto non abbia fatto tutta l'Ue. In tutta l'Unione Europea infatti, nel 2014, sono state presentate meno di 650 mila domande d'asilo, mentre il Libano ha accolto più di un milione di profughi siriani. Persone, famiglie, che usufruiscono dei servizi pubblici, tanto che in alcune scuole sono più numerosi i bambini dei campi profughi che i figli dei libanesi. L'Europa si sta sottraendo dunque alle sue responsabilità e anziché attivare misure adeguate per l'accoglienza, ad esempio applicando la Direttiva 55/2001 che consente il rilascio di un titolo di soggiorno europeo temporaneo in caso di flussi straordinari, reagisce con una ingiustificata rincorsa ad azioni di chiusura. Siamo addirittura alla chiusura delle frontiere interne, con la sospensione dell'accordo di Schengen, per evitare che chi arriva in Italia possa lasciare il Paese e aggirare il regolamento Dublino. In Italia intanto dobbiamo assistere ad episodi vergognosi come quello di ieri alla stazione Tiburtina di Roma. Le reazioni allarmiste dei governi si sommano all'incapacità dell'Italia di far fronte alla gestione di alcune migliaia di arrivi, programmandone per tempo la distribuzione sul territorio, e agli scandali di Mafia Capitale e dintorni, che stanno avvelenando il clima e rischiano di cancellare anche le esperienze positive, molto diffuse, anche se insufficienti, nel nostro Paese. Ma non basta. La situazione reale del sistema d'accoglienza è purtroppo anche peggiore. A Roma, come a Milano, e in molte altre grandi città, migliaia di richiedenti asilo, arrivati nella primavera del 2014, più di un anno fa, non hanno ancora avuto l'appuntamento della Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Le domande d'asilo residue del 2014 sono più di 50 mila, e chi arriva oggi rischia di dover aspettare la fine del 2016 per il colloquio con la commissione. Una situazione che, oltre a determinare ingiustizie e frustrazione tra i profughi (non sapere neanche quando si verrà ascoltati e quindi quando potrà essere avviato un percorso di integrazione determina incertezza e umiliazione), produce uno spreco di risorse e una reazione negativa dei territori che ospitano i profughi in attesa. Tutto diventa così più difficile. L'assenza di una programmazione all'altezza dell'attuale emergenza umanitaria, che riguarda un numero di persone ampiamente prevedibile, rende impossibile organizzare in maniera efficace il sistema d'accoglienza ed apre spazi a comportamenti illegali e alla corruzione. Non si tratta soltanto di evitare affidamenti diretti, di escludere soggetti privi di esperienza, o di predisporre un adeguato sistema di controllo. Tutto questo è necessario ma non basta. È indispensabile innanzitutto uscire dalla gestione emergenziale, che induce a scelte più costose, produce grandi centri senza servizi adeguati e con un impatto sociale negativo, generando nei territori sentimenti di rigetto e rendono sempre più difficile programmare un'accoglienza ordinaria, con risorse sufficienti, strumenti e personale competente. Tutto questo non è frutto del caso, ma dell'incapacità del governo di fare il proprio mestiere. Un'incapacità che sta costando cara al nostro Paese sotto tanti punti di vista, ma che soprattutto penalizza gli uomini e le donne che da noi si aspettano protezione. Una situazione che richiede un cambio di rotta immediato, se non vogliamo essere travolti da un caos che fa comodo solo ai predicatori di odio. Le parole del razzismo democratico di Anna Maria Rivera Il Manifesto, 16 giugno 2015 Dovevamo aspettarci che, come sempre nel nostro paese, la fase attuale di migrazioni ed esodi - l'emergenza, come dicono loro - fosse descritta dai media col consueto lessico degradato (esso sì): "bivacco", per dire della sosta forzata dei profughi, scacciati da ogni dove, presso stazioni ferroviarie e simili; "assedio", per descrivere l'arrivo in questi luoghi di gruppi di persone (bambini compresi) provate, traumatizzate, abbandonate al loro destino oppure trattate come animali in gabbia o pesci d'acquario (è il caso di Milano); "ripulire" la stazione, per significare liberarla da queste presenze indecenti e dunque "restituirle un po' di decoro". Così il sindaco Pisapia, che si lascia scappare perfino una variante del tipico "Se le piacciono tanto, se li porti a casa sua", rivolta a una giornalista: "Allora li ospita lei a Sky?" Per non dire dei lemmi intramontabili che, nonostante la Carta di Roma e altre iniziative analoghe, in alcuni casi vengono rispolverati per l'occasione, in altri semplicemente perpetuati: "zingari", "nomadi", "extracomunitari", "clandestini", "degrado", "esodo biblico" e tutte le varianti della retorica allarmistica, perfino apocalittica… Non mi riferisco ad ambienti e a mass media di destra o di estrema destra, meno che mai al gergo salviniano. Parlo, invece, del linguaggio di ciò che quasi un decennio fa con un pò d'ironia cominciammo a definire razzismo democratico o rispettabile, riferendolo a politici e ministri di centrosinistra, ambienti, intellettuali e organi d'informazione democratici (si veda, per es., Giuseppe Faso, Lessico del razzismo democratico, 2010). Il lessico, si sa, non è mai innocente. Tant'è che i lemmi che ho citato sostengono retoriche che solo chi è di memoria corta può pensare siano nuove. Fra queste, torna in auge la vecchia idea, determinista e in fondo sprezzantemente classista, secondo la quale la plebe sarebbe naturalmente portata ad attribuire a qualche capro espiatorio le ragioni del proprio disagio sociale. Ne discende la tesi, classicamente populista, per la quale al grido di dolore che si leva dalla plebe si debba rispondere con severità e rigore verso i capri espiatori, in definitiva negando loro diritti umani fondamentali. È una tesi che si fonda (come scrivevo nel lontano 2007) su un principio di tipo omeopatico: per prevenire il razzismo popolare conviene somministrare qualche buona dose di razzismo istituzionale. Un'altra vecchia etichetta, rispolverata assai di recente, è quella dell'"antirazzismo facile" che, coniata a suo tempo da qualche chierico, credevamo non più in uso almeno tra gli scienziati sociali. Coloro che denunciano "il razzismo più bieco e insopportabile", accusa Chiara Saraceno in un articoletto recente, in realtà gli fanno "da cassa di risonanza" e non si occupano delle "condizioni di disagio in cui questo si genera". Un'affermazione che, tra le altre cose, rivela una lontananza siderale dal mondo dell'antirazzismo militante (compreso quello dotto), perciò immiserito entro un cliché. Astratte e stereotipate tornano a essere, pur dopo trent'anni di studi e ricerche su migrazioni ed esodi, anche le rappresentazioni delle figure, delle biografie, delle storie di migranti e profughi, in realtà molteplici e complesse ben più delle nostre. Si riaffaccia, anche sulla bocca di colti, la rigida dicotomia profughi/migranti, fattualmente infondata, politicamente assai pericolosa. Senza stare a ricordare la storia dell'immigrazione in Italia e il doppio status reale dei protagonisti degli esodi di massa (gli albanesi degli anni 90, i giovani tunisini del 2011), basta dire questo: se pure fossero migranti "economici", una volta rimpatriati un tunisino e un'eritrea, solo per fare due esempi ipotetici, rischiano il carcere in virtù delle legislazioni in vigore in entrambi i paesi, anche nella Tunisia senza Ben Ali. In realtà, come ho scritto altrove, sono anzitutto il sistema normativo, le sue interpretazioni e applicazioni a decidere, in definitiva, chi sia migrante e chi rifugiato. Ma, infine, basterebbe soffermarsi su alcune immagini odierne, facendo agire immaginazione ed empatia, per comprendere l'infondatezza di tanti cliché e stereotipi. Guardate le foto dei giovani eritrei, somali, afghani, più alcuni maghrebini, che a Ventimiglia, a pochi passi dal confine con la Francia, protestano sugli scogli dei Balzi Rossi. Guardate i loro volti tirati per le notti insonni, la tensione, lo sciopero della fame. Osservate anche la loro coraggiosa determinazione, riversata nei cartelli che essi esibiscono, grezzamente approntati eppur così efficaci. E soffermatevi sulle immagini dei tanti cittadini e cittadine comuni, anche povera gente, che va a portar loro abiti, cibo, solidarietà. Guardate le lunghe code, a Roma, delle persone che recano ogni genere di beni di prima necessità per i profughi scacciati dalla Stazione Tiburtina e accolti dal Centro Baobab. Vi apparirà chiaro - e tale dovrebbe apparire a tanti soloni - il contrasto tra la ricchezza di una realtà sociale, certo contraddittoria, difficile, anche a rischio di gravi derive, e l'astratta miseria intellettuale, morale e politica dei decisori nazionali ed europei, e di alcuni loro interpreti. La Francia non apre la frontiera e propone campi profughi in Itala e Grecia di Carlo Lania Il Manifesto, 16 giugno 2015 Lo scontro ormai non potrebbe essere più duro. Da una parte Parigi continua a sbattere porte in faccia alle richieste italiane di far passare i migranti africani che da giorni protestano a Ventimiglia e ribadisce l'intenzione di tenere ben chiusa quella porta. Dall'altra Roma, che risponde all'ostinazione francese minacciando di "fare da sola", con il premier Matteo Renzi che avverte i cugini che "le posizioni muscolari non aiutano" e il ministro degli Interni che minaccia: "Se l'Ue non accetta di accogliere i migranti arrivati qui - dice Alfano, l'Italia che l'Europa si troverà davanti non sarà più quella solidale che è stata finora, ma ricambieremo lo stesso atteggiamento". A palazzo Chigi la questione immigrazione sta diventando sempre più un problema centrale per il governo, già scosso per lo scarso successo ottenuto nei ballottaggi di domenica. Perdere la faccia su un'emergenza sulla quale si è investito tantissimo potrebbe essere pericoloso anche e soprattutto sul fronte interno. Oggi a Lussemburgo si terrà il vertice dei ministri degli Interni dei 28, preceduto da un mini summit tra il commissario europeo per l'Immigrazione Dimitri Avramopoulos e i ministri di Francia, Italia e Germania. In vista dall'appuntamento, ieri Renzi ha convocato Alfano a Palazzo Chigi per mettere a punto la strategia. "Le scene che si sono viste a Ventimiglia rappresentano un pugno in faccia per tutta l'Europa che vuole chiudere gli occhi", aveva spiegato nel pomeriggio Alfano al termine di un vertice alla prefettura di Milano con il sindaco Pisapia. Anche perché la pressione esercitata dai migranti ha solo come primo obiettivo il nostro Paese ma in realtà, è la tesi del governo, "spingono su tutta l'Europa". Questa è il nuovo punto di partenza del ragionamento che Alfano terrà oggi ai partner europei, ai quali ricorderà come nel 2011 fu l'Europa, Francia in testa, a bombardare la Libia dando origine alla situazione di caos nel Paese nordafricano le cui conseguenze si pagano fino in fondo oggi. "È ingiusto che a sopportare questo peso sia solo l'Italia", ha ribadito il ministro degli Interni. Quindi, è la conclusione, o si accetta il piano proposto dalla commissione Juncker, che prevede la distribuzione di 40 mila richiedenti asilo eritrei e siriani (24 mila dall'Italia e 16 mila dalla Grecia) mantenendo l'obbligatorietà dei ricollocamenti, oppure "faremo da soli". E qui ci sarebbe il famoso piano alternativo di cui Renzi parla da giorni ma che ieri una portavoce della commissione europea ha detto di non aver mai visto. Di fatto si tratterebbe di oltrepassare i vincoli imposti dal regolamento di Dublino, per i quali i profughi devono rimanere nel primo Paese in cui sono arrivati, rilasciando permessi temporanei che consentirebbero ai richiedenti asilo di spostarsi in Europa. Provvedimento analogo a quello adottato dal governo Berlusconi con i tunisini. "L'immigrazione, ha spiegato ieri Renzi, è una "vicenda complessa che si gestisce con la solidità di un Paese come il nostro che non può consentire alla Francia di avere navi nel Mediterraneo e lasciare i migranti in Italia". Parole che dall'altra parte delle Alpi non vogliono nemmeno sentire. "Chi sono questi migranti?", ha chiesto il ministro degli Interni Cazeneuve. "Ci sono molti migranti economici irregolari che non sono dunque oggetto di persecuzioni. Non possiamo accoglierli, dobbiamo riaccompagnarli alla frontiera". Cezeneuve ha poi proposto di allestire campo profughi gestiti dall'Onu in Italia e Grecia, in modo da poter procedere alla selezione dei migranti e respingere subito quelli economici. Il problema, però, non riguarda solo a Francia. A Bruxelles sono molti i paesi ostili al piano Juncker al punto che in queste ore si starebbe studiando una possibile mediazione accettabile per tutti. Mantenendo fissa la quota di 40 mila profughi da distribuire, l'idea è quella di sostituire l'obbligatorietà a prendere richiedenti asilo con la richiesta agli Stati membri di arrivare a una accordo per un'equa divisione. In questo modo si consentirebbe ai governi - pressati dalla formazioni di destra - di salvaguardare la sovranità nazionale, e quindi la faccia di fronte alle rispettive opinioni pubbliche. Una proposta che potrebbe trovare l'accordo i Paesi baltici, ma anche Spagna, Polonia e Portogallo. Anche se la decisione finale spetterà poi al consiglio dei capi di Stato e di governo del 26 giugno prossimo. Israele: Samantha Comizzoli resta in carcere, rifiuta decreto di espulsione e difesa legale di Simonetta Zandiri tgmaddalena.it, 16 giugno 2015 "Se c'è un avvocato pronto a battersi con me per la liberazione dei bambini detenuti nelle carceri israeliane allora lo accetto". Arrestata il 12 giugno mentre da Nablus si stava recando ad una manifestazione a Kufr Qaddum in quello che sembra essere stato più un blitz mirato che non un fermo casuale, è stata detenuta prima nella prigione dell'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, in isolamento (per non meglio precisati "motivi di sicurezza"), e poi trasferita nel carcere di Givon, dove è stata costretta sotto pesanti torture psicologiche ad interrompere il digiuno intrapreso dal momento dell'arresto, come unica forma possibile per proseguire la sua battaglia per la liberazione di tutti i bambini detenuti nelle carceri israeliane. Samantha è stata arrestata in detenzione amministrativa perché il visto con il quale era entrata nel febbraio 2014 era scaduto da oltre un anno. Ha rifiutato l'assegnazione di un legale perché consapevole che non esiste alcuna possibilità di difesa in casi come questo: il visto è scaduto ed è quindi stata attivata la procedura di espulsione dopo una rapida udienza che si è svolta oggi nel carcere di Givon, alla presenza di un giudice, agenti di polizia, e nessun difensore. In realtà Samantha avrebbe anche accettato di buon grado un avvocato, se ne avesse trovato uno disposto ad affiancarla nella sua lotta per la liberazione dei bambini detenuti da Israele. Dal 1967 ad oggi secondo l'ong Military Court Watch sono 95.000 i bambini arrestati dal governo israeliano in Cisgiordania. Nel rapporto presentato a Ramallah sono documentate le testimonianze degli abusi perpetrati sui bambini, che Sam aveva già documentato nel suo primo film, Shoot, e nel documentario presentato di recente in un tour italiano "Israele, il cancro". Questo pomeriggio ha ricevuto la visita del console italiano, rientrato oggi da una vacanza. Proprio il console le ha spiegato che nella sua situazione potrebbero tenerla in carcere anche per un mese, ma pare che Israele sia intenzionato ad attivare la sua espulsione entro le prossime 24, 48 ore e, poiché Samantha si è rifiutata di firmare l'accettazione di questa misura, è probabile che utilizzino la forza per assicurarsi il suo rientro in Italia (detenzione e viaggio di rientro saranno a carico del governo israeliano, precisazione utile per prevenire tormentoni del tipo "cos'è andata a fare in Palestina, era meglio se stava a casa sua" con tanto di "e ora le paghiamo pure il volo"). Ieri il suo avvocato in Italia, Luca Bauccio, ha emesso un comunicato a seguito di alcuni articoli usciti su media nazionali che riferivano informazioni non veritiere, articoli che rischiavano di alimentare una diffamazione della quale Samantha è più volte stata vittima. "La vita e la storia di Samantha sono alla luce del sole: lei vive e opera per la libertà dei palestinesi e perché la giustizia e il diritto vengano ripristinati in quei territori. Questo è già noto", ha scritto ieri il legale, ed ha aggiunto "Nessuna mistificazione verrà accettata e subita come il prezzo da pagare per avere avuto la passione e il coraggio di dedicare la propria vita per la causa di vittime innocenti del più intollerabile e prolungato esproprio della storia. Samantha vive e opera per questo da sempre nel segno della sua convinzione democratica e del suo rifiuto di qualunque forma di persecuzione di razzismo, di antisemitismo e di odio religioso." A proposito di odio religioso, sarà questo che ha spinto i carcerieri a sequestrare a Samantha il libro di José Saramago "Il Vangelo secondo Gesù Cristo"? Sabato 13 giugno sotto la Rai di Torino si è tenuto un presidio per richiedere la liberazione di Samantha ed in solidarietà con i prigionieri palestinesi; attualmente sono circa 7000, di essi 450 in detenzione amministrativa, cioè senza capi d'accusa. Per il loro numero e la loro condizione essi sono un elemento cardine della Resistenza palestinese. E proprio in questi giorni tra i prigionieri ci sono forti avvisaglie di un nuovo sciopero della fame di massa. Sarà anche per questo, probabilmente, che oggi il Consiglio dei Ministri israeliano ha approvato un disegno di legge per contrastare la "minaccia" per il paese (da non credere!) costituita dai "detenuti che effettuano lo sciopero della fame". Il gruppo di solidali ha chiesto alla redazione del Tgr Piemonte di diffondere la notizia dell'arresto e dell'anomala detenzione in isolamento, ma la risposta è stata chiara e senza spazi di discussione: c'erano notizie più importanti, un incidente, il salone dell'auto, etc. Le informazioni vengono diffuse principalmente tramite social network, Twitter, Facebook, il volo di rientro è previsto ormai nelle prossime 24-48 ore ma si presume che la notizia verrà data solo successivamente all'imbarco di Samantha sul volo di rientro, per le stesse non meglio note "ragioni di sicurezza" che hanno spinto Israele a detenere Samantha in isolamento. Israele: approvato disegno di legge per l'alimentazione forzata dei detenuti politici di Mario Lucio Genghini polisblog.it, 16 giugno 2015 Il Consiglio dei ministri approva il disegno di legge. Ora la parola passa alla Knesset. Quando si parla di alimentazione forzata in carcere, ritornano subito alla mente le tragiche vicende dei detenuti del gruppo armato Raf nel carcere di Stammheim o quelle dei prigionieri dell'Ira, che furono vittime di un abile escamotage giuridico della Thatcher. Ma infondo non bisogna nemmeno andare tanto indietro nel tempo, visto che gli Stati Uniti, dopo l'11 settembre, hanno imposto la nutrizione artificiale a Guantanámo ai presunti terroristi islamisti. Ieri anche Israele ha fatto un passo importante per l'introduzione di questa pratica, che, come è noto, può provocare danni non indifferenti alla salute dei prigionieri. Il disegno di legge sull'alimentazione forzata in carcere, già proposto lo scorso anno, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri. Ora la parola passa alla Knesset (il parlamento), che potrà scegliere di ratificare la norma o rigettarla. Tale dispositivo si sarebbe posto come una sorta di "atto dovuto" da parte del governo di Tel Aviv, dopo lo sciopero della fame di un vasto numero di prigionieri in stato di detenzione amministrativa. Ricordiamo che la detenzione amministrativa viene decisa, per ragioni di sicurezza, da una corte militare e rende possibile la reclusione di sospetti terroristi palestinesi, senza la previa formulazione di un'accusa e l'istruzione di un processo. Inoltre i vari rinnovi possono coprire un tempo totale di cinque anni. Come riporta l'agenzia stampa Nenanews, il ministro della sicurezza israeliano, Gilad Erdan, ha mostrato grande entusiasmo verso l'efficacia della legge. A tale proposito, sulla sua pagina Facebook ha commentato: "Oltre ai tentativi di boicottaggio e delegittimazione di Israele, gli scioperi della fame dei terroristi nelle carceri sono diventati un mezzo per minacciare Israele". A nostro avviso, però, le cose non stanno proprio così. Innanzitutto ravvisiamo che se tale norma fosse riservata ad un conclamato "terrorista" (categoria da sempre aporetica e troppo spesso strumentalmente tesa a ricomprendere tutti i detenuti politici), sarebbe comunque lesiva dei diritti del prigioniero. In una democrazia, degna di questo nome, tutte le procedure mediche dovrebbero essere valutate da un team medico indipendente e in base ai diritti legali del paziente. Inoltre, quest'ultimo, se nel pieno delle sue facoltà, ha pieno diritto a rifiutare le cure. In secondo luogo, ci pare che la preoccupazione del governo israeliano sia rivolta soprattutto ai detenuti amministrativi. Le autorità di Tel Aviv sanno perfettamente che potrebbero vedersi costrette a rimettere in libertà le persone in carcere che si servono dello sciopero della fame come strumento di opposizione. Questo è quanto è già accaduto nel 2012, quando centinaia di palestinesi in detenzione amministrativa (colpevoli di niente fino a prova contraria) sono tornate libere. Ma c'è dell'altro. Il disegno di legge è anche una misura che cerca di placare le continue "intromissioni" della comunità internazionale. Segnaliamo che lo scorso anno il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, aveva espresso profonda preoccupazione per i detenuti palestinesi in protesta. E, inoltre, aveva aggiunto: "i prigionieri devono essere equamente processati o rilasciati immediatamente". Insomma la "macchina securitaria" di Israele non può incepparsi a causa di chi fa resistenza passiva per ribadire i propri diritti inviolabili. Già gli 80 detenuti finiti in ospedale nel 2014, in condizioni di salute molto precarie per il lungo digiuno, hanno creato troppo scalpore. Meglio, per il governo, prelevare in segreto un detenuto da una cella contro la sua volontà, immobilizzarlo, legarlo, alimentarlo con un sondino naso-gatrico e aspettare che termini la digestione per evitare che si induca il vomito. Il Parlamento non ha ancora dato il via libera alla norma. Per parte nostra, ci auguriamo che parta una mobilitazione internazionale, fatta di liberi cittadini, associazioni, partiti, al fine di sollevare il caso e tentare di correggere le intenzioni dell'esecutivo Netanyahu. Stati Uniti: falsificò le contro un imputato nero, ex procuratore espulso dall'ordine da Associazione "Nessuno tocchi Caino" Il Garantista, 16 giugno 2015 Charles Sebesta, ex procuratore distrettuale, espulso dall'ordine degli avvocati: aveva falsificato le prove. La misura punitiva era stata chiesta nel 2014 da Anthony Graves. Graves era stato scarcerato nel 2010 dopo 18 anni di carcere, 12 dei quali nel braccio della morte dopo che una nuova indagine aveva evidenziato gravi comportamenti da parte della pubblica accusa all'epoca delle indagini e del processo. Graves da allora è iscritto con il numero 138 nella lista degli "esonerati" del Dpic. Graves, che oggi ha 50 anni, nero, era stato condannato a morte nel 1994 per le uccisioni, avvenute nel 1992, di Bobbie Joyce Davis, 45 anni; della figlia sedicenne della donna, Nicole; e di quattro nipoti della donna, tra i 4 e i 9 anni. L'unica prova contro Graves era stata la testimonianza di un uomo accusato dello stesso reato, Robert Earl Carter, testimonianza in seguito ritrattata, ma la cui ritrattazione non venne mai formalizzata. Carter venne giustiziato per questi fatti nel 2000, e anche nelle sue dichiarazioni finali aveva ribadito fino all'ultimo l'innocenza di Graves. All'epoca del processo la pubblica accusa tenne nascosta una registrazione in cui, la notte prima del processo, Carter diceva all'allora District Attorney della Burleson County, Sebesta, di aver agito da solo. In un'altra registrazione, sempre con il procuratore Sebesta, Carter diceva di aver agito assieme alla moglie e a un suo amico, non con Graves. Il 3 marzo 2006 la Corte d'Appello del 5° Circuito aveva ordinato all'unanimità la ripetizione del processo. Graves venne scarcerato il 27 ottobre 2010 dopo che Kelly Siegler, che aveva coadiuvato il nuovo procuratore distrettuale incaricato di ripetere il processo, Bill Parham, aveva dichiarato che la ripetizione del processo era impossibile: "Dopo mesi di investigazioni, dopo aver parlato con tutti i testimoni a tutti i livelli, e anche con persone mai interrogate prima, dopo aver guardato sotto ogni pietra, non abbiamo trovato una prova credibile che potesse collegare Anthony Graves al caso. Questo non è un caso in cui le prove sono inutilizzabili per il troppo tempo passato, o dove i testimoni sono invecchiati o morti, o un cavillo blocca la pubblica accusa. Questo è semplicemente il caso in cui Anthony Graves è innocente". Il 20 gennaio 2014, in quello che negli Stati Uniti è il Martin Luther King Day, Graves ha chiesto venisse avviata un'azione disciplinare contro Sebesta, che portasse al ritiro della licenza da avvocato. (Come è noto, nel sistema giudiziario degli Stati Uniti la pubblica accusa è rappresentata da "avvocati" che rappresentano lo Stato, non da magistrati). Il 6 marzo 2014 in una conferenza stampa in cui è apparso assieme ad alcuni parlamentari e ai suoi familiari, Graves aveva dato la notizia che l'associazione forense, la State Bar of Texas, aveva formalmente avviato una istruttoria su Sebesta. Graves, attorniato dai suoi sostenitori, aveva detto: "Oggi è un gran giorno per essere americani, stiamo parlando di riforme serie al sistema penale. Ho passato 18 anni e mezzo della mia vita combattendo per la mia libertà a causa di un procuratore che si era rifiutato di giocare seguendo le regole, ed oggi la Texas Bar gli sta dicendo che anche un procuratore deve seguire le regole". Oggi, al termine di 4 udienze che su richiesta di Sebesta si sono svolte a porte chiuse, i tre membri della commissione disciplinare hanno votato la massima punizione prevista, la cancellazione dall'albo degli avvocati. Secondo la Commissione, Sebesta ha violato almeno 5 delle principali norme deontologiche che devono governare il comportamento di avvocato. Raggiunto telefonicamente a Houston, Graves ha espresso gratitudine verso l'ordine forense per aver posto Sebesta di fronte alle conseguenze delle sue azioni. "Non avrei mai pensato che in Texas un nero delle case popolari potesse avviare un'azione legale contro un potente, bianco, Procuratore Distrettuale, e vincere". Ha poi aggiunto: "È un gran primo passo, ma un sacco di gente nelle contee di Washington e Burleson è stata processata da Sebesta, e molta è ancora dietro le sbarre. Questi casi devono essere tutti riesaminati". Gli è stato chiesto se una sanzione amministrativa era una punizione sufficiente per l'uomo che l'aveva mandato nel braccio della morte. "Credo dovrebbe essere processato per tentato omicidio". Sebesta non ha mai fatto un passo indietro. Anche dopo la scarcerazione di Graves ha continuato a sostenere, anche con veemenza, in interviste pubbliche e con una apposita pagina internet, la colpevolezza dell'uomo. Fino ad oggi aveva l'impunità garantita dall'appartenere all'ordine legale. Nel 2011, Graves ha ricevuto 1.450.000 dollari per l'ingiusta detenzione. Nel 2013 ha istituito la Anthony Graves Foundation, che attraverso una serie di iniziative culturali e di borse di studio persegue "una missione centrale: promuovere l'equità e supportare riforme sostanziali nel sistema penale". La Fondazione pone al centro della sua azione "i bambini e i giovani lasciati indietro dal sistema giudiziario, per dar loro una possibilità di scelta, e l'opportunità di vivere vite felici, produttive, e divenire la nuova, potente base delle nostre comunità". Un documentario della Cbs sulla storia di Graves, "Grave Injustice", nel 2012 vinse un Emmy Award. Pakistan: 8 impiccagioni in diverse prigioni, esecuzioni saranno sospese durante Ramadan Ansa, 16 giugno 2015 Continuano senza sosta le impiccagioni in Pakistan, dove stamani almeno otto persone sono salite sul patibolo mentre per altre tre vi è stato uno stop all'ultimo minuto. Lo riferisce Geo Tv. Le condanne a morte riguardanti prigionieri che da anni si trovavano nel braccio della morte per gravi reati sono state eseguite nelle carceri di Faisalabad, Gujranwala, Sialkot, Bahawalpur, Dera Ghazi Khan e Lahore. La moratoria sull'esecuzione della pena capitale è stata revocata in dicembre dopo un cruento attacco sferrato dal Tehrek-e-Taliban Pakistan (Ttp) contro una scuola pubblica gestita dall'esercito a Peshawar in cui sono morte oltre 140 persone, per lo più giovani studenti. La ripresa delle impiccagioni, giunte ormai a 160, è stata duramente criticata dall'Onu e dall'Unione Europea, nonché dalle principali organizzazioni umanitarie. Comunque ieri il Pakistan ha annunciato la sospensione delle esecuzioni delle condanne a morte nel mese sacro musulmano del Ramadan, che inizia giovedì e che è considerato un periodo dedicato alla pace e all'armonia. Egitto: processo all'ex presidente Morsi, attesa decisione giudici su condanna a morte Adnkronos, 16 giugno 2015 È atteso per oggi il pronunciamento del tribunale penale del Cairo sulla condanna a morte dell'ex presidente egiziano Mohammed Morsi per un'evasione di massa da un carcere nel 2011. Lo scorso mese, la condanna a morte di Morsi e di altri 105 coimputati appartenenti ai Fratelli Musulmani è stata sottoposta al parere del Gran Mufti, come prevede la procedura. Il 2 giugno il tribunale si è riunito, ma il suo presidente, Shaaban al-Shami, ha deciso di rinviare la decisione a oggi, perché il parere del Gran Mufti, che non è stato reso noto, era appena pervenuto e il suo esame richiedeva tempo. I Fratelli Musulmani hanno più volte bollato il processo come una "farsa" e un "processo politico". Anche Amnesty International è intervenuta sul caso, affermando che il processo è stato "grossolanamente ingiusto". Sia la procura sia gli avvocati di Morsi potranno impugnare la sentenza e, se si tratta di una condanna a morte, l'appello è automatico. Morsi come Ghandi: oltre 38mila firme online per suo rilascio Sono almeno 38,226 gli attivisti che hanno chiesto il rilascio di Mohammed Morsi, il presidente islamico egiziano deposto il 3 luglio del 2013 dall'allora capo delle Forze Armate e attuale capo di Stato Abdel Fattah al-Sisi. Sul sito freemorsi.org, creato a Istanbul, è infatti iniziata una campagna online in sostegno di Morsi e di altri 105 suoi co imputati accusati di un'evasione di massa dal carcere durante la Rivoluzione del 25 gennaio del 2011 contro Hosni Mubarak. L'obiettivo del sito è quello di raccogliere firme in vista della prossima udienza del processo a Morsi, fissata per domani, 16 giugno. "Ghandi, Martin Luther King o Mandela. Tutti loro si sono battuti per la libertà, la giustizia e l'umanità. Anche Morsi ha fatto lo stesso. Era contro la violenza e la militanza. Un dittatore militare ha imprigionato Morsi e i suoi amici. È stata emessa una condanna a morte. Un colpo umiliante per tutti quelli che credono nella democrazia", recita un comunicato postato sul sito. "Morsi e i suoi amici difendono la dignità umana, per noi tutti. Facciamo sì che possa essere sentita la voce di chi crede nella libertà, nella giustizia e nella democrazia. Devono essere rilasciati il presidente eletto dal popolo egiziano, Morsi, e i suoi amici", prosegue il testo.