Alta Sicurezza: circuiti o ghetti che si autoriproducono? di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 15 giugno 2015 Cerchiamo alleati per fare insieme una battaglia per una maggior trasparenza nella gestione del regime del 41 bis, dei circuiti di Alta Sicurezza e delle declassificazioni. Alta Sicurezza di Padova: Cronaca di una chiusura annunciata Prima tappa, primo incontro al DAP (Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria) Da quando abbiamo saputo che stavano chiudendo le sezioni Alta Sicurezza di Padova, e i 96 detenuti che le abitavano erano già pronti per essere trasferiti, noi di Ristretti Orizzonti, nelle cui attività molti detenuti dell'Alta Sicurezza sono coinvolti, assieme alla Cooperativa Giotto dove alcuni di loro lavorano, abbiamo iniziato una battaglia perché venissero finalmente fatte molte declassificazioni, passando questi detenuti in Media Sicurezza invece di trasferirli, per l'ennesima volta, in altri istituti. Pressati dalle lettere dei figli dei detenuti, e dalla sofferenza dei detenuti stessi, che si vedevano distruggere un percorso di studio, di lavoro, di confronto, che dovrebbe essere la normalità, e invece esiste a Padova, e non esiste in tantissime altre carceri, abbiamo chiesto allora un appuntamento al Capo del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria. L'incontro si è svolto il 10 aprile a Roma, con il Capo Dipartimento, Santi Consolo, il Vice Capo Luigi Pagano e i due dirigenti Federico Falzone e Roberto Piscitello. Santi Consolo ha riconosciuto le nostre ragioni sulle declassificazioni che non vengono quasi mai date e sul fatto che spesso i rigetti avvengono sulla base di relazioni delle Direzioni Antimafia molto generiche, e di conseguenza ha bloccato temporaneamente i trasferimenti dei detenuti dell'AS di Padova per avviare una analisi delle loro posizioni. E ha subito emanato una nuova circolare proprio sulle DECLASSIFICAZIONI, dove vengono recepite molte delle nostre osservazioni. Nei giorni successivi vengono fatte 25 declassificazioni, e altre sono in sospeso, poi ci sono stati dei rigetti, secondo noi non motivati come richiede la nuova circolare. Per esempio è arrivata la comunicazione che non è stata concessa la declassificazione proprio a un detenuto della redazione di Ristretti Orizzonti, Giovanni Donatiello, con 29 anni di pena già scontati di cui 8 in 41 bis e 15 in Alta Sicurezza, uno dei più attivi e impegnati in un percorso importante di presa di coscienza e di distacco dagli ambienti e dalla cultura del passato. A un altro, A. F., la declassificazione è stata negata "rilevato che non risultano elementi univoci comprovanti l'interruzione dei collegamenti dell'istante con la criminalità organizzata". Una delle tante formule usate per non dire niente, niente da cui il detenuto possa in qualche modo difendersi, e però utili per tenere in vita i circuiti e lasciar marcire dentro le persone. Seconda tappa, secondo incontro al DAP Il 3 giugno siamo tornati a Roma (sempre a spese nostre), a un secondo appuntamento con Santi Consolo, a cui era presente anche Federico Falzone, il dirigente, ex magistrato Antimafia, che si sta occupando delle declassificazioni. Abbiamo prima di tutto sollevato il caso dei primi rigetti di istanze di declassificazione, perché ancora una volta non c'è trasparenza. Prendiamo per esempio di nuovo il caso di Giovanni Donatiello: possibile che dopo 15 anni di permanenza in sezioni di Alta Sicurezza, facendo più o meno due colloqui all'anno, solo ora che ha fatto la richiesta di declassificazione scoprano che sarebbe tornato ai vertici della sua organizzazione? Ma allora queste sezioni di Alta Sicurezza non garantiscono nulla, neppure la sicurezza? E come si può difendere la persona detenuta da queste accuse generiche, come può vivere perennemente sotto inchiesta? Dal Capo del DAP riceviamo comunque assicurazioni che nel giro di un mese riesaminerà tutta la vicenda, e se non ci sono elementi chiari a sostegno di alcuni rigetti delle declassificazioni, farà riprendere alle persone detenute il loro percorso a Padova. Ma sul tappeto noi mettiamo ancora molte questioni, prima fra tutte il fatto che 25 declassificazioni, rispetto al nulla di prima, sono già qualcosa, ma ci sono tante altre persone che possono essere declassificate, che vanno già in permesso, che fanno un percorso significativo, che si impegnano per uscire dal ghetto dell'Alta Sicurezza. Che ne sarà di loro? E tutta l'AS1 deve "accontentarsi" di una sola declassificazione, o qualcuno finalmente avrà il coraggio di fare quello che doveva essere fatto da tanto tempo, cioè "svuotare" le sezioni di Alta Sicurezza invece di lasciarvi marcire per anni le persone? Da Roma torniamo a Padova con l'amaro in bocca, perché non abbiamo capito cosa succederà adesso, e perché per ora abbiamo però la certezza che Giovanni Donatiello verrà trasferito a Parma, nel deserto di Parma, a dispetto del fatto che a Parma non gli sarà garantito quasi nulla di quello che aveva a Padova. Dopo 29 anni di galera, perderà tutto: gli studi universitari con il supporto di tutor e docenti, l'uso del computer, che è una boccata di ossigeno per chi è in prigione da una vita e ha cercato di mantenersi vivo proprio scrivendo, ma soprattutto la redazione di Ristretti Orizzonti, il confronto con le scuole e con pezzi di società, che a Ristretti avviene quotidianamente, con la presenza di studenti, di insegnanti, giornalisti, vittime di reati. Il 4 giugno mattina alle 8 mi presento al cancello della sezione AS1 di Padova per salutare il mio "redattore" prima che lo trasferiscano a Parma, ma l'agente mi dice ripetutamente che non ha tempo di chiamarlo, che deve partire ed è già in ritardo di cinque minuti! Non mi schiodo dal cancello finché arriva con tutti i bagagli un detenuto, anche lui disperato perché non ha avuto la declassificazione, dopo ben 20 anni di 41 bis e qualche altro anno di AS, mi vede e subito avvisa Giovanni. E così ci salutiamo attraverso un cancello, non avevo mai abbracciato qualcuno con un cancello in mezzo. Alla faccia dell'umanizzazione delle carceri… E adesso siamo qui, a cercare alleanze per questa battaglia così poco popolare, perché già è difficile combattere i pregiudizi e i luoghi comuni che avvolgono le persone detenute, se poi quei detenuti sono "i mafiosi" si girano tutti dall'altra parte e preferiscono evitare… Evitare di prendere posizione, evitare di vedere la crudeltà di regimi e circuiti che diventa tante volte tortura. Piccola raccolta di formule usate dalle Direzioni Antimafia, e quindi dal DAP, per non declassificare "Rilevato che non risultano elementi univoci comprovanti l'interruzione dei collegamenti dell'istante con la criminalità organizzata". "Considerata l'assenza di elementi certi tali da far desumere l'allontanamento dalle organizzazioni malavitose di provenienza e fatte salve ulteriori verifiche in tempi futuri". "Non potendosi escludere l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata". Qualche domanda al Ministro della Giustizia e ai dirigenti del DAP Non so cosa diranno gli Stati Generali sul tema del regime del 41 bis e dei circuiti di Alta Sicurezza, so che non è possibile discuterne in modo serio se prima non si tocca con mano come ci si vive e come ci si muore. • Il Capo del DAP ci ha detto che è rimasto impressionato a leggere sui registri del carcere di Buoncammino di detenuti morti "per consunzione". Ma non è in fondo questo il destino che si riserva a chi sta in questi regimi? • Che senso ha che una persona esca dal 41 bis perché non ha più collegamenti con l'organizzazione di appartenenza, per poi ritrovarsi per anni in Alta Sicurezza? Paradossalmente, pare che i detenuti dell'AS, pressoché tutti i detenuti, passino il tempo a ricostruire i loro legami con la criminalità organizzata, e ci riescano anche! Se questo fosse vero, allora forse bisognerebbe togliere a qualche dirigente l'indennità di risultato, perché i risultati in questo caso sono davvero tragicamente fallimentari! • Sappiamo tutti che se i magistrati di Sorveglianza considerassero come determinanti sempre i pareri delle Questure, prima di mandare in permesso anche l'ultimo piccolissimo delinquente, probabilmente in permesso premio non ci andrebbe nessuno, quindi come pensare che i pareri della Direzione Nazionale Antimafia e delle Direzioni distrettuali sia considerato fondamentale perfino per il trasferimento da un circuito a un altro di un carcere, che non significa certo mettere in libertà le persone? • Qualcuno vuole davvero che queste persone, "i mafiosi", si stacchino dal loro passato, mettano in discussione la "cultura" di appartenenza, comincino a intravedere una possibilità di un rapporto diverso con le istituzioni? Un detenuto dell'AS, Tommaso Romeo, che fa parte di Ristretti, mi ha detto: "Con voi ho capito che le donne sono quelle che possono cambiare le cose, specie nel parlare con i propri figli, perché mia madre fin dai miei quindici anni, quando uscivo di casa mi dava un bacio in fronte e mi diceva un detto popolare ‘non dimenticarti mai che chi ha pietà della carne degli altri, la sua se la divorano i cani', in poche parole nessuna pietà o perdono. Forse nel mondo in cui vivevamo noi andava bene quel detto, ma oggi dico a mia figlia che non è così e la invito a non raccontare a suo figlio quell'antico proverbio". In fondo, il senso del mio lavoro, del nostro lavoro a Ristretti è tutto in questa presa di coscienza, in questo inizio di consapevolezza che fa cambiare i destini delle persone. Che le espone a dei rischi anche, ma di questo non interessa nulla a nessuno. Tutta la questione dei circuiti AS è comunque gestita in un modo che va rimesso completamente in discussione, con questi pareri delle Direzioni Antimafia che ti inchiodano a un passato di venti o trent'anni fa senza nessun obbligo di dimostrarne la fondatezza (ma nel nostro Paese basta attaccarsi alla questione della segretezza per giustificare qualsiasi violazione di diritti, immaginarsi quando si parla dei diritti dei "mafiosi"…). Ecco perché abbiamo bisogno che altri insieme a noi prendano posizione su questi temi, ecco perché vorremmo che in tanti capissero che la battaglia per una pena più umana riguarda tutti, anche i "cattivi per sempre". Senza semplificazioni o minimizzazione delle responsabilità, ma anche senza paura dell'impopolarità. Tra scuole e carcere, una conoscenza sempre più profonda Il Mattino di Padova, 15 giugno 2015 Si è concluso un altro anno del progetto di confronto fra scuole e carcere, organizzato dalla redazione di Ristretti Orizzonti: sono stati coinvolti 7.500 studenti delle scuole medie e superiori di Padova, ma anche di altre province, Rovigo, Trento, Treviso, Venezia, Vicenza. Di questi, 4.500 hanno incontrato le persone detenute all'interno della Casa di Reclusione di Padova, grazie alla collaborazione del personale dell'Amministrazione Penitenziaria, che ha permesso che questo progetto diventi "strutturale" nella vita del carcere Due Palazzi. E tanti altri ragazzi hanno potuto confrontarsi a scuola con detenuti ed ex detenuti, e ragionare sui comportamenti a rischio che possono portarti fuori dalla legalità. Un progetto importante, che ha avuto il sostegno del Comune di Padova e della Fondazione Cariparo, e che ha visto anche tantissimi studenti scrivere le loro riflessioni su questi temi. Il testo che segue è una favola profonda e originale, che è stata scelta dallo scrittore Pino Roveredo e ha vinto così il primo premio del Concorso di scrittura, che conclude ogni anno il progetto. Una fiaba di Giada Capuzzo, classe 4A Liceo Scientifico "E. Curiel", Padova "Ho scoperto che l'errore può essere fecondo a condizione di riconoscerlo, di chiarirne l'origine e la causa al fine di eliminarne il ritorno." Le parole del sociologo contemporaneo francese Edgar Morin esprimono bene uno dei tanti concetti che l'esperienza umana del Progetto Carcere ha fatto emergere: l'errore come aspetto fecondo e non sempre sviante. Sono tante le contraddizioni nelle riflessioni emerse dall'avvicinamento al mondo del carcere, forse troppe. E si affollano, si accalcano nella mente, si confondono. Tutti temi importanti, tutti argomenti veri: dolore, leggi, sofferenza, solitudine, sbarre, spazio, futuro, paura, certezza, incertezza, rabbia, rancore, perdono, affettività, prospettive, educazione. Nella fiaba che ho scritto non c'è morale, né personaggi veri. Caro lettore, cara lettrice, scegli tu se il lupo è buono o cattivo, scegli tu se la pecora è l'incensurato o il carcerato. Io non t'impongo l'uno o l'altro perché penso che non ci sia un confine, o forse perché devo ancora capirlo pure io. Ma due cose ricorda. La prima: metti in conto di poter sbagliare! Magari non lo farai oggi ma domani, magari sempre, qualche volta, o mai. Ma mettilo in conto. Per la seconda uso ancora parole di Edgar Morin: "Vivere è affrontare sempre il rischio di errore e di illusione nella scelta di una decisione, di un'amicizia, di un habitat, di un coniuge, di un mestiere, di una terapia, di un candidato alle elezioni, eccetera." Incontro C'erano una volta una pecora e un branco di lupi. La pecora era onesta e incapace di fare del male, ma era anche sola e triste. I lupi invece erano felici e stavano sempre in compagnia. All'interno del loro branco, poi, facevano quel che volevano e mangiavano i poveri agnelli che malauguratamente finivano sul loro cammino. Erano lupi malvagi, che spaventavano e minacciavano. Un giorno il branco di lupi uscì in sortita notturna per andare a caccia, ma uno di loro, stordito dallo stridore di una civetta appollaiata sul ramo proprio sopra la sua testa, rimase indietro e perse il branco. Intanto la pecora, annoiata dalla sua vita monotona, decise di vagare in quella parte del bosco, che sapeva sgombra dai lupi, in cerca di erbetta fresca. Il lupo, deciso a rintracciare il branco, si mise a correre veloce, ma per i fitti alberi e cespugli, ben presto si perse. Allora rallentò e cercò di orientarsi. Mentre osservava attorno a sé, vide da dietro un folto cespuglio una radura, dove una pecora stava brucando l'erba. Il lupo affamato pensò subito di azzannarla e divorarla in un sol boccone, come aveva già fatto con molti altri teneri capretti. Aveva già l'acquolina in bocca, quando calpestò inavvertitamente un rametto secco. All'improvviso la pecora si rese conto del pericolo e iniziò a correre all'impazzata per avere salva la vita. Il lupo la inseguì ma quasi al limitar del bosco incapparono entrambi in una trappola dal cacciatore. I lacci li tenevano stretti e, uno da un ramo uno da un altro, penzolavano come due grossi salami. Il lupo iniziò a dimenarsi per rompere i lacci ma non ottenne nulla e alla fine si arrese esausto. Si voltò a osservare la pecora, pensando al suo mancato spuntino e si sorprese nel vederla immobile e silenziosa. "Pecora, sei morta!" Rispose il silenzio. "Ehi, stupida, sei morta?" "No, ma tu volevi che lo fossi." "Una lauta cena per il miglior cacciatore!" "Che sta un po' stretto nel ruolo di cacciato, o sbaglio?" La pecora prendeva coraggio: "Come ci si sente da preda?" "In effetti, avere spazi ristretti intristisce. Ma appena sarò libero…considerati già morta!" "Sai, lupo, qual è la differenza tra me e te?" "Io sono forte, tu debole?" "Io sono umile, tu superbo. Io accetto di morire, di sbagliare, ma tu sei certo di non fallire." "Cioè?" "Cioè?! Guardati… non hai nemmeno considerato che il cacciatore potrebbe uccidere te, prima che me. Anche perché io non potrei azzannarlo ma tu sì." "…" "E ora hai paura. Perché sei diventato preda e non eri abituato. Perché hai perso la tua libertà." "…" "Hai paura perché non sei più il supereroe invincibile che credevi di essere, perché sei vulnerabile ora, come una pecora." "Tutti hanno paura." "Vero. E per fortuna! Chi non ha paura è un incauto. "L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa" dicevano. Io, per esempio, ho paura di voi lupi. Voi vi credete superiori dosate la vostra forza contro i deboli. Siete solo voi, non c'è spazio per gli altri. Ho paura della solitudine, dell'abbandono. Tu hai un branco, tanti amici con cui vivere ma io non ho il supporto dell'amicizia. Tu ti fidi di loro ma io di chi posso fidarmi se non di me stessa? Ora te lo dico: sono stata diffidente anche verso di te, all'inizio, con quel silenzio. Ma ora siamo pari, nella stessa situazione. Quando all'alba il cacciatore arriverà, saremo morti entrambi." "Perché ti arrendi così facilmente?" "È la realtà." "Esiste la speranza." "Che speranza può esserci per una pecora e un lupo legati come salami?" "Non speri neanche un secondo nella vita? Potremmo anche uscire di qui." "No. La speranza è illusione." "Può essere. Ma pensaci: a questo punto ci conviene sperare. Siamo prigionieri nel corpo, ma perché impedirci di essere liberi anche nella mente?" "…Già." "Ho fame." "Beh, per fortuna non siamo liberi." rise la pecora "Non ti mangerei, non più." "Ma mangeresti un'altra pecora?" "Si." "Hai già progettato il tuo futuro, quindi? Almeno il più prossimo…" "Dall'avere speranza segue l'avere prospettive". "Anche se potresti morire tra poche ore?". "La vita è una scommessa, ogni decisione è una scommessa. E comunque è la mia natura mangiare carne." "Non ho mai visto qualcosa di più mutevole della natura." "Questa natura non si può cambiare." "Eppure dici che non mi mangeresti se fossi libero, perché?" "…" "Perché uccidi?" "Per far vedere che sono il più forte." "Superbia." "Più egoismo, forse." "O paura?" "Si, anche. Paura di essere sopraffatto." "Ecco perché non mi mangi: io non sono una minaccia per te. Perché allora non uccidi i tuoi simili?" "Perché è sbagliato! Loro sono come me." "Allora uccidi chi è diverso perché è diverso?" "No." "Invece sì." "No!" ""Ho compreso che una fonte d'errori e di illusioni è l'occultare i fatti che ci disturbano, anestetizzarli ed eliminarli dalla nostra mente."" "Sì, hai ragione. È vero. Uccido perché seguo il branco che mi guida contro chi è diverso. Ma loro allora? Non sbagliano forse anche loro?" "Sì, ma non lo capiscono. Tu stanotte hai capito il tuo errore." "…" Si addormentarono e la notte passò. All'alba il cacciatore si fece attendere, ma in compenso furono svegliati dallo zampettio di uno scoiattolo. All'unisono pecora e lupo dissero: "Ti prego, liberaci!" Ma lo scoiattolo replicò: "Te, pecora, sì! Sei umile e buona, ma il lupo è pericoloso." Coi denti iniziò a mordere le funi. "Dai, dai, scoiattolo, o arriverà il cacciatore!" "Pazienza! La redenzione è lenta." Poi lentamente una, due, tre,… e tutte le funi si ruppero. La pecora cadde a terra e lo scoiattolo in fretta si dileguò. "Grazie!" urlò la pecora. Il lupo ancora era in trappola, ma la pecora non esitò: con le zampe ruppe il ramo basso e le zanne del lupo fecero il resto. Erano liberi! "Grazie." "…" "Avresti potuto lasciarmi lì, ma non l'hai fatto. Sei umile e buona. Non avere paura di me, oggi ho capito che sei un'amica. Tu sei sola eppure hai trovato un amico che ti ha dato la vita. Io invece, ero nel branco e mi sono perso. Ma nessuno di loro è venuto a cercarmi. Eravamo forti e uniti, ma solo per convenienza, nulla ci legava veramente. Ora sono solo, il mio gruppo non sono loro. Me ne vado. Ma una cosa voglio dirti, pecora: abbi sempre la speranza. A volte si cade così in basso che non solo è lungo e difficile rivedere la luce, ma, a un certo punto, si dispera anche di poterlo fare. Non farti mancare quella luce, perché, l'hai visto anche tu, non ti hanno abbandonato. Addio!" "Non sei solo! Lo sei stato quando pensavi di non esserlo. Ma la vita che lo scoiattolo ha dato a me, io te l'ho donata. Non andartene solo, perché la solitudine genera paura; la paura intolleranza; l'intolleranza errore. Oggi hai imparato l'umiltà, io ora mi fido di te e scommetto su di noi." Grazie, a chi ha permesso questa esperienza. Giustizia: Iori (Pd); serve accelerare iter chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari La Presse, 15 giugno 2015 "In soli tre giorni si sono verificati due gravi episodi, con disordini e tentativi di suicidio, in due Ospedali Psichiatrici Giudiziari del nostro Paese: che il processo di chiusura degli Opg, avviato il 31 marzo scorso, non sarebbe stato immediato e omogeneo in tutte le strutture era facilmente prevedibile, ma non sono accettabili battute d'arresto in questo indispensabile processo". Lo dichiara, in una nota, la deputata del Pd e membro della commissione Giustizia della Camera Vanna Iori. "Tra impedimenti di natura burocratica e sanitaria, tra i pregiudizi sociali persistenti e l'incuranza verso queste esistenze a perdere, il superamento degli Opg risulta ancora incompleto: occorre accelerare per arrivare quanto prima alla chiusura in modo da trasferire gli internati nelle nuove strutture, le Rems, che devono configurarsi come luoghi di recupero e non di abbandono", aggiunge Iori. "Ritengo fondamentale intensificare i controlli negli Opg che sono ancora attivi e nelle Rems di nuova apertura, così come nelle strutture di passaggio, per facilitare il processo di chiusura è inoltre necessario affiancare alle Rems delle reti territoriali che consentano la realizzazione di misure alternative alla detenzione, attraverso la partecipazione di strutture socio-sanitarie, cooperative sociali, case-famiglia, associazioni di avvocati e familiari degli internati", sottolinea la deputata del Pd. "Gli Opg vanno superati non solo in termini di chiusura delle strutture, ma anche e soprattutto sul fronte dello stigma relativo alla malattia mentale: l'internato è una persona da riabilitare, fisicamente e psicologicamente, ma anche socialmente, e non un oggetto abbandonato a se stesso. La vera sfida sta nel conseguire questo cambio di passo di civiltà difficile ma necessario", conclude Iori. Giustizia: eco-reati al test del Codice ambiente di Federico Vanetti Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2015 Quattro nuovi reati contro l'ambiente sono scattati dal 29 maggio scorso, data di entrata in vigore della legge 68/2015 che dà un giro di vite agli inquinatori, per i quali sono previste pene più severe. In particolare, il legislatore ha introdotto diverse nuove fattispecie di reato. Tra queste le principali sono: l'inquinamento ambientale, il disastro ambientale, il traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività e l'impedimento al controllo ed ha rivisto alcuni reati già disciplinati dal Codice dell'ambiente (Dlgs 152/2006) quali, ad esempio, l'omessa bonifica. Il nuovo titolo del Codice penale relativo ai delitti contro l'ambiente, dunque, da un lato, integra la disciplina penale, dall'altro, integra altresì il diritto ambientale sostanziale. I termini e i casi considerati dalla legge 68 devono allora essere coordinati con quelli considerati dalla norma ambientale sostanziale. Si pensi, ad esempio, ai delitti di inquinamento ambientale e di disastro ambientale (articoli 452-bis e 452-quater del codice penale). Il Codice dell'ambiente contiene già una definizione di "inquinamento" introdotta dalla disciplina sull'Aia e sulla tutela delle acque, mentre per le bonifiche (Parte IV, Titolo V) il medesimo decreto fornisce una diversa definizione di "contaminazione". Con il che sorge spontaneo domandarsi se il reato di inquinamento ambientale debba essere letto esclusivamente con riferimento alle definizioni ambientali ovvero possa avere una portata più ampia e generale. Invero, l'articolo 452-bis riconduce il concetto di inquinamento ad una compromissione o un deterioramento significativo e misurabile di acqua, aria, suolo, sottosuolo, ecosistema, biodiversità, flora o fauna, che sembrerebbero trarre ispirazione più dalla disciplina sul danno ambientale di cui alla Parte VI del Dlgs 152, che dalle specifiche definizioni normative contenute nel medesimo decreto. Viene naturale domandarsi se ogni ipotesi di danno ambientale costituisca anche una ipotesi penalmente rilevante di inquinamento ambientale, ovvero se tra le due fattispecie - danno e inquinamento - esistano differenze. La norma ambientale richiede che l'inquinamento sia causato abusivamente, ma invero anche il danno ambientale presuppone un comportamento illegittimo. Discorso analogo vale anche per il concetto di disastro ambientale, ossia l'alterazione irreversibile di un ecosistema ovvero l'alterazione il cui ripristino sarebbe eccessivamente oneroso ovvero causa di pericolo e offesa alla pubblica incolumità. Anche in questo caso, il concetto di disastro ambientale non trova una propria definizione nel Codice dell'ambiente, ma è la norma penale ad inquadrare la fattispecie sostanziale. Il disastro ambientale, dunque, dovrebbe rappresentare un qualcosa di più del semplice inquinamento. Mentre l'inquinamento, infatti, per quanto abusivo potrebbe anche essere ripristinato e corretto, il disastro parrebbe rappresentare una compromissione definitiva e particolarmente grave dell'ambiente. È bene osservare che entrambe le fattispecie criminali possono essere imputate sia a titolo di dolo (ossia azioni volontarie poste in essere dagli inquinatori), sia a titolo di colpa (articolo 452-quinquies). Una menzione merita anche il nuovo delitto di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività di cui all'articolo-452 sexies. Il legislatore ha basato la fattispecie penale sui materiali ad alta radioattività e non - si badi bene - sui rifiuti (espressamente definiti ed inquadrati dal Codice dell'ambiente) ampliando così la casistica del traffico e abbandono. Non a caso, la norma penale sanziona anche coloro che illegittimamente cedono, acquistano, importano o esportano i materiali radioattivi, configurandosi così un reato di pericolo. Una ulteriore fattispecie di reato introdotta dalla legge 68/2015 è l'impedimento del controllo ambientale (ma anche sui luoghi di lavoro) da parte delle autorità. Questa fattispecie è idonea ad includere i possibili artifici che ostacolino o impediscano le verifiche ambientali. Le nuove disposizioni ambientali, inoltre, introducono anche ipotesi di aggravanti dei delitti ovvero di riduzioni della pena in caso di ravvedimento operoso, laddove sia evitato un ulteriore aggravamento della situazione ambientale ovvero nel caso in cui si provveda alla bonifica o ripristino dello stato dei luoghi. Infine, per i delitti sopra indicati, la legge 68 introduce anche la confisca dei proventi del reato ovvero dei beni utilizzati per commettere il reato. Unica eccezione, il caso in cui i beni siano di soggetti terzi estranei. Si pensi, ad esempio, ad aree o siti di terzi in cui sono abusivamente sversate sostanze inquinanti. L'introduzione di nuovi reati ambientali e di pene più severe, porta necessariamente gli operatori a dover agire con maggiori cautele e attenzioni verso l'ambiente. Giustizia: falso in bilancio, sotto la lente 1,4 mln di srl, spa e cooperative di Luciano De Angelis Italia Oggi, 15 giugno 2015 Da ieri in vigore il nuovo reato di falso in bilancio, a cui sono interessate quasi 1.400.000 società di capitali. Le nuove regole si applicheranno ai bilanci validi dal 14 giugno 2015. Per il passato varrà il favor rei, cioè l'applicazione della nuova norma, rispetto all'antecedente se la legge di recente introduzione risulta più favorevole al reo. Sono questi i principali effetti della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale n. 124 del 30 maggio 2015, della legge 27 maggio 2015 n. 69 "cd" legge anticorruzione. Su quali società si applica in falso in bilancio. Seppur in via teorica applicabile anche alle società personali, i nuovi articoli 2621, 2621-bis e ter e 2622 del codice civile si applicano concretamente alle società di capitali, tenute alla redazione del bilancio ordinario e soprattutto abbreviato ai sensi dell'art. 2435-bis c.c. Si tratta di circa 1.400.000 società suddivise fra srl, cooperative, spa e sapa. Nel dettaglio, a fine 2014 circa 1.200.000 srl (suddivise fra srl semplificate, a capitale inferiore a 10 mila euro e ordinarie) 140 mila cooperative, 45 mila spa e 150 sapa). Tutte le società in commento sono infatti tenute alla redazione del bilancio d'esercizio secondo i dettami del codice civile e al loro deposito presso il registro delle imprese. Non pare dubbio, peraltro, che il nuovo reato andrà ad applicarsi anche alle società che saranno ammesse ai nuovi schemi di bilancio "semplificati", che verranno introdotti nel nostro ordinamento attraverso il nuovo art. 2435-ter del codice civile (si veda ItaliaOggi del 15 maggio), a seguito del recepimento nel nostro paese della direttiva 2013/34/Ue. Decorrenza delle nuove norme. Le nuove norme troveranno impiego dai bilanci validamente redatti a partire dal 14 giugno 2015 (decorsi i canonici 15 giorni dalla pubblicazione del nuovo testo in G.U.). Si può discutere a riguardo se le norme si applicheranno: 1) ai progetti di bilancio depositati presso la sede sociale ex art. 2429 c.c.; 2) al bilancio post approvazione da parte dell'assemblea ex art. 2364 c.c.; 3) alla pubblicazione del bilancio presso il registro delle imprese ex art. 2435 c.c. L'applicazione delle norme punitive a un progetto di bilancio appare da escludere, sia in quanto l'art. 2621 c.c., di nuovo conio, al primo comma fa espresso riferimento ai "bilanci" e quindi, si ritiene a quelli regolarmente approvati, sia perché al progetto di bilancio, i soci (così come i sindaci nelle società maggiori) potrebbero ben chiedere una modificazione in sede di approvazione, evitando la concretizzazione, quindi dell'illecito paventato sia nei confronti dei soci che nei riguardi dei terzi (il progetto potrebbe al massimo rilevare quali "altre comunicazioni sociali rivolte ai soci). Appare, quindi, da ritenersi che l'offensività del reato possa concretizzarsi all'approvazione dello stesso (Cass. Pen. 2160/2000) o meglio ancora alla pubblicazione del documento presso il registro delle imprese (12018/1999). In relazione alle disposizioni del primo comma dell'art. 2621 c.c. che fa riferimento alle comunicazioni sociali dirette ai "soci o al pubblico", parrebbe ragionevole ritenere distinto il momento consumativo del nuovo reato, per i primi e i secondi. Nei confronti dei soci, infatti, potrebbe ritenersi che il reato si concretizzi a seguito dell'approvazione del progetto di bilancio da parte dell'assemblea (momento conoscitivo del documento da parte dei soci), mentre nei confronti dei terzi (Banche, clienti, fornitori, finanziatori ecc.), tale momento dovrebbe decorrere dall'epoca della loro concreta conoscibilità del bilancio, che non può che coincidere con la sua presentazione al Registro delle imprese. Da ciò deriva che per i bilanci presentati al registro delle imprese a partire da oggi (15 giugno), nessun dubbio in merito al fatto che si applicheranno le nuove regole, anche in merito ai conti, 2014. Il favor rei. Come noto l'art. 2 del codice penale sancisce quale principio cardine dell'ordinamento che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali". Inoltre si legge nel terzo e quarto comma dell'articolo in commento: "Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente una pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'art. 135 c.p. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile". Ne deriva che tutti i fatti rilevanti ai fini del reato, in relazione alle abrogate disposizioni che non appaiano punibili sulla base delle nuove norme, risulteranno penalmente irrilevanti (sul tema la Cassazione è pacifica - Cass. 42116/2013; Cass. S.U. 25887/2003). Ovviamente, neppure punibile risulterà un illecito perpetrato in passato e non punibile in relazione alle vecchie norme che risultasse invece reato in relazione alle nuove disposizioni. Avendo le nuove regole teoricamente irrigidito il reato in questione (connotandolo quale reato di pericolo, eliminando le soglie di impunibilità e ampliandone le pene) potrebbe ritenersi che le regole del favor rei non troveranno in concreto applicazione nell'ambito dei reati societari commessi in epoca precedente. Ma la questione potrebbe non stare in questi termini, e probabilmente i giudici penali saranno chiamati nei prossimi mesi a risolvere questioni di non poco momento. Esse riguarderanno, presumibilmente, soprattutto le situazioni di non punibilità degli illeciti da "valutazione" (come si vedrà meglio in seguito), i quali in base alle abrogate norme potevano essere puniti qualora tali valutazioni risultavano superare di un certo ammontare (vecchie soglie) i valori ritenuti corretti, ma che sulla base delle nuove disposizioni, dal 14 giugno, potrebbero risultare non punibili. In tali situazioni, evidentemente il principio del favor rei, potrebbe trovare ampia applicazione. Giustizia: beni sequestrati alle mafie, una grande questione irrisolta di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2015 Quella dei beni sequestrati alle mafie è una grande questione irrisolta, nonostante la legge Rognoni-La Torre risalga al 1982 e l'Agenzia dedicata sia nata nel 2010. Come molte delle "grandi questioni" italiane, anche quella dei miliardi che lo Stato si riprende e poi non sfrutta, si è trasformata in un guazzabuglio di norme, burocrazie, procedure nel quale affonda chiunque tenti di metterci le mani. Senza azzardare cifre sul valore in continua crescita di questo patrimonio, restiamo al dato ufficiale: al 28 febbraio i beni sequestrati o confiscati erano 139.187 (di cui 5.240 già destinati); tra questi, 64.374 immobili e 9.654 aziende. Proprio sulla sorte di queste ultime convergono le maggiori criticità, le confusioni e i ritardi più dannosi, con le plurime conferme della distanza dei decisori dalla complessità del problema e - perciò - dalle soluzioni più adeguate. Pur sorvolando sui bugs propagandistici che cinque anni fa minarono l'Agenzia fin dalla nascita (la sede a Reggio Calabria, la ridicola dotazione di personale), resta che assegnare un immobile non è semplice: si tratta spesso di costruzioni fuori norma, sotto ipoteca, ammalorate e destinate a enti senza fondi per utilizzarle. Ma sui destini delle aziende sequestrate gravano problematiche ancora più gravi e complesse: la loro reale consistenza, i rapporti con i creditori, le banche, i fornitori; i posti di lavoro che diventano precari, la salvaguardia della concorrenza e del mercato; la gestione quotidiana su cui incombe, fino alla definitiva confisca, che un'azienda risanata e ben tenuta possa tornare "all'avente diritto" che non è sempre lo Stato, ma magari la stessa cosca cui era stata tolta. Molto ci sarebbe da dire sulle diverse filosofie che si confrontano - a volte si scontrano - per far prevalere una prospettiva su un'altra: c'è chi invoca un impegno etico dello Stato per far sopravvivere ogni bene tolto ai criminali grazie al ricorso a giovani volontari, cooperative e finanziamenti a fondo perduto; ma c'è anche chi vorrebbe, più realisticamente, affidare a specialisti la valutazione dell'azienda incamerata e che fino a quel momento ha solo inquinato il mercato (posti di lavoro compresi) crescendo da radici malate e illecite. Ecco perché sono importanti le proposte avanzate dai magistrati delle principali sezioni di Prevenzione e della Procura nazionale antimafia, esperti imparziali riuniti a Palermo dalla locale Università (Dems) e dalla Cattolica di Milano (Centro F. Stella), per "migliorare l'efficienza e la rapidità" dei sequestri e della gestione delle aziende, senza mortificare le garanzie processuali. Secondo i giudici, sono necessarie sezioni specializzate con competenza distrettuale affidate a magistrati dedicati solo a questo, così come vanno rafforzati i diritti della difesa e la certezza della ragionevole durata della procedura, fissando per legge i termini di richieste ed eccezioni (a partire da quella di incompetenza territoriale). Altrettanto importante è il ruolo degli amministratori giudiziari - figure-chiave, che però il Governo ancora confonde con i curatori fallimentari - chiamati, se solo è possibile, a mantenere sul mercato le imprese sequestrate e a garantire i livelli occupazionali. La nomina degli amministratori, dicono i magistrati, richiede criteri trasparenti e meccanismi di rotazione, oltre al supporto di un ufficio organizzato con le competenze manageriali nei diversi settori di attività. Per le imprese che potrebbero sopravvivere, va predisposto un business plan da discutere in udienza con pubblico ministero e Agenzia, una volta sentiti i sindacati. Da tutelare meglio anche i creditori, introducendo la possibilità di privilegiare il pagamento di quelli strategici per il proseguimento dell'attività d'impresa, e infine è previsto il controllo giudiziario, per non affossare un'impresa che abbia agevolato le cosche in modo incolpevole e occasionale: controllo accordabile anche su richiesta di un'azienda colpita da interdittiva, come chance per rimettersi in ordine, sospendendo gli effetti del provvedimento prefettizio. Giustizia: il Campidoglio ignorò l'allarme sugli appalti del ministero dell'Economia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 giugno 2015 In quasi mille pagine l'analisi della commissione prefettizia. Nel gennaio 2014, quasi un anno prima dell'arresto di Salvatore Buzzi e i suoi presunti complici, gli ispettori del Mef - Ministero dell'Economia e delle Finanze - avevano scritto parole chiare e allarmanti sugli appalti assegnati alla Eriches 29, una delle cooperative del manager considerato l'anima imprenditoriale di Mafia Capitale. Per esempio queste: "Va rilevato come l'affidamento sia avvenuto in via diretta, in assenza di qualsivoglia procedura concorrenziale, sebbene l'importo del servizio sia largamente superiore al limite previsto dalla legge"; ed erano "espressamente vietate" proroghe e "rinnovi taciti dei contratti" che invece andavano avanti da tempo. Appalti ancor più consistenti aveva ottenuto la cooperativa Domus Caritatis, del gruppo La Cascina, che la seconda operazione della Procura di Roma ha svelato essere in combutta con Buzzi: "Anche in questo caso sono estensibili le medesime censure relative alle modalità di affidamento del servizio ed al ricorso sistematico all'istituto della proroga contrattuale". Buzzi aveva subito attivato le contromisure, tentando di far desistere gli altri concorrenti: "Noi abbiamo parlato... se vanno deserte, cioè con un'unica sola risposta, è come se fosse stata fatta la gara, e il Mef te lo levi dai coglioni", spiegava al suo collega de La Cascina. Il Comune di Roma, invece, non si mosse con altrettanta solerzia per risolvere la questione. L'autodifesa di Marino È ciò che ha contestato al sindaco Ignazio Marino la commissione prefettizia incaricata di verificare la possibilità dello scioglimento per mafia, durante l'audizione avvenuta nelle scorse settimane. Il primo cittadino s'è difeso sostenendo che quando è arrivato ha trovato una situazione in cui non c'era nemmeno il Bilancio, e dunque le proroghe dei vecchi contratti erano una strada pressoché obbligata. In ogni caso, a suo vantaggio Marino ha potuto rivendicare il fatto di essere stato lui a chiedere e ottenere, dopo ripetute insistenze, la verifica del ministero retto all'epoca da Fabrizio Saccomanni. Giustificazioni a parte, è molto probabile che le mancate conseguenze dell'allarme lanciato dagli ispettori del Mef costituisca uno dei punti salienti delle quasi mille pagine di relazione che la commissione - composta dal prefetto Marilisa Magno, dal viceprefetto Enza Caporale e dal dirigente del Mef Massimiliano Bardani - consegnerà tra oggi e domani al prefetto di Roma Franco Gabrielli. Che quando è arrivato, due mesi fa, ha trovato il gruppo già al lavoro, insediato a dicembre 2014 dal suo predecessore Giuseppe Pecoraro. Il quale nei giorni scorsi s'è lasciato andare a pubbliche dichiarazioni che hanno suscitato qualche sconcerto: "Gli estremi per lo scioglimento del Comune di Roma per mafia c'erano a dicembre e ci sono ancora". Parole che possono insinuare il dubbio di una commissione appositamente costituita per raggiungere questo obiettivo, sollevando perplessità sull'operato dell'ex prefetto. Prima e dopo il 2013. A Gabrielli i commissari presenteranno un quadro che già appariva compromesso prima della seconda ondata di arresti, e ora sembra essersi ulteriormente complicato. Lasciando però aperti spazi di valutazione a favore o contro le due opzioni (scioglimento oppure no) che andranno riempiti prima da Gabrielli e poi dal ministro dell'Interno. Tutto ruota intorno al condizionamento che la presunta associazione mafiosa (confermata come tale dalla corte di Cassazione, che ha appena depositato motivazioni piuttosto solide a sostegno della tesi dell'accusa) ha esercitato e potrebbe continuare a esercitare sull'amministrazione comunale. Sia con la giunta di centro-destra guidata da Alemanno (2008-2013), che con l'attuale di centro-sinistra capeggiata da Marino, come dimostrerebbero le carte della magistratura. Basti pensare a quel che hanno scritto gli inquirenti a proposito dell'approvazione dei debiti fuori bilancio, uno degli strumenti utilizzati da Buzzi per assicurarsi appalti da milioni di euro: "Così come nel 2012 venivano attivati tutti i canali di collegamento con le istituzioni, da Lucarelli (capo della segreteria di Alemanno, ndr) a Gramazio (ex consigliere comunale del Pdl, ndr) che vota la relativa delibera in consiglio comunale, similmente nel 2014 vengono attivati tutti i canali possibili nelle istituzioni, da Coratti (ex presidente pd del consiglio comunale, ndr), a Tredicine, Giansanti, Ferrari, D'Ausilio, Caprari", consiglieri (soprattutto del centro-sinistra) che Buzzi dichiarava di avere a disposizione. Dietro il pagamento di tangenti, sospettano i magistrati; e di questo non potrà non dare conto la relazione dei commissari prefettizi. Tuttavia si può sostenere - come ha lasciato intendere il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone - che tra la vecchia e la nuova amministrazione ci siano significative differenze. A cominciare dal coinvolgimento degli esponenti politici nell'impostazione dell'accusa: prima c'erano un sindaco tuttora indagato per associazione mafiosa (Alemanno), un ex consigliere comunale (Gramazio) ora arrestato con la stessa accusa, collaboratori del sindaco e amministratori di Enti vicini alla "banda" di Buzzi e Carminati, pronti a soddisfare le esigenze del "sodalizio criminale"; adesso ci sono cinque componenti del consiglio comunale finiti in carcere e altri sotto inchiesta sempre per aver favorito gli affari di Mafia Capitale (e per questo retribuiti da Buzzi), ma senza l'aggravante di aver favorito l'associazione mafiosa. Il che significa che non erano necessariamente consapevoli di quanto si nascondeva dietro il "re delle cooperative" e i suoi metodi e della caratura criminale dell'organizzazione. Tra l'altro, l'inchiesta sul "Mondo di mezzo" ha svelato come il gruppo di Buzzi e Carminati si sia adoperato per confermare un proprio uomo nella Municipalizzata per la raccolta dei rifiuti per contrastare la diversa volontà del sindaco Marino. Le dimensioni del condizionamento Il caso vuole che lo stesso Pignatone - il cui parere sarà ascoltato dal prefetto Gabrielli nell'ambito del comitato provinciale per la sicurezza, allargato per l'occasione al capo dei pm titolari dell'inchiesta - fosse procuratore a Reggio Calabria quando le indagini condotte dal suo ufficio portarono alla scioglimento per ‘ndrangheta del consiglio comunale del capoluogo calabrese, a causa del controllo che boss e ‘ndrine esercitavano sulle Municipalizzate. Quella vicenda rimane la più grande e clamorosa tra le tante di questo genere. Tuttavia Reggio Calabria presenta un contesto ambientale certamente diverso da Roma, in un Comune che conta 180.000 abitanti: la metà di un municipio della capitale, dove ce ne sono quindici. E sono diverse le dimensioni del fenomeno: i calcoli effettuati sul volume di affari controllati da Mafia Capitale corrispondono a una quota minima dell'intero bilancio comunale (c'è chi dice il 2 per cento); dunque il condizionamento del governo della città può esserci stato in alcuni settori anche rilevanti (come la raccolta dei rifiuti, la manutenzione del verde o l'emergenza migranti), ma in misura relativa rispetto all'ampiezza di attività, impegni e competenze della macchina amministrativa della capitale d'Italia. La partita politica. Con queste premesse, le valutazioni che il prefetto Gabrielli dovrà fare rispetto alla relazione della commissione prefettizia - che conterrà questi e molti altri argomenti - si presentano impegnative e complesse. Il rappresentante del governo ha 45 giorni di tempo per analizzare in ogni dettaglio il lavoro svolto dai commissari, dopodiché presenterà le proprie conclusioni al ministro dell'Interno. Il quale non avrà scadenze per agire di conseguenza; potrà decidere di portare le proprie determinazioni al consiglio dei ministri o meno, quando lo riterrà opportuno. A quel punto la partita si trasformerà definitivamente da tecnica in politica. Con molte vie d'uscita e dagli esiti imprevedibili. Per lo scioglimento di una realtà molto più piccola e meno significativa come il comune di Fondi, nell'Agro Pontino, suggerito dal prefetto di Latina nel 2008, e proposto alla fine dall'ex ministro Maroni, il Consiglio dei ministri fu così titubante da lasciare al sindaco e ai consiglieri il tempo e la possibilità di dimettersi e andare di propria iniziativa a nuove elezioni, nelle quali poterono ripresentarsi come candidati. Roma è ovviamente un'altra storia, ma lo sono anche i rapporti tra Alfano e Renzi, ministro dell'Interno e presidente del Consiglio, capi dei due partiti di centro-destra e di centro-sinistra costretti a convivere per tenere in vita l'esecutivo. Il destino del consiglio comunale in odore di condizionamento mafioso della "città eterna" può così diventare un'arma in mano all'uno per influenzare l'altro su questioni diverse, una pedina di scambio per mantenere o far saltare equilibri più vasti del governo della capitale. Giustizia: in politica è meglio un furbacchione efficiente o un brav'uomo buono a nulla? di Giuseppe Pullara Corriere della Sera, 15 giugno 2015 Verrà pure un giorno in cui tutti i corrotti, gli imbroglioni, i semplici mascalzoni saranno stati spazzati via dalla scena pubblica, che i colpevoli di tanto disastro morale, civile e amministrativo messo in evidenza dall'inchiesta su Mafia Capitale saranno fuori gioco. Ci sarà un giorno in cui resteranno in campo solo le persone per bene, quelle che ricoprono un incarico istituzionale in nome dell'interesse pubblico e non privatissimo, quelle che credono nei migliori valori della politica. Sarà un giorno - speriamo non lontano - di grande soddisfazione per quella gran parte della Società Civile che non si è lasciata contaminare dalla brutta politica. Ma dopo il giorno del Giudizio (civile, penale) nel quale i malandrini saranno stati scacciati, restando sul palcoscenico delle amministrazioni pubbliche solo gli onesti, i problemi non saranno finiti. Quante volte ci siamo chiesti, in tutt'altre circostanze, se è preferibile un furbacchione efficiente piuttosto che un brav'uomo buono a nulla? Tra i rischi del Day After c'è quello che a disposizione dei romani resti una classe politico-amministrativa tanto onesta quanto incapace di dare il giusto impulso al progresso della città. Dal momento che neppure con il vivace contributo dei disonesti di destra, di centro e di sinistra Roma si è segnalata per le sue capacità di gestione e di realizzazione di cose significative, resta la possibilità che, quando alla tempesta seguirà il sereno, la Capitale resti in mano ad innocenti inefficienti. Un vero guaio, se dovesse accadere. In realtà i leader d'ogni parte politica che anni fa erano i protagonisti delle cronache sembrano essere stati assorbiti dall'impegno a far brillare la propria immagine, prima rinunciando ad assumere il ruolo di guide etiche oltre che politiche, poi trascurando la severa formazione di seguaci ispirati a principi alti piuttosto che a bassi interessi. Il risultato è che se ci guardiamo attorno non riusciamo ad intravedere nelle nuove leve della politica, ma neppure della classe dirigente romana, una consistente presenza di individui su cui puntare per predisporre il domani. E se qualcuno rivendica di aver attraversato il lungo periodo di Mafia Capitale restando immacolato, gli si può rispondere che questo non ne fa necessariamente conseguire la capacità di spingere Roma verso "magnifiche sorti e progressive". Ma forse una nuova stagione di politici e amministratori semplicemente onesti e mediamente laboriosi potrebbe bastare ai romani. Dopotutto questa è una città normale anche se spesso ne viene esaltata strumentalmente la sua "specialità". Dunque, può andare avanti con gente del tutto normale. Richiesta di prova: acquisizione di atti nel fascicolo del Pm Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2015 Processo penale - Dibattimento - Richieste di prova - Acquisizione di atti nel fascicolo del Pm e delle investigazioni difensive - Consenso - Forma tacita - Ammissibilità - Condizioni. In tema di formazione del fascicolo del dibattimento, il consenso alla richiesta della controparte di acquisizione allo stesso di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, ovvero della documentazione relativa all'attività di investigazione difensiva, può essere espresso tacitamente attraverso l'assenza di opposizione, se il complessivo comportamento processuale della parte interessata è incompatibile con una volontà contraria. •Corte di cassazione, sezione V, sentenza 15 aprile 2015 n. 15624. Processo penale - Dibattimento - Richieste di prova - Acquisizione di atti del fascicolo del Pm o del fascicolo delle investigazioni difensive - Consenso - Forma tacita - Rilevanza - Condizioni. Il consenso delle parti all'acquisizione al fascicolo del dibattimento di atti contenuti in quello del pubblico ministero, ovvero della documentazione relativa all'attività di investigazione difensiva, può formarsi tacitamente mediante una manifestazione di volontà espressa di chi propone e l'assenza di opposizione della controparte, qualora il complessivo comportamento processuale di quest'ultima sia incompatibile con una volontà contraria. •Corte di cassazione, sezione III, sentenza 15 gennaio 2015 n. 1727. Processo penale - Dibattimento - Richieste di prova - Acquisizione di atti del fascicolo del Pm - Consenso prestato dal difensore. Il consenso all'acquisizione al fascicolo del dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero può essere validamente prestato non soltanto dall'imputato ma anche dal suo difensore, nell'ambito delle sue funzioni di partecipazione alla definizione delle prove non rilevando la circostanza che esso sia di fiducia o d'ufficio, in quanto estrinsecazione del generale potere di indicazione dei fatti da provare e delle prove e conseguente al principio generale di rappresentanza dell'imputato da parte del difensore. •Corte di cassazione, sezione III, sentenza 14 maggio 2014 n. 19857. Processo penale - Dibattimento - Richieste di prova - Acquisizione di atti del fascicolo del Pm - Nozione di parte ai sensi dell'articolo 493 del Cpp. L'articolo 493 c.p.p., comma III, nel riferirsi alla "parte", richiama non soltanto soggettivamente la parte privata, ma anche colui che ne esercita le funzioni di rappresentanza ed assistenza, potendo tale consenso essere manifestato anche tacitamente, qualora il comportamento processuale delle stesse sia incompatibile con la volontà contraria all'acquisizione. Né rileva, infine, che tale consenso (rectius, non dissenso) sia stato successivamente revocato dal difensore di fiducia, comparso alla successiva udienza. •Corte di cassazione, sezione III, sentenza 14 maggio 2014 n. 19857. Processo penale - Dibattimento - Richieste di prova - Acquisizione degli atti del fascicolo del pubblico ministero - Consenso - Legittimazione del difensore dell'imputato. Il consenso all'acquisizione al fascicolo del dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero può essere validamente prestato anche dal difensore dell'imputato, nell'ambito delle sue funzioni di partecipazione alla definizione delle prove. •Corte di cassazione, sezione V, sentenza 4 aprile 2011 n. 13525. Processo penale - Dibattimento - Richieste di prova - Acquisizione degli atti del fascicolo del pubblico ministero Consenso - Forma tacita - Rilevanza - Condizioni. Il consenso delle parti all'acquisizione al fascicolo del dibattimento di atti contenuti in quello del pubblico ministero può essere prestato anche tacitamente, qualora il comportamento processuale delle stesse sia incompatibile con la volontà contraria all'acquisizione. •Corte di cassazione, sezione II, sentenza 25 maggio 2010 n. 19679. Azione penale: esercizio del diritto di querela da parte del curatore speciale Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2015 Amministratore di sostegno - Curatore speciale - Potere autonomo di querela nell'interesse del soggetto amministrato - Sussistenza - Esclusione. L'amministratore di sostegno, anche se rappresenta il soggetto amministrato nei limiti segnati dal decreto giudiziale di nomina, non ha un autonomo potere di querela, potendo al massimo sollecitare il giudice tutelare alla nomina di un curatore speciale. •Corte di cassazione, sezione II, sentenza 8 aprile 2015 n. 14071. Azione penale - Querela - Curatore speciale - Rappresentanza del minore o dell'infermo di mente - Conflitto di interessi tra i genitori della parte offesa - Rilevanza - Esclusione. Ai fini dell'esercizio del diritto di querela da parte del curatore speciale, non assume alcun rilievo il conflitto di interessi tra i genitori della persona offesa, in quanto l'unico possibile conflitto di interessi previsto dall'art. 121 cod. pen. è quello tra il curatore speciale e la persona rappresentata e non quello tra il rappresentante-curatore speciale ed altri soggetti, come l'imputato. •Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 7 ottobre 2014 n. 41828. Azione penale - Querela - Curatore speciale - Amministratore di sostegno padre dell'amministrato - Querela presentata nell'interesse del figlio - Curatore speciale - Nomina - Necessità - Esclusione. È valida la querela proposta, nei limiti dei poteri individuati dal decreto di nomina del giudice tutelare, dall'amministratore di sostegno nell'interesse del figlio quale persona offesa dal reato, non essendo necessaria la nomina di un curatore speciale per l'assenza di un conflitto di interessi tra le persone interessate. •Corte di cassazione, sezione II, sentenza 10 agosto 2012 n. 32338. Azione penale - Querela - Curatore speciale - Rappresentanza del minore o dell'infermo di mente - Conflitto di interessi tra i genitori della parte offesa - Rilevanza - Esclusione. Ai fini dell'esercizio del diritto di querela da parte del curatore speciale, non è configurabile il conflitto di interessi tra i genitori della persona offesa, in quanto l'unico possibile conflitto di interessi previsto dall'art. 121 cod. pen. è quello tra il curatore speciale e la persona rappresentata e non quello tra il rappresentante - curatore speciale ed altri soggetti. •Corte di cassazione, sezione III, sentenza 22 febbraio 2008 n. 8318. Azione penale - Querela - Curatore speciale - Morte del titolare del diritto di querela - Potere del curatore di proporre querela dopo la morte del titolare del diritto - Esclusione. Il curatore speciale nominato per l'esercizio del diritto di querela, di cui è titolare la persona offesa minore degli anni quattordici o inferma di mente, non può proporre querela una volta che il relativo diritto si è estinto per morte del titolare. •Corte di cassazione, sezione II, sentenza 13 agosto 2007 n. 32873. Il reato di omesso versamento delle ritenute non è escluso dalla difficoltà economica di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 18 marzo 2015 n. 11353. Il reato di cui all'articolo 2, comma 1-bis, del decreto legge 12 settembre 1983 n. 463, convertito dalla legge 11 novembre 1983 n. 638, che punisce l'omesso versamento da parte del datore di lavoro delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, è reato punito a titolo di dolo generico, integrato dalla coscienza e volontà dell'omissione o della tardività del versamento delle ritenute. Pertanto, proseguono i giudici della Suprema corte con la sentenza n. 11353 del 2015, non rileva, sotto il profilo soggettivo, la circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di criticità e destini le risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti, quali quelli derivanti dagli stipendi dei dipendenti. La decisione della sezione III penale - Da queste premesse, la Corte, accogliendo il ricorso del procuratore generale, ha annullato con rinvio la sentenza che aveva mandato assolto l'imputato, per difetto dell'elemento soggettivo, argomentando la soluzione liberatoria con il fatto che questi aveva fatto ogni sforzo, in occasione del tracollo finanziario che aveva portato poi alla chiusura dell'azienda, per pagare prioritariamente i dipendenti. La Cassazione ribadisce l'impostazione di rigore secondo cui il reato di omesso versamento da parte del datore di lavoro delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti non è escluso dalla condizione di difficoltà economica in cui versi il datore di lavoro, tale da averlo indotto a privilegiare altre destinazioni delle somme che avrebbero dovuto essere accantonate per i versamenti. Secondo questa impostazione, l'impossibilità di adempiere non è, in concreto, deducibile dal sostituto d'imposta che abbia effettuato i pagamenti in relazione ai quali sono state operate le ritenute perché, ogni qualvolta il datore di lavoro, sostituto d'imposta, effettua i pagamenti, gli incombe l'obbligo di accantonare le somme dovute al fisco. In tal senso, la punibilità della condotta va individuata proprio nel mancato accantonamento delle somme dovute al fisco (tra le tante, sezione III, 19 dicembre 2013, Pg in proc. Casella). È una tesi interpretativa che può accettarsi in ossequio al principio in forza del quale il sostituto d'imposta, quando effettua l'erogazione degli emolumenti ai dipendenti, ha l'obbligo di accantonare le somme dovute all'erario (qui, in favore dell'Inps), organizzando le risorse disponibili in modo da adempiere all'obbligazione, così che non può, di regola, essere invocata, quale causa di forza maggiore (articolo 45 del Cp ), per escludere la colpevolezza in sede penale, la crisi di liquidità che abbia impedito il versamento del dovuto. È però anche vero che tale principio non può essere applicato automaticamente. Dovrebbe infatti escludersi il dolo, e correttamente applicarsi il disposto dell'articolo 45 del Cp, allorquando risulti dimostrata l'imprevedibilità della crisi finanziaria, per fatti non dovuti al debitore, tale da avere impedito a questi di fronteggiarla adeguatamente. Il caso specifico - In questa prospettiva, la scelta di pagare i dipendenti ma non l'Inps sembra difficilmente censurabile in sede penale, essendo piuttosto dimostrativa non tanto di un comportamento violativo dell'obbligo di provvedere per tempo agli accantonamenti, ma dalla scelta necessitata di privilegiare la soddisfazione di almeno uno dei propri obblighi debitori, corrispondendo almeno le somme per le retribuzioni dei dipendenti. In questa situazione potrebbe infatti sostenersi l'inesigibilità della condotta alternativa lecita, determinata dalla crisi economica, ma non direttamente riconducibile a un comportamento inerte e trascurato del datore di lavoro. La sentenza pronunciata dopo la discussione si considera pubblicata di Mario Piselli Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 29 maggio 2015 n. 11176. La sentenza pronunciata ai sensi dell'articolo 281 sexies del Cpc, integralmente letta in udienza e sottoscritta dal giudice con la sottoscrizione del verbale che la contiene, è da intendersi pubblicata e non può essere dichiarata nulla, anche se il cancelliere non abbia dato atto del deposito in cancelleria e non via abbia apposto la data e la firma "immediatamente" dopo l'udienza. La lettura del dispositivo - Com'è noto il termine di cui all'articolo 327, primo comma, del Cpc per proporre impugnazione avverso la sentenza pronunciata ex articolo 281 sexies del Cpc decorre dalla data dell'udienza, quando la sentenza sia stata pronunciata al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione e con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene (o al quale è allegata). L'eventuale separazione temporale - La Corte si è interrogata quindi sulla funzione che si è voluta perseguire prevedendo la norma che la sentenza sia "immediatamente depositata in cancelleria". Il giudice di legittimità ha affermato che l'eventuale separazione temporale che si crea con l'apposizione di una data di deposito diversa dalla data dell'udienza di discussione e di pronuncia non può comportare il trasferimento dell'effetto "pubblicazione" dal giudice al cancelliere. Il deposito immediato richiesto dalla norma è solo finalizzato al compimento di adempimenti da parte del cancelliere ed al fine di consentire alle parti di chiedere il rilascio di copia della decisione munita di numero identificativo. Tale attività è sempre necessaria anche nei processi regolati dalle disposizioni del processo civile telematico perché se è vero che le parti potranno estrarre copia della decisione, direttamente certificata conforme dal difensore, è anche vero che il compimento di tali formalità di deposito da parte del cancelliere è sempre necessario. Lombardia: protestano gli Assistenti sociali degli Uffici per l'esecuzione penale esterna Comunicato stampa, 15 giugno 2015 "Gli assistenti sociali dell'Uepe di Milano e Lodi, già in stato di agitazione, aderiscono alle iniziative di mobilitazione indette dai coordinamenti regionali delle OO.SS. Fp-Cgil-Cisl Fp- Uil-Pa-Usb per denunciare il disinteresse del Ministero della Giustizia nei confronti delle pesanti condizioni di lavoro negli Uffici per l'esecuzione penale esterna (Uepe)". "OO.SS. che hanno indetto una conferenza stampa per martedì 16 giugno alle ore 15.00 c/o il Provveditorato Regionale della Lombardia del dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (Milano- Via Azario n. 6)". Così la Rappresentanza sindacale unitaria dell'Uepe di Milano (Rsu). "I carichi di lavoro degli assistenti sociali e del personale amministrativo dell'Uepe di Milano sono insostenibili, gli organici sono del tutto insufficienti ed al di sotto del 50% di quelli previsti e le risorse ed i mezzi a disposizione degli operatori sono ormai ridotti ai minimi termini". "Una trentina di assistenti sociali dell'Uepe di Milano, tra i quali circa un 2% in part-time" - sempre il rappresentante sindacale "al 31 maggio 2015, secondo i dati statistici del Ministero della Giustizia, hanno avuto in carico circa 2500 misure alternative (affidamenti in prova, detenzioni domiciliari, semilibertà...); circa 750 lavori di pubblica utilità; 300 casi di messa alla prova. A tale data ha inoltre avuto in carico 900 attività di consulenza per gli Istituti penitenziari e la Magistratura di sorveglianza e circa 750 istanze di messa alla prova. Complessivamente i casi in carico sono stati circa 5.200. In Lombardia i 5 Uepe di Milano, Pavia, Brescia, Como, Mantova e le due sedi distaccate di Varese e Bergamo, con circa una novantina di assistenti sociali, hanno seguito, sempre al 31 maggio 2015, circa 6.500 misure alternative + altre misure. Complessivamente, considerando anche le attività di consulenza/indagine svolte per gli Istituti penitenziari, la Magistratura di sorveglianza, il Tribunale di sorveglianza e da poco, con l'introduzione della messa alla prova, per i Tribunali ordinari, gli Uepe della Lombardia hanno avuto in carico circa 11.000 casi. Nel 2014, in sempre in Lombardia sono stati seguiti circa 13.500 misure alternative + altre misure e circa 10.000 casi per attività di consulenza /indagine per un totale di oltre 23.000 casi (dati Ministero della Giustizia)". "L'attribuzione di nuove competenze agli Uepe, per ultimo l'approvazione circa un anno fa della normativa sulla messa alla prova e le misure tese a favorire l'accesso alle misure alternative finalizzate a diminuire l'utilizzo della carcerazione per riportare a livelli umani e sostenibili la presenza dei detenuti nelle carceri" - proseguono i rappresentanti sindacali - "sta avvenendo senza oneri aggiuntivi per lo Stato e pertanto non ha in alcun modo determinato, un seppur indispensabile aumento di personale, di risorse e mezzi. Anzi si è assistito negli ultimi anni ad un loro continuo ridimensionamento a causa della riduzione significativa della spesa pubblica che ha dovuto subire anche il settore del carcere e dell'esecuzione penale esterna (l'ultimo concorso per assistenti sociali risale a ben oltre 15 anni fa e il personale diminuisce irreversibilmente in quanto il personale che va in pensione non viene in alcun modo sostituito per il blocco delle assunzioni)". "Stante la grave carenza degli organici e la mancanza di concrete e tangibili risposte da parte della politica e del Ministero della Giustizia" - denuncia l'Rsu - "gli assistenti sociali non sono più in grado di fronteggiare il continuo aumento della mole di lavoro senza dover svilire le proprie importanti funzioni istituzionali e la qualità degli interventi professionali, con possibili ricadute oltre che sulle scadenze ed i tempi necessari per effettuare gli interventi richiesti, anche sulla stessa efficacia della loro attività". "Nello stesso tempo" - denunciano le OO.SS regionali che hanno indetto la conferenza stampa per il 16 giugno - "Il Ministro Orlando punta al potenziamento delle misure alternative al carcere ( varie ricerche hanno evidenziato una recidiva del 19% circa per le misure alternative rispetto a quella del carcere che è di circa del 70%) senza però garantire a tali servizi le risorse adeguate sia in termini economici che di personale. Degli oltre 30 milioni di euro del fondo unico della giustizia, solo 500.000 euro verranno assegnati agli Uepe presenti sul territorio nazionale. È una beffa"- dichiarano sempre i rappresentanti sindacali regionali- "se si pensa che la mancanza di risorse è ormai cronica". "Lo Stato di Agitazione dell'Uepe di Milano"- conclude l'Rsu - "vuole inoltre denunciare come la già difficile situazione in cui si trovano costretti ad operare gli operatori dell'Uepe di Milano, sia ulteriormente aggravata dalle discutibili scelte organizzative e gestionali del Direttore dell'Uepe che rendono il clima organizzativo ed il contesto lavorativo dell'Ufficio, estremamente difficile". Sardegna: Sappe; più detenuti rispetto all'anno scorso, Polizia penitenziaria in difficoltà Ansa, 15 giugno 2015 Sono 1.950 i detenuti, 1.634 dei quali condannati, 299 in attesa di un giudizio definitivo, 17 internati. Fra i reclusi 38 sono donne. Cagliari, con 563 presenze, è il penitenziario sardo più affollato; Lanusei, con 37, quello con il dato più basso. Sono i dati sulle carceri della Sardegna al 31 maggio scorso diffusi dal Sindacato autonomo Polizia penitenziaria (Sappe) in occasione della presenza nell'Isola del segretario generale, Donato Capece, il quale ha sottolineato che "le carceri in Sardegna restano affollate, nonostante talune rassicuranti dichiarazioni, ed hanno più detenuti di un anno fa". "I numeri parlano più di mille chiacchiere - sottolinea Capece. I detenuti al 31 maggio erano 1.950. Lo stesso giorno un anno fa erano 1.877. Quindi non c'è stato alcun calo di detenuti, ma bensì un aumento. In Sardegna, insomma, almeno sul fronte penitenziario, non si è dimezzato alcunché. E si tenga conto che nel frattempo sono state varate quattro leggi cosiddette svuota carceri, una sulla messa in prova dei detenuti adulti ed un'altra sulla tenuità dei reati che in realtà non hanno svuotato un bel niente, come bene sanno i poliziotti penitenziari che lavorano negli istituti di pena in prima linea tra gente che tenta il suicidio, che si lesiona gravemente il corpo, che si picchia con altri carcerati e che aggredisce agenti". "L'Amministrazione penitenziaria sembra vivere in una realtà virtuale e non si rende conto della drammaticità del momento, che costringe le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria a condizioni di lavoro sempre più difficili - conclude Capece - per queste ragioni ho chiesto al ministro della Giustizia Orlando di porre le criticità penitenziarie sarde tra le priorità d'intervento, assegnando più poliziotti e diversificando lo spessore criminale dei detenuti presenti nell'Isola". Emilia Romagna: nota Garante regionale dei detenuti Desi Bruno sul carcere di Piacenza Ristretti Orizzonti, 15 giugno 2015 La Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, Desi Bruno, a seguito di una nota fatta pervenire dalla Direttrice della Casa Circondariale, Caterina Zurlo, intende precisare un passaggio della relazione sulle attività svolte nel corso del 2014, nel capitolo dedicato all'istituto penitenziario in questione. In particolare, nel registrare che, nell'ultima visita effettuata del 30.09.2014, la Direzione aveva comunicato che per il 2015 erano in cantiere una serie di progetti (un laboratorio per la produzione di pasta fresca negli spazi della vecchia lavanderia; la coltivazione di piante officinali; l'apicoltura; la legatoria negli spazi del nuovo padiglione), l'Ufficio della Garante regionale aveva riportato che, salvo per quanto riguarda il progetto relativo all'apicoltura, gli altri non si sarebbero concretizzati. La Direzione della casa circondariale di Piacenza, con apposita nota, ha nei giorni scorsi precisato che, si riporta testualmente, "il progetto relativo alle piante officinali è attualmente in corso, con modulo formativo iniziato l'11 marzo 2015 e modulo pratico iniziato il 6 maggio, entrambi ancora in essere; è iniziato e terminato, per il momento, il corso di legatoria (la cooperativa che lo ha tenuto sta cercando finanziamenti per la continuazione); è in attuazione il corso di apicoltura, terminato con formazione teorica e pratica, che porterà alla raccolta del miele e successiva vendita dei vasetti (la novità di quest'anno è l'allocazione delle arnie entro il muro di cinta in modo che le api possano volare sulle erbe officinali che saranno coltivate); è in corso il progetto relativo alla produzione di pasta fresca, con l'adeguamento dei locali che ospiteranno il laboratorio e sono stati reperiti, grazie all'interessamento della Direzione stessa, fondi per l'acquisto delle costose macchine; sono, inoltre - continua la nota della Direzione, stati svolti e portati a termine un corso di teatro e un corso di piastrellisti che ha consentito la ristrutturazione della vecchia palestra; è altresì in corso di allestimento l'area verde." La Garante rappresenta che nel mese di luglio si recherà in visita alla casa circondariale di Piacenza. Salerno: detenuto malato di tumore curato con antibiotici, la Procura apre un'nchiesta salernonotizie.it, 15 giugno 2015 È stata aperta un'inchiesta da parte della Procura, ed è stata istituita una commissione interna, disposta dall'Asl di Salerno, per capire in che modo è tutelato il diritto all'assistenza sanitaria per i detenuti presenti all'interno del carcere di Fuorni. Tutto questo è partito dopo che F.S., ex esponente della "Nuova Camorra Organizzata", malato di tumore è stato curato all'interno del carcere con una terapia antibiotica e non con un trattamento specifico. Tutto questo fino al ricovero d'urgenza all'ospedale Ruggi d'Aragona di Salerno, a causa di un'occlusione urinaria. Solo allora i medici hanno potuto accertare la reale patologia della quale era affetto il detenuto, diagnosticandogli un tumore alla vescica, ormai in fase avanzata. Malato in carcere, la procura apre un ‘inchiesta (Cronache di Napoli) Un'inchiesta della procura ed una commissione interna disposta dall'Asl. per capire se presso il carcere dì Salerno-Fuorni e tutelato il diritto dì assistenza sanitaria ai detenuti. Sta facendo discutere il caso di Francesco Sorrentino, ex esponente della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, curato per mesi dietro le sbarre del penitenziario cittadino con una banale terapia antibiotica fino a quando, in seguilo al ricovero al Ruggi per un'occlusione urinaria, i sanitari banno accertato un'altra patologia. Ora la procura di Salerno vuole vederci chiaro ed il sostituto procuratore ha deciso di aprire un'inchiesta per capire se tutto sia stato fatto così come previsto dalla legge. La storia di Francesco Sorrentino, in carcere da decenni è venuta fuori nei giorni scorsi quando il suo avvocato Bianca De Concilio, dopo svariati appelli, ha deciso di far sapere la storia del suo assistilo attraverso una conferenza stampa. Secondo il racconto dell'avvocato. Sorrentino racconta di non stare bene, dì soffrire da tempo e denunce di vedere tracce di sangue nelle urine. Dopo una visita ed esami - fa sapere l'avocalo di Sorrentino - gli vengono somministrati gli antibiotici. Il 66enne, in carcere da oltre trent'anni, viene trasferito in penitenziario friulano ed i sanitari della struttura iniziano a rendersi conio del cattivo stato di salute dell'uomo che lamenta perdite più forti ed è sempre più provato e dimagrito. Viene immediatamente disposta una visita urologica ed un'ecografia, esami che non erano stati disposti a Salerno. Il 26 maggio l'uomo ha deciso di rendere dichiarazioni spontanee davanti al giudice del Tribunale di Nocera. su consiglio dell'avvocato difensore. dove denuncia il suo delicato stato di salute. La situazione precipita a fine maggio quando l'uomo dice dì non riuscire più ad urinare. Ora la scoperta di un male grave che va curalo. Sulla questione è stata aperta un'inchiesta. Napoli: i familiari di Aniello, suicida in carcere, si oppongono all'archiviazione del caso di Rosaria Federico La Città di Salerno, 15 giugno 2015 I familiari del giovane di Sarno suicida in carcere si oppongono all'archiviazione dell'inchiesta avanzata dalla Procura. Figlio di un Dio minore anche nella morte: la storia di Aniello Esposito, il giovane di Sarno con gravi problemi psichici che si impiccò nel carcere di Secondigliano all'età di 29 anni è al centro di un vero e proprio caso giudiziario. La Procura di Napoli ha deciso di archiviare l'inchiesta ma i familiari di Aniello chiedono "giustizia" per una morte che doveva essere evitata. L'opposizione alla richiesta di archiviazione, promossa dall'avvocato Vincenzo Calabrese e affidata al gip Anita Polito del Tribunale di Napoli, è stata presentata qualche giorno fa. I genitori e i fratelli del giovane suicida chiedono che sia fatta chiarezza su quanto è accaduto quel giorno nel carcere di Secondigliano dove Aniello Esposito - piccoli precedenti penali alle spalle e con chiari ed evidenti problemi psichici - fu trasferito dopo un ricovero nell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, chiuso per ristrutturazione. In esecuzione di una misura di sicurezza personale, il 29enne viene prima ricoverato presso la Casa di cura Villa Chiarugi a Nocera Inferiore e poi ad Aversa. Il 28 dicembre del 2012, Aniello Esposito viene quindi trasferito a Secondigliano dove il 19 giugno del 2013, utilizzando i pantaloni del pigiama, si impicca al cancello della cella dove è praticamente in isolamento. Ad Aversa, il giovane è stato segnalato per 16 volte nella casistica "eventi critici" - aggressione, danneggiamenti e resistenza, oltre ad atti di autolesionismo - eppure, giunto a Secondigliano, malgrado sia stato disposto un regime di "grande sorveglianza", il personale della struttura non avrebbe adottato misure idonee a prevenire un possibile suicidio del giovane. Insomma - è questa l'accusa - non ci sarebbe stato il controllo 24 ore su 24. Le condizioni di Aniello Esposito, già critiche, peggiorano a causa della detenzione e, il 19 giugno, mette in atto i suoi propositi. Verso le 18 di quel giorno un assistente di polizia penitenziaria, mentre accompagna il personale per la distribuzione del pasto serale, si accorge che il giovane è appeso al cancello di ingresso della cella. È in questo momento che inizia il "parapiglia" nella struttura penitenziaria. L'assistente, anziché aprire la cella e liberare il giovane, chiama al telefono l'addetto alla sorveglianza che arriva poco dopo sul posto, ordinando di aprire la cella. Il giovane è ancora vivo, respira a fatica, e un infermiere inizia il tentativo di rianimazione. Viene chiamata anche la dottoressa in servizio che arriva però sprovvista di attrezzature idonee alla rianimazione: nessuno le ha detto che il detenuto è in gravi condizioni. Passano i minuti e, mentre la dottoressa va a recuperare gli attrezzi sanitari necessari e ritorna, Aniello Esposito si spegne. Sono le 18,40 circa. L'arrivo dei medici dell'emergenza, il "118", a quel punto è inutile. Il 29enne ha già smesso di respirare. È una sequenza tragica, nella quale pur essendo fondamentale la tempestività dell'intervento passano circa quaranta minuti. Troppi, evidentemente, per riuscire a salvare la vita al giovane di Sarno. La Procura napoletana, acquisiti gli atti, apre un fascicolo d'inchiesta per l'ipotesi di reato di istigazione o aiuto al suicidio, formulata e rimasta però sempre contro ignoti. Ma a luglio dello scorso anno, il sostituto procuratore Maria Laura Lalia. Morra chiede l'archiviazione delle accuse. Secondo i familiari di Aniello, però, la morte del loro congiunto poteva essere evitata. E, per loro, che hanno deciso di impugnare la richiesta del magistrato, la storia non può passare sotto silenzio. Benevento: un tentato suicidio in cella e una nuova aggressione agli agenti penitenziari ntr24.tv, 15 giugno 2015 Ancora tensioni alla casa circondariale di Benevento, dove lo scorso giovedì si sono verificati un tentato suicidio e una nuova aggressione ai danni della Polizia Penitenziaria. A comunicarlo con una nota stampa sono le sigle sindacali Cgil, Cisl, Uil, Sinappe e Ugl. In mattinata un detenuto del Reparto Giudiziario ha provato ad impiccarsi nella sua cella. Solo l'attenzione, l'esperienza e la rapidità d'intervento di un assistente capo, intervenuto immediatamente, ha impedito che l'uomo potesse compiere l'insano gesto. Successivamente l'agente, a causa della concitazione e dello sforzo sostenuto, si è sentito male ed è stato trasportato in ospedale per ulteriori accertamenti. Nel pomeriggio dello stesso giorno, per ragioni ancora da chiarire e forse legate a dissidi personali con altri reclusi, un altro ospite della Casa Circondariale ha tentato di autolesionarsi ingerendo del disinfettante per pavimenti. Prontamente soccorso dal personale in servizio, non ha indugiato a scagliarsi con violenza contro chi era accorso per aiutarlo colpendo un assistente che voleva semplicemente impedirgli di ingurgitare la sostanza tossica. Condotto in infermeria per le prime cure del caso, il detenuto ha pensato bene di assalire altri poliziotti. Il bilancio è di due guardie ferite con prognosi che vanno da 4 e 6 giorni. Successivamente il detenuto ha tentato nuovamente e per ben due volte di ingerire detergenti per pavimenti ed è stato necessario condurlo due volte all'ospedale "Rummo" di Benevento dato il suo primo rifiuto delle cure. "Cronache di un caos ampiamente annunciato - tuonano i sindacati - quando in tempi non sospetti, facendoci portavoce del disagio del personale, sollevammo più volte la questione sicurezza manifestando anche pubblicamente in piazza il nostro disappunto chiedendo a gran voce equilibrio tra attività di ogni genere e sicurezza sul lavoro, fummo immediatamente zittiti e tacciati per faziosi, bugiardi se non peggio...e su tutto calò un velo di omertoso silenzio. Casi sporadici ed isolati, fu detto, normali incidenti di percorso, cose che capitano. Come negare oggi l'evidenza? Come non ammettere lo stato delle cose? Ma soprattutto - concludono i sindacati - come non ammettere che un certo eccessivo permissivismo frutto forse di personalistiche visioni ed intendimenti e il crescente senso d'impunità, siano alla base di tanta bieca spavalderia?". Genova: il detenuto picchiato a Marassi denuncia "pestato per una dose di metadone" di Marco Grasso Secolo XIX, 15 giugno 2015 Racconta che a picchiarlo, è stato l'agente Dario Pinchera - ancora in servizio nonostante un arresto nel 2007 per aver sparato a due persone, coinvolte e poi assolte insieme a lui nel lancio di un sasso-killer da un cavalcavia autostradale - infastidito dopo un battibecco per una dose di metadone. Ma mentre questi "infieriva" con un "manganello sottile che gli ho visto altre volte portare attaccato alla cintola", ci sarebbero stati con lui "altri due poliziotti", non identificati fino ad ora, "che mi trattenevano". Non ci sono telecamere nel luogo dell'aggressione. Ecco perché l'inchiesta sul pestaggio nel carcere di Marassi non può che partire da qui, dalla versione della vittima, Ferdinando Boccia, 36 anni e un passato di reati legati al consumo di droga. Il suo racconto, non sempre lineare, è stato affidato alla polizia giudiziaria e ora è al vaglio del pm Giuseppe Longo. È il 12 aprile scorso. Boccia, in terapia psichiatrica e riabilitativa dalla tossicodipendenza, sta aspettando il metadone in cella. Va somministrato a vista. Lui al momento della distribuzione si sta lavando i denti. Chiede gli venga lasciata la pastiglia, non è consentito, e non gli viene consegnata. Si lamenta. Domanda alla guardia Dario Pinchera se è possibile avere la terapia e i due si prendono a male parole. Quindi, il detenuto viene fatto uscire dalla stanza per andare a prendere le pastiglie al piano di sotto. Nel tragitto l'agente lo "aspetta sulle scale" per "dargli una lezione". Le scale che collegano i due piani sono riparate dalla quasi onnipresente videosorveglianza, che dovrebbe rendere Marassi "una casa di vetro": "Mi ha colpito con uno schiaffo, indossava guanti neri. Ha continuato a colpirmi mentre ero a terra e urlavo: "Aiuto, basta!". Perdevo sangue dalla testa. Sono riuscito a scendere le scale e a raggiungere l'infermeria, ma gli agenti mi hanno impedito di farmi soccorrere. C'erano due infermiere che distribuivano metadone, erano molto spaventate, io urlavo. In una stanza ho visto Don Paolo (il cappellano, ndr), con un detenuto, non può non avermi visto. Mi hanno riportato in cella. Poi è venuta un'altra guardia e mi ha detto: "Facciamo finta che non è successo niente"". La prima visita per Boccia arriva solo 48 ore dopo. Ed è emblematico del clima in cui è avvenuto questo episodio il fatto che ad accorgersi delle evidenti ferite al capo, al torace, alle braccia e al dorso, sia la psichiatra Silvia Oldrati, che scrive il giorno stesso ai suoi superiori e al personale medico interno (diretto da Marilena Zaccardi, indagata, prescritta per le sevizie alla caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001), ma viene indagata pure lei. Scattano accertamenti che per quasi due settimane restano "interni", che si interrompono definitivamente il 24 aprile, cioè 12 giorni dopo, quando la notizia arriva in Procura, in una versione decisamente più favorevole alla polizia penitenziaria di quanto non sia quella di Boccia, che nel frattempo è stato trasferito a Pontedecimo e ha ritrattato tutto. Alla Procura arriva notizia di una zuffa tra il detenuto e il secondino. La ricostruzione di Pinchera, a cui vengono sequestrati un manganello estensibile non regolamentare e due bombolette di spray urticante, è diametralmente opposta, e sembra voler accusare lo staff sanitario: "Venni contattato da Boccia - racconta l'agente Pinchera. Mi disse che il medico voleva convincerlo a denunciare qualcosa che non era mai avvenuto". Finiscono indagati cinque medici, per omesso referto, e sei colleghi di Pinchera. "Sono molto amareggiato - dice il direttore del carcere Salvatore Mazzeo - questa vicenda danneggia tutti i nostri sforzi. Chi ha sbagliato deve pagare". "Premesso che nessuno è colpevole fino a condanna definitiva, eventuali responsabili vanno cacciati - dichiara il sindacato Sappe. Questi comportamenti non appartengono al dna della polizia penitenziaria". Milano: in cella da 25 giorni per l'attacco al Bardo, ma la Tunisia non ha inviato le prove di Paolo Colonnello La Stampa, 15 giugno 2015 Con oggi, sono esattamente 25 giorni che il ventiduenne Touil Abdel Maijd si trova in carcere con l'accusa di aver partecipato il 18 marzo scorso al massacro terroristico al Museo del Bardo di Tunisi in cui persero la vita 24 persone, tra cui 4 italiani. Nonostante la gravità delle accuse - si va dal terrorismo internazionale, al pluri-omicidio, al sequestro di persona - dalle autorità tunisine che ne avevano chiesto l'arresto finora tutto tace. Nel senso che le carte attese a sostegno della richiesta di estradizione del giovane marocchino con il racconto dei fatti che sostanzino le accuse, non sono ancora arrivate al ministero degli Esteri italiano, il quale le dovrà poi tradurre e inoltrare alla Corte d'Appello di Milano. A Tunisi rimangono altri 19 giorni di tempo per far sapere come intendono inchiodare il marocchino. Posto che i nostri inquirenti hanno accertato senza ombra di dubbio che Touil il giorno dell'attacco al Bardo nonché i giorni precedenti e quelli successivi, si trovava in quel di Gaggiano, paesino agricolo alle porte di Milano, lungo il Naviglio Grande, il suo avvocato Silvia Fiorentino ha deciso nei giorni scorsi di presentare un'istanza di scarcerazione chiedendo o la misura alternativa dell'obbligo di soggiorno a Gaggiano oppure quella, più afflittiva, degli arresti domiciliari. Che sarebbero comunque meglio della cella di massima sicurezza in cui Touil è rinchiuso da tre settimane e dove, pur non essendo in isolamento, vive da isolato non parlando quasi una parola d'italiano. Soffre di bassa pressione e dunque ha bisogno di cure. "Ma soprattutto d'affetto", dice sua mamma Fatma che dalla casa di via Pitagora a Gaggiano si è sempre battuta, come è ovvio per l'innocenza del figlio che, sostiene, "è completamente estraneo all'idea stessa di terrorismo". Madre e fratello hanno il permesso di incontrare il giovane e spaesato Touil una volta alla settimana, possibilità che finora ha sfruttato però solo la donna. Finora, ragiona l'avvocato Fiorentino, "disponiamo di un mandato di cattura che è estremamente lontano dai nostri standard accusatori: ci sono solo capi d'imputazione ma nessuna indicazione concreta sul reato e su quando sarebbe stato commesso". Toulil infatti, dopo una prima accusa che lo voleva nel commando di assaltatori del museo, è stato descritto dalle autorità tunisine come un componente "logistico" del gruppo terroristico legato all'Isis, si sarebbe occupato cioè di trasportare le armi dalla Libia a Tunisi servite per la strage. Circostanza che, nell'unico interrogatorio di "identificazione" cui è stato sottoposto, Touil ha smentito in lacrime sostenendo di essere completamente estraneo a questa storia e di aver attraversato il Mediterraneo su un barcone come altre migliaia di poveracci per ricongiungersi con i famigliari. Sul futuro prossimo di Touil, cioè se lasciarlo in un reparto di massima sicurezza nel carcere di Opera oppure concedergli un ritorno a casa in attesa delle carte da Tunisi, deciderà oggi la quinta Corte d'Appello, la stessa competente per un'estradizione che rimane allo stato un'ipotesi di scuola, visto che in Tunisia vige formalmente la pena di morte che, sebbene non applicata dall'attuale presidente, rende incompatibile il trasferimento di un detenuto in Italia in quel paese, anche se accusato di crimini orrendi come una strage terroristica. Tutta questa storia rimane comunque ancora un mistero. Nello scarno fascicolo giudiziario di Touil, l'unico vero punto da capire è quello della scomparsa del suo passaporto, denunciata l'aprile scorso da sua madre presso la stazione dei carabinieri di Trezzano sul Naviglio. Circostanza che ha permesso agli investigatori di rintracciare il ragazzo a colpo sicuro e che al tempo stesso depone a favore di Touil, dato che normalmente i terroristi non si rivolgono ai carabinieri per denunciare lo smarrimento di documenti con il loro vero nome. Roma: nel carcere di Regina Coeli uno sportello consulenza legale curato dall'università di Marzia Paolucci Italia Oggi, 15 giugno 2015 Assistenza in esecuzione penale, diritto penitenziario e dell'immigrazione: è quanto garantisce da circa tre mesi lo sportello di consulenza legale aperto nel carcere romano maschile di Regina Coeli. Inaugurato il 18 febbraio scorso dal Dipartimento di giurisprudenza di Roma tre con l'Associazione Antigone e l'Asgi - Associazione studi giuridici immigrazione, "Diritti in carcere" non è un comune sportello di assistenza legale ma parte dell'insegnamento di Clinica legale penitenziaria gestito dal professore Marco Ruotolo con Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l'Associazione che da oltre vent'anni si batte per migliorare il sistema dell'esecuzione penale. La tipicità sta infatti in un'assistenza e consulenza legale gratuite ai detenuti fornita da laureandi e laureati, dottori di ricerca in materie giuridiche e avvocati specializzati in diritto penale e dell'immigrazione, ai quali è affidato il ruolo di tutor consistente nell'affiancamento degli studenti iscritti al corso "Prison Law Clinic". Per i titolari della cattedra, Ruotolo e Gonnella, "si tratta di un'esperienza importantissima da più punti di vista, infatti da un lato è una straordinaria occasione formativa per gli studenti, dall'altra assicura sostegno legale su materie molto specifiche a tanti detenuti privi di risorse economiche". Un sistema, quello delle law clinics, diffuso nelle università americane fin dagli anni 70, celebre in questo senso il cosiddetto Modello Harvard che ne ha fatto uno strumento di accesso alla giustizia in termini di assistenza legale per i non abbienti. Serve allo studente che finalmente si misura in casi pratici e serve alla creazione di un nuovo modello di giustizia sociale visto che le cliniche legali sono dedicate a fasce di estrazione medio bassa della popolazione che non potrebbero mai permettersi i costi di assistenza del mercato tradizionale in determinati ambiti come diritto di famiglia, diritto dei migranti, locazioni e diritto penitenziario. Tre i modelli conosciuti: quello più diffuso che vede gli studenti impegnati nel lavoro dell'avvocato a tutto tondo che con la supervisione di professori e avvocati, incontrano il cliente, fanno ricerca giuridica, scrivono gli atti e rappresentano le parti dinanzi al giudice in cause reali a tutti gli effetti. Questa attività può trovare la sua sede nell'università, e in questo caso avremo le field-work clinics o in-house clinics, oppure, in base ad un diverso assetto, gli studenti svolgono la pratica presso uno studio legale o un'istituzione esterna alla law school, e allora si parla di field placement clinics. Ed è questo il caso dello sportello attivato in carcere a Rebibbia dall'Università di Roma Tre con Antigone. Il terzo modello si distacca dai primi due, rispetto ai quali è assolutamente minoritario visto che in questo caso si ricorre alle simulazioni con studenti che lavorano su casi fittizi. Le questioni con cui lo Sportello si è dovuto confrontare con maggiore frequenza riguardano il diritto dell'immigrazione, è il caso di concessione e/o rinnovo del permesso di soggiorno, richieste di asilo politico e diritto alla salute inteso come accesso alle cure o accertamento dell'incompatibilità con il regime carcerario, trasferimenti in altre strutture, colloqui con i familiari e assistenza per istanze di vario genere: espulsione come misura alternativa alla detenzione, applicazione della disciplina della continuazione del reato, identificazione, rilascio o rinnovo dei documenti di identità. Tra i casi presi in carico quello di un detenuto italiano che vive con la bombola d'ossigeno ed è in gravi condizioni di salute, motivi per cui è stata chiesta la sospensione del provvedimento di estradizione per una pena di quattro anni da scontare in Albania per reati di traffico di veicoli e falso documentale. Nell'ambito della sua attività, lo sportello ha potuto instaurare rapporti con le ambasciate, i consolati esteri, l'amministrazione penitenziaria e le diverse professionalità operanti all'interno della casa circondariale. Al 31 dicembre del 2014, nel carcere romano di Regina Coeli vi erano 813 detenuti di cui 499 stranieri. I posti letto regolamentari erano 642. Questi i grandi numeri del carcere; per quanto concerne, invece, quelli del progetto, Maria Grazia Carnevale, avvocato e coordinatrice del progetto, snocciola a Italia Oggi Sette, i primi risultati dell'insegnamento pilota appena attivato a Roma 3: "A tre mesi dall'avvio, secondo un primo bilancio, ben 50 tra studenti e tutors hanno assicurato assistenza legale incontrando circa 150 detenuti. Un terzo dei casi è ancora in via di trattamento". Ferrara: se il colloquio tra i detenuti e i loro bambini diventa un momento di gioco sestopotere.com, 15 giugno 2015 Terza tappa, carcere di Ferrara, del "Il giro: storie, volti, immagini del welfare in Emilia-Romagna" della vicepresidente e assessore alle Politiche di welfare della Regione, Elisabetta Gualmini. Un percorso che si traduce in un diario pubblicato sul web, con una documentazione fatta di video, interviste, foto, materiali di lavoro e di studio. L'obiettivo del "Giro" è raccontare le buone pratiche e le criticità esistenti sul territorio, incontrarne i protagonisti, scambiare impressioni e pareri e, infine, far conoscere quello che fa la Regione quando programma e pianifica interventi che incidono direttamente sulle routine quotidiane dei cittadini. "Sono stata molto colpita dall'esperienza realizzata dal carcere di Ferrara. È certamente un passo in avanti per migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le loro famiglie - ha dichiarato Elisabetta Gualmini, vicepresidente della Regione Emilia-Romagna e assessore al Welfare e alle Politiche abitative - i bambini non hanno colpe e non possono vivere doppiamente il dramma di quanto capitato nelle loro famiglie vedendosi anche negare il diritto all'affetto del proprio genitore, anche se ha sbagliato". La visita all'istituto penitenziario di Ferrara è servita per conoscere meglio l'iniziativa "I sabati delle famiglie", partita da un paio di mesi con lo scopo di sollecitare una maggiore attenzione ai figli delle persone detenute e sostenere i più piccoli in un'esperienza traumatica come la carcerazione di un genitore, rendere più sopportabili le difficoltà dovute alla lontananza e superare il problema dei colloqui senza alcuna intimità. Nel carcere di Ferrara sono state perciò allestite alcune sale arredate grazie alla donazione di mobili e giochi da parte di Ikea e di uno spazio all'esterno con gazebo, tappeto erboso, piante fiorite e tavolini per gli incontri durante la bella stagione. "Questi spazi colorati, moderni, puliti, pur in un luogo difficile come un istituto penitenziario - prosegue Gualmini - potranno contribuire a rendere più piacevoli gli incontri e a eliminare precedenti situazioni traumatiche dovute a modalità, ambienti, atteggiamenti, tempi non adatti ad accogliere bambini". La particolarità che distingue questa iniziative da altre, come ad esempio "Lo spazio giallo" (progetto che dal 2007 pratica quotidianamente nelle tre carceri milanesi un modello di sistema di accoglienza dei bambini e che ha l'obiettivo di accogliere, accompagnare e affiancare il bambino che entra in carcere per incontrare uno dei genitori), è l'impegno diretto dei volontari e di un servizio comunale come il Centro per le famiglie, animatore del progetto e già impegnato sul tema della genitorialità in carcere con il ciclo di incontri "Comunque papà" ai quali partecipano alcuni detenuti con figli minorenni, volontari, pedagogisti e educatori. Queste iniziative si ispirano alla "La Carta dei figli dei genitori detenuti, Protocollo d'Intesa siglato il 21 marzo 2014, per la prima volta in Europa e in Italia, tra il Ministro della giustizia, il Garante per l'infanzia e l'adolescenza e la Presidente dell'Associazione Bambinisenzasbarre Onlus per tutelare i diritti dei 100.000 bambini e adolescenti che ogni giorno entrano nelle carceri italiane. A fare gli onori di casa il direttore della casa circondariale Paolo Malato, che ha sottolineato come il recupero della genitorialità in carcere sia importante per la vita detentiva e quanto le persone che stanno espiando una pena in carcere vivano in funzione di questi colloqui. Milano: sport nel carcere di San Vittore, tutti in campo con la Fondazione Cannavò di Claudio Lenzi La Gazzetta dello Sport, 15 giugno 2015 Circa 500 detenuti coinvolti nell'open day del carcere e della Onlus che porta il nome dello storico direttore Gazzetta. Calcio, calcetto, pallavolo, corsa, ping pong, bocce, palestra e ginnastica le attività proposte sotto gli occhi dei campioni. Lo sport come apertura, lo sport come libertà, lo sport come integrazione. Tre concetti vitali per la nostra società, anche se poi il senso più vero e profondo si coglie entrando in un carcere controverso come San Vittore, a Milano, con circa mille detenuti, molti giovani, moltissimi stranieri. È a loro che la Fondazione Candido Cannavò ha pensato quando ha deciso di portare lo sport dietro le sbarre nel primo "open day" della casa circondariale dedicato all'attività fisica. Un messaggio fortissimo e diretto che nemmeno la forte pioggia ha potuto attenuare. Apertura, dicevamo: dentro la casa circondariale, per un giorno, c'è Billy Costacurta che dà il calcio d'inizio, la capitana della Nazionale femminile Melania Gabbiadini e Gennaro Gattuso che premiano, i consiglieri di Regione Lombardia che giocano, i giornalisti che scrivono, filmano e fotografano tutto, o quasi. Il quadrangolare di calcetto che assegna la coppa Cannavò e la "maratona" (1,25 chilometri da ripetere 8 volte) si svolgono all'esterno nonostante il diluvio, per trovare le altre attività sportive, invece, si entra nella pancia della struttura: area femminile, centro clinico, III e V e raggio. Libertà, dicevamo. Le celle sono aperte, detenuti e polizia penitenziaria si mescolano nei tornei e nelle palestre, una giornata impegnativa in termini di attenzioni e sicurezza, ma appagante più di molte altre. Ci sono gli arbitri del Csi a far rispettare le regole, ma più di tutto prevale la voglia di divertirsi e poco male se la partita finisce perché anche l'ultimo pallone è passato di là dal muro, nel cantiere. Già, San Vittore resta fatiscente e inadeguato in alcune sue parti, ma lo sport porta colore, spazi aperti, evasioni di poche ore dal trattamento penitenziario. La Fondazione, invece, dal 2012 porta progetti raccogliendo quell'attenzione verso le carceri che per Candido Cannavò è sempre stata prioritaria. In particolare, nell'arco del 2015, ci saranno interventi di formazione con due corsi fitness, interventi strutturali per il rifacimento e riallestimento di 6 mini palestre situate nei diversi raggi, e interventi sanitari con la fornitura di kit igienici per la prima accoglienza che la struttura non è più in grado di garantire dopo gli ulteriori tagli riservati alla casa circondariale. Integrazione, dicevamo. San Vittore è un carcere giudiziario che ospita detenuti in attesa di giudizio. Ogni giorno, qui, arrivano tutti gli arrestati sul territorio di Milano e della provincia, come se fosse una grande stazione internazionale dalla quale prima o poi si riparte. Per capire, oltre il 60% dei detenuti è straniero. Cosa può fare lo sport in tutto questo? Unire, con il suo linguaggio universale (l'open day ha coinvolto attivamente circa 500 reclusi), ma anche distinguere, come hanno spiegato bene i detenuti vincitori della Coppa Cannavò: "Perché per un giorno non siamo stati un numero, ma persone". Milano: all'Idroscalo inaugurato nuovo campo di rugby con un torneo dei detenuti milanopost.info, 15 giugno 2015 Il Rugby è la più grande novità dell'estate 2015 all'Idroscalo. Nell'area di 17.000 mq vicina alla Villetta e data in concessione da Città metropolitana di Milano a seguito di un bando di gara, l'Associazione sportiva Rugby Milano ha trovato il suo campo e la sua casa e li ha inaugurati ieri alla presenza del sindaco metropolitano, Giuliano Pisapia. Ad aprire i festeggiamenti presso il nuovo Centro Sportivo G.B. Curioni gli allenamenti dei piccoli atleti del minirugby, oltre un centinaio di bambini dai 4 ai 12 anni. Nel pomeriggio si sono svolti il torneo dei "Barbari", la squadra creata da Rugby Milano nel carcere di Bollate e la premiazione dei Cadetti che hanno vinto il campionato di serie C. Ambasciatori della giornata i giocatori della la Prima Squadra dei Seniores in serie A e i campioni della nazionale Luca Morisi e Simone Ragusi. L'Associazione Rugby Milano, che ha oltre 500 tesserati, ha realizzato un campo regolamentare in sintetico dove allenarsi e giocare, il bar ristorante "La Bislunga Bistrot", una palestra, spazi per il training, campi da calcetto, una sala studio/biblioteca e tanto verde. Il Rugby è uno sport sempre più diffuso e ricercato dai giovani e dai loro genitori, perché consente di scaricare l'esuberanza in un sistema di regole condivise e riconosciute, tutelando comunque l'agonismo e la competizione. La Città metropolitana di Milano ha scelto di puntare su questa disciplina, aggiungendo così un importante tassello sia sportivo che sociale. L'Associazione Rugby Milano, infatti, affianca alla competizione sportiva anche una serie di progetti sociali destinati ai ragazzi e alla rieducazione dei detenuti del Carcere di Bollate che giocano nella squadra dei "Barbari" e dell'Istituto di pena minorile Beccaria. Il nuovo campo da rugby si inserisce nell'ambito degli interventi di rivalorizzazione di Idroscalo che, in questi ultimi anni, ha rafforzato la sua identità di luogo del tempo libero, delle famiglie, del relax e dello sport, trasformandosi in un luogo pulito, sicuro, divertente e capace di attrarre oltre un milione e mezzo di visitatori l'anno. Il progetto è stato realizzato dall'Associazione Rugby Milano con la Direzione Idroscalo che, in questi anni, ha gestito il Parco con una forte collaborazione tra pubblico, privato e terzo settore. È questa apertura dell'Ente a diversi soggetti che ha permesso di continuare a garantire servizi di qualità alle famiglie e agli sportivi che frequentano Idroscalo. Ferrara: la boxe entra in carcere; uno show riuscito, a bordo ring 100 spettatori di Corrado Magnoni La Nuova Ferrara, 15 giugno 2015 Venerdì sera prima storica riunione nella Casa circondariale di Ferrara. La Padana ha fatto centro e a bordo ring anche 100 spettatori entusiasti. "Sono contento, tutto è andato nei migliore dei modi: ospiti, autorità, polizia penitenziaria... Tutti soddisfatti. Detenuti esemplari nel tifo da stadio che ha accompagnato tutti i ragazzi, atleti che si sono battuti al massimo delle loro possibilità; Neo Pro entusiasmanti, vincitori e vinti uniti da un solo entusiasmante applauso" si leggeva ieri mattina sul profilo Facebook di Massimiliano "Momo" Duran. Venerdì sera è andata in scena la prima storica riunione in Italia in una Casa Circondariale. "Il primo appuntamento in assoluto di questo genere in Italia. Speriamo di dare un segnale forte" ha aggiunto il fratello Alessandro Duran. I due fratelli della boxe ferrarese hanno dato fondo alle proprie energie per realizzare un evento ripreso da Ansa come lancio di agenzia nazionale e dalle telecamere di Rai Tre per la differita che verrà trasmessa prossimamente. L'evento, organizzato dalla Pugilistica Padana per i detenuti nel carcere ferrarese, ha visto una partecipazione a bordo ring di circa 100 ragazzi. Tanto tifo per i pugili di casa, tra questi i due neo pro Marco Iuculano e Mattia Musacchi che hanno riportato vittorie importanti. Musacchi, in particolare, è andato giù durante il suo incontro e poi ha vinto ai punti alla quarta ripresa contro Canossi. Anche per Marco Iuculano non è stato un match facile contro Cappella. Il pugile da Castelfidardo, pur avendo resistito per tutto il match rispondendo ai colpi del ferrarese e limitandolo nelle controffensive, si è arreso ai punti. Presenti a bordo ring anche il prefetto Michele Tortora, l'assessore Simone Merli, il direttore del carcere Paolo Malato, oltre ai pugili professionisti Damian Bruzzese, campione italiano, Simona Galassi (che il 26 giugno darà l'assalto al mondiale) e Alessandro Caccia (impegnato il 4 luglio per l'italiano). Negli altri incontri, Valentina Leardini ha battuto ai punti la nostra Elisa Iuculano, mentre Kevin Guarnelli, bolognese allenato dal nostro Mattia Frignani, ha battuto a sorpresa Giacomo Latini. Racconto: "La badante" di Fausto Cerulli Ristretti Orizzonti, 15 giugno 2015 L'avvocato, in una grigia stanza del carcere, stava parlando con il suo assistito. Un giovane dal viso dolce, triste e rassegnato come succede agli innocenti veri. Quelle visite erano una specie di opera di misericordia, dar da bere agli assetati, visitare i carcerati. E si capiva che quel giovane aveva bisogno di parlare, di sfogarsi, di raccontare la sua vita di prima per far capire che era stata una vita giusta. E l'avvocato gli credeva, lo ascoltava come si ascolta un amico, qualche volta gli veniva in mente di sfogarsi con lui per la sua vita grama di avvocato. Succede, anche se è raro, che si crei questa specie di confidenza quasi complice; e succede soprattutto quando il detenuto è innocente, e l'avvocato lo sa. In fin dei conti i detenuti e gli avvocati sono entrambi prigionieri della legge; il detenuto perché la legge lo ferisce spesso a torto, l'avvocato perché odia quella legge fatta di pressappoco, di latinismi, di formule sacramentali: e il detenuto e l'avvocato odiano quella legge, perché tutti e due la debbono subire. L'avvocato stava pensando a questo, quando una guardia venne ad annunciare al detenuto che l'aspettava qualche parente per un colloquio. L'avvocato si affrettò a salutare il suo cliente, non voleva rubargli neppure un minuto del colloquio. Quei colloqui tristissimi, che si svolgono in una stanza disadorna, un tavolo e due sedie; e una guardia che controlla, magari blandamente, ma controlla. Quando fu giunto nell'atrio del carcere, l'avvocato si rivolse ad un gruppo di persone che attendevano di essere ammesse a colloquio con i parenti detenuti: e chiese chi fosse il parente del sig. Rossi, chiamiamolo così il detenuto. Gli rispose una donna molto bella, bionda e dalle gambe senza fine. Sono io, disse, sono la convivente. Non era italiana, disse all'avvocato quando capì che era l'avvocato del suo uomo. E aggiunse, per evitare che l'avvocato bussasse a cassa, che non aveva soldi, faceva la badante. E poi si tolse dal volto la maschera della sicurezza e pianse, pianse molto. Lagrime che le sfacevano il trucco, ma facevano più brillante il blu dei suoi occhi. Che brutto posto, diceva nel suo pianto; che brutto posto il carcere. E aveva visto appena l'anticamera. L'avvocato le disse di farsi coraggio, che il suo compagno sarebbe uscito presto: e che volete che dica un avvocato a un parente angosciato? Una menzogna come un'altra, una bugia pietosa. Poi si aprì con rumore di ferro il cancello che portava all'interno del carcere; e la donna fu fatta entrare; ma prima di entrare girò il volto verso l'avvocato, si asciugò le lagrime, abbozzò un sorriso quasi infantile, e in fondo disperato. L'avvocato, preso da un sentimento strano, decise di sedersi su una panca e di attendere che la donna, terminato il colloquio, uscisse dal cancello. E intanto pensava alle carceri spagnole, dove il detenuto ha diritto di trattenersi con la sua compagna in una stanza decente, con un letto e un lavabo, e di scambiarsi effusioni, anche sessuali. E si trovò a pensare al suo assistito che faceva l'amore con la sua compagna, un amplesso cronometrato ma pur sempre un amplesso. Invece il suo assistito avrebbe avuto il permesso di toccare soltanto le mani alla sua donna, di sussurrarle parole dolci, ma molto sottovoce, per via della guardia che controllava, blandamente, ma controllava. E poi avrebbero potuto baciarsi sulle guance, come si fa alla stazione quando uno parte e l'altro resta. La donna fu sorpresa di trovare l'avvocato nell'atrio; lei pensava che gli avvocati hanno tanto da fare, e non si riposano mai, e corrono sempre dietro ai soldi e i soldi corrono dietro e davanti a loro. Invece quell'avvocato se ne stava tranquillo su una panca: e lei, con la malizia buona delle donne quando sono maliziose soltanto perché sono donne, capì che l'avvocato stava aspettando lei. L'incontro con il suo compagno doveva essere stato straziante, come tutti gli incontri che finiscono presto, troppo presto. L'avvocato le chiese gentilmente se poteva offrirle un caffè: lei accettò sena riserve, sentiva che quell' avvocato non aveva cattive intenzioni. Andarono in un bar del centro, si sedettero, lei chiese se poteva prendere un succo d'arancia, molto rosso. Lui ordinò il solito caffè, era il quarto di quella mattina: e la cameriera aggiunse al caffè una spruzzata di cacao. Conosceva quel gusto strano dell' avvocato. Poi parlarono a lungo del detenuto, lei voleva sapere quanto tempo sarebbe rimasto ancora in quel carcere: e l'avvocato, mentendo, disse che era questione di giorni. Al diavolo chi dice che il medico pietoso fa la piaga dolorosa: le piaghe sono tutte dolorose e un poco di pietà serve a lenire per qualche ora un tormento. La donna disse che era venuta in autobus dalla città grande, e che doveva aspettare tre ore prima che ripartisse l'autobus per tornare a casa. L'avvocato non se la sentì di lasciarla sola; e non perché era una donna bella, e triste, e molto innamorata del detenuto che adesso dalla cella del carcere pensava a lei. E forse piangeva come un bambino rimasto solo al buio. Allora l'avvocato decise di improvvisarsi cicerone, di farle conoscere la cittadina: e la portò a vedere la Cattedrale, e poi i Palazzi. E cercava di divertirla, di raccontarle episodi giocosi, di inventarle storie allegre. E riuscì quasi a distrarla, a farla sorridere. Furono in molti a notare l'avvocato con quella bella donna, e a farci sopra commenti salaci. Li videro addentrarsi nel quartiere medievale, quasi allegri. La mattina successiva, all'alba, trovarono i loro cadaveri ai piedi della Rupe. Dall'autopsia risultò che la donna aveva accoltellato a morte l'avvocato. Poi si era gettata nel vuoto trascinando con sé il corpo dell'avvocato, già morto. Bauman: siamo ostaggi del nostro benessere, per questo i migranti ci fanno paura di Wlodeck Goldkorn La Repubblica, 15 giugno 2015 "Anche se il prezzo dei sacrifici che pagheremo sarà molto alto, la solidarietà è l'unica strada per arginare futuri disastri". Zygmunt Bauman, oggi uno dei pensatori più influenti del mondo, è stato più volte esule. La prima volta, quando nel 1939, giovane ebreo, scappò dalla Polonia verso la Russia, in condizioni simili a quelle dei profughi che, scampati alle guerre e alla traversata del Mediterraneo, sono in questo momento oggetto più delle nostre paure che di nostra solidarietà. E la dialettica dell'integrazione ed espulsione dei gruppi sociali ai tempi della modernità è uno dei temi che più ha approfondito nelle sue opere. Con Bauman abbiamo parlato di quello che intorno alla questione profughi succede in questi giorni in Italia; tra una destra razzista e una sinistra che stenta ad affrontare le paure di una parte della popolazione. Sembra che non siamo in grado di far fronte alla questione immigrati… "Il volume e la velocità dell'attuale ondata migratoria è una novità e un fenomeno senza precedenti. Non c'è motivo di stupirsi che abbia trovato i politici e i cittadini impreparati: materialmente e spiritualmente. La vista migliaia di persone sradicate accampate alle stazioni provoca uno shock morale e una sensazione di allarme e angoscia, come sempre accade nelle situazioni in cui abbiamo l'impressione che "le cose sfuggono al nostro controllo". Ma a guardare bene i modelli sociali e politici con cui si risponde abitualmente alle situazioni di "crisi", nell'attuale "emergenza immigrati", ci sono poche novità. Fin dall'inizio della modernità fuggiaschi dalla brutalità delle guerre e dei dispotismi, dalla vita senza speranza, hanno bussato alle nostre porte. Per la gente da qua della porta, queste persone sono sempre state "estranei", "altri". Quindi ne abbiamo paura. Per quale motivo? "Perché sembrano spaventosamente imprevedibili nei loro comportamenti, a differenza delle persone con cui abbiamo a che fare nella nostra quotidianità e da cui sappiamo cosa aspettarci. Gli stranieri potrebbero distruggere le cose che ci piacciono e mettere a repentaglio i nostri modi di vita. Degli stranieri sappiamo troppo poco per essere in grado di leggere i loro modi di comportarsi, di indovinare quali sono le loro intenzioni e cosa faranno domani. La nostra ignoranza su che cosa fare in una situazione che non controlliamo è il maggior motivo della nostra paura". La paura porta a creare capri espiatori? E per questo che si parla degli immigrati come portatori di malattie? E le malattie sono metafore del nostro disagio sociale? "In tempi di accentuata mancanza di certezze esistenziali, della crescente precarizzazione, in un mondo in preda alla deregulation, i nuovi immigrati sono percepiti come messaggeri di cattive notizie. Ci ricordano quanto avremmo preferito rimuovere: ci rendono presente quanto forze potenti, globali, distanti di cui abbiamo sentito parlare, ma che rimangono per noi ineffabili, quanto queste forze misteriose, siano in grado di determinare le nostre vite, senza curarsi e anzi e ignorando le nostre autonome scelte. Ora, i nuovi nomadi, gli immigrati, vittime collaterali di queste forze, per una sorta di logica perversa finiscono per essere percepiti invece come le avanguardie di un esercito ostile, truppe al servizio delle forze misteriose appunto, che sta piantando le tende in mezzo a noi. Gli immigrati ci ricordano in un modo irritante, quanto sia fragile il nostro benessere, guadagnato, ci sembra, con un duro lavoro. E per rispondere alla questione del capro espiatorio: è un'abitudine, un uso umano, troppo umano, accusare e punire il messaggero per il duro e odioso messaggio di cui è il portatore. Deviamo la nostra rabbia nei confronti delle elusive e distanti forze di globalizzazione verso soggetti, per così dire "vicari", verso gli immigrati, appunto". Sta parlando del meccanismo grazie a cui crescono i consensi delle forze politiche razziste e xenofobe? "Ci sono partiti abituati a trarre il loro capitale di voti opponendosi alla "redistribuzione delle difficoltà" (o dei vantaggi), e cioè rifiutandosi di condividere il benessere dei loro elettori con la parte meno fortunata della nazionale, del paese, del continente (per esempio Lega Nord). Si tratta di una tendenza intravvista o meglio, preannunciata molto tempo fa nel film Napoletani a Milano, del 1953, di Eduardo De Filippo, e manifestata negli ultimi anni con il rifiuto di condividere il benessere dei lombardi con le parti meno fortunate del paese. Alla luce di questa tradizione era del tutto prevedibile l'appello di Matteo Salvini e di Roberto Maroni ai sindaci della Lega di seguire le indicazioni del loro partito e non accettare gli immigrati nelle loro città, come era prevedibile la richiesta di Luca Zaia di espellere i nuovi arrivati dalla regione Veneto". Una volta, in Europa, era la sinistra a integrare gli immigrati, attraverso le organizzazioni sul territorio, sindacati, lavoro politico… "Intanto non ci sono più quartieri degli operai, mancano le istituzioni e le forme di aggregazione dei lavoratori. Ma soprattutto, la sinistra, o l'erede ufficiale di quella che era la sinistra, nel suo programma, ammicca alla destra con una promessa: faremo quello che fate voi, ma meglio. Tutte queste reazioni sono lontane dalle cause vere della tragedia cui siamo testimoni. Sto parlando infatti di una retorica che non ci aiuta a evitare di inabissarci sempre più profondamente nelle torbide acque dell'indifferenza e della mancanza dell'umanità. Tutto questo è il contrario all'imperativo kantiano di non fare ad altro ciò che non vogliamo sia fatto a noi". E allora che fare? "Siamo chiamati a unire e non dividere. Qualunque sia il prezzo della solidarietà con le vittime collaterali e dirette della forze della globalizzazione che regnano secondo il principio Divide et Impera, qualunque sia il prezzo dei sacrifici che dovremo pagare nell'immediato, a lungo termine, la solidarietà rimane l'unica via possibile per dare una forma realistica alla speranza di arginare futuri disastri e di non peggiorare la catastrofe in corso". Profughi, cresce la tensione con la Francia Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 15 giugno 2015 Alfano domani incontra gli altri ministri europei: equa distribuzione e rimpatri, o vedranno un'Italia diversa Per il Viminale, la polizia d'Oltralpe ha violato il trattato di Schengen. La replica: controlliamo gli irregolari. Scena di ieri: tra i profughi della Stazione Tiburtina, a Roma, alcuni ragazzi eritrei riescono a collegarsi via cellulare con dei loro connazionali ancora in Libia e pronti a salpare verso le nostre coste. Arrivano testimonianze drammatiche: "Il mare è calmo, qui ci sono almeno diecimila persone in fila, siamo quasi tutti eritrei e aspettiamo di essere imbarcati, dobbiamo scappare sennò i libici ci ammazzano". Vuol dire che la situazione, già critica, rischia di peggiorare nelle prossime ore per i nuovi sbarchi. Il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, lo sa e annuncia: "Martedì (domani, ndr ) sarò in Lussemburgo con gli altri ministri dell'Interno e dirò con chiarezza: o facciamo l'equa distribuzione dei migranti in Europa, o organizziamo i campi profughi in Libia, o organizziamo una seria politica dei rimpatri". Il cruccio maggiore è la Libia: "La comunità internazionale ha bombardato la Libia - dice Alfano -. Tutti quelli che scappano da lì arrivano da noi: quindi o la comunità si fa carico di risolvere il problema e monta lì le tende e organizza lì lo screening tra chi ha diritto all'asilo e chi no, oppure non può scaricare su di noi questo peso" e "se l'Europa non darà seguito alla propria responsabilità e solidarietà, si troverà di fronte un'Italia diversa". Per esempio, le frontiere chiuse dalla Francia a Ventimiglia per non far passare i migranti hanno già provocato grande irritazione al Viminale, che ci vede una chiara violazione del trattato di Schengen. Alfano è durissimo: "Le scene di Ventimiglia sono l'antipasto di quanto succederebbe se si chiudesse Schengen". La situazione, si spera, dovrebbe migliorare già oggi, quando la Germania, che aveva sospeso Schengen per il G7 in Baviera, consentirà di nuovo libero accesso alle sue frontiere. Dalla Francia, però, arriva una netta precisazione: "Il confine italo-francese non è mai stato chiuso, Schengen non è mai stato sospeso - ha dichiarato un alto responsabile della prefettura delle Alpes-Maritimes. L'unica eccezione risale a ieri (sabato, ndr) per un'ora o due, sulla strada tra Ventimiglia e Mentone, dove la circolazione è stata interrotta su richiesta della stessa polizia italiana, nel momento in cui ha lanciato le operazioni di sgombero dei migranti. Ma chiunque abbia il diritto di circolare nello spazio Schengen può continuare a farlo liberamente". Per quanto riguarda, invece, il controllo e il riaccompagnamento alla frontiera italiana "degli stranieri in situazione irregolare", essi continuano sulla base "degli accordi franco-italiani di Chambéry". Infine, il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, lancia un segnale di distensione al governo: "Renzi ha detto che vuole vedermi, ne sono contento. Non sono contro a prescindere, a condizione che ci sia un'equa distribuzione dei migranti tra le Regioni e il governo fermi i flussi". D'accordo anche sulla Libia: "Il governo deve chiedere la convocazione immediata del Consiglio di Sicurezza dell'Onu - prosegue Maroni - e invocare l'intervento dei caschi blu affinché si facciano lì i campi profughi e si creino dei corridoi umanitari per chi ha i requisiti di profugo. Questa è l'unica soluzione. Fare i campi in Libia, fermare le partenze, salvare vite umane ed evitare un'invasione per l'Italia". Permessi a tempo e stretta sulle navi, cosa prevede il "piano B" di Renzi Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 15 giugno 2015 Chi soccorre i migranti dovrà portarli nel proprio Paese. Charter per i rimpatri in Africa. Permessi temporanei ai richiedenti asilo per consentire loro di varcare la frontiera e circolare in Europa. Avvio di una trattativa con alcuni Stati dell'Unione per un'operazione di polizia contro gli scafisti in Libia provando anche a coinvolgere l'Egitto. Obbligo per le navi straniere che soccorrono i migranti in acque internazionali di trasferirli nei propri Paesi, vietando l'attracco nei nostri porti. Quello che il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha definito nell'intervista di ieri al Corriere della Sera "il "piano B" se l'Europa non sceglierà la strada della solidarietà", è in realtà un ventaglio di possibili interventi, qualora l'Italia non ottenesse cooperazione effettiva da parte della Ue nella gestione dei migranti. Azioni dure di diplomazia internazionale da affiancare agli interventi tecnici già pianificati per fronteggiare l'emergenza negli scali ferroviari e ai valichi, causata dalla decisione della Germania di sospendere Schengen per il G7 e della Francia di bloccare la "porta" di Ventimiglia. Ma anche in vista di possibili nuovi sbarchi nei prossimi giorni. Palazzo Chigi esclude "atteggiamenti ritorsivi" su altri dossier come era stato ipotizzato riferendosi alle sanzioni contro la Russia di Putin. Ma all'attività già avviata per siglare accordi di polizia con Paesi africani e Bangladesh e ottenere rimpatri veloci e per allestire subito i centri di smistamento dove sistemare i profughi, si affianca un negoziato più riservato che si spera possa essere più efficace. I charter Se la Francia continuerà a tenere il valico chiuso, l'ipotesi è quella di concedere i permessi provvisori d'identità anche consentendo il transito su altre rotte. Più strutturata invece l'azione dei funzionari che si muoveranno sul modello dell'intesa siglata con il Gambia due settimane fa dal capo della polizia Alessandro Pansa. Prevede la concessione di mezzi e apparecchiature (fuoristrada, computer), l'organizzazione di corsi di formazione per le forze dell'ordine locali in cambio dei rimpatri effettuati con i voli charter e con procedura d'urgenza. Gia pronta la lista dei Paesi con i quali avviare i negoziati: Costa D'Avorio, Senegal e Bangladesh, Mali e Sudan, tenendo conto che questi ultimi due Paesi hanno già fatto sapere di non essere disponibili, dunque servirà un'azione diplomatica per provare a sbloccare la situazione. La scelta di percorrere con gli altri la strada dell'intesa tecnica serve non soltanto ad accelerare la procedura, ma anche ad evitare implicazioni di tipo politico per gli Stati esteri. I rimpatri verrebbero così effettuati seguendo lo schema già attuato con Egitto, Tunisia e Marocco, dunque facendo partire dall'Italia i charter con gli stranieri "irregolari" identificati grazie alla collaborazione con i consolati. La Libia La convinzione è che difficilmente l'Onu autorizzerà un intervento in Libia, ancor più difficile che l'inviato Bernardino Leon riesca a formare un governo. Ecco perché torna a farsi strada l'ipotesi di intervenire in maniera meno convenzionale. Su questo pesa però il giudizio del capo dello Stato Sergio Mattarella che ha sempre escluso l'ipotesi che l'Italia si sganci dalle Nazioni Unite. Più plausibile l'eventualità di impedire alle navi straniere che soccorrono i migranti in acque internazionali di approdare sulle nostre coste visto che il diritto della navigazione equipara il natante al territorio dello Stato di bandiera. Le caserme Urgente è riuscire a trovare un'intesa con le Regioni: alla riunione convocata per questa mattina con i prefetti del Veneto e con il governatore Luca Zaia parteciperà anche il prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento Immigrazione del Viminale. Di fronte a un atteggiamento di resistenza, la linea è quella di utilizzare almeno tre caserme al nord e due al sud. Per il settentrione oltre a due in Veneto, la scelta potrebbe cadere su quella di Montichiari, nel bresciano. Nel meridione si punta invece su Civitavecchia e Messina. I lavori di ristrutturazione sono avviati, in attesa del completamento si pensa di allestire le tendopoli in modo da garantire assistenza ai profughi e soprattutto prepararsi all'accoglienza di chi arriverà nelle prossime settimane. Molto più avanzati sono i lavori per i centri di smistamento che dovrebbero contenere massimo 400 persone. A quelli di Settimo Torinese e Bologna, si pensa di affiancare Civitavecchia e Messina. Il timore dei responsabili dell'Ordine Pubblico del Viminale è che la situazione ai valichi e nelle stazioni possa degenerare anche tenendo conto della convivenza forzata di stranieri di diversa nazionalità. Per questo sono stati inviati 100 uomini in più a Roma e Milano, 60 a Ventimiglia e 50 al Brennero. Gran Bretagna: il lavoro dei Servizi dev'essere controllato, libertà civili non sono un lusso di Enrico Franceschini La Repubblica, 15 giugno 2015 Oggi c'è la diffusa impressione che le libertà civili diventino un lusso che non possiamo permetterci di fronte alla crescente minaccia terroristica. Ebbene, proprio ora che si stanno celebrando gli 800 anni della Magna Carta, base dello stato di diritto, credo sia doveroso interrogarsi sul significato di libertà di parola e privacy nel ventunesimo secolo". Alan Rusbridger, per vent'anni direttore del The Guardian, incarico che ha lasciato nei giorni scorsi per presiedere la fondazione proprietaria del quotidiano londinese, comincia così la sua "lezione" all'università di Oxford sul "mondo dopo Snowden", cioè dopo le rivelazioni fatte dalla ex talpa della Cia e della Nsa che hanno fatto vincere al suo giornale il premio Pulitzer. "A noi inglesi piacciono le spie, grazie anche ai romanzi di Fleming e ai film di James Bond, ma bisogna stare attenti a non diventarne succubi", dice Rusbridger. "In Occidente non abbiamo avuto la Stasi, ma abbiamo avuto George Orwell, che ci ha spiegato come uno Stato che controlla ossessivamente i suoi cittadini può diventare un incubo. È giusto difendersi dal terrorismo, ma non sempre uno Stato agisce in modo benigno e su questo devono vigilare i giornali". Ecco un estratto delle sue risposte alle domande sull'argomento di giornalisti, accademici ed esperti. Non pensa che i servizi segreti abbiano il dovere di usare tutti i mezzi per difenderci? "Non dico che i servizi segreti non debbano usare il web per difenderci dal terrorismo o da altre minacce. Dico che per farlo, alla luce di quanto abbiamo scoperto grazie alle rivelazioni di Snowden, devono muoversi in modo differente, sotto un controllo maggiore da parte dei parlamenti e dunque dell'opinione pubblica, senza bisogno di stendere una sorveglianza indiscriminata su tutte le comunicazioni elettroniche". Non teme che le rivelazioni del Guardian abbiano messo in allarme i terroristi? "Nell'attacco di Parigi, così come nei precedenti attentati terroristici a Boston, Sidney, Copenaghen, gli autori erano già nel radar dei servizi segreti, erano noti, considerati potenzialmente pericolosi. È falso che una maggiore sorveglianza delle comunicazioni da parte dello Stato li avrebbe evitati. Sarebbe bastato un miglior lavoro di polizia". In generale non crede di avere messo in pericolo la Gran Bretagna e il mondo, pubblicando le rivelazioni di Snowden? "Non credo che abbia causato danni alla sicurezza nazionale e internazionale con quelle rivelazioni. Abbiamo pubblicatomenodell'1 per cento del materiale datoci da Snowden, valutando responsabilmente ciò che si poteva pubblicare". Dunque è convinto che pubblicare documenti top secret, ottenuti grazie a una soffiata, renda un servizio all'opinione pubblica? "In America, dopo che la Corte Suprema diede ragione con la pubblicazione dei Pentagon Papers negli anni 70, c'è una diversa percezione del valore della libertà di stampa e del ruolo dei giornali. La Corte stabilì che pubblicando quelle rivelazioni, aveva reso un servizio all'opinione pubblica, facendo sapere al paese in che modo il governo era arrivato alla decisione di entrare in guerra in Vietnam. E il comitato del Pulitzer ha assegnato l'anno scorso il premio proprio nella categoria del servizio pubblico, valutando chele rivelazioni di Snowden da noi rese pubbliche erano nell'interesse del pubblico". Crede che il presidente Obama abbia cambiato idea sui metodi di spionaggio di massa, dopo le rivelazioni di Snowden? "Credo che sia rimasto molto imbarazzato, quando si è scoperto che la Cia aveva messo sotto controllo il telefonino della sua alleata Angela Merkel. E successivi rapporti delle autorità americane indicano la volontà di cambiare". Non pensa che vadano messi sotto accusa anche i giganti del web, che raccolgono metadati sui loro utenti per scopi di marketing? "Certamente bisognerà concentrarsi anche sull'invasione della privacy da parte dei giganti del web". Stati Uniti: Guantánamo ancora aperto, come altri campi, le promesse mancate di Obama di Alessandro Mauceri notiziegeopolitiche.net, 15 giugno 2015 La chiusura di carceri come Guantánamo, dove la maggior parte dei detenuti è rinchiusa senza processo né incriminazioni ufficiali (gli Usa sono stati accusati dalle Nazioni Unite di aver violato la Convenzione Onu contro la tortura) era uno dei punti forza del presidente americano Obama. Una promessa che non è mai stata mantenuta. Nei giorni scorsi proprio il Pentagono ha reso noto un comunicato nel quale era riportato che alcuni prigionieri yemeniti, da diversi anni rinchiusi nel carcere militare statunitense di Guantánamo, sono stati trasferiti in un altro carcere statunitense, ma in Oman. Dopo la decisione dei giorni scorsi, sarebbero ancora 116 i detenuti rinchiusi illegalmente nel carcere di Guantánamo. Detenuti che quasi sempre non sono trattati in modo disumano e sottoposti a tortura. A giugno dello scorso anno diverse testate internazionali tra cui il Guardian, Reuters e Associated Press, chiesero formalmente che venissero resi pubblici i metodi in cui sono trattati i detenuti nelle carceri statunitensi come Guantánamo. Una richiesta sorta dopo la decisione del giudice statunitense Gladus Kessler di interrompere questi trattamenti visti i danni causati su uno dei detenuti. La stessa giudice Kessler nel maggio scorso aveva ordinato di interrompere a Guantánamo pratiche come quella dell'alimentazione forzata, considerate allo stesso livello di torture. A Guantánamo molti suoi detenuti sono trattenuti senza accuse e quasi nessuno di loro è mai stato rinviato a giudizio o ha processi a carico. Nel 2005 un report dell'associazione umanitaria Amnesty International lo ha definito "un gulag del nostro tempo". A rivelare le tecniche di tortura adoperate in questo carcere sono stati dei documenti diffusi da Wikileaks. Nel 2009 Obama, dopo le pressioni del Congresso, firmò l'ordine esecutivo di chiudere la prigione: ma l'ordine non è mai stato eseguito. Né per Guantánamo né per le altre carceri similari: un'inchiesta del New York Times infatti ha rivelato che in molti altri paesi esistono decine di luoghi di detenzione gestiti dagli americani simili al carcere di Cuba. Luoghi di detenzione meno famosi ma altrettanto illegali e che continuano ad operare praticamente indisturbati. Secondo Zachary Katznelson, consigliere senior della Ngo Reprive, che ha difeso decine e decine di prigionieri di Guantánamo, gli Stati Uniti stanno trattenendo illegalmente più di 16mila individui prigionieri in carceri paesi come Iraq, Afghanistan (nella famigerata prigione di Bagram) e Turchia. Eritrea: il rapporto dell'Onu riaccende i riflettori sui crimini commessi dal regime Nova, 15 giugno 2015 Il rapporto pubblicato questa settimana dalla Commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite sui diritti umani in Eritrea, secondo cui il governo di Asmara avrebbe commesso "diffuse e sistematiche" violazioni dei diritti umani creando "un clima di paura" volto a reprimere la dissidenza, ha riacceso i riflettori su un paese allo stremo dal punto di vista economico, ma che finisce per interessare l'intera regione del Corno d'Africa, di cui l'Eritrea continua a rappresentare un elemento di forte preoccupazione per la comunità internazionale. Questo paese di 6 milioni di abitanti rappresenta infatti oggi uno dei principali punti di partenza della rotta migratoria che, attraverso il Sudan, raggiunge la Libia prima di snodarsi lungo il Mar Mediterraneo: secondo i dati di Frontex - l'Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne dell'Unione europea - nel 2014 sono stati infatti quasi 35 mila gli eritrei sbarcati illegalmente sulle coste di Malta e dell'Italia meridionale. I migranti e richiedenti asilo eritrei - al contrario di quelli di molte altre nazionalità del continente africano - non fuggono da una guerra civile nè da una crisi umanitaria, bensì da una dittatura che da molti osservatori è stata paragonata a quella presente in Corea del Nord. Il paese, definito da alcune organizzazioni non governative uno "Stato-prigione", vanta un numero altissimo di carceri disseminate in tutto il territorio nazionale e le voci critiche della diaspora eritrea denunciano ripetutamente i sistematici atti di tortura a danno dei detenuti, spesso rinchiusi in container di metallo esposti a temperature elevatissime. Il regime eritreo non permette l'esistenza di opposizioni politiche e le associazioni per i diritti umani sostengono che migliaia di prigionieri politici siano detenuti in carceri sotterranee senza nessun capo d'accusa. Alla luce di ciò non desta particolare sorpresa il rapporto della Commissione d'inchiesta Onu, secondo cui "una vasta proporzione della popolazione è soggetta a detenzione e lavori forzati, mentre centinaia di migliaia di rifugiati sono stati costretti ad abbandonare il paese" e alcune di queste violazioni, secondo l'Onu, possono costituire "crimini contro l'umanità". Quello che il rapporto descrive è "uno Stato totalitario" che controlla i propri cittadini attraverso un vasto apparato di sicurezza che penetra tutti i livelli della società. Si tratta di un "sistema di controllo pervasivo" utilizzato "con assoluta arbitrarietà" per "mantenere la popolazione in un permanente stato di ansia": "non è la legge a governare gli eritrei, ma la paura". Il rapporto dell'Onu, che il governo eritreo ha definito come un insieme di "vili calunnie", raccomanda "una continua protezione internazionale" per i rifugiati e sottolinea la necessità di non respingere i richiedenti asilo: una volta tornati nel paese potrebbero essere in pericolo. La commissione d'inchiesta, guidata dall'australiano Mike Smith, era stata istituita dal Consiglio per i diritti umani dell'Onu nel giugno dello scorso anno. Sotto la lente d'ingrandimento, in particolare, sono finiti crimini come le esecuzioni extragiudiziarie, le sparizioni, gli arresti arbitrari, le pratiche di tortura, le violazioni alla libertà di espressione e di opinione, di associazione, di religione e di movimento. Secondo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), sarebbero oltre 357 mila gli eritrei fuggiti dal paese e bisognosi di aiuti. A risentire di tale clima è stata, inevitabilmente, la situazione economica dell'Eritrea, fortemente penalizzata dalle modalità con cui il capo di stato ha gestito il potere nell'ultimo ventennio. La sfrenata militarizzazione ha finito per assorbire una parte importante dei magri bilanci statali e il mantenimento di un apparato militare che facesse da deterrente per i nemici nella regione del Corno d'Africa - Etiopia su tutte - ha sottratto fondi e opportunità per realizzare una riduzione della povertà. Ancora oggi la stragrande maggioranza dei circa sei milioni di eritrei (l'80 per cento) vive di agricoltura di sussistenza, con un reddito pro-capite che non supera i 600 dollari. Il prodotto interno lordo (Pil) eritreo si colloca agli ultimi posti al mondo con 3,6 miliardi di dollari. Il governo non ha mai avviato il processo di smobilitazione dei militari, una delle misure da tempo programmate per favorire lo sviluppo del settore agricolo, mentre il controllo stretto dell'economia da parte del governo scoraggia gli investitori esteri e allo stato attuale le prospettive di crescita del paese dipendono in massima parte dall'implementazione di progetti di sviluppo nel settore minerario, ma i proventi di tali attività sono previsti solo nei prossimi anni. Una parte importante delle entrate proviene anche dalle rimesse dei cittadini eritrei emigrati all'estero e dagli aiuti internazionali. La repressione interna e la povertà sono inoltre le principali cause della massiccia emigrazione eritrea, una delle più alte al mondo in rapporto alla popolazione totale del paese. Si tratta di un fenomeno trasversale, che riguarda sia persone in condizioni di vita disperate sia militari che decidono di disertare il servizio obbligatorio. Tutto ciò, unito alla crescente proliferazione dei gruppi ribelli, sta mettendo in luce quanto sia divenuta precaria le tenuta del regime di Afewerki e di come il paese, al di là dell'apparente immobilismo che lo caratterizza, rischia di essere travolto da una improvvisa rivolta popolare sostenuta da ufficiali in rotta con il presidente. Pakistan: uno stop alle impiccagioni nel mese del Ramadan, lo ha deciso il governo Ansa, 15 giugno 2015 Il Pakistan ha deciso di sospendere le esecuzioni delle condanne a morte nel mese sacro musulmano del Ramadan che inizia giovedì. Lo riferisce il quotidiano Dawn. Il ministero degli Interni ha già notificato l'ordine ai governi provinciali da cui dipendono i penitenziari. Il Ramadan prevede un digiuno dall'alba al tramonto e di solito è considerato un periodo dedicato alla pace e all'armonia. Dallo scorso dicembre circa 150 detenuti accusati di terrorismo e di crimini comuni sono saliti al patibolo in seguito alla decisione del premier Nawaz Sharif di revocare una moratoria sulle esecuzioni dopo la strage alla scuola militare di Peshawar. La ripresa delle impiccagioni è stata duramente criticata dall'Onu, Unione Europea e dalle principali organizzazioni umanitarie.