Giustizia: il popolo italiano odia lo Stato, ma non può farne a meno di Eugenio Scalfari La Repubblica, 14 giugno 2015 Più passa il tempo e più la corruzione aumenta, invadendo non soltanto le istituzioni locali e nazionali ma l'anima delle persone, quale che sia la loro collocazione sociale. Si chiama malavita o malgoverno o malaffare, ma meglio sarebbe dire malanimo: le persone pensano soltanto a se stesse e tutt'al più alla loro stretta famiglia. Il loro prossimo non va al di là di quella. Non pensiate che il fenomeno corruttivo sia un fatto esclusivamente italiano ed esclusivamente moderno: c'è dovunque e c'è sempre stato. Naturalmente ne varia l'intensità da persona a persona, da secolo a secolo e tra i diversi ceti sociali. Ma l'intensità deriva soprattutto dal censo: la corruzione dei ricchi opera su cifre notevolmente più cospicue, quella dei meno abbienti si esercita sugli spiccioli, ma comunque c'è ed è proporzionata al reddito: per un ricco corrompersi per ventimila euro non vale la pena, per un cittadino con reddito da diecimila euro all'anno farsi corrompere per cinquecento euro è già un discreto affare. Il tutto avviene in vario modo: appalti, racket, commercio di stupefacenti, di prostituzione, di voti elettorali, di agevolazioni di pubblici servizi, di emigranti. Può sembrare un controsenso ma sta di fatto che il corruttore ha bisogno di una società in cui operare e più vasta è meglio è. La corruzione non consente né l'isolamento né l'anarchia e la ragione è evidente: essa ha bisogno come scopo comune in tutte le sue forme di una società con le sue regole e i poteri che legalmente la amministrano. La corruzione ha la mira di aiutare alla conquista del potere e all'evasione delle regole o alla loro utilizzazione a vantaggio di alcuni e a danno di altri. Le famiglie (si chiamano così) mafiose, le clientele, gli interessi corporativi, dispongono di un potere capace di infiltrarsi. Ed è un potere che trova nei regimi di democrazia ampi varchi se si tratta di democrazie fragili e di istituzioni quasi sempre infiltrate dai corruttori. Questa fragilità democratica va combattuta perché è il malanno principale del quale la democrazia soffre. Essa dovrebbe esser portatrice degli ideali di Patria, di onestà, di libertà, di eguaglianza; ma è inevitabilmente terreno di lotta tra il malaffare e il buongoverno. Non c'è un finale a quella lotta: continua e durerà fino a quando durerà la nostra specie. Il bene e il male, il potere e l'amore, la pace e la guerra sono sentimenti in eterno conflitto e ciascuno di loro contiene un tasso elevato di corruzione. La storia ne fornisce eloquenti testimonianze, quella italiana in particolare e la ragione è facile da comprendere: una notevole massa di italiani non ama lo Stato ma desidera che ci sia. Aggiungo: non ama neppure che l'Europa divenga uno Stato federato, ma vuole che l'Europa ci sia. È assai singolare questo modo di ragionare, ma basta leggere o rileggere i testi di Dante e Petrarca, di Machiavelli e Guicciardini, di Mazzini e di Cavour. Hanno dedicato a diagnosticare questi valori e disvalori e le terapie che ciascuno di loro ha indicato e praticato per comprendere a fondo che cos'è il nostro Paese e soprattutto che cosa pensa e come si comporta la gran parte del nostro popolo. Dante e Petrarca (più il primo che il secondo) conobbero la lotta politica dei Comuni. L'autore della Divina Commedia fu in un certo senso il primo padre della Patria, una Patria però letteraria, cui insegnare un linguaggio che non fosse più un dialetto del latino ma una lingua nazionale e la poesia dello "stilnovo" già anticipata dal Guinizzelli e dai siciliani ma creata da lui e dal suo fraterno amico Guido Cavalcanti. La loro Italia non aveva alcuna forma politica, salvo alcuni Comuni con una visione soltanto locale. Dante fu guelfo e ghibellino; alla fine fu esiliato da Firenze, ramingo nell'Italia del Nord, e ancora giovane morì a Ravenna. Che cosa fossero gli italiani non lo seppe e non gli importava. In realtà a quell'epoca non c'era un popolo ma soltanto plebi contadine o nascenti borghesi e comunali la cui politica era quella delle città difese da mura per impedire ai nobili del contado e alle compagnie di ventura di invaderle. Ma due secoli dopo la situazione era notevolmente cambiata e la più approfondita diagnosi la fecero Machiavelli e Guicciardini, fiorentini ambedue. Repubblicano il primo, esiliato per molti anni a San Casciano; mediceo il secondo, uomo di corte, ambasciatore, ministro ai tempi del Magnifico, di papa Leone X e di papa Clemente VII, anch'essi rampolli di casa Medici. La diagnosi di quei due studiosi fu analoga: il popolo non aveva mai pensato all'Italia, era governato e dominato da una borghesia mercantile, specialmente nelle regioni del Centro- Nord, capace di inventare strumenti monetari e bancari che dettero grande impulso dal commercio di tutta Europa, ma privi di amor di Patria. Le passioni politiche sì, quelle c'erano e la corruzione sì, c'era anche quella, ma l'Italia non esisteva mentre nel resto d'Europa gli Stati unitari erano già sorti: in Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda, Svezia, Polonia, Austria, Brandeburgo, Sassonia, Westfalia, Ungheria e le città marinare, quelle tedesche nel Baltico e in Italia Venezia, Genova, Pisa. Il popolo mercantile in Italia c'era, era accorto e colto e condivideva il potere congiurando o appoggiando i Signori laddove esistevano le Signorie; ma gran parte d'Italia era già dominio degli aragonesi o dei francesi o degli austriaci. Il Papa a sua volta aveva un regno che si estendeva in quasi tutta l'Italia centrale salvo la Toscana ed era dominato da alcune grandi famiglie come i Colonna, gli Orsini, i Borgia, i Farnese. Ma il resto degli abitanti dello Stivale erano plebe, servi della gleba, analfabeti, con una cultura contadina che aveva ferree regole di maschilismo, di violenza, di pugnale. La diagnosi di Machiavelli e di Guicciardini non differiva da questa realtà. Anzi la mise in luce con grande chiarezza. Machiavelli però sperava in un Principe che conquistasse il centro d'Italia e sapesse e volesse fondare uno Stato con la forza delle armi, le congiure, le armate dei capitani di ventura e i matrimoni di convenienza tra le famiglie regnanti. Guicciardini faceva più o meno la stessa diagnosi ma la terapia differiva, le speranze di Machiavelli d'avere prima o poi un'Italia come Stato, naturalmente governato da un padrone assoluto come erano i tempi di allora; quel Principe, chiunque fosse, avrebbe dovuto dare all'Italia un rango in Europa e trasformare le plebi in popolo consapevole e collaboratore. Guicciardini viceversa coincideva nella diagnosi ma differiva profondamente nella terapia. Riteneva auspicabile la fondazione d'uno Stato sovrano che abbracciasse gran parte dell'Italia, salvo quella dominata da potenze straniere che sarebbe stato assai difficile espellere. Ma sperare che gli italiani diventassero da plebe un popolo con il sentimento della Patria nell'animo lo escludeva nel modo più totale. Bisognava secondo lui governare il Paese utilizzando la plebe e questa era la sua conclusione. Passarono due secoli da allora ed ebbe inizio ai primi dell'Ottocento il movimento risorgimentale con tre protagonisti molto diversi tra loro: Mazzini, Cavour, Garibaldi. Ci furono alti e bassi in quel movimento e tre guerre denominate dell'indipendenza e guidate da Cavour con una diplomazia e una comprensione della realtà che difficilmente si trova nella storia moderna. Mazzini era un personaggio molto diverso: voleva la repubblica e voleva che nascesse dal basso. La sua era una forma di socialismo che aveva come strumento le insurrezioni popolari. Non insurrezioni di massa, non erano concepibili all'epoca; ma insurrezioni di qualche centinaio di persone se non addirittura qualche decina, che cercavano di sollevare la plebe contadina sperando che i suoi disagi la muovessero a combattere per una situazione migliore. Così non avvenne e le insurrezioni mazziniane non sortirono alcun effetto se non quello di allevare una classe di giovani intellettuali, studenti, docenti, che concepivano la Patria come il maestro aveva indicato. Quasi tutti erano settentrionali di nascita e fu molto singolare che questo drappello di italiani dedicati soprattutto a scuotere le classi meridionali venisse quasi tutto da Milano, da Bergamo, da Brescia, da Genova. Così furono a suo tempo i mille che mossero da Quarto verso Calatafimi. Garibaldi era una via di mezzo molto realistica e molto demiurgica tra Mazzini e Cavour. Era repubblicano come Mazzini ma disponile a trattare con la monarchia quando bisognava compiere un'impresa che richiedesse molte risorse umane e finanziarie. Questa fu l'impresa dei Mille da cui nacque poi lo Stato italiano. La corruzione certamente non c'era in quei giovani intellettuali e combattenti ma era già ampiamente diffusa in una società che aveva pochi capitali e doveva utilizzare nel proprio interesse quelli che il nuovo stato metteva a disposizione e che forti imprese bancarie e manifatturiere straniere investirono sulla nascita dell'Italia e della sua economia. Portarono con sé, questi capitali, una corruzione moderna che è quella che conosciamo ma che allora ebbe il suo inizio nelle ferrovie che furono costruite per unificare il territorio, nell'industria dell'elettricità e in quella dell'acciaio e della meccanica. Emigrazione da un lato, corruzione dall'altro, queste furono le due maggiori realtà italiane tra gli ultimi vent'anni dell'Ottocento e la guerra del 1915 che aprì una fase del tutto nuova nel Paese. Non voglio qui ripetere ciò che ho già scritto in altre occasioni ma mi limito a ricordare che Benito Mussolini fu uno degli esempi tipici del fenomeno italiano. Personalmente era onesto, aveva tutto e quindi non aveva bisogno di niente; ma i suoi gerarchi erano in gran parte corrotti e lui lo sapeva ma non interveniva perché quella corruzione a lui nota gli dava ancor più potere, li teneva in pugno e li manovrava come il burattinaio fa muovere i burattini. Disse più volte che senza la dittatura l'Italia non sarebbe stata governabile e che governare il nostro Paese era impossibile e comunque inutile. Chiuderò col caso De Luca che in qualche modo è attinente a quanto finora scritto. De Luca è stato un buon sindaco di Salerno. Un po' autoritario, è il suo carattere, ma a suo modo efficiente: un sindaco-sceriffo e forse ci voleva quel requisito. È sotto processo ed è stato condannato in primo grado. I suoi avvocati sostengono che in appello avrà l'assoluzione. È possibile, glielo auguriamo. Ma sulla base della legge Severino un condannato in primo grado per reati di delinquenza corruttiva deve essere immediatamente sospeso per diciotto mesi dalla carica politica che riveste. Nel caso di specie, come ci ricorda l'avvocato Pellegrino, la sospensione deve essere effettuata non appena egli sia stato eletto a una carica politica. Nel suo caso la carica è quella di governatore della Campania. È già stato eletto a quella carica da pochi giorni insieme alla lista dei consiglieri che hanno ottenuto i voti necessari. Si aspetta di giorno in giorno la proclamazione degli eletti da parte dell'Ufficio elettorale presso la Corte d'appello di Napoli. Sta controllando le schede con l'attenzione dovuta e quando il controllo sarà terminato la proclamazione avverrà. A quel punto - la Severino è chiarissima - De Luca deve essere sospeso per diciotto mesi. Lasciarlo in carica fino a quando avrà nominato la giunta di governo e il suo vice che per diciotto mesi governerà la Campania, significa non rispettare la legge e come prevede il codice penale, l'autorità che deve sospenderlo (nel nostro caso il presidente del Consiglio) ritarda un atto dovuto per favorire una persona. Scatta in questo caso il reato di abuso d'ufficio per l'autorità che ha ritardato il provvedimento. Questa procedura è estremamente chiara e non lascia nessun margine di autonomia come la stessa ordinanza della Corte di Cassazione a sezioni unite ha esplicitamente detto. Non si tratta in questo caso di corruzione ma in qualche modo un'analogia esiste: si compie un favore per averne il ritorno. Non si chiama corruzione ma gli somiglia terribilmente. Giustizia: il Papa al Csm "rispettate i diritti di tutti, più impegno contro la corruzione" Il Garantista, 14 giugno 2015 Il pontefice: rispettate i diritti di tutti, invece avviene il contrario. E chiede più impegno contro la corruzione. Pubblichiamo il discorso pronunciato ieri da Papa Begoglio durante l'udienza, nella quale il Pontefice ha ricevuto i componenti del Consiglio superiore della magistratura. Signor Vice-Presidente, Signori Consiglieri, cari fratelli e sorelle, buongiorno. Desidero anzitutto esprimervi i miei più sentiti auguri per l'incarico che è stato assegnato a ciascuno di voi a seguito del rinnovo del Consiglio Superiore della Magistratura. Questo incarico è una responsabilità di cui siete pienamente consapevoli e che costituisce un fondamentale punto di equilibrio e stabilità per l'esercizio della funzione giurisdizionale. La giurisdizione riveste oggi una complessità crescente, in considerazione del moltiplicarsi degli interessi e dei diritti che chiedono di essere messi a confronto e che non sempre possono trovare nella legislazione una risposta precisa e piena dinanzi alla varietà dei casi concreti. La stessa globalizzazione - come è stato opportunamente richiamato - porta infatti con sé anche aspetti di possibile confusione e disorientamento, come quando diventa veicolo per introdurre usanze, concezioni, persino norme, estranee ad un tessuto sociale con conseguente deterioramento delle radici culturali di realtà che vanno invece rispettate; e ciò per effetto di tendenze appartenenti ad altre culture, economicamente sviluppate ma eticamente indebolite (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 62). Tante volte io ho parlato delle colonizzazioni ideologiche quando mi riferisco a questo problema. In tale contesto di scosse profonde delle radici culturali, è importante che le autorità pubbliche, e tra queste anche quelle giurisdizionali, usino lo spazio loro concesso per dare stabilità e rendere più solide le basi dell'umana convivenza mediante il recupero dei valori fondamentali. A questi valori il Cristianesimo ha offerto il vero e più adeguato fondamento: l'amore di Dio, che è inseparabile dall'amore per il prossimo (cfr Mt 22,34-40). A partire da queste basi, anche fenomeni come l'espansione della criminalità, nelle sue espressioni economiche e finanziarie, e la piaga della corruzione, da cui sono affette anche le democrazie più evolute, possono trovare un argine efficace. È necessario intervenire non solo nel momento repressivo, ma anche in quello educativo, rivolto in modo particolare alle nuove generazioni, offrendo un'antropologia - che non sia relativista - ed un modello di vita in grado di rispondere alle alte e profonde ispirazioni dell'animo umano. A tale scopo le istituzioni sono chiamate a recuperare una strategia di lungo respiro, orientata alla promozione della persona umana e della pacifica convivenza. A questa opera di costruzione contribuiscono, e credo anche in prima linea, tutti coloro che sono investiti di una funzione giurisdizionale. Sebbene, come avete giustamente sottolineato, i giudici siano chiamati a intervenire in presenza di una violazione della regola, è anche vero che la riaffermazione della regola non è solo un atto rivolto alla singola persona, ma supera sempre il caso individuale per interessare la comunità nel suo insieme. In questo senso ogni pronunciamento giudiziario varca il confine del singolo processo, per aprirsi e diventare l'occasione in cui tutta la comunità ("il popolo", nel cui nome sono pronunciate le sentenze) si ritrova intorno a quella regola, ne riafferma il valore e in tal modo, cosa ancora più importante, si identifica in essa. Giustamente, poi, in questo tempo si pone un accento particolare sul tema dei diritti umani, che costituiscono il nucleo fondamentale del riconoscimento della dignità essenziale dell'uomo. Questo va fatto senza abusare di tale categoria volendo farvi rientrare pratiche e comportamenti che, invece di promuovere e garantire la dignità umana, in realtà la minacciano o addirittura la violano. La giustizia non si fa in astratto, ma considerando sempre l'uomo nel suo valore reale, come essere creato a immagine di Dio e chiamato a realizzarne, qui in terra, la somiglianza. Tra coloro che sono stati affascinati da tale compito - e che per esso hanno dato la vita - voglio anch'io ricordare, associandomi a Lei, Signor Vice-Presidente, la figura di Vittorio Bachelet, che occupò la Sua medesima carica e fu ucciso trentacinque anni or sono. La sua testimonianza di uomo, di cristiano e di giurista continui ad animare il vostro impegno al servizio della giustizia e del bene comune. Il Signore benedica ciascuno di voi e il vostro lavoro. Grazie. Giustizia: Papa Francesco al Csm "salvaguardare i diritti umani, no ad abuso del potere" di Francesco Antonio Grana Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2015 Il Consiglio superiore della magistratura è stato ricevuto in Vaticano. Per Bergoglio "la stessa globalizzazione porta aspetti di possibile confusione e disorientamento che introducono usanze, concezioni e nome, estranee al tessuto sociale". Il pontefice torna a condannare la corruzione: "Fenomeni che possono essere arginati con l'educazione". "Non bisogna abusare della categoria dei diritti umani volendo farvi rientrare pratiche e comportamenti che, invece di promuovere e garantire la dignità umana, in realtà la minacciano o addirittura la violano". È il monito che Papa Francesco ha rivolto al Consiglio superiore della magistratura ricevuto in Vaticano. Bergoglio non cita esplicitamente la teoria del gender ma, parlando a braccio, sottolinea che "tante volte quando mi riferisco a questi problemi parlo di colonizzazione ideologica". Ma il riferimento è anche al dibattito sulle nozze gay. Per il Papa "la stessa globalizzazione porta infatti con sé anche aspetti di possibile confusione e disorientamento, come quando diventa veicolo per introdurre usanze, concezioni, persino norme, estranee a un tessuto sociale con conseguente deterioramento delle radici culturali di realtà che vanno invece rispettate; e ciò per effetto di tendenze appartenenti ad altre culture, economicamente sviluppate ma eticamente indebolite". Bergoglio non ha dubbi: in uno scenario che definisce "di scosse profonde delle radici culturali", è "importante che le autorità pubbliche, e tra queste anche quelle giurisdizionali, usino lo spazio loro concesso per dare stabilità e rendere più solide le basi dell'umana convivenza mediante il recupero dei valori fondamentali". Francesco torna anche a condannare la corruzione. "Fenomeni come l'espansione della criminalità, nelle sue espressioni economiche e finanziarie, e la piaga della corruzione, da cui sono affette anche le democrazie più evolute - ha spiegato il Papa al Csm - possono trovare un argine efficace. È necessario intervenire non solo nel momento repressivo, ma anche in quello educativo, rivolto in modo particolare alle nuove generazioni, offrendo un'antropologia e un modello di vita in grado di rispondere alle alte e profonde ispirazioni dell'animo umano". Bergoglio ha voluto anche precisare che "ogni pronunciamento giudiziario varca il confine del singolo processo, per aprirsi e diventare l'occasione in cui tutta la comunità (il popolo, nel cui nome sono pronunciate le sentenze) si ritrova intorno a quella regola, ne riafferma il valore e in tal modo, cosa ancora più importante, si identifica in essa". Infine, il Papa ha voluto ricordare Vittorio Bachelet a 35 anni dalla morte per mano delle Brigate Rosse: "La sua testimonianza di uomo, di cristiano e di giurista continui ad animare il vostro impegno al servizio della giustizia e del bene comune". Giustizia: "valutazione particolarmente difficile e rischiosa" e il magistrato non sentenzia di Giordano Tedoldi Il Giornale, 14 giugno 2015 "Se sbaglio, pago io". Pur di non aver grane, rimette la sentenza alla Corte Costituzionale. In un suo romanzo, "La piccola Dorrit", Dickens paragonò un pappagallo a un giudice. Non era un attacco alla magistratura, era satira. Nella realtà, come sappiamo, i giudici sono uomini, come ci rammenta Cristian Vettoruzzo, giudice del tribunale di Treviso, spiegando il suo clamoroso atto di resistenza al primo dovere di un giudice, funzionario dello Stato da esso stipendiato: dare sentenza. Impegnato in un processo in cui "sono emersi solo elementi indiziari" in cui l'imputato deve rispondere della presenza di 47 quintali di sigarette di contrabbando in un capannone preso in affitto, sollecitato dal pm a una condanna di 2 anni e 8mila euro di multa, e dalla difesa all'assoluzione, il giudice lo scorso 8 maggio non ha detto né sì né no. Ha sospeso il processo inviando gli atti alla Corte Costituzionale. Non se l'è sentita, ha schivato la patata bollente. Ma come, un giudice giudica, se non lo fa che giudice è? Il problema, ha spiegato Vettoruzzo, sta nei "riflessi negativi e costituzionalmente illegittimi della nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati introdotta con la legge del 27 febbraio 2015". Una legge che viene da lontano, dal referendum del ‘87 voluto dai Radicali, uno dei tanti che pur vittoriosi non ebbero applicazione finché, anche su minaccia di forti multe dall'Ue, ha portato a una norma che però comincia a spaventare i giudici, che se sbagliano rischiano di rimetterci del proprio (come è prassi per ogni altra categoria professionale). Bisogna dare atto al giudice che, nel motivare il rifiuto di dar sentenza, non ha straparlato di attacchi alla magistratura, né si è espresso a proposito del suo potere con toni, usati da altri magistrati, che ricordano una casta di intoccabili bramini, niente di tutto questo. Ha detto di non sentirsi "umanamente" sicuro ad emettere la sentenza: "Per forza di cose se sa che la sua attività di valutazione potrà comportargli una responsabilità civile per danni, il giudice sarà portato, quale essere umano, ad assumere la decisione meno rischiosa che, nel processo penale, è quasi sempre identificabile nell'assoluzione dell'imputato". E la sottolineatura che colpisce, è quel "quale essere umano", e non tanto messa lì a ricordare l'umano timore di vedersi - come la legge prevede - portato via un terzo dello stipendio in caso di risarcimento se commette un errore, quanto a ricordare, e questo per noi è uno dei primi effetti positivi della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, che i giudici possono sbagliare. Così, nel discutibile atto di sospendere la sentenza, vediamo ricordate, nero su bianco dallo stesso giudice renitente nella sua ordinanza, alcune verità che ci eravamo dimenticati: "la valutazione di elementi indiziari è, come noto, particolarmente difficile e "rischiosa" in ordine alla correttezza dell'esito del giudizio". Ecco spazzati via i toni burbanzosi di alcune sentenze di processi in cui vi erano, allo stesso modo, "solo elementi indiziari", e in cui però la correttezza del giudizio era ritenuta certa. Già questo insinuarsi di toni dubbiosi ci sembra un successo. Il giudice di Treviso vorrebbe reintrodurre i filtri, che la legge ha tolto, alle richieste di risarcimento, come la non manifesta infondatezza della domanda, e si scaglia contro la sanzione della trattenuta del terzo dello stipendio "quando per tutti gli alni dipendenti pubblici la trattenuta non può superare il quinto". Anche qui musica per le nostre orecchie: un giudice che, con mitezza, si riconosce pari a "tutti gli altri dipendenti pubblici" e non, come taluni, un rappresentante superiore da Stato etico. Nel merito, la norma sulla responsabilità civile, dato che è stata scritta da legislatori, "quali uomini", è suscettibile di miglioramenti. Un miglioramento per Vettoruzzo sta nella reintroduzione della "clausola di salvaguardia" contro i risarcimenti, altrimenti "si lede il principio che il giudice è soggetto solo alla legge". Non ci convince affatto, però, quando dice che con la legge attuale il giudice è spinto "ad assolvere tutti", perché allora dobbiamo dedurre che prima era spinto a condannare tutti. Errare è umano, pagare per gli eventuali errori può spaventare, ma rende più responsabili. Giustizia: c'erano una volta i super-sindaci… oggi sono effimeri e spesso sotto accusa di Antonio Polito Corriere della Sera, 14 giugno 2015 Dov'è finita la rivoluzione dei sindaci, che negli anni Novanta cambiarono il volto della politica italiana? Oggi - travolti dal malaffare, accerchiati dai faccendieri, fischiati in piazza, commissariati dal governo - sono impotenti e impopolari. Che cosa succede ai sindaci? Travolti dal malaffare, accerchiati dai faccendieri, fischiati in piazza, commissariati dal governo. Impotenti e impopolari. Dov'è finita la rivoluzione dei nuovi eroi che cambiarono il volto della politica italiana negli anni Novanta, grazie all'elezione diretta? Nel Duemila Rutelli, al massimo del suo splendore capitolino, gestiva da sindaco il Giubileo; ora è Marino il giubilato. Nella Napoli in cui Bassolino riceveva con Berlusconi i Sette Grandi, adesso arranca de Magistris, spogliato di ogni potere su un terzo del suo territorio, commissariato dall'immensa area di Bagnoli fino al Porto. Nella Venezia del doge Cacciari, oggi si vota per scegliere chi sostituirà Orsoni, il sindaco arrestato e dimessosi esattamente un anno fa per lo scandalo del Mose. A Milano Pisapia ha perfino rinunciato a provare il bis. A Genova c'è già stato l'affondamento del Doria, spazzato via da un'alluvione. A Bologna è in corso il siluramento del Merola, sotto il fuoco, per così dire amico, del suo stesso partito. E a Salerno, è bene ricordarlo, governa un vicesindaco nominato, il capo staff di De Luca, e non perché quest'ultimo sia stato eletto governatore, ma perché già prima un tribunale l'aveva giudicato decaduto, oltre che condannato. Vent'anni fa i sindaci rappresentarono una risposta dal basso alla crisi dello Stato dei partiti, picconato da Tangentopoli. La prima elezione diretta della storia d'Italia fece da valvola di sfogo all'antipolitica e la trasformò in un conato di rinnovamento, di rifondazione della politica. Oggi invece sono proprio i sindaci la prima trincea della crisi di uno Stato senza più partiti. Perché? La prima risposta sono i soldi. Ce ne sono molti meno che allora. Usciamo da sette anni di guai e di recessione. Lo Stato centrale è più famelico che mai e divora i fondi un tempo destinato ai Comuni. L'arma dei sindaci, la personalizzazione, gli si è ritorta contro: oggi viene imputato loro tutto ciò che non va nelle città, anche quando possono poco. Il secondo motivo sono le primarie. Non sempre vince il migliore, anzi. Ignazio Marino è stato giudicato più adatto a governare Roma di Paolo Gentiloni, che adesso fa il ministro degli Esteri. Doria ha battuto la Pinotti, considerata abbastanza brava da fare il ministro della Difesa e forse perfino il capo dello Stato ma non il sindaco di Genova. Paradossalmente è stata proprio l'estensione massima della democrazia diretta a inceppare il meccanismo. Le primarie bruciano quel pò di classe dirigente che i partiti riescono ancora a selezionare. A chi vince non restano che gli scarti, i signori delle tessere e delle preferenze, gli imbroglioni che usano la politica per fare affari. Infine il terzo motivo: il tempo. Un quarto di secolo dopo la gente non pensa più che la storia si possa cambiare dalla periferia: quando il gioco si fa duro la partita si gioca nello Stato centrale, perché è di lì che passano quel poco di risorse e di decisioni ancora concesse alla sovranità nazionale. Così anche l'antipolitica si è ri-nazionalizzata, e oggi si chiama Grillo, o Salvini. Non a caso le istituzioni del decentramento sono tutte in crisi: le Province abolite, le Regioni screditate e disertate nelle urne, i Comuni sotto la sferza dei giudici e del malcontento. Oggi fare il sindaco è un mestiere pericoloso ed effimero. Perfino Renzi è stato lesto a lasciare la sua città durante il primo mandato per conquistare il centro, e oggi riporta a Roma risorse e poteri (con le gestioni commissariali dell'Expo, di Bagnoli, del Giubileo). Dando vita proprio lui, il sindaco d'Italia, a una stagione di neocentralismo. Lettere: perché vogliamo restare umani di Adriano Sofri La Repubblica, 14 giugno 2015 Il mare, quello vero, ha ingoiato tanti esseri umani e tanti ne ha spaventati, che la lingua rilutta alle sue meravigliose metafore. Tuttavia anche noi di terraferma, siamo in alto mare. Si incappa in un gorgo e ci si affanna a uscirne, fino a perdere le forze. Forse stiamo facendo così. Fermiamoci un momento, e facciamo il punto. Abbiamo due punti cardinali, noi. Il primo, la nostra stella, è il comandamento: restare umani. I migranti sono il nostro prossimo. Cercano la nostra mano per mettersi in salvo sulle nostre navi, per sbarcare sulla nostra terra. Questo è quanto. Coloro cui il nostro prossimo piace annegato, sono disgustosi. Noi vogliamo restare umani. Coloro i quali si limitano ad ammonire che bisogna accogliere tutti, sono meravigliosi, purché vedano il costo. Cambiamenti così bruschi e drammatici, non si governano col richiamo alla fredda razionalità e alla calda morale. Il terreno manca, ci si sente sradicati e derubati- del proprio paesaggio famigliare, delle proprie abitudini, di sé. Quando quella soglia emotiva è superata, ricorrere all'appello alla razionalità, anche la più splendida, è come esortare alla calma una folla presa dal panico. Non importa quanto l'allarme, l'incendio, il naufragio, sia falso o vero. Quella soglia è stata in buona parte superata. Ci dividiamo fra un egoismo che si crede sacro e un altruismo che ignora come il travaso precipitoso di popolazione esasperi uno stato d'animo e minacci uno stile di vita. Gli italiani, "brava gente", erano andati per il mondo, e il mondo non era venuto da loro. Il ricambio è avvenuto dentro una globalizzazione che ha destituito classi - gli operai e gli artigiani, i ceti medi - che occupavano un posto riconosciuto nella gerarchia sociale e contavano su una promozione. E anche i più poveri hanno visto soppiantato il proprio titolo di ultimi da nuovi arrivati, e sono retrocessi al desolato rango di penultimi. Quelli che, davvero o in immaginazione, si vedono" sorpassare dagli stranieri" nelle graduatorie… Nostalgia del passato e paura del futuro, non sono l'opera di neopopulisti xenofobi. (L'avvento del fascismo non fu l'opera dei fascisti). Costoro ne abusano, tanto più lucrosamente quanto meno lucida è la parte che confida di restare umana. La sinistra -chiamiamola così, per incoraggiamento - che emulala xenofobia della destra, facendole uno sconto, è destinata probabilmente a perdere, sicuramente a perdersi. Caccia agli scafisti, pescherecci affondati, il balletto sulle quote, sono un vivacchiare di espedienti. Non che la crassa demagogia della Lega non meriti d'essere smascherata; l'ha fatto Enrico Rossi che conosce scabbia e treni pendolari. La Lega vota contro ogni partecipazione a missioni nei luoghi da cui fuggono i migranti, e però è pronta ad aprire il fuoco sui treni. Gridava che Mare Nostrum adescava i migranti. Con Triton aumentarono sia gli arrivi che gli annegati: sconfessione tragica, e hanno fatto finta di niente. Salvini ha la linea: il suo responsabile all'immigrazione, un signore nigeriano, lo accompagnerà ad Abuja, e lui chiederà "ai ministri di quel governo di che cosa hanno bisogno": così si risolve il problema. In Nigeria: 180 milioni di abitanti, il nordest in mano a Boko Haram, mezzo paese governato dalla Sharia, petrolio e guerre civili a sud, la più forte economia africana, eccetera, e lui gli chiederà: "Diche cosa avete bisogno?". Vorrei esserci, a vedere che faccia fanno. Intervenire economicamente nei paesi dai quali nasce l'immigrazione, buona idea. In genere ci "interveniamo" per aiutare i dittatori a spogliarli delle loro ricchezze. L'idea è così invecchiata che viene da piangere: intervenire in Siria (quinto anno di guerra civile, 220 mila morti,10 milioni e mezzo fra sfollati e profughi)? In Iraq? In Somalia? In Eritrea? Tali sono i Paesi da cui ci arrivano gli scabbiosi. Matteo Renzi può essere diabolicamente tentato di restare un po' meno umano. Amato com'è, anche il Papa ha un problema. La Chiesa cattolica è il baluardo della solidarietà verso lo straniero, e però l'incupimento del sentimento popolare l'ha isolata, in questa degnissima causa, altrettanto che sui temi della sessualità o della fine della vita. Non c'è più un fondo cattolico che sorregga a sufficienza l'italiano brava gente. Restare umani: ogni volta che ne incontriamo uno, di questi nostri simili che si giocano la vita per un sì o per un no. Intanto distinguere, e far leva sulle innumerevoli buone volontà che si adoperano nell'accoglienza, dissipatamente. Le assurde pratiche sull'asilo. Si può immaginare un Piano, e se paia troppo per i nostri tempi corti, tanti piani minori, invece di dilapidare gente nei Centri-galera e nei giardini delle giostre. Questo movimento cesserà di essere febbrile se si addomesticherà la Grande Guerra nel vicino oriente. È quello il contagio, altro che la scabbia. Ormai ne parliamo come di un fenomeno di costume: come si passa a fil di lama senza schizzarsi, come si coprono le donne di un sudario nero. Il Califfato ha festeggiato il primo anniversario a Mosul. Là è la questione "epocale", quello è l'altro polo del nostro impegno a restare umani. C'è una gara col tempo: se quelle guerre non saranno spente, l'Europa andrà in pezzi, e i pezzi saranno fascisti e razzisti. Andato al governo, Renzi poteva dire questo, e prima doveva convincersene. Le sorti di quelle guerre sono affare dell'Europa, quando le arriva ancora una minima risacca: milioni aspettano, nei campi di Libano, Giordania, Turchia, nei lager della Libia. Abbiamo lesinato fucilini di riporto ai curdi, e ventilato incursori subacquei al molo di Zuwara. È ridiventato un problema di Obama: il quale fa il minimo sindacale. L'Europa avrebbe qualcosa da raccontare a quei popoli martoriati: che anche lei ebbe la sua Grande Guerra fratricida, e che perché non tornasse più immaginò di federarsi, e che nonostante tutto la vita vi è ancora libera e dolce abbastanza perché gli scampati dal vicino oriente si mettano a un nuovo repentaglio per raggiungerla. I confini là non esistono più, e restaurarli è un'illusione. Un'Europa capace di queste due cose: contribuire a fermare le guerre di bande, e proporsi come un modo di convivenza rispettosa delle diversità, dovrebbe credere in se stessa. Dopotutto, lo farebbe per salvarsi. Lettere: alle radici della giustizia di Giuseppe Anzani Avvenire, 14 giugno 2015 Nel breve discorso che il papa Francesco ha rivolto ieri al Consiglio superiore della magistratura ci sono due passaggi che fanno a lungo pensare, per la schietta semplicità con cui portano in piena luce alcune radici profonde del tema della giustizia di cui poco ci si cura. La prima è la funzione comunitaria della giurisdizione (nel senso letterale di "dire il giusto"); è il popolo che ridice per bocca del giudice la fedeltà alla regola, il rimedio alla sua violazione, il ripristino della sua maestà. La seconda è una sorta di analisi critica della giustizia proclamata, o rivendicata, nel compendio dei diritti umani, rispetto a quella realizzata in concreto nelle relazioni umane. E benché sia più facile commentare l'appello alla giustizia come argine alla devianza, alla disonestà, alla corruzione, anche per via di alcune cronache attuali che ci tengono svegli e rabbiosi, mi par giusto riflettere oggi sui punti meno esplorati e più difficili del mestiere degli uomini in toga. Primo: non c'è giudice che parli in nome proprio, ma "in nome del popolo". L'epigrafe che sta in cima a ogni sentenza, e che dice così, ha la serietà di una laica liturgia. Chi giudica esercita bensì un potere, ma che non gli appartiene, non promana da lui, gli vien dato. Se la sovranità appartiene al popolo, chi giudica è ministro (cioè servitore) di quella sovranità che si esprime nella legge. C è un passo singolare, nella formula con cui il cittadino comune chiamato a far da giudice in una corte d'assise giura fedeltà al suo mandato: "affinché la sentenza riesca quale la società l'attende". Questa attesa sociale inserisce nel compito del giudicare la presenza simbolica dell'intero villaggio; ma attenzione, non per assecondare gli umori casuali, ma per restar fedeli alla legge obbiettiva, cioè a quel vincolo condiviso che il popolo ha accolto come legge. Non per nulla la formula così prosegue, circa la sentenza attesa dalla società: come "espressione di verità e giustizia". Questo bisogno di purezza nell'esercizio della giurisdizione esclude ogni palcoscenico, ogni disinvolto soggettivismo. Giustizia è bilancia, basta un fiato a stararla. Giustizia è verità, in essa il popolo ritrova luce. L'altro singolare accenno fatto dal papa Francesco con la sua schietta immediatezza riguarda i "diritti umani". Tutti siamo fieri, orgogliosi di averli proclamati, inseriti nelle nostre Carte, scolpiti nelle Dichiarazioni universali; tutti sentiamo che attestano la nostra civiltà, raggiunta a tappe, segnata da propositi e da rimorsi, vogliosa di realizzazione, di totalità. E può sembrarci strano che qualcuno ci dica che in quella categoria si possono introdurre abusi, che quel marchio può essere usurpato da condotte che non sono umane, ma contrarie alla dignità umana. Ma è in questo preciso punto che il quesito ultimo sulla giustizia ci penetra in cuore come un assillo, e cerca più solido fondamento di quanto c'è scritto sulle tavole, sul consenso, sugli u-mori, sulle statistiche, sulle rivendicazioni, sui cataloghi dei diritti censiti, sulle dimensioni del desiderio inappagato. Cerca verità. Interrogando la natura umana, noi abbiamo enunciato "i diritti inviolabili dell'uomo". Non li abbiamo potuti elencare, o meglio abbiamo lasciato l'elenco aperto, perché il cammino della civiltà ce ne ha disvelati volta a volta di nuovi, a più fine intelligenza e a più aperto cuore. Ma a volte ci siamo dimenticati che l'intero mondo dei diritti abita nel territorio della relazione umana. Nessun diritto consiste senza che un "altro" vi si impieghi. Così non ha senso dire che ho diritto all'istruzione se non c'è maestro che m'insegni, o diritto alla salute se non c'è medico che mi curi, o diritto alla felicità se non c'è nessuno che mi voglia bene. Lo stesso articolo della nostra Costituzione dedicato ai diritti umani si chiude con la richiesta di "solidarietà". Se dunque la solidarietà è coessenziale ai diritti umani, non sono diritti umani quei desideri che infrangono la solidarietà, che trattano un altro essere u-mano come mezzo anziché come fine, che cercano una felicità egocentrica a prezzo di disordine o di disprezzo della felicità degli altri. Non si è felici contro, non si è felici da soli. Lettere: la psichiatria contro i pregiudizi di Claudio Mencacci (Past President Società Italiana di Psichiatria) Corriere della Sera, 14 giugno 2015 È pesante come un macigno la vergogna e il marchio di disgrazia e di disagio che pesa sulle malattie mentali. Stigma, etichetta, stereotipo tutto a indicare una discriminazione, una svalutazione, un "noi diversi dagli altri". Questa ingiustizia crea sofferenza in molte persone affette da disturbi psichici, dai più severi (schizofrenia, disturbi bipolari, ossessivi-compulsivi, anoressia) ai più comuni (depressione, ansia panica e cronica). Una stigmatizzazione che impatta su diverse aree della vita, dalla condizione socioeconomica alle relazioni interpersonali, al ritardo o alla mancanza di diagnosi e cure adeguate, alla qualità e quantità di vita. Tanti sono i pregiudizi sulle malattie mentali: pericolosità (nonostante i dati confermino che non vi sono correlazioni tra malattia e violenza), inguaribilità, incapacità di lavorare. Questa stigmatizzazione è un problema di salute pubblica che pesa sull'intera società. Che cosa fare per ridurre questa discriminazione? Da un lato le Società scientifiche, come quella di psichiatria, devono segnalare rapidamente le violazioni dei diritti, porre enfasi sullo sviluppo di buone pratiche che facilitino il controllo di qualità delle cure e degli esiti, avere legami con altre Società scientifiche mediche e con la Medicina generale, collaborare con le associazioni di pazienti e familiari e con i volontari, rendere noti i progressi su cure e assistenza agli organismi istituzionali, e, soprattutto, dare informazioni aggiornate. Va cambiata la mentalità della pubblica opinione e per questo bisogna far arrivare informazioni adeguate e corrette al pubblico attraverso i media. La bassa considerazione dei disturbi psichici si riflette anche sugli scarsi finanziamenti dedicati ai Servizi di salute mentale. Ridurre lo stigma è quindi importante per consentire alle Istituzioni di investire in questo campo riconoscendo quanti benefici può portare all'intera popolazione ( la salute mentale pesa oltre il 3% del Pil). Purtroppo manca ancora nel piano nazionale delle cronicità qualunque riferimento alla psichiatria e alla depressione. Va messo in atto in tempi rapidi un piano nazionale di sensibilizzazione e lotta alla depressione (prevalenza oltre il 13%, doppia nelle donne). Un programma che veda coinvolti tutti gli stakeholder istituzionali, in particolare la Commissione Igiene e Sanità del Senato, le Società scientifiche competenti, la medicina generale e l'Ong Onda, affinché la nostra sia l'ultima generazione a permettere che vergogna o stigma regnino al di sopra della scienza e della ragione. Napoli: nell'Opg di Secondigliano una cella incendiata e atti di autolesionismo di Stella Cervasio La Repubblica, 14 giugno 2015 La denuncia di Antonio Amato, consigliere regionale del Pd. L'Opg doveva chiudere il 31 marzo, guai anche nella struttura alternativa. Carcere di Secondigliano, una cella incendiata e atti di autolesionismo. "È una struttura alternativa psichiatrica aperta solo da due mesi e già una delle stanze-celle è andata a fuoco. Non abbiamo potuto saperne di più: ci hanno negato i registri per capire che cosa fosse successo". Il consigliere regionale uscente Antonio Amato (Pd) ha visitato a tarda sera la nuova sezione psichiatrica del carcere di Secondigliano, che avrebbe dovuto sostituire il vecchio Opg. Non è cambiato niente e sembra che nulla debba cambiare. Un "ex" Opg che per legge doveva chiudere il 31 marzo e invece è ancora lì, con gli stessi pazienti trovati in una precedente visita ispettiva dallo stesso Amato alla data prevista della chiusura. In più, cosa gravissima, il consigliere, in sopralluogo con Antonio Esposito, ricercatore di bioetica e autore con Dario Dell'Aquila del saggio-denuncia "Cronache da un manicomio criminale", ha voluto che gli fosse mostrata anche la sezione psichiatrica del carcere, un'articolazione della detenzione aperta nell'aprile scorso proprio in sostituzione dei vecchi ospedali psichiatrici giudiziari in dismissione a 37 anni dall'entrata in vigore della legge Basaglia. "Ho visto una delle 18 celle distrutta e chiusa da domenica scorsa. Ho domandato il motivo - riferisce Amato - ma ci hanno solo informato che un ricoverato aveva tentato di darsi fuoco. Alla nostra richiesta di vedere il registro degli eventi critici, la risposta è stata che non c'era il personale per andare a prenderlo: una cosa di enorme gravità della quale chiederemo conto a tutte le autorità preposte. Ritornano in queste sezioni un'opacità e una reticenza che ci spaventano". Altri detenuti hanno raccontato al consigliere del Pd e all'esperto che in quelle celle sono continui gli atti di autolesionismo. Nell'Opg di Secondigliano sono ancora rinchiuse 54 persone, solo 20 dalla data della chiusura ufficiale sono state trasferite altrove. Una settantina, poi, si trovano ancora nella struttura omologa di Aversa. Dovevano aprire le cosiddette "rems", "ma i cantieri - spiega Amato - non sono ancora partiti. Hanno aperto solo le pre-rems di Mondragone, già satura, per le nuove misure di sicurezza, e alcune sezioni psichiatriche per i detenuti ai quali dovesse nascere una sofferenza psichica in carcere". Numerose le storie che Amato e Esposito, accompagnati dal responsabile sanitario Michele Pennino, hanno rintracciato nella struttura. Come quella di G., 36 anni, la cui pena si è conclusa nel luglio 2014: necessiterebbe di cure endocrinologiche e psichiatriche, ma da quando è ricoverato lì, dal 2005, non ha avuto miglioramenti né in un disagio né nell'altro. "Di certo - osserva Amato - è difficile definire questi luoghi pienamente carcerari spazi adatti alla cura della sofferenza psichica e alla salvaguardia dei diritti delle persone". "Si è data vita a una riforma zoppa e incompleta - afferma Esposito - che lascia ancora persone a marcire negli Opg e mantiene intatto il meccanismo delle misure di sicurezza, la logica sottesa al manicomio criminale, e lo ripropone con altri nomi, rems, pre rems, articolazioni penitenziarie. Cambiano le forme delle scatole, ma restano luoghi speciali di reclusione utilizzati come contenitori di vite di scarto". Sono 55 le persone oggi ancora ristrette nell'Opg di Secondigliano, di cui la maggior parte dalla Campania (31) e dal Lazio (20). F., 41 anni, è un allevatore abruzzese che per un litigio con il padre è internato dal 21 febbraio scorso: dall'Opg paga un mutuo contratto nel suo paese e sostiene gli oneri economici della sua attività imprenditoriale. "A nulla - racconta Antonio Esposito - sono servite le relazioni positive che escludono ogni pericolosità nel suo comportamento. F è rimasto intrappolato qui, si preoccupa delle sue mucche, dei 34 ettari di vigneto e uliveto, chiede come possa un pazzo gestire un'azienda. Con noi si è scusato se all'arrivo della delegazione ispettiva non è uscito dalla cella: "sapete, vengo da un piccolo paese, se si sa in giro che sono in manicomio, resto marchiato a vita"". V., 43 anni, di Eboli, prepara il ragù: faceva il panettiere e chiede di tornare a casa perché, dice, "non sono malato di mente". C'è anche chi è tra quelle mura da molto più tempo: M., 53 anni, più di 30 in Opg trasferito da Reggio Emilia ad Aversa a Napoli, sembrava dovesse uscire a marzo, ma i giudici ancora non sono certi del computo della pena, e soprattutto non c'è chi fuori voglia prendersene carico. "Quando ci siamo avvicinati - racconta il ricercatore di bioetica - parlava con calma, contento, di una bicicletta e del mare, ma gli agenti ci hanno allontanato da lui, preoccupati". "Si calcola che, dei campani a oggi internati, 36 risulterebbero ancora pericolosi e quindi destinati alle rems - afferma il consigliere Amato - In Campania, dove pure si scontano gravi e incomprensibili ritardi, ne dovrebbero nascere 2 per 40 posti complessivi. Resterebbero quindi 4 posti liberi, insufficienti per le nuove misure di sicurezza. Così, oltre al rischio che queste rems diventino nuovi cronicari per chi era già da anni in Opg, si palesa la concreta possibilità che le cosiddette pre¬-rems, in Campania 3 per 38 posti letto complessivi (ma per ora è attiva e già satura solo quella di Mondragone con 8 posti), destinate oggi alle nuove misure di internamento, pur nate in via provvisoria in attesa delle rems, diventino poi definitive, moltiplicando le strutture di internamento e reclusione e facendo venir meno lo spirito della riforma che insisteva invece sull'assistenza territoriale e la presa in carico delle Asl con i progetti individualizzati. Al di là dei toni spesso trionfalistici usati in questi mesi, la verità è che si scontano troppi ritardi e ci sono molti punti ancora tutti da chiarire. E nel frattempo aspettiamo ancora che le Asl come la Napoli1 facciano partire le unità dipartimentali per la salute mentale". Anche Esposito insiste sulle incongruità della riforma: "Stiamo parlando di un numero estremamente contenuto di persone e si palesa l'assurdità di mantenerle in queste strutture. In realtà soggiace quel nesso tra sofferenza psichica e pericolosità sociale che nemmeno la rivoluzione basagliana è riuscita a intaccare, sicché anche la psichiatria sembra tornare a una funzione prevalentemente custodialistica assumendo un mandato di difesa della società. Il paradosso è che una svolta di civiltà come il superamento degli Opg rischia di determinare il moltiplicarsi di strutture che con la cura nulla hanno a che vedere". Napoli: "liberi, ma ancora reclusi", così gli Opg continuano ad essere un dramma di Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 14 giugno 2015 Il consigliere regionale Amato: "Molti non sono pericolosi però sono costretti a restare". Gli Ospedali psichiatrici giudiziari sono ancora un dramma. Venerdì in quello di Secondigliano c'è stata la visita ispettiva di Antonio Amato, consigliere regionale uscente, accompagnato da Antonio Esposito, un ricercatore universitario, e dal responsabile sanitario Michele Pennino. "La struttura - raccontano Amato ed Esposito - ospita ancora 54 internati. Tra essi G, un ragazzone di 36 anni. È arrivato nell'ospedale psichiatrico giudiziario nel 2005 ed il massimo edittale della sua pena si è concluso nel luglio scorso". F., 41 anni, un allevatore abruzzese, a causa di un litigio col padre si trova internato dal 21 febbraio. "A nulla - racconta Amato - sono servite le relazioni positive che lo indicano come non pericoloso e pienamente orientato nello spazio e nel tempo". M., 31 anni, di Roma, è in Opg dal 13 marzo, direttamente dal trattamento sanitario obbligatorio per un morso sulla mano dato alla dottoressa che gli stava infilando il catetere. V. di Eboli, 43 anni, nella vita di fuori era panettiere e chiede di tornare a casa perché "mi stanno facendo passare per pazzo ma io sono sano di mente". La delegazione ha poi effettuato un sopralluogo nella sezione psichiatrica del carcere di Secondigliano ed ha scoperto che lì dentro, nei giorni scorsi, si è sfiorata una tragedia: una delle 18 celle è chiusa da domenica, quando un recluso ha appiccato il fuoco al suo interno, fortunatamente senza gravi danni. "Gli altri detenuti con cui abbiamo parlato - dice Amato - ci hanno raccontato di ripetuti atti di autolesionismo". Denuncia: "Gli agenti, contro le previsioni della legge, si sono rifiutati di andare a prendere i registri degli eventi critici nei quali tutto ciò dovrebbe essere annotato, adducendo la scusa dello scarso personale presente. Ne chiederemo conto". Il 31 marzo, per legge, gli Opg avrebbero dovuto chiudere. I reclusi avrebbero dovuto essere accolti nelle comunità o, se considerati ancora socialmente pericolosi, nelle residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). In Campania ne sono previste due: una a Calvi Risorta e l'altra a San Nicola Baronia, ma i cantieri non sono neppure partiti. Nelle more, sono state previste Rems provvisorie: una a Mondragone, l'altra a Roccaromana, la terza a Bisaccia. L'unica attiva è Mondragone, già satura, con otto posti. Nel frattempo, a due mesi e mezzo dalla data ultimativa di chiusura stabilita dalla normativa, gli opg restano aperti. Uno a Secondigliano, nell'ex area verde del carcere, l'altro ad Aversa. In quest'ultimo restano una settantina di internati. Genova: botte in carcere; l'agente indagato otto anni fa fu arrestato per una sparatoria di Marco Preve La Repubblica, 14 giugno 2015 L'inchiesta su Marassi emerge un inquietante retroscena sul principale indagato. La guardia carceraria indagata per il pestaggio di un detenuto di Marassi - vicenda che vede indagati anche cinque medici, cinque agenti e il vicecomandante delle Case Rosse - otto anni fa era stato arrestato per una sparatoria e qualche anno prima, minorenne, indagato - e poi archiviato - per un lancio di sassi in autostrada che aveva provocato la morte di un automobilista. Il retroscena della clamorosa indagine del pm Giuseppe Longo che sta svelando uno spaccato inquietante del carcere, è forse altrettanto sorprendente. Dario Pinchera, l'agente oggi trentenne, nel dicembre del 2007 venne arrestato a Cassino, suo paese natale, con l'accusa di aver sparato alle gambe di due coetanei. Si trattava di due amici che erano stati sospettati con Pinchera del lancio di un masso di 41 chili sull'autostrada A1, in provincia di Frosinone, che aveva ucciso un uomo. Pinchera, all'epoca della sparatoria prestava già servizio a Marassi. Ma nonostante il suo coinvolgimento in due episodi oscuri, aldilà delle responsabilità accertate penalmente, Pinchera è rimasto per tutti questi anni regolarmente in servizio operativo a contatto con i detenuti. E nei mesi passati avrebbe pestato con il manganello di servizio (è tra l'altro emerso che all'interno del carcere alcuni agenti sarebbero in possesso di sfollagente telescopici di ferro che non fanno parte della dotazione di servizio) un detenuto condannato per reati di droga. Pinchera è stato sospeso per un anno dal Dap ma l'inchiesta ha portato alla luce una serie di presunte omissioni. In particolare i silenzi sia di un gruppo di guardie ma soprattutto di alcuni medici. Anche se per alcuni di loro è probabile l'archiviazione, sono cinque i camici bianchi iscritti al momento al registro degli indagati. E tra di loro c'è Marilena Zaccardi, salvata dalla prescrizione dalla condanna penale, ma riconosciuta responsabile a livello civile nel processo per le torture avvenute nella caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001. L'agente Pinchera aveva in un primo momento parlato di una caduta accidentale, poi aveva cambiato versione riferendo al suo comandante, Massimo Di Bisceglie, che prima sarebbe stato aggredito dal detenuto, si sarebbe difeso e ci sarebbe stata una colluttazione; il recluso sarebbe scivolato e avrebbe avuto la peggio. Il direttore del carcere Salvatore Mazzeo aveva subito segnalato la vicenda alla Procura della Repubblica ed al Provveditore alle Carceri, Carmelo Cantone. Partiti i primi avvisi a comparire davanti al pubblico ministero (Ansa) Saranno interrogati presto gli agenti indagati nell'ambito dell'inchiesta sul presunto pestaggio di un detenuto nel carcere di Marassi. Il pm Giuseppe Longo, che coordina l'inchiesta, ha notificato in queste ore gli avvisi a comparire. Gli agenti non sono accusati del presunto pestaggio, che sarebbe stato perpetrato da una sola guardia, sospesa due giorni fa dal Dap per un anno, ma avrebbero saputo quanto successo e lo avrebbero taciuto. Gli interrogatori potrebbero chiarire quanto davvero successo a metà aprile all'interno del carcere. Nei giorni scorsi erano stati iscritti nel registro degli indagati cinque medici, tra cui anche Marilena Zaccardi condannata per le torture nella caserma Diaz durante il G8 del 2001. Secondo l'accusa, i medici avevano saputo delle lesioni sul detenuto ma non avevano comunicato nulla. L'agente accusato di avere picchiato il detenuto aveva in un primo momento parlato di una caduta accidentale, poi aveva cambiato versione dicendo di essersi difeso da un'aggressione. Il medico legale che aveva visitato la vittima aveva però sottolineato come le ferite fossero compatibili con l'uso di un manganello. Lo strumento però può essere usato solo in caso di rivolta e deve essere autorizzato. Per questo nelle ore successive all'aggressione la polizia giudiziaria aveva perquisito l'armeria per verificare che non vi fossero stati accessi abusivi nel luogo dove vengono custoditi i manganelli. Larino (Cb): una serra in carcere, anche il senatore Ruta all'iniziativa per i detenuti termolionline.it, 14 giugno 2015 Nuove collaborazioni e nuove iniziative per la casa circondariale di Larino che alla presenza del senatore Ruta ha presentato il progetto di realizzazione di una serra, ormai operante da alcune settimane, che restituisce ortaggi e piante da fiore nonché, da alcuni giorni, al via anche la produzione di miele, vino e l'allevamento di galline. Per Rosa La Ginestra, direttrice Casa circondariale Larino: "quest'anno è partito il primo anno dell'Istituto Professionale per l'Agricoltura e quindi questo è il primo risultato notevole che abbiamo raggiunto. Come risultato in un anno è davvero tanto perché abbiamo questa serra di 200 metri quadri coltivata con i primi pomodori e i primi ortaggi che stanno arrivando a maturazione ma abbiamo aggiunto anche altro. Sei arnie che stanno producendo miele e dieci galline che cominciano a fare le nostre uova quindi una piccolissima azienda agricola che comincia a partire. Questi prodotti che stiamo già raccogliendo li lavoreremo con l'Istituto Alberghiero realizzando i nostri menù con i prodotti di serra è qualcosa che si completa ed è molto bello". Veri e propri percorsi lavorativi volti ad insegnare un'attività pratica che in futuro potrà tornare utile agli stessi detenuti. "Queste sono tutte attività di formazione - aggiunge Rosa La Ginestra - percorsi che possono servire per un futuro reinserimento percorsi lavorativi che insegnano un'attività pratica che può essere sicuramente riproposta una volta che i ragazzi staranno fuori. I nostri ospiti hanno preso con molto entusiasmo l'iniziativa soprattutto considerando che la serra è stata totalmente realizzata da loro quindi, dalle fondamenta allo scavo del terreno, il posizionamento del cemento, la costruzione se la sono vista crescere direttamente loro ed è un loro risultato penso che stare fuori in un carcere è sicuramente entusiasmante". A coronare il giorno di festa è stato lo spettacolo teatrale volto ad omaggiare il grande Massimo Troisi e un momento di karaoke con i tanti ospiti della casa circondariale di Larino. Lamezia: ex carcere sarà sede Provveditorato regionale dell'Amministrazione Penitenziaria lametino.it, 14 giugno 2015 Pubblichiamo la lettera che il capo di gabinetto del Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha inviato al sindaco Gianni Speranza. "Mi riferisco, su incarico del Ministro, alle note a Sua firma che hanno riguardato il decreto di chiusura della casa circondariale di Lamezia Terme. La chiusura di uffici o strutture pubbliche è sempre conseguenza di decisioni sofferte meditate frutto di una difficile ricerca di equilibrio tra esigenze talvolta contrapposte che lei, da pubblico amministratore sono convinto ben conosce. Nel caso specifico, la struttura penitenziaria di Lamezia era divenuta anti economica rispetto alle esigenze di utilizzo degli spazi detentivi e del personale che sono state indicate al Ministro dell'Amministrazione Penitenziaria. Con riferimento alla struttura di Lamezia è in programma il trasferimento della sede del Provveditorato Regionale della Calabria in cui i tempi sono connessi ai lavori per il necessario adeguamento dell'edificio." Bologna: è scontro tra legali e tribunale sulla priorità dei processi penali da trattare Ansa, 14 giugno 2015 Dopo un provvedimento del presidente del tribunale Francesco Scutellari, in cui vengono fissati ulteriori criteri di priorità oltre a quelli stabiliti dalla legge, il consiglio dell'Ordine degli avvocati è intervenuto con una delibera in cui esprime dissenso. Nel provvedimento del presidente, firmato il 12 maggio, si dispone, per far fronte ai carichi di lavoro, che i giudici del dibattimento, oltre ai criteri previsti dal codice di procedura penale che danno la priorità a reati che riguardano ad esempio la criminalità organizzata, il terrorismo, le violenze sessuali, i processi con detenuti, tratti con precedenza anche altri casi. Sono indicati quelli dove c'è la costituzione di parte civile, poi i procedimenti con bancarotta con danno patrimoniale di grande entità, i processi per estorsione e rapina a danno di soggetti deboli, quelli con imputati pubblici ufficiali, quelli derivanti da colpa medica o infortunio sul lavoro. Tra tutti questi, i processi per cui la prescrizione maturi entro 20 mesi dalla prima udienza. Per gli altri reati, si dice che i giudici dovranno rinviare alla prima udienza disponibile, in seguito alla prima cosiddetta di ‘smistamentò, "dopo aver valutato il carico delle successive udienze in relazione alla complessità e al numero dei processi già fissati e di quelli da fissare per i reati prioritari". In ogni caso, non saranno considerati prioritari, per questi reati, i processi per cui la prescrizione maturi entro 15 mesi dalla sentenza di primo grado, oppure entro due anni dalla prima udienza. Il consiglio dell'Ordine esprime però dissenso, facendo notare che "solo al legislatore spetta in via esclusiva il potere di decidere quali categorie di reati meritino una trattazione prioritaria" e inoltre che "la discrezionalità riconosciuta ai singoli giudici non pare conforme al principio di obbligatorietà dell'azione penale né all'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge", rischiando di provocare disparità di trattamento. Per gli avvocati "altri dovrebbero essere i rimedi da adottarsi fin dalla fase delle indagini preliminari, nel corso della quale, come è noto, è assai elevato il numero di procedimenti che periscono a causa della prescrizione del reato". Palermo: presentata la convenzione Codifas-Uepe per reinserimento sociale detenuti Italpress, 14 giugno 2015 "Voglio esprimere il mio apprezzamento per questa iniziativa della Codifas e dell'Uepe, che permette di coltivare le buone pratiche per creare una comunità, oltre a una reciproca e positiva contaminazione, tramite l'agricoltura sociale". Lo ha detto il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che ha partecipato alla presentazione della convenzione stipulata tra l'Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Palermo e il Consorzio di Difesa dell'Agricoltura Siciliana, finalizzata a promuovere il reinserimento di persone in esecuzione penale tramite lo sviluppo di attività riparative svolte nel contesto dell'Orto Urbano. Lo scopo è ricucire il legame sociale tra cittadini della stessa comunità. Oltre al sindaco, erano presenti all'iniziativa il presidente del Codifas, Ambrogio Vario, la direttrice dell'Uepe, Marina Altavilla, il consigliere comunale Francesco Bertolino e il presidente della Settima Circoscrizione, Pietro Gottuso. "Grazie anche al consigliere Bertolino - ha aggiunto Orlando, che ha mostrato interesse e ha sostenuto questa esperienza. Questa convenzione rende possibile la creazione di una comunità palermitana che si oppone allo sfrenato individualismo che si è diffuso negli ultimi anni". Trapani: gravi carenze strutturali al carcere, avviate le verifiche dei tecnici ministeriali di Luigi Todaro Giornale di Sicilia, 14 giugno 2015 Dopo la visita ispettiva della Uil alle carceri di San Giuliano, dove sono state riscontrate gravi carenze strutturali, e le successive interrogazioni presentate dei senatori Pamela Orrù e Vincenzo Maurizio Santangelo, una troupe di tecnici, inviata dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, ha eseguito un sopralluogo presso la casa circondariale. "Qualcosa si muove - dice il coordinatore regionale della Uil Penitenziari Sicilia, Gioacchino Veneziano - I tecnici hanno visionato i reparti più disastrati e cioè il Tirreno e la sezione femminile denominata Egeo". Padiglioni, dove la delegazione sindacale, durante la visita effettuata nei giorni scorsi, ha riscontrato il crollo di interi pezzi di tetto, ma anche calcinacci caduti, muffa e infiltrazioni d'acqua piovana nelle pareti, porte e infissi aggrediti dalla ruggine, muri lesionati e a rischio crollo, apparecchiature per la video sorveglianza guaste. Televisione: oggi a Tg3 Persone "nuovo carcere paradiso", la Colonia penale di Is Arenas Ansa, 14 giugno 2015 "Mauro Pusceddo è un agronomo. Ma non solo. Perché lavora anche con i detenuti della casa di rieducazione di Is Arenas, Oristano, un'azienda multifunzionale dove si imparano i lavori agricoli, l'attività vivaistica e l'allevamento", viene pubblicato in una nota la Rai. Attraverso una nota la tv pubblica spiega: "Mauro Pusceddo è un agronomo. Ma non solo. Perché lavora anche con i detenuti della casa di rieducazione di Is Arenas, Oristano, un'azienda multifunzionale dove si imparano i lavori agricoli, l'attività vivaistica e l'allevamento. Un'esperienza che lui stesso racconta a ‘Personè, il settimanale del Tg3 dedicato alle storie di vita quotidiana, in onda domenica 14 giugno alle 12.15 su Rai 3". "Scopo dell'azienda - spiega Mauro - è quello di dare, attraverso il lavoro agricolo, nuove speranze e prospettive di reinserimento nella società: "Piantare un seme, seguirlo nella sua crescita, raccogliere il frutto del proprio lavoro, dona speranza oltre che la possibilità di un futuro sbocco lavorativo" espone in conclusione del comunicato la Rai. Riviste: su "Il Ponte" parole di verità sulla crisi della magistratura Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 14 giugno 2015 Se il capo della Polizia leggerà questo intervento di Enrico Zucca, avrà modo di rendersi conto di una cosa: sulla vicenda del G8 genovese l'autore non risparmia critiche nemmeno nei confronti del proprio "corpo" di appartenenza, la magistratura. Di più: addirittura nei confronti dell'ufficio nel quale ha prestato servizio per anni, la Procura della Repubblica del capoluogo ligure. E non certo sulla base di pregiudizi politici o inimicizie personali, ma in virtù di un principio elementare, ma ormai non più scontato nel nostro paese: il libero esercizio della ragione critica. Un uso della ragione kantianamente rigoroso, misurato, impossibile da confondere con un abuso "diffamatorio" della libertà di parola. No: nella riflessione di Zucca, pm del processo per i fatti della Diaz, non c'è nulla di lesivo nei confronti dell'onorabilità della polizia, né di quella della magistratura, con buona pace di chi vorrebbe vederlo sottoposto ad azione disciplinare per le parole di verità dette la scorsa settimana in un'iniziativa pubblica e scritte anche nell'articolo che riproduciamo. Quel che c'è, invece, è una riflessione utile a capire qualcosa che dovrebbe stare a cuore a tutti, ai rappresentanti istituzionali in primis: la (cattiva) condizione di salute dello stato costituzionale dei diritti nel quale (almeno formalmente) viviamo. E ciò vale non solo per il testo di Zucca, ma anche per tutti gli altri saggi raccolti nel prezioso volume della rivista Il Ponte (da poco disponibile nelle librerie) interamente dedicato alla giustizia italiana. In particolare, alla magistratura: al suo ruolo, ai suoi indirizzi di fondo, al suo autogoverno, alla crisi delle correnti "storiche" (a partire da Md), al rapporto con la politica e i poteri. Voci di magistrati e operatori del diritto lontane anni luce dal coro di quel "partito dei giudici" esistito solo nelle caricature di stampo berlusconiano o vagheggiato, con opposte pulsioni, da giornalisti con la passione per le manette facili. Agli autori non interessa lo schema usurato del "conflitto politica-magistratura", del tutto inutile per capire i mutamenti in corso nella vita concreta delle aule dei nostri tribunali. Fra i quali, il curatore del volume, Livio Pepino, ne sottolinea uno che merita di essere ripreso: la "crisi di ruolo" dei magistrati stessi, che "ha portato - e sempre più porta - giudici e pubblici ministeri a ricercare e accettare eterogenei ruoli esterni, evidentemente ritenuti più gratificanti di quelli ordinari". Raffaele Cantone o il sottosegretario Cosimo Ferri sono solo gli esempi più evidenti (e assai diversi fra di loro), ma gli incarichi politico-amministrativi affidati a togati sono moltissimi, in barba al presunto "conflitto politica-magistratura". I saggi raccolti affrontano numerose questioni: dalla giurisdizione del lavoro dopo il Jobs Act alle contraddizioni fra salute ed esigenze produttive come nei casi Eternit o Ilva, dalle condizioni delle carceri nel quarantennale del nuovo ordinamento penitenziario alla repressione penale del movimento No Tav. Materiali utili sia a superare approcci superficiali ed emotivi a questioni complesse, sia a riconoscere le ragioni dei diritti anche quando le sentenze non riescono a "fare giustizia". Per questo, e altro ancora, c'è da augurarsi che il volume de Il Ponte possa conquistare l'attenzione e suscitare la discussione che merita. Immigrazione: la frontiera dell'egoismo di Leo Lancari Il Manifesto, 14 giugno 2015 Europa. Frontiera chiusa e cariche della polizia. La Francia respinge i migranti, che minacciano lo sciopero della fame. Frontiera chiusa e cariche della polizia contro poche decine di migranti che per tutta risposta minacciano lo sciopero della fame o, peggio, di gettarsi in mare dalla scogliera se non gli viene consentito di entrare in Francia. A Ventimiglia l'Europa si ferma e se non arriva a dichiarare fallimento di certo dimostra tutta la sua incapacità e il suo egoismo per il modo in cui affronta l'emergenza profughi. Un'impotenza che traspare chiaramente anche dalla bozza circolata in queste ore del documento preparato per il Consiglio europeo del prossimo 26 giugno in cui si incentivano gli Stati a rimpatriare i migranti economici, ma non si spende neanche una parola su cosa fare con i richiedenti asilo. Capitolo volutamente lasciato in bianco, a ulteriore dimostrazione delle divisioni che da giorni contrappone il blocco dei Paesi "duri" dell'Unione, - di cui fa parte anche la Francia - a quelli che invece accettano, in nome della solidarietà, la logica proposta dalla Commissione Juncker della ricollocazione dei richiedenti asilo tra tutti gli Stati. "We need to pass" dicono i cartelli che eritrei e sudanesi innalzano seduti in un'aiuola a pochi passi dalla frontiera francese. Hanno bisogno di passare perché le loro famiglie, i loro amici, il loro futuro è oltre il doppio sbarramento di poliziotti italiani e gendarmi francesi che gli impediscono di andare, di passare per raggiungere il nord Europa "dove c'è più umanità". Dopo la Germania che ha sospeso Schengen, dopo l'Austria che in nome del regolamento di Dublino ci rispedisce i migranti guardandosi bene dal fermare quelli che invece dal suo territorio cercano di entrare in Italia, la nuova frontiera - è il caso di dirlo - della disperazione è adesso quella francese. È bene chiarire subito che non c'è nessuna invasione in atto. Nell'ultima settimana Parigi ne ha rispediti indietro un migliaio ma in queste ore a spaventare i francesi sono tra i trenta e i cento migranti, a seconda dei flussi di arrivo, e tra questi ci sono anche donne e bambini. Da due giorni dormono per strada, anche sotto la pioggia. "Comprendiamo perfettamente le loro difficoltà, ma non è qui che si può risolvere questi problemi", spiegano fonti della police nationale. Il problema è il regolamento di Dublino che obbliga i profughi a rimanere nel Paese in cui sbarcano, ma c'è qualcosa che non va se è vero che alcuni dei migranti rispediti indietro hanno mostrato un biglietto di treno Nizza-Parigi dimostrando così di trovarsi già in territorio francese quando sono stati fermati dalla polizia. Come giù successo alla stazione Centrale di Milano e alla stazione Tiburtina di Roma, anche a Ventimiglia la solidarietà più grande arriva da associazioni e cittadini. Acli, Arci, scout, Croce rossa ma anche tanta gente normale si fa in quattro per portare cibo, acqua e vestiti e migranti. Chi invece non si stanca di giocare con la vita delle persone è l'Unione europea. La bozza di documento che dovrebbe riassumere le conclusioni del vertice dei Capi di stato e di governo del 26 giugno spiega bene qual è la logica con cui i consiglio europeo intende muoversi. Allontanare subito i migranti economici illegali, che devono essere rimpatriati "anche grazie a "una mobilitazione di tutti gli strumenti" possibili. L'obiettivo è quello di aumentare il numero delle riammissioni portandolo oltre il 39,9% registrato nel 2013. Per questo si prevede un potenziamento di Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere, oltre a una "velocizzazione dei negoziati con i paesi terzi (non solo quelli in rima linea); lo sviluppo di regole nel quadro della Convenzione di Cotonou; il monitoraggio dell'attuazione degli Stati della direttiva sui rientri". Neanche una parola, invece, su cosa fare con i 40 mila eritrei e siriani (24 mila dall'Italia e 16 mila dalla Grecia) che secondo quanto stabilito il 27 maggio scorso dalla commissione europea andrebbero divisi tra gli Stati membri. A bloccare tutto, a spaventare le cancellerie di mezza Europa, è l'"obbligatorietà" alla base della decisione e che in molti, a partire dalla Spagna, vorrebbero sostituire con la "volontarietà" nell'accogliere i profughi. Secondo alcune fonti europee, Francia e Germania sarebbero disponibili ad accettare temporaneamente i profughi, ma solo a patto che Italia e Grecia si impegnino maggiorente nei foto segnalamenti e nella raccolto delle impronte digitali dei migranti. "Perché sia chiaro dove sono sbarcati", spiegano sempre le fonti. Perché sia chiaro probabilmente che Dublino non si tocca. Immigrazione: perché siamo diventati razzisti come Salvini di Lanfranco Caminiti Il Garantista, 14 giugno 2015 "Ogni nero che salviamo è un voto in più al razzismo". Diventa moneta comune il "ragionamento" per cui se cerchi intanto di affrontare un cataclisma dell'umanità con una coperta e una scatoletta, e sai che puoi metterci solo una toppa, oggi e domani e pure dopodomani, perché quello che sta accadendo è al di là di ogni sforzo, al di là pure di ogni immaginazione, un Armageddon, finisci col portare acqua al mulino di chi urla contro i negri, di chi li vuole vedere morti, affogati, bruciati, qualunque cosa comunque a tre metri dal culo mio. Per cui, secondo il "ragionamento" anzidetto, l'unico modo di scongiurare l'avanzata dei razzisti, variamente dipinti e colorati, è quello di parlare come loro. Forse anche un tantinello più di loro. E di fare quello che vogliono loro. E il "teorema Valls", dal nome del temerario primo ministro francese - temerario, stando almeno alle ultime notizie, per cui è volato a Berlino in aereo di Stato a vedere la finale di Champions League, portandosi dietro i figlioli, "tanto il viaggio era ormai approntato", e allo scoppio dello scandalo ha ritenuto equo versare duemilacinquecento euro di risarcimento. Manuel Valls per togliere acqua alla navigazione di Marine Le Pen ha pensato che fosse meglio essere più nazionalista di lei, di urlare contro l'immigrazione più di lei, di sfoggiare i muscoli più di lei. Più di lei e di Sarkozy messi assieme, anzi. È per questo che ha mandato la Gendarmerie e la Police National con i pennacchi e con le loro camionette e in assetto antisommossa al confine con l'Italia, al valico di ponte san Ludovico, a Ventimiglia. C'erano quaranta profughi da "fronteggiare". Quaranta. Suona la Marsigliese, sventola il tricolore, Vive la France. Quel courage, davvero, come siete eroici. Liberté. Egalité. Fraternité. Fanculo. È la paura della destra che sta fottendo l'Europa. Che sia la tedesca Pegida, o la Lega di Salvini, o i polacchi o gli ungheresi o gli estoni o i fiamminghi, i politici europei hanno una paura fottuta della destra. Hanno ragione, certo. Ma non è colpa dell'immigrazione, non più di quanto fosse colpa degli ebrei quella di essere ebrei. Hanno ragione, certo. Ma non è lasciandosi intimorire, non è inseguendo la loro follia, non è disconoscendo quanto è stato fatto e quanto ancora può essere fatto, che si ferma la destra. Non è mimetizzandosi da destra che si ferma la destra. Non ha funzionato in economia, e ci ha portato al disastro, non funzionerà neppure con l'immigrazione. E chissà cosa potrà accadere. Il presidente Jean Claude Juncker insiste sul "piano di responsabilizzazione" dell'Europa. Non fa più riferimento alle "quote" anche perché da una parte nessun protocollo era stato realmente sottoscritto e c'era un'intesa molto lasca, ma soprattutto perché nessuno immaginava - anche secondo i calcoli più pessimistici -quello che sta accadendo. Juncker parla al deserto. Lo sanno tutti che l'ha messo lì la Merkel. Aveva provato a ritagliarsi uno spazio, a fare da mediatore, presentando una propria proposta per la Grecia, e è finita che Tsipras e i suoi hanno detto che tanto vale parlare direttamente con Schàuble e i tedeschi. Non conta una ceppa, Juncker. E non è una buona notizia. Nessuno vuole i negri. Nessuno li vuole a casa propria. Nessuno li vuole in Italia. Il fatto è che pure i negri non vogliono stare in Italia. E non perché c'è la crisi, e non si può togliere un tozzo di pane a un italiano e darlo al negro, o non si può trovare un tetto al negro quando ci sono tanti italiani che stanno per strada. Queste sono stronzate. Ci sarebbe tanta ricchezza in questo paese che potremmo dare da mangiare a mezzo mondo, e ci sono paesi abbandonati e campagne senza braccia e industrie e commercio e artigianato che non riescono più a produrre un bottone e ci sarebbe tanto bisogno. Solo che la crisi ha preso la piega che ha preso, di una maggiore redistribuzione della ricchezza, cioè sta continuando a togliere di sotto per continuare a accumulare di sopra. E questo lo hanno capito pure a Ouarzazate, lo hanno capito pure a Libreville, lo hanno capito pure a Bamako. Lo hanno capito perché da sempre succede pure da loro. Succede in maniera intensiva, diciamo. E cosa mai può pensare una madre eritrea che mette al mondo un figlio di diverso da una madre estone o ungherese o fiamminga, cosa può desiderare se non che quel figlio possa andare a scuola, farsi una strada, trovare un lavoro, vivere una vita serena? Perché dovrebbe far pagare al figlio il "destino" d'essere nato in un posto di merda? E un tempo, quando nascere figlio di operaio o di zappatore era nascere con un "destino" segnato, nascere al posto sbagliato, che se la cicogna si fosse fermata un pò più in là eri figlio del baronetto, cosa spingeva le madri a lottare? Liberté. Egalité. Fraternité. Fanculo. Dicono che si potrebbero rimandare a casa loro. Ce l'avessero ancora una casa, che so i siriani dove li rimandiamo, a Palmira? Oppure da Assad? E i libici, dove li rimandiamo, a Bengasi, a Tobruk, in quella Tripoli del cazzo? Potremmo fare come pare abbiano fatto gli australiani, almeno sinora il primo ministro Abbott non ha smentito. Invece di sparargli, agli scafisti, che portano carne umana dal Bangladesh, dal Myanmar e dallo Sri Lanka, ha dato loro dei soldi. Prima ha ammassato i rifugiati in isolette sperdute nel Pacifico, in condizioni bestiali, poi ha chiamato gli scafisti, li ha pagati e gli ha detto di portarli indietro, nei paesi d'origine. Potremmo fare pure noi così. Forse il ministro Gentiloni ha chiesto più soldi all'Europa per questo, che i nostri non bastano. Gli scafisti ci starebbero, penso. Doppio viaggio, doppio guadagno. Li portano di qua del Mediterraneo, li rifocilliamo, alla stazione di Milano o alla Tiburtina o in un qualunque centro di detenzione, gli facciamo la doccia, e se hanno la scabbia li spruzziamo col ddt, e poi ripuliti, con qualche felpa, un paio di bottiglie d'acqua, una tessera telefonica e due coperte, li rimandiamo di là del Mediterraneo. Potrebbe essere un'idea, no? Potremmo fare come Chamberlain, che offrì agli ebrei di trasferirsi in Uganda. Il clima era buono e sopportabile e c'era tanta terra da coltivare. Ci ragionarono su davvero, gli ebrei, e mandarono una delegazione a controllare. Ci sono troppi leoni - scrissero in un report - e i Masai non sembrano molto contenti di vederci qua. Non se ne fece niente. Forse i siriani o gli eritrei avranno meno fisime degli ebrei, e con i Masai non si troveranno poi male. Oppure potremmo fare come Stalin, che per toglierseli dai coglioni gli aveva inventato pure una nazione, il Birobidzhan. L'aveva ricavata tra la Crimea e l'Ucraina, e a molti ebrei non parve vero poter trovare finalmente riparo dai pogrom. Anche lì, gli ucraini non sembravano proprio contenti di vederli. Poi Stalin cambiò idea, per una qualche sua purga del cazzo, e decise di arrestarne un pò e mandarli da un'altra parte, in Siberia magari. Il resto lo fecero ucraini e nazisti. Ci sarà un di posto dove metterli, tutti questi immigrati, no? In Patagonia, in Groenlandia. L'Europa potrebbe finalmente trovare una linea comune e organizzarsi e mostrarsi compatta nell'affrontare e risolvere insieme un problema. Così Salvini non strillerà più e neppure la Le Pen. E noi navigheremo sicuri. Trattiamo gli immigrati come pacchi o come bambini, come se non avessero una testa. Non hanno una voce, è vero, non ancora. Ma parleranno, prima o poi. Oh, se parleranno. Liberté. Egalité. Fraternité. Fanculo. Immigrazione: il premier Renzi "spera" nell'Ue di Andrea Colombo Il Manifesto, 14 giugno 2015 Roma e le capitali europee nel panico. In Italia oggi si vota. E la destra alza la voce al massimo. Stavolta Renzi è nervoso davvero. Si sente sotto attacco su due fronti, e il primo, quello di Mafia Capitale, è meno temibile dell'altro, l'emergenza immigrazione. Ma qui gli assedianti non sono gli immigrati: ne sono arrivati tanti quanti l'anno scorso. Il nemico con cui Renzi, abituato a vincere facile con i deboli, deve vedersela, non risiede nella maciullata Libia ma nelle eleganti capitali europee, e vincere con quella gente è tutt'altro paio di maniche. Per uscire dall'incubo in cui si è trasformato quello che sino a un paio di mesi fa sembrava il sogno di una vittoria europea, il premier del Pd ha meno di 15 giorni. La data decisiva sarà il 26 giugno, riunione del Consiglio d'Europa, anticipata dal summit di martedì prossimo dei ministri degli Interni. Sino a quel momento, Renzi sarà impegnato a fondo nel giro di trattative discrete che deciderà l'esito del vertice. Inizierà mercoledì, con l'inglese Cameron, poi, domenica, arriverà il colloquio più difficile, quello con Hollande, presidente del paese al centro della polemica sulle frontiere chiuse. Il premier sa che arrivare al Consiglio europeo con le regioni del Nord impegnate a fare su scala nazionale esattamente quello che i paesi "egoisti" fanno in dimensione continentale vorrebbe dire presentarsi alla sfida con un braccio legato dietro la schiena. Ha fissato un incontro con le Regioni poco prima dell'appuntamento europeo. Conta di far valere lì; con Maroni, Zaia e Toti, il più classico degli argomenti, l'"interesse nazionale". Deborah Serracchiani lo dice a chiare lettere: "Se Salvini e i suoi vogliono essere utili si uniscano a questo lavoro sull'Europa". Traduzione: rendano la missione di Renzi un pò più facile invece che proibitiva. L'argomento è forte e di solito persuasivo, soprattutto perché facilmente trasformabile in contundente propaganda. Ma stavolta l'arma rischia di rivelarsi spuntata, perché proprio in termini di propaganda il disastro provocato dalla sospensione di Schengen è l'occasione più ghiotta che potesse finire nelle mani dell'opposizione di destra, ma anche di quella a 5 stelle. Ormai la Lega detta legge. Dopo le elezioni, e con i ballottaggi di oggi alle porte, ogni ricordo della "destra moderata" è stato messo da parte. Salvini durissimo: "L'Italia sarà lasciata sola. O il governo si sveglia o meglio andare alle elezioni ed eleggere ministri più capaci". Gli azzurri addirittura superano i leghisti in truculenza e impossibili fantasie bellicose. "L'Italia è ridotta a una discarica. Il rischio di epidemie è reale. Blocco navale", tuona il generale Gasparri. L'ex pitonessa Santanché esorta a prendere a modello la Francia: "Ci sta dando una lezione di coraggio e di coerenza". Ma quel che più teme Renzi non è la destra, è l'attacco concentrico mosso dal fronte Lega-Fi da un lato e M5S dall'altro. Dal suo blog Beppe Grillo guida la carica e lo fa con sottigliezza sconosciuta a Salvini. Evita di scagliarsi contro gli immigrati e prende di mira la Ue: "Perché dobbiamo rimanerci se l'unica risposta, quando c'è un problema di queste dimensioni, è chiudere i ponti levatoi come nel Medioevo? Così l'Italia diventa una trappola per italiani e profughi". Ma la sostanza non è diversa dalle intemerate di Maroni e Salvini: modifica del regolamento di Dublino "firmato a suo tempo anche dalla Lega", quello che impone ai Paesi in cui i migranti arrivano di trattenerli invece di lasciare a loro la scelta e "uscita temporanea da Schengen". La prima proposta sarebbe in realtà ragionevole, la seconda si accoda al clima di panico che flagella sia l'Europa che l'Italia. Le voci sensate sono poche: quella del papa, quella di Emma Bonino: "Mi interessa un messaggio di integrazione, non di paura. È l'unica risposta possibile". Non è l'umore generale del paese. Renzi lo sa e sa che, tanto più dopo aver cantato vittoria a voce altissima, non può ora permettersi di essere maltrattato senza neppure cercare di addolcire la pillola dall'Europa. Anche la propaganda ha i suoi limiti, nonostante la complicità dei media. Il sottosegretario agli Esteri Della Vedova può anche cercare di salvare il salvabile rivendicando al governo il merito di "aver imposto la discussione". Ma senza risultati a breve, quel merito servirà a pochissimo. Immigrazione: alla stazione di Milano, dove i profughi vengono nascosti nei negozi vuoti di Marta Santomato Cosentino Il Manifesto, 14 giugno 2015 Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Anche se quel lontano è molto vicino, solo a pochi metri di distanza, solo qualche scalino più in basso. Sicuramente lontano dall'essere una soluzione definitiva. Dallo scorso venerdì notte, al termine di un vertice in Prefettura, è stata decisa la chiusura del mezzanino della Stazione Centrale di Milano dove, da oltre un anno e mezzo, transitano quotidianamente centinaia di profughi. L'area "storicamente" adibita all'accoglienza e allo smistamento dei migranti nei diversi centri della città, adesso è stata transennata. Ma un'adeguata soluzione alternativa sembra non essere propriamente a portata di mano. È stato annunciato il potenziamento delle capacità di accoglienza: 300 posti in più nell'ex Cie di Corelli ma intanto, le persone in esubero, una media di 200 al giorno, continuano a dormire all'aperto. Si naviga a vista: per stamattina è attesa la consegna - dopo l'ok di Grandi Stazioni - di due strutture, prima adibite a temporary shop, nella Galleria delle Carrozze. Le persone vengono ospitate dove prima venivano venduti i souvenir. Così sarà fino al prossimo martedì quando sembra che verranno aperti dei locali più idonei nelle vie laterali della stazione. Insomma il problema è tutt'altro che risolto e la soluzione trovata sembra essere più il frutto delle pressioni della Lega che soffia sul "pericolo scabbia" che della reale volontà di offrire una sistemazione dignitosa a chi, peraltro, chiede solo di poter transitare. La fotografia quindi è sempre la stessa, solo pochi metri più in là. Il bivacco di uomini, donne e bambini si è spostato al piano inferiore dove ancora in centinaia aspettano in fila di essere registrati e di ricevere un panino, un succo e una mela. I bambini continuano ancora a dormire per terra, in mezzo agli stracci e ai rifiuti. Da adesso i viaggiatori non rischiano più di inciamparci mentre, col naso all'insù, consultano il tabellone degli orari. Nel frattempo, anche ieri sono continuati gli arrivi, registrati a singhiozzo solo nel pomeriggio: una cinquantina di siriani tra cui diversi minori. I volontari hanno raccontato di aver visto facce nuove tra i cittadini eritrei, il cui flusso è il più difficile da monitorare anche perché la maggior parte non resta in stazione ma si sposta nei pressi di Piazza Oberdan dove la comunità locale è molto presente. Nel frattempo è stata smentita la notizia, diffusa da Maroni, di una tendopoli che avrebbe dovuto sorgere in piazza Duca d'Aosta. Il prefetto di Milano ha reagito, bollandole come "del tutto false", alle dichiarazioni del governatore della Lombardia che ieri mattina ha anche fatto dietro front sulla minaccia di tagliare i fondi ai comuni che accolgono nuovi profughi. Immigrazione: l'On. Pili "2mila profughi confinati nelle carceri dismesse della Sardegna" Ansa, 14 giugno 2015 "Il piano top secret per 2.000 nuovi profughi in Sardegna sarà attuato con il metodo dell'emergenza, ma tutto deve essere pronto e pianificato. Niente di concordato ma dinanzi alle navi cariche di migranti nessuno potrà dire più niente. Il tutto passa attraverso una comunicazione in codice tra ministeri emanata tra martedì e mercoledì scorsi: liberare entro pochi giorni le strutture carcerarie chiuse di Iglesias e Macomer, sgomberare la scuola penitenziaria di Monastir e disporre verifiche per l'utilizzo immediato del vecchio carcere di Buon Cammino a Cagliari e di quello di Bancali a Sassari", lo ha denunciato il deputato Mauro Pili (Unidos), che ha presentato un'urgente interrogazione parlamentare per bloccare il piano avviato in questi ultimi giorni in Sardegna. "La decisione è stata presa ai massimi livelli governativi: ministro dell'interno, della Giustizia e presidenza del Consiglio. È un piano - ha sottolineato Pili - da tenere sotto copertura che riguarderà innanzitutto la Sardegna. E la scelta riguarda proprio la sua caratteristica principale: il suo essere isola e isolata. Una decisione scandalosa e contro tutte le disposizioni internazionali. Si vuole creare una vera e propria barriera fisica che isoli gli immigrati dal resto del continente e impedisca loro di muoversi nel territorio nazionale con troppa facilità. Anzi, la Sardegna sarebbe di fatto un vero e proprio campo di isolamento". "Il piano è stato già messo in campo con effetti immediati. E i primi provvedimenti - ha aggiunto Pili - li ha disposti il ministro della Giustizia Orlando. Disposizioni protocollate mercoledì mattina sull'ufficio del Dap Sardegna con il bollino dell'urgenza di Stato. Il piano prevede 800-1000 migranti nella scuola penitenziaria di Monastir, 300-400 nel carcere di Iglesias, 300-400 nel carcere di Macomer. In valutazione l'utilizzo del carcere di Buon Cammino a Cagliari e del centrale carcere di San Sebastiano a Sassari". Turchia: in accordo con l'Ue, programma di armonizzazione sulle norme carcerarie di Graziella Giangiulio agccommunication.eu, 14 giugno 2015 La Turchia e l'Unione europea hanno dato vita a un programma di armonizzazione sulle norme carcerarie. Le guardie carcerarie turche hanno seguito un corso di 1.000 giornate di formazione. La formazione, che è stata erogata alle guardie delle carceri turche, aveva il seguente motto: "Il cambiamento inizia dentro" è costata € 1.900.000 (2,1 milioni dollari) ed è stato fornita grazie a un accordo di gemellaggio con il Regno Unito e Portogallo. L'Incaricato d'Affari della delegazione Ue in Turchia, Bela Szombati ha detto che il progetto è stato un "buon esempio di relazioni di lunga data tra la Turchia e l'Unione europea". E poi ha proseguito affermando: "Il Sistema penale di un paese la dice lunga sul suo rispetto dei diritti umani. L'Ue presta particolare attenzione a questo", ha detto Szombati. Il sistema è stato progettato per "sviluppare un servizio di applicazione standardizzato, strutturato e ben definito, tra cui un sistema completamente funzionale per assicurare le cure di riabilitazione e di successo per la reintegrazione dei detenuti provenienti da diversi background criminologici, da non trascurare la formazione del personale penitenziario che svolge in linea con gli standard dell'Ue". Hanno riferito i responsabili del progetto. La Riforma della prigione e l'armonizzazione è stata una caratteristica di passi della Turchia verso l'adesione all'Ue. La relazione UE 2013 ha rivelato "La Turchia sta portando avanti un ambizioso programma di riforma prigione per un certo numero di anni, che ha portato miglioramenti alle condizioni carcerarie e delle infrastrutture". Stati Uniti: New York, i due ergastolani aiutati a evadere dalla sarta innamorata di Paolo Mastrolilli La Stampa, 14 giugno 2015 Scappati scavando un tunnel. Da otto giorni maxi caccia fra Vermont e Canada. Joyce Mitchell, dipendente del carcere, è stata arrestata. Alla fine rischia di essere una storia d'amore, questa dei due ergastolani evasi da un carcere di New York. L'amore verso uno di loro nutrito da una sarta della prigione, che è stata arrestata venerdì perché avrebbe fornito ai due detenuti gli strumenti per preparare la fuga. Dallo scorso fine settimana nello Stato di New York è in corso una caccia all'uomo, che sta terrorizzando la popolazione. Due condannati per omicidio, Richard Matt e David Sweat, sono scappati dalla Clinton Correctional Facility di Dannemora, un carcere di massima sicurezza per i criminali più pericolosi. La loro fuga ricorda quella da Alcatraz, diventata un film, perché poco alla volta hanno scavato un buco nel muro, calandosi verso la libertà attraverso una grondaia. Solo che fuori dalla prigione non c'era ad attenderli l'insidioso Oceano Pacifico, con le sue correnti fatali, ma fitti boschi dove nascondersi. Secondo la polizia, Richard e David sono gente spietata, pronti ad usare qualunque violenza pur di salvarsi. Da una settimana oltre 800 agenti li cercavano, senza una sola traccia utile, fino a quando l'attenzione degli inquirenti non si è concentrata su Joyce Mitchell, una donna di 51 anni che lavorava nella sartoria del carcere. Joyce, detta Tillie dagli amici, è figlia di un noto produttore di carne locale, ma la sua vita non è andata sempre per il verso giusto. Si era sposata nel 1980 con il fidanzatino della scuola, Tobey Premo, ma il loro matrimonio era finito presto in un divorzio pieno di acrimonia. Tobey infatti aveva scoperto che Joyce lo tradiva con Lyle Mitchell, e l'aveva lasciata. Allora Joyce aveva sposato Lyle e insieme avevano avuto un figlio, Tobias, che oggi è nell'Air Force. La vita però era stata dura, al punto che Joyce aveva dovuto chiedere all'assistenza sociale di aiutarla a pagare i conti per crescere il figlio. Poi aveva trovato lavoro insieme al marito nel carcere, dove guadagnava 57.697 dollari all'anno facendo la sarta. Là aveva conosciuto i due ergastolani, stringendo un'amicizia troppo stretta, al punto di finire sotto inchiesta per un possibile provvedimento disciplinare. Così, quando sono scappati, per gli investigatori è diventato naturale andare a vedere se Joyce ne sapeva qualcosa. Hanno scoperto che aveva fornito loro uno scalpello, un seghetto, un cacciavite, e altri attrezzi usati per scavare la via di fuga. Motivo: si era innamorata di uno dei due, e magari sperava di seguirlo dopo la libertà. Ora Joyce sta collaborando con la polizia, che venerdì l'ha ammanettata e portata in prigione. Rischia sette anni di carcere come complice, a meno che non riveli i segreti dei due ergastolani, e aiuti la polizia a riprendere o uccidere l'uomo che ama.