Il carcere entra a scuola. Lo strano incontro tra detenuti e studenti di Elisabetta Longo Tempi, 13 giugno 2015 "Mettendo gli studenti di fronte a una storia, si mostra loro che il carcere è fatto da persone". Intervista a Ornella Favero, responsabile di Ristretti Orizzonti. La prima domanda che una persona libera fa a un detenuto o ex detenuto è sempre la stessa: "Cosa hai fatto per meritare la reclusione in carcere?". È la stessa domanda che un detenuto o ex spera non gli venga mai posta, per non essere identificato con il reato che ha commesso. "La curiosità è una caratteristica molto umana. Nei ragazzi giovani è ancora più accentuata. Quando abbiamo cominciato a portare ex detenuti nelle scuole ci siamo trovati subito a scontrarci con questo imbarazzo", racconta Ornella Favero, responsabile di Ristretti Orizzonti. Una Associazione di uomini e donne reclusi nel carcere di Padova che da 18 anni si occupa di realizzare un quotidiano, e che da qualche anno esce dal carcere per recarsi nelle scuole. L'idea è stata proprio di Favero che ha chiamato l'iniziativa "Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere". È da più di dieci anni che prosegue, con sempre più adesioni, e per l'anno scolastico 2014-15 si è appena conclusa. Sono stati più di 4.500 i ragazzi coinvolti quest'anno, un numero sempre crescente, impossibile contare quelli conosciuti in un decennio di incontri. Sono così tante le richieste di incontri nelle scuole, che molto spesso Ristretti Orizzonti è costretta a dire di no. Nel corso degli anni è un po' variata la modalità con la quale gli incontri si tengono, spiega Favero: "Abbiamo capito che il modo giusto per parlare del carcere ai ragazzi era parlare della vita in cella. Non di qualcosa di astratto, non del problema del carcere in Italia, rischiava di essere troppo lontano dal mondo spensierato degli adolescenti. Mettendo di fronte a loro una storia, invece, si mostra loro che il carcere è fatto da persone". "I ragazzi si sentono raccontare percorsi di vita, non un elenco di reati scabrosi. Vogliamo che capiscano che molto spesso le condizioni sono così sfortunate che si è portati a compiere un reato oppure, altre volte, è solo questione di attimo. Penso che abbiamo fatto un buon lavoro quando, dopo l'incontro, un ragazzo viene a dirmi: "Anche io un giorno potrei comportarmi così". Perché il carcere non è una dimensione così lontana dalle persone che si ritengono ad oggi "libere"". Quando Favero ha cominciato a proporre gli incontri ai detenuti del carcere di Padova, la risposta è stata preceduta da qualche attimo di imbarazzo. "Mi dicevano di non essere in grado di parlare di sé, di sentirsi intimiditi. Allora ho suggerito di provare a scrivere tutto su un foglio, perché carta e penna aiutano sempre a schiarirsi le idee. Il mio intento era che uscisse fuori un racconto vero, che non tralasciasse la complessità di una vita tragica. I ragazzi di oggi sono bombardati dai telegiornali, che quotidianamente compilano l'elenco dei fatti di cronaca nera. Si indugia sui particolari, con morbosità inutile sia per le vittime sia per chi ha commesso il gesto. Che è vittima di un dramma, suo malgrado. Con il ciclo di incontri "Il carcere entra a scuola" volevamo togliere la distanza che c'è tra il carcere e il "mondo là fuori", nelle facce dei ragazzi che incontriamo vedo che ci siamo riusciti". Il messaggio di uno studente, Ricardo Fabbro (via mail a Ristretti Orizzonti) Grazie per averci permesso un'esperienza come quella della visita in carcere. Io ero nel gruppo del 9 giugno ed è stata una visita che ha profondamente cambiato il mio modo di vedere le cose. Ho 34 anni, gestisco negozi di una multinazionale, tutto sembra così ristretto e problematico a volte, concentrandoci (giustamente secondo la cultura della nostra società) sul nostro microcosmo. Se tutti avessero la possibilità di guardare negli occhi i detenuti come è successo a me il 9 giugno, si renderebbero conto di tante cose, meno scontate della quotidianità in cui ci troviamo a vivere. Sentire da Carmelo (mi pareva fosse questo il nome) una frase tipo "Da poco tempo ho ricominciato a sognare", frase uscita dalla bocca di un ergastolano come lui, mi ha davvero fatto tanto riflettere. Cercherò di approfondire la tematica, perché mi piacerebbe provare a collaborare in qualche modo per i diritti dei detenuti, perché ciò che ho provato guardando i loro occhi, non potrò mai dimenticarlo. Giustizia: il mea culpa di Gherardo Colombo "abbiamo abusato della custodia cautelare" di Vincenzo Vitale Il Garantista, 13 giugno 2015 Le tardive parole sono state pronunciate durante la presentazione del libro "Io non avevo l'avvocato" dell'ex direttore finanziario di Fastweb Mario Rossetti. Ieri durante la presentazione del volume "Io non avevo l'avvocato" dell'ex direttore finanziario di Fastweb, Mario Rossetti, il magistrato di Tangentopoli, Gherardo Colombo, ha sorpreso tutti. Ha infatti detto che in Italia si abusa della custodia cautelale. Scuse tardive ma ben accette in un Paese in cui i magistrati si servono del carcere preventivo anche quando mancano le condizioni previste dal codice penale. Diamo a Colombo il benvenuto nel circolo di coloro che hanno a cuore il senso del diritto, vale a dire la giustizia. Ieri è stato presentato un volume dal titolo "Io non avevo l'avvocato", dovuto alla penna di Mario Rossetti. Nel volume viene raccontata la vicenda processuale che, alcuni anni orsono, vide protagonisti Silvio Scaglia, amministratore delegato di Fastweb e Mario Rossetti che ne era il direttore finanziario. Accusati di vari reati in relazione al loro ruolo societario, furono entrambi destinatari di ordini di custodia cautelare ma, come accade in Italia, dopo diversi mesi di carcerazione preventiva, furono assolti pienamente in esito al primo grado di giudizio. Manco a dirlo, la Procura della Repubblica ha proposto appello contro l'assoluzione e si è ancora in attesa che il giudizio di secondo grado venga celebrato. Lasciando perdere ogni osservazione critica con riferimento al fatto che dopo essere stati processati ed assolti si pensa di processarli di nuovo, cosa che fa inorridire ogni giurista che abbia a cuore il senso del proprio ruolo, occorre invece brevemente soffermarsi su un fatto importante e che esige di essere conosciuto e interpretato. Si dà il caso, infatti, che partecipe della presentazione del libro fos-se il dottor Gherardo Colombo, il quale, come e noto, da alcuni anni è in pensione, ma è stato per oltre due decenni un magistrato di spicco della Procura di Milano. Inoltre, non si dimentichi rame Colombo sia stato nella prima metà degli anni Novanta insieme a Di Pietro e a Borrelli uno dei magistrati più impegnati nella vicenda giudiziaria notoriamente conosciuta come Tangentopoli. Proprio per questo motivo, per essere stato cioè il dottor Colombo protagonista di quella vicenda, la quale, come è noto, vide fare larghissimo uso della custodia cautelare delle persone accusate, suscitano grande sorpresa le affermazioni da lui fatte nel corso della presentazione del volume. In particolare il dottor Colombo, proprio soffermandosi a commentare le vicende giudiziarie del direttore finanziario e dell'amministratore delegato di Fastweb, ha dichiarato che in Italia si è fatto e si fa un uso eccessivo della custodia cautelare in carcere, aggiungendo che tale prassi, purtroppo assai diffusa, gli sembra in palese contrasto con i principi stabiliti dalla nostra Costituzione in tema di presunzione di innocenza e diritto di difesa. Ora, come leggere, come interpretare, come comprendere queste dichiarazione del dottor Colombo? Da un certo punto di vista, verrebbe sbrigativamente da commentare con un semplicistico "da che pulpito viene la predica!". Infatti, che a stigmatizzare l'uso eccessivo della custodia cautelare sia proprio il dottor Colombo può apparire a prima vista paradossale. Non è possibile dimenticare che egli era ed è rimasto per molti anni parte integrante di quel gruppo di magistrati milanesi che per diverso tempo sembrò dettare dalla Procura i tempi della politica italiana, proprio utilizzando in maniera spregiudicata e assai "eccessiva" lo strumento della carcerazione preventiva. Come dimenticare, in proposito, l'apparizione televisiva di Di Pietro e credo dello stesso Colombo, i quali, il giorno stesso dell'emanazione di un decreto con il quale il primo Governo Berlusconi cercava di limitare l'abuso della custodia cautelare, si appellarono direttamente al popolo, invocandone l'aiuto e il sostegno contro quei politici che volevano paralizzare la moralizzazione della vita pubblica? Come dimenticare le lunghe file di avvocati che si sgranavano davanti agli uffici della Procura, facendo a gara per far sì che i propri assistiti potessero essere sollecitamente interrogati dai Pubblici ministeri, allo scopo di evitarne appunto quella carcerazione preventiva che, inesorabile come un destino, pendeva sul loro capo? Come dimenticare, ancora, le umiliazioni, anche mediatiche, alle quali furono pesantemente sottoposte tante persone arrestate in via cautelare e per le quali si sarebbe invece potuto procedere normalmente, senza cioè far loro scontare in anticipo una pena alla quale poi magari non sarebbero stati condannati? Come dimenticare l'enorme, insidiosa, invincibile pressione psicologica e materiale esercitata su tanti imputati proprio attraverso l'uso "eccessivo" della custodia cautelare? Come dimenticare, infine, quelli che non furono semplici incidenti di percorso ma autentiche e terribili tragedie umane, giudiziarie e politiche, nel momento in cui alcuni di questi imputati, vedendosi senza alcuna via d'uscita, si tolsero addirittura la vita, semplicemente per aver fatto ciò che nell'Italia degli anni Ottanta tutti, o quasi tutti facevano, cioè foraggiare finanziariamente i partiti? Come dimenticare il sacchetto di plastica con cui Gabriele Cagliari, dopo aver scritto una struggente lettera ai familiari, non volendo offrire ai suoi accusatori altri nomi di possibili colpevoli da arrestare preventivamente, decise di suicidarsi? Come dimenticare tutto questo? No, non si può dimenticare: non si deve. Eppure da un secondo punto di vista, deve fare certamente piacere che finalmente il dottor Colombo, non solo si sia reso conto ma abbia pubblicamente dichiarato che quel modo di usare la custodia cautelare era sbagliato e contrario alla nostra Costituzione: come dire illegittimo e antigiuridico. Queste affermazione di Colombo ci danno oggi fiducia e speranza, perché testimoniano che ciascuno di noi potrà sempre trovare una propria via di Damasco, lungo la quale imbattersi in un invincibile motivo di conversione umana e intellettuale. Certo, sarebbe stato infinitamente meglio se queste cose il dottor Colombo le avesse pensate e dichiarate, comportandosi di conseguenza negli anni Novanta, quando egli faceva pienamente parte integrante proprio di quel gruppo che onerava nella Procura milanese. Infatti, se così fosse accaduto, le sue parole, al di là di ogni possibile contestazione, si sarebbero tradotte in una testimonianza personale e in questa avrebbero trovato vita e conferma. Trascorsi ormai vent'anni da quelle vicende giudiziarie, troppa acqua è passata sotto i ponti e francamente - e tristemente - troppo facile ragionare col senno di poi. È per questo che oggi le parole del dottor Colombo, al di là della nobiltà delle sue intenzioni, non possono che suonare vuote, prive di una forza realmente testimoniale, perfino beffarde se correlate alle più tragiche vicende umane che in quegli anni si consumarono. Ciò nonostante, i pensieri che Colombo ha espresso, meglio pensarli e dirli, che ignorarli o tacerli. Proprio per questo diamo al dottor Colombo un benvenuto in un circolo che oggi in Italia non è ancora purtroppo numeroso come dovrebbe: il circolo di coloro che hanno a cuore il senso del diritto, vale a dire la giustizia. Giustizia: il primo Open-Day delle Camere Penali, ma i giovani non ci sono di Vincenzo Comi (Componente del consiglio direttivo Camera Penale di Roma) Il Garantista, 13 giugno 2015 A Rimini si svolge il primo Open Day dell'Unione delle Camere Penali Italiane. Due giorni di dibattiti, incontri e presentazione dello stato dei lavori delle numerose commissioni e osservatori costituiti dalla giunta presieduta da Beniamino Migliucci. Sono iscritti ai lavori molti colleghi e sicuramente sarà una importante occasione di confronto. Il titolo dell'incontro è evocativo: dal passato costruiamo il futuro. La prima sessione si è svolta nel pomeriggio di ieri: era dedicata agli interventi di alcuni tra i padri fondatori dell'Unione delle Camere Penali per ricordare quel "San Valentino del 1982" e lo spirito delle battaglie dei penalisti nel corso degli anni. Tra le sessioni mi sta particolarmente a cuore quella dedicata ai giovani, che avrà come titolo: impegno, difficoltà e speranze dei giovani penalisti oggi. Qual è il futuro dei giovani penalisti? E quale sarà in prospettiva il rapporto tra i penalisti e l'associazionismo forense e in particolare la Camera Penale. La forte sensazione percepita in questi mesi di attività del Direttivo e la modesta presenza di giovani penalisti in Camera Penale. C'è un piccolo gruppo attivo inseriti nei gruppi di lavoro e nelle commissioni. Ma per il resto i giovani entrano in Camera Penale solo per firmare il registro dei turni dei difensori d'ufficio, spesso confondendo la sede con quella dì altra associazione. Al corso di deontologia e tecnica del penalista della Camera Penale di Roma, abilitante all'iscrizione nell'elenco dei difensori d'ufficio partecipano oltre 100 giovani colleghi. Sono in pochi quelli iscritti alla nostra associazione. Scelgono il corso della Camera penale rispetto a quello concorrente dell'Ordine sulla base di criteri puramente pratici e organizzativi, Il numero crescente di avvocati negli ultimi anni ha radicalmente modificato le dinamiche e i percorsi formativi classici legati al rapporto maestro / allievo, che assicuravano un trasferimento costante di esperienze professionali e umane in occasione delle evoluzioni generazionali, Manca una normazione effettiva e qualificante per i praticanti, sostituita fino ad oggi da formale presenza alle udienze, sotto un controllo inutile e inefficace dell'Ordine Forense. L'esame di abilitazione non funziona ad una selezione corrispondente alla reale preparazione del giovane. La nuova legge professionale del 2012 ha introdotto l'obbligo di frequenza delle scuole forensi nel corso della pratica, ma ancora questa riforma non è stata concretamente attuata. Il numero degli avvocati, la crisi economica generale e la paralisi della giustizia rende ancora più difficile l'accesso dei giovani penalisti nel mondo del lavoro. Oggi è difficile immaginare la professione del futuro, quali saranno le dinamiche organizzative, le regole e la fisionomia del penalista tra 10/15 anni. Non esistono più rendite di posizione precostituite, in particolare per ceti come quello degli avvocati. L'avvocato penalista del futuro però dovrà distinguersi per competenza, etica professionale, specializzazione e riconquista del ruolo sociale di garante dei diritti dei cittadini. Da ciò l'essenzialità dell'associazionismo forense e in particolare delle Camere Penali, che su questi temi hanno combattuto le battaglie più importanti. Ma tutte queste battaglie non hanno senso se non si riesce a coinvolgere i giovani penalisti, la nuova linfa della nostra associazione e il nostro futuro, Ma per coinvolgerli bisogna aprirsi, comunicare con lo stesso linguaggio e con gli stessi strumenti dei giovani: connettersi su una comune lunghezza d'onda. L'impegno e l'umiltà di trovare la via del coinvolgimento di un giovane è di chi ha responsabilità nelle Camere Penali, prima di tutto quelle territoriali, senza paura di aprire le porte: ne va della nostra sopravvivenza. La partecipazione dei giovani è anche un impegno e una responsabilità in perfetta aderenza con gli obiettivi statutari, così come lo è per ogni avvocato esperto rispetto ai più giovani a cui affida il futuro della professione. Non è facile, ma bisogna far comprendere ai giovani penalisti l'importanza dell'associazionismo forense e in particolare della cultura e degli obiettivi che stanno alla base della partecipazione alle Camere Penali. È importante assicurare ai giovani penalisti delle Camere Penali la possibilità di coltivare la militanza nell'associazione attraverso iniziative idonee e opportunità di confronto con colleghi più esperti, con magistrati e con tutti coloro che in modo diverso partecipano alla giurisdizione. Un ruolo importante, ad esempio, potrebbe essere affidato alle commissioni delle Camere Penali territoriali, i cui incontri possono diventare un momento di confronto e di crescita su argomenti trasversali e di primario interesse formativo. Un dato è certo: senza giovani penalisti le Camere Penali non hanno futuro. Siamo tutti avvisati! Giustizia: "se parli con i giudici non guadagni un c…." la legalità secondo il ras delle coop Andrea Ossino Il Tempo, 13 giugno 2015 Una frase che da sola potrebbe racchiudere il concetto di legalità così come reinterpretato dal ras delle coop Salvatore Buzzi, attualmente detenuto nel carcere di Nuoro. Tra le migliaie di pagine che compongono il fascicolo "Mondo di Mezzo", le perle di saggezza del patron della 29 Giugno in relazione al suo concetto di giustizia non mancano. Durante l'interrogatorio presso il carcere di Rebibbia, ad esempio, Buzzi formula una richiesta singolare: "Se possiamo spegnere (il registratore ndr) glielo dico". Dopo aver udito le parole dell'indagato, il procuratore aggiunto Michele Prestipino si rivolge a Buzzi ricordandogli la sua visione distorta delle regole: "Questo è vietato dalla legge e noi le cose vietate dalla legge non le facciamo. Noi siamo con le regole. Forse lei non ci crederà ma ancora in questo Paese c'è qualcuno che segue le regole". A ogni modo, l'indagato, durante il suo interrogatorio datato marzo 2015, mostra di aver fatto passi in avanti. Adesso infatti, anche se a microfoni spenti, Buzzi sarebbe disposto a parlare con gli inquirenti mentre nell'agosto scorso il suo pensiero era decisamente diverso. Infatti commentando l'arresto di Riccardo Mancini, il ras delle coop spiegava: "Adesso vediamo anche perché se parli con i giudici non guadagni un cazzo! (...) Meglio uscì dopo sei mesi con gli amici che uscì dopo tre mesi con i nemici". Del resto alcuni mesi in cella Buzzi li avrebbe affrontati senza timore: "Tre mesi de Regina Coeli me li faccio fumando!". Insomma, sebbene sarebbe meglio non infastidire le forze dell'ordine, come afferma Buzzi dopo lo sgombero di via Dell'Acacie ("Se è contento Pignatone siamo felici...noi siamo ossequiosi delle Procure... specialmente... le procure di Roma, quindi va bè, se è contento Pignatone siamo felici"), qualche piccolo strappo alla regola, sempre secondo il personale codice morale dell'indagato, è consentito: "Faccio solo turbative d'asta, più di quello non faccio però". Sicilia: Crocetta "assumiamo testimoni di giustizia", ma dopo l'annuncio nessuno li vuole di Laura Anello La Stampa, 13 giugno 2015 Un mese fa si erano presentati alla conferenza stampa incappucciati, al fianco della presidente della Regione Rosario Crocetta che ne annunciava l'ingresso nei ranghi dell'amministrazione. Erano una quindicina di testimoni di giustizia siciliani: uomini e donne innocenti finiti nel mirino della mafia per avere vinto l'omertà. Denunciando i propri estorsori, raccontando delitti visti con i propri occhi, frasi sentite con le proprie orecchie, inchiodando boss e gregari ad anni e anni di galera. Costretti spesso a cambiare nome, città, a perdere il lavoro, a lasciare la famiglia. Adesso, però, l'assunzione dei primi dieci testimoni di giustizia è diventato un vero pasticcio. Non basta proteggerli col cappuccio, infatti, se poi tutti - anche i mafiosi - sanno che sono tornati in Sicilia e che lavorano per la Regione, per quanto ben mimetizzati negli sterminati e affollati uffici della burocrazia dell'isola. Così adesso viene fuori che nessuno può tornare a casa per ragioni di sicurezza. Il servizio centrale di Protezione ha storto il naso su parecchi casi: ma come, li proteggiamo per anni e ora li assumete in Sicilia e con tanto di fanfare? E allora Crocetta ha pensato di dirottare tutti verso l'ufficio di rappresentanza romana della Regione siciliana, in via Marghera, l'invidiato buen ritiro di funzionari e impiegati, anche quello dotato di indirizzo pubblico e sprovvisto di qualsiasi misura di protezione. Oltre che popolato di soli quindici dipendenti, ai quali si aggiungeremmo i dieci neo-assunti. Tutti insieme, i testimoni di giustizia potrebbero diventare un bersaglio facile e sovraesposto. "In un palazzo che non ha particolari disposizioni di sicurezza come quello di via Marghera - dicono i segretari del sindacato Cobas Codir - ci è stato manifestato un rischio di incolumità". E mentre il capo del dipartimento della Regione a Roma, Maria Stimolo, si dice preoccupata e non sa che pesci pigliare, a Palermo ci si gratta la testa per trovare una soluzione. Anche perché è soltanto l'inizio: i testimoni di giustizia in Sicilia sono quarantotto, e per tutti si porrà lo stesso problema. Il loro portavoce è Ignazio Cutrò, l'imprenditore che denunciò gli estorsori dopo il rogo di una pala meccanica. La sua testimonianza ha portato quattro anni fa a una sentenza che ha comminato 66 anni di carcere ai boss che controllavano il paese di Bivona. Tra loro c'è anche Piera Aiello, cognata di Rita Atria, la ragazza che aveva iniziato a raccontare i misteri della mafia trapanese a Borsellino e che si uccise dopo la strage di via D'Amelio. E Giuseppe Carini, il testimone chiave degli assassini di don Puglisi. Per tutti l'assunzione alla Regione è un segnale da un Paese che è stato per troppo tempo lontano. Ma non è facile abbandonare i panni da fantasmi e tornare uomini in carne e ossa. Padova: Fp-Cgil; nel carcere Due Palazzi un internato tenta il suicidio, salvato dall'agente di Donatella Vetuli Il Gazzettino, 13 giugno 2015 Detenuto bloccato da un poliziotto mentre di notte cerca di suicidarsi nella sua cella. L'agente ha guardato dallo spioncino della cella. Un'occhiata veloce, ma appena in tempo per strappare dalla morte un detenuto. Aveva già pronto il cappio, qualche minuto più tardi sarebbe stata la fine. E stato salvato dal suicidio un uomo di 40 anni, italiano, in carcere per storie legate allo spaccio di droga. Arrivava dall'Emilia, trasferito a Padova dopo il terremoto. Un internato, cioè sottoposto alla misura di sicurezza della casa lavoro, ma al penale, dove è ristretto, non ha un'occupazione. Al poliziotto che lo ha bloccato ha detto: "Sono stanco di rimanere lì". Ricoverato m psichiatria tre giorni prima, era stato dimesso dall'ospedale giovedì pomeriggio per rientrare nella casa di reclusione. Qualche ora più tardi, di notte, ha cercato di impiccarsi nella sua cella. Con lui un altro detenuto, probabilmente addormentato. Poi l'arrivo del poliziotto, non calcolato, non previsto, ed è stato l'allarme. Di nuovo la corsa all'ospedale, di nuovo le visite, di nuovo la terapia. E il rientro in cella. "Situazione davvero difficile quella degli internati - afferma Giampietro Pegoraro, responsabile regionale di Cgil-Fp Polizia penitenziaria. Dopo il sisma in Emilia sono arrivati a Padova trenta di loro. Sono sottoposti alla misura di sicurezza della casa lavoro, ma qui non fanno nulla, se non nell'orto dietro il carcere". Ma non è il solo problema di una situazione di emergenza. Rimane irrisolta la carenza di organico della polizia penitenziaria. Continua Pegoraro: "Per il trasporto in ospedale di questo detenuto, come spesso accade, abbiamo dovuto chiamare altro personale. Restiamo comunque in difficoltà per le traduzioni". I conti presto fatti. Se al penale sono previsti 434 poliziotti, in servizio sono però 372. Ma a loro vanno sottratti 48 del nucleo traduzioni e 120 distaccati. Poco più di 200 sono gli agenti al penale per 700 detenuti. "Il 90 per cento della popolazione carceraria - seguita Pegoraro - qui è impegnata in attività trattamentali che implicano un controllo maggiore. Ma siamo in pochi. Chiediamo di fare rientrare gli agenti distaccati e incrementare l'organico. Andando avanti così la struttura arriva al collasso. Le dichiarazioni del presidente Luca Zaia secondo cui il sovraffollamento delle carceri sarebbe solo una scusa sono gravi e offensive. Lo invito a fare un giro e a vedere". Reggio Calabria: Uil-Pa; detenuto tenta di suicidarsi in carcere, gli agenti lo salvano cn24tv.it, 13 giugno 2015 Un detenuto che ha tentato di uccidersi tramite impiccagione è stato salvato dagli agenti della Polizia Penitenziaria. Il fatto è accaduto ieri mattina nella casa circondariale di Arghillà, a Reggio Calabria. Lo rende noto il dirigente Paolo Mola della Segreteria Locale Uil-Pa Penitenziari. "E stato grazie al tempestivo intervento ed alla professionalità degli Uomini -diretti dall'Ispettore Capo Daniele Piras e del Comandante di Reparto Commissario Capo Dr. Domenico Paino, che oggi lo Stato con i suoi Uomini e Donne in divisa hanno portato a casa una "vittoria" salvando un detenuto da impiccagione." Afferma il Sindacalista, che prosegue: "Una giornata sicuramente triste per l'episodio in sé, ma altrettanto bella, perché salvare una vita umana strappandola a morte certa, è una vittoria, lo è per gli attori intervenuti, ma lo è altrettanto per gli Istituti Penitenziari Italiani, i quali sono deputati a gestire la vita delle persone detenute dietro le sbarre . Il salvataggio odierno deve essere un inno alla vita, - conclude Mola - con l'augurio che presto sia il sorvegliante che il sorvegliato, si possano incontrare, per riflettere sui fondamenti dell'identità della vita, e sempre nel rispetto dei ruoli , ricambiare attestati di mutua conoscenza e stima." Alba (Cn): un detenuto evaso e tre tentati suicidi, pochi agenti per gestire le emergenze di Roberto Fiori La Stampa, 13 giugno 2015 Un detenuto ammesso al lavoro esterno che da martedì mattina ha fatto perdere le sue tracce. Due reclusi che nei giorni scorsi hanno tentato il suicidio e sono stati salvati in extremis grazie al tempestivo intervento degli agenti. Sono i preoccupanti segnali di un disagio crescente tra le mura del carcere di Alba. La denuncia arriva in forma congiunta dai vari rappresentanti sindacali del personale di polizia penitenziaria, che annunciano "una prossima azione sonora di protesta". E spiegano: "Da più di un anno l'ex casa circondariale è transitata in istituto penale, con conseguente cambiamento dell'utenza detenuta. La realtà è che c'è un aumento consistente di ristretti che richiedono particolari cautele per la loro tipologia detentiva". Secondo i rappresentanti sindacali, dal 2008 ad oggi dall'istituto di Alba sono usciti 29 agenti di polizia penitenziaria, che non sarebbero mai stati sostituiti. Treviso: il prosecco di Astoria dà lavoro a detenuti della Casa circondariale di Santa Bona oggitreviso.it, 13 giugno 2015 Nel Prosecco una via per ricostruire il proprio futuro. Una decina di detenuti della casa circondariale di Santa Bona hanno preso parte ad un progetto di lavoro all'interno del carcere, in collaborazione con Astoria Vini e Cooperativa Alternativa, protagonista di tante campagne contro il razzismo e le discriminazioni di ogni tipo. Il progetto prevede il coinvolgimento di un piccolo gruppo di detenuti nell'assemblaggio delle medagliette sulle bottiglie del Prosecco di Valdobbiadene Millesimato Docg. "È un primo progetto insieme, che ci auguriamo continui - commenta Giorgio Polegato, titolare di Astoria - Finora abbiamo lavorato su diverse partite da 13 mila bottiglie, ottenendo sempre un lavoro impeccabile. Io e mio fratello Paolo crediamo che le aziende come la nostra non possano limitarsi a fare business, ma abbiano un dovere civico di aiutare il territorio, ognuna nelle sue possibilità. Ovvio che non possiamo spostare la produzione del Prosecco nel carcere, ma visto che una parte dell'attività si può fare fuori abbiamo voluto dare un'opportunità a queste persone che spesso la società preferisce ignorare". "Il lavoro restituisce dignità e senso di responsabilità alle persone - conclude il direttore della Casa Circondariale di Treviso Francesco Massimo - Spesso si pensa ai detenuti come persone disinteressate al lavoro ma questo non corrisponde sempre a verità. Per alcuni detenuti avere un'occasione di impegno e di lavoro significa anche recuperare speranza per il domani". Ferrara: l'assessore regionale Gualmini in carcere per l'iniziativa "I sabati delle famiglie" Ansa, 13 giugno 2015 Terza tappa, carcere di Ferrara, del "Il giro: storie, volti, immagini del welfare in Emilia-Romagna" della vicepresidente e assessore alle Politiche di welfare della Regione, Elisabetta Gualmini. Un percorso che si traduce in un diario pubblicato sul web per raccontare le buone pratiche e le criticità esistenti sul territorio, far conoscere quello che fa la Regione Emilia-Romagna quando programma e pianifica interventi che incidono direttamente sulle routine quotidiane dei cittadini. "Sono stata molto colpita dall'esperienza realizzata dal carcere di Ferrara. Ã certamente un passo in avanti per migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le loro famiglie - ha dichiarato la vicepresidente - i bambini non hanno colpe e non possono vivere doppiamente il dramma di quanto capitato nelle loro famiglie vedendosi anche negare il diritto all'affetto del proprio genitore, anche se ha sbagliato". La visita all'istituto penitenziario di Ferrara è servita per conoscere meglio l'iniziativa "I sabati delle famiglie", partita da un paio di mesi per sollecitare una maggiore attenzione ai figli delle persone detenute e sostenere i più piccoli in un'esperienza traumatica come la carcerazione di un genitore. Nel carcere di Ferrara sono state allestite alcune sale arredate grazie alla donazione di mobili e giochi da parte di Ikea e di uno spazio all'esterno con gazebo, tappeto erboso, piante fiorite e tavolini per gli incontri durante la bella stagione. "Questi spazi colorati, moderni, puliti, pur in un luogo difficile come un istituto penitenziario - prosegue Gualmini - potranno contribuire a rendere più piacevoli gli incontri e a eliminare precedenti situazioni traumatiche dovute a modalità, ambienti, atteggiamenti, tempi non adatti ad accogliere bambini". Lucca: al carcere San Giorgio creato uno spazio di accoglienza per i figli dei detenuti loschermo.it, 13 giugno 2015 È stato un momento di incontro e di festa quello che si è svolto ieri mattina (12 giugno) nella cappella della casa circondariale San Giorgio di Lucca, alla presenza del vescovo di Lucca, Italo Castellani, della direzione del carcere e dei volontari delle molte associazioni intervenute. L'occasione è nata dalla consegna del contributo raccolto dal Lions Club - Lucca Le Mura per la realizzazione dello spazio di accoglienza per i figli e i congiunti dei detenuti che si recano in carcere per i colloqui. Un piccolo spazio per l'attesa che sarà arredato con particolare riguardo per i bambini che entrano nella struttura per visitare i padri detenuti. Un progetto piccolo, ma significativo, realizzato in collaborazione con l'Arcidiocesi di Lucca - caritas, che segna un importante passo verso la garanzia del diritto alla genitorialità dei detenuti e che tutela il punto dei vista dei bambini che sperimentano la difficile condizione della detenzione di uno dei genitori. Lo spazio, i cui lavori di risistemazione sono già stati avviati, sarà pronto entro l'estate e si inquadra all'interno di un più vasto insieme di azioni atte a favorire l'incontro tra la realtà carceraria e la città, in percorsi che favoriscano il reinserimento dei detenuti e la loro inclusione. La cerimonia di consegna del contributo è stata anche l'occasione per la presentazione delle poesie realizzate da uno dei detenuti, per l'esibizione di chiusura del corso di chitarra realizzato da Alessio Bertani che ha coinvolto circa 15 detenuti e per la presentazione dei due tappeti fioriti realizzati sul pavimento della cappella da una ventina di detenuti grazie alla collaborazione con il Gruppo degli Infioratori Versiliesi. "Quella come oggi è un'occasione preziosa di incontro - ha sottolineato il vescovo Italo - che può indicare concreti gesti di inclusione e di accompagnamento all'intera città". "È stato un percorso coinvolgente e importante per noi - ha ricordato Enrico Marchi, Lions Club Lucca Le Mura - che ci auguriamo possa segnare l'inizio di una collaborazione lunga. Mi vengono in mente molte cose che potremmo realizzare insieme". Airola (Bn): presentato "Artivamente" progetto per detenuti minori di Sannio Irpinia Lab di Giovanna Di Notte ottopagine.it, 13 giugno 2015 Progetto, curato da Sannio Irpinia Lab, per favorire l'integrazione attraverso l'arte presentato Artivamente presso il carcere minorile di Airola. Favorire l'integrazione, ma anche l'inserimento nel mondo del lavoro, attraverso un percorso artistico: è l'obiettivo del progetto Artivamente curato dall'Associazione di promozione sociale Sannio Irpinia Lab. L'iniziativa è stata presentata questa mattina presso l'Istituto Penale minorile di Airola. All'incontro hanno partecipato Antonio Di Lauro, direttore dell'Ipm di Airola, Mariangela Cirigliano, vicedirettore dell'istituto penale caudino; Luca Mauriello, direttore di Sannio Irpinia Lab; Carlo Mele vicepresidente "Fondazione Opus Solidarietatis Pax Onlus"; Imma Caturano, vicepresidente cooperativa sociale "Familiamo Onlus"; Antonio Catalano, presidente Cna Provincia di Benevento, e Giuseppe Centomani, dirigente del Centro Giustizia Minorile della Campania. I maestri artigiani hanno presentato i workshop "Io Recupero e Restauro", "Cer-Amica, "Lavorazione del Feltro "Mani Libere" e "Fotografia digitale". "Artivamente nasce per promuovere l'arte, non solo nel contesto del carcere di Airola ma nel Sannio e in Irpinia - sottolinea il dott. Luca Mauriello. Infatti, c'è un altro grande progetto che riguarda il centro d'accoglienza di Conza della Campania. La finalità è quella di far apprendere ai ragazzi i mestieri che stanno ormai scomparendo". Il progetto, articolato in un periodo di 18 mesi, include laboratori gratuiti di ceramica, restauro, lavorazione del feltro, fotografia digitale, dizione e recitazione che coinvolgeranno i giovani detenuti dell'Istituto Penale per Minori di Airola e i richiedenti asilo politico e rifugiati del Centro di Accoglienza di Conza della Campania al fine di favorire la loro re-integrazione nella comunità locale ed il loro inserimento nel mondo del lavoro. Bollate (Mi): rugby, i "Barbari" per la prima volta in campo fuori dal carcere di Massimo Calandri La Repubblica, 13 giugno 2015 La squadra composta solo da detenuti del carcere milanese di Bollate giocheranno sabato alle 11,30 all'Idroscalo di Milano. Il torneo con due squadre di veterano e due azzurri (Morisi e Ragusi) che lunedì partiranno per il ritiro premondiale. Per i Barbari di Bollate, la squadra di rugby composta dai detenuti del carcere milanese, è la prima trasferta di sempre. I ragazzi domattina lasciano la prigione per partecipare ad un torneo in programma all'Idroscalo di Milano, dove l'Asr Milano inaugura i suo nuovi impianti - il terreno è in erba sintetica - dedicati ad uno dei fondatori, il professor Gian Battista Curioni. In campo scenderanno anche due azzurri, Luca Morisi e Simone Ragusi (che lunedì partiranno per il ritiro pre-mondiale). E due squadre di veterani, gli Old red Dogs e i Bislunghi. Sarà una grande festa, perché questo è uno sport diverso da tutti gli altri e ogni volta lo conferma. L'appuntamento è dalle 11.30. Questo è il settantesimo compleanno per l'Asr, storico club italiano che milita in serie A, ha 500 tesserati (in maggioranza piccoli atleti del mini rugby e delle giovanili) e soprattutto è protagonista - dentro e fuori il terreno di gioco - di un rilevante programma educativo e sociale. Da 9 anni collabora con il Beccaria, il carcere minorile, Ha avviato un progetto rivoluzionario nel centro Sociale Barrio's (rugby e musica con il sistema Abreu), lavora contro il bullismo con l'Amico Charly Onlus ed è impegnata anche nella struttura penitenziaria di Bollate. Vale la pena di ricordare che in diverse carceri italiane (ad esempio a Torino, Terni, Nisida, Bollate, Monza, Volterra e anche all'Ucciardone) si gioca a rugby, ed è una storia magistralmente raccontata da Antonio Falda nel suo libro Oltre le sbarre. Ma non era mai accaduto che una squadra lasciasse la prigione per combattere sul campo. Sempre nel capoluogo lombardo, ma all'Arena Civica, domani pomeriggio è in programma un altro appuntamento ovale da non perdere: "Le leggende del rugby a Milano" prevede una lunga serie di incontri e tra gli altri quello che vedrà protagonista la prima squadra gay-friendly italiana, Libera Rugby Club, con una selezione del XV Ambrosiano. Poi l'Italia Classic contro gli omologhi neozelandesi (con tanti ex azzurri in campo), un torneo Under 10 ed un altro di rugby Seven. Imprenditori dell'odio di Norma Rangeri Il Manifesto, 13 giugno 2015 Nel degrado senza fine della nostra (si fa per dire) classe dirigente, non spiccano solo faccendieri, criminali e politici di seconda fila di Mafia Capitale. Accanto al latrocinio e alla corruzione, c'è la violenza, la volgarità di personaggi di primissimo piano, leader di partito che l'Italia ha conosciuto anche come ministri di peso. Uno di questi è Roberto Maroni, tra i principali protagonisti di quel coro d'odio contro gli immigrati che fomenta la rabbia sociale e pericolosamente sovrasta la più grande tragedia in atto tra Africa e Medio oriente. Insieme a Zaia e Salvini (al miracolato Toti), Maroni è alla testa di una forsennata campagna contro la decisione del governo di distribuire i migranti in tutto il paese, comprese le ricche regioni del nord. In perfetta coerenza con la svolta fascio-leghista impressa dal suo successore, il governatore della Lombardia alimenta la truculenta propaganda promettendo premi ai comuni che sceglieranno di respingere uomini, donne e bambini in fuga da fame e guerre. E da ieri invoca anche la "legittima difesa" di sparare sui treni per difendere i ferrovieri dagli episodi di violenza di cui sono vittime (per la cronaca 309 le aggressioni, 54 opera di stranieri, 41 di italiani, un bilanciamento quasi perfetto). Un tempo considerato il leghista dal volto umano, Maroni cerca di onorare i suoi trascorsi tanto umanamente brutali quanto politicamente catastrofici. Da ministro dell'interno negò la presenza della mafia nelle terre leghiste, denunciata da Roberto Saviano, salvo essere sommerso dalle inchieste sulla piovra ‘ndranghetista del profondo nord. Sempre lui ordinò i respingimenti in mare provocando la condanna all'Italia della Corte europea dei diritti dell'uomo, e sua fu l'invenzione del reato di immigrazione clandestina che il parlamento italiano cancellò dopo qualche anno. Senza dimenticare l'ultima buffonata di vederlo, ancora capo del Viminale, invitare le regioni a ripartirsi gli immigrati salvo adesso urlare il contrario. Al dunque, un politico con l'unica abilità di ridicolizzare se stesso (ma non è il solo). Purtroppo, lui, come Zaia e Salvini, seminano tempesta e raccolgono voti instillando nella società il virus dell'invasione dei migranti. Di fronte allo spettacolo, umiliante e doloroso, di migranti bloccati nelle nostre stazioni ferroviarie di Roma e Milano, ieri sono intervenuti il Vaticano, il papa e l'alta gerarchia ecclesiastica. Con un appello generale alla misericordia e all'accoglienza, il papa invita i cappellani di stazioni e aeroporti a prestare soccorso, il cardinale Bagnasco chiama all'impegno verso chi è disperato, il vescovo di Padova fa scendere in campo sant'Antonio che dalle sponde africane approdò in Sicilia dopo un naufragio. Per aprire una crepa politica contro gli imprenditori dell'odio oltre alle benemerite prediche, ci vorrebbe un governo all'offensiva, in Italia e in Europa. Ieri, intervenendo all'Expo, il premier Renzi - da cattolico che segue i messaggi del papa - è sembrato andare in questa direzione, mettendo in guardia dai "tanti che abbaiano alla luna, quelli che vivono sulla paura". Ufficialmente si rivolgeva agli ospiti dell'America latina, in realtà il messaggio era diretto al volto pietrificato del governatore della Lombardia che gli sedeva accanto. Ma, ancor di più, per abbattere il muro culturale contro i migranti ci vorrebbe un'informazione, soprattutto televisiva, che non fosse ridotta a tele-Salvini, uno spettacolo di indecorosa grancassa, corresponsabile di istigazione all'odio razziale. L'Europa, questa Europa, fa schifo di Angela Azzaro Il Garantista, 13 giugno 2015 Sono disperati in fuga dalle guerre, dalle persecuzioni o dalla fame. Partono dall'Eritrea, dall'Etiopia, dalla Libia. Ma la loro odissea, arrivati in Italia, non è finita. Molti di loro vogliono continuare il viaggio, ma la porta d'Europa, è chiusa. Sbarrata. Da giorni i paesi confinanti bloccano i migranti alle frontiere con l'esito che centinaia di donne, uomini, bambini si aggirano disperati nelle stazioni di Milano e di Roma o nei posti di frontiera come Ventimiglia. Non hanno da mangiare, dormono per terra, sono esausti per il viaggio appena terminato e per la nuova situazione che stanno affrontando. Sono aiutati da eroici volontari, che tentano di tamponare la situazione, offrendo loro cibo e assistenza sanitaria, ma non basta. È la classica situazione in cui l'Europa dovrebbe intervenire per risolvere il problema, aiutando queste persone, senza pensare di lasciare soli i singoli Paesi. Ma l'Europa non c'è. L'Europa non dice niente o quasi, lasciando che la disperazione cresca, che il dolore aumenti, che la politica, intesa come stato di diritto, come salvaguardia dell'essere umano, muoia. L'Europa, questa Europa, fa schifo. Fa schifo perché non è possibile che l'unità sbandierata sia solo monetaria, mentre un problema umanitario come quello che si è creato, venga considerato secondario o addirittura da ignorare. L'Europa ha varie responsabilità che si sono accumulate nel tempo. Prima c'è stata la scelta di sostituire l'operazione Mare nostrum con quella di Frontex, riducendo risorse e forme di intervento. Poi l'Ue è stata poco incisiva e ambigua sulle quote di migranti che i vari Paesi dovrebbero accogliere. Adesso chiude gli occhi davanti a questa tragedia che sta colpendo migliaia di persone. Non si tratta solo e soltanto di una questione umanitaria. Ma di un problema politico. Perché una comunità politica che non prende in considerazione la vita umana, a prescindere dalla sua nazionalità, non è degna di essere definita tale. Le conseguenze sono sotto gli occhi. Non solo la disperazione che cresce. Centinaia di bambini che non hanno un letto dove dormire, né un po' di latte da mangiare. Ma lo dimostra il razzismo che cresce. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, l'odio aumenta. Ed è troppo comodo prendersela solo con Salvini, il quale certo è tra i primi a soffiare sul fuoco. Questa Europa con la sua indecisione e il suo silenzio è diventata la prima responsabile di questa catastrofe umana e politica. All'inizio del romanzo "Per chi suona la campana" di Ernest. Hemingway, dedicato alla seconda guerra mondiale, ci sono i versi di una poesia di John Donne, che recita più o meno così: "Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché mi sento parte dell'umanità. Perciò non chiedere per chi suona la campana, essa suona per te" (la recito a memoria senza verificarla perché così la conservo come monito). Oggi la campana sta suonando in maniera fragorosa, quanto è fragoroso il silenzio delle istituzioni europee. Suona, la campana, per l'Ue, per la valenza che le scelte di oggi potranno avere nell'immediato futuro. Suona per la politica, suona per i singoli. Un giorno la storia racconterà di profughi in fuga, di un esodo biblico, ma racconteranno e forse denunceranno anche l'indifferenza con cui i Paesi occidentali hanno assistito al dolore degli altri. La campana parla di noi per questo: perché la scommessa non riguarda solo la vita degli altri (che comunque ha un valore assoluto) ma anche la nostra vita, intesa non come stato vegetativo, ma come soggetti politici che scelgono quale indirizzo dare alla democrazia. Le responsabilità dell'Europa sono anche in origine rispetto alle scelte fatte rispetto alle vicende politiche dei Paesi da cui si fugge. Questo a monte. Oggi cerchiamo almeno di batterci per ciò che accade in queste ore, dietro le nostre case, dietro i nostri luoghi di lavoro, dietro le nostre strade. Gli oltre 50 mila richiedenti asilo scomparsi senza lasciare traccia di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 13 giugno 2015 Nel 2014 sono arrivate 170 mila persone e le richieste di asilo sono state 64.886. La media si è alzata nei primi mesi di quest'anno. Arrivano sui barconi, presentano l'istanza per ottenere lo status di rifugiato, poi entrano nelle strutture di accoglienza. Ma non tutti aspettano nei centri l'esito della richiesta. Perché i tempi sono lunghissimi, soprattutto perché soltanto una minima parte di loro vuole rimanere in Italia. Le mete finali sono Germania e Francia, numerosi migranti mirano a raggiungere il nord Europa. Per questo escono dai Cara, oppure abbandonano gli alloggi messi a disposizione da Regioni e Comuni e vanno via. Sono almeno 50 mila i profughi che hanno fatto perdere le proprie tracce. Migliaia di stranieri liberi di circolare nel nostro Paese, molti dei quali avrebbero già varcato la frontiera e sarebbero ormai all'estero. Le stime del Viminale si basano sui dati relativi agli sbarchi degli ultimi due anni incrociati con le presenze registrate nello stesso periodo. Tenendo però conto di chi non è stato identificato e di chi, nonostante abbia avuto un esito negativo della procedura e dunque doveva essere rimpatriato o comunque lasciare il territorio nazionale, è riuscito a sfuggire ai controlli. Nel 2014 sono arrivate 170 mila persone e le richieste di asilo sono state 64.886. La media si è alzata nei primi mesi di quest'anno. Secondo i numeri aggiornati al 4 maggio scorso, su 33.831 stranieri approdati sulle nostre coste, ben 20.858 avevano sollecitato il riconoscimento dello status di rifugiato. Vale a dire il 60 per cento. Nell'ultimo mese gli sbarchi hanno registrato un'ulteriore impennata: alle 8 di ieri risultano 56.813 arrivi, la media delle istanze è rimasta pressoché invariata. Tenendo conto che nei centri governativi e nelle diverse strutture ci sono 80.150 persone, e sommando anche la parte di chi si è visto respingere la domanda, il calcolo "per difetto" è di almeno 50 mila persone sfuggite senza lasciare traccia, non escludendo che possano essere anche 10 mila in più. L'esodo finora silenzioso ha avuto un impatto forte in questi giorni, dopo la decisione della Germania di sospendere il trattato di Schengen per la riunione del G7. Con il ripristino dei controlli alle frontiere deciso da Berlino, molti profughi hanno preferito attendere in stazione di poter partire senza il timore di essere identificati durante il viaggio oppure appena giunti al confine. L'accordo di Dublino impone infatti a chi ha chiesto asilo di rimanere nel Paese di primo ingresso fino al termine della procedura. Chi non rispetta la regola, perde il diritto al riconoscimento. Ecco perché molti cercano di evitare il foto segnalamento, eludono la prima identificazione in modo da riuscire ad attraversare l'Italia da "clandestini" e stabilirsi in un altro Stato dell'Unione Europea. Ed è proprio questo uno dei motivi di scontro con gli altri Paesi dell'Europa. Germania, Francia e Spagna hanno accusato l'Italia di avere una linea troppo morbida in materia di identificazione e nella prima bozza dell'Agenda che prevedeva la distribuzione dei profughi avevano imposto la creazione dei centri di smistamento con la presenza delle commissioni internazionali proprio per verificare che a tutti fossero prese le impronte digitali. Durante l'incontro che si è svolto la scorsa settimana al Viminale con una delegazione proveniente da Parigi si è andati addirittura oltre e la condizione posta è stata fin troppo esplicita: tenere i richiedenti asilo in custodia fino al termine della procedura. Una posizione ritenuta inaccettabile dall'Italia. Si tratta infatti di persone in fuga dalla guerra e dalle persecuzioni, somali ed eritrei, ma anche siriani e di altre etnie che scappano dalla propria patria per non essere uccisi o incarcerati. Mentre gli "irregolari" devono essere tenuti nei Cie e non hanno libertà di movimento perché sono destinati al rimpatrio al termine della procedura di espulsione, i profughi devono rimanere in stato di libertà, con l'unica limitazione di non varcare la frontiera. La direttiva partita in queste ore dal vertice della polizia Ferroviaria impone il potenziamento dei controlli fuori e dentro le stazioni, lo sgombero immediato e la verifica su tutta la linea da Roma a Bolzano. Sono misure per fronteggiare l'emergenza ed evitare di trasformare gli scali delle grandi città in veri e propri accampamenti. Il governo studia il piano per rimpatri più veloci con aiuti ai Paesi d'origine di Francesco Verderami Corriere della Sera, 13 giugno 2015 L'Unione vuole rivedere il meccanismo di riammissione, che non funziona: lo score ufficiale parla di un 39% di rimpatri nei Paesi d'origine, nascondendo un dato reale che è invece assai più basso. La piena ha raggiunto le città. Dopo aver allagato i campi del Sud e le periferie del Nord, il fiume ha invaso i centri di tutt'Italia. È un'alluvione di disperati. L'esodo biblico di migranti non trova più sbocchi nemmeno alle frontiere, dove i Paesi confinanti hanno alzato gli argini senza preoccuparsi del fatto che - nella piena - sta affogando anche l'Europa. L'Italia resta dunque sola con la sua emergenza. E proprio nelle emergenze si misurano le capacità dei governanti. Nella piena dell'Elba, era il 2002, il tedesco Gerard Schroeder si riguadagnò la fiducia della Germania e la riconferma alla cancelleria. Nell'alluvione di New Orleans, era il 2005, il presidente George W. Bush vide invece affondare il suo rapporto con gli americani. Ora tocca a Matteo Renzi evitare che la piena di disperati lo separi dagli italiani. E non c'è dubbio che siano fonte di ispirazione le parole di papa Francesco, il suo appello al senso di umanità verso chi ha perso tutto, se mai ha avuto qualcosa. Ma a un governante tocca anche il dovere delle soluzioni. E dinnanzi al fiume che s'ingrossa, in questi giorni, il premier e il ministro dell'Interno hanno stretto un patto. Se la trattativa a Bruxelles sul piano Juncker dovesse fallire, "allora - come ha preannunciato Angelino Alfano ai suoi collaboratori - l'Italia assumerà una posizione molto dura in Europa". Tutto ciò porterà a un cambio di linea del Viminale sulla politica di gestione dell'immigrazione, a partire da un ripensamento nel sistema di accoglienza dei migranti che oggi vengono scaglionati in giro per il Paese, mentre i partner dell'Unione spingono da tempo verso l'adozione di centri chiusi. Sarebbe una svolta, a cui ne seguirebbe un'altra, legata a una più efficace azione di rimpatrio di quanti non hanno diritto di asilo. Perché questo è il tema attorno a cui ad ogni vertice europeo si scatena il braccio di ferro, un punto sul quale il ministro britannico Theresa May - durante una recente riunione - è intervenuta con toni molto accesi: "È ora di usare termini corretti quando si parla di migranti economici. Sono clandestini, non irregolari". E il faro sui "migranti economici" - che oggi rappresentano il 60% del flusso di arrivo in Italia - sarà acceso al summit di Bruxelles. L'Unione vuole rivedere il meccanismo di riammissione, che non funziona: lo score ufficiale parla di un 39% di rimpatri nei Paesi d'origine, nascondendo un dato reale che è invece assai più basso. Proprio su questo Roma sta per cambiare linea. Il titolare dell'Interno - chiedendo la collaborazione di Paolo Gentiloni agli Affari esteri italiani e di Federica Mogherini agli Affari esteri europei - mira a un meccanismo di rimpatri "più veloce". Lo strumento sarà la politica di cooperazione internazionale, il sistema di aiuti ai Paesi più poveri: negli accordi deve venir posto un "principio condizionante", che subordina il sostegno economico alla collaborazione per le riammissioni. Aiuti in cambio di rimpatri, insomma, altrimenti la collaborazione verrebbe "rivista". Renzi è convinto del patto stretto con Alfano: per quanto sposti il baricentro del governo, infatti, il premier non potrà certo incontrare obiezioni sull'argomento nel suo partito, nemmeno nelle file della minoranza interna, visto che Felice Casson ha fatto campagna elettorale per il comune di Venezia dicendo "no" all'arrivo di altri migranti. Paradossalmente è con una svolta a destra sul tema che il Pd ritrova l'unità: prova ne sia la sortita del governatore emiliano, Stefano Bonaccini, che ieri ha formalizzato la contrarietà ad accogliere sul suo territorio le "quote" rifiutate da altre regioni. Ora che la piena ha raggiunto le città, il premier misurerà la propria leadership affrontando l'emergenza, sebbene l'alluvione fosse già iniziata e Alfano avesse invitato Renzi a dargli una mano nel gestirla, "perché l'onda mi supererà e arriverà su palazzo Chigi". Da tempo c'erano i segnali della piena, in aprile stavano anche dentro un sondaggio redatto da Swg-lab per i gruppi parlamentari del Pd, che il premier ha avuto in visione. Era inutile scorrere i dati sull'umore degli italiani per il fenomeno migratorio e i suoi riflessi sulla vita di ogni giorno. Bastava leggere le conclusioni del report, che sembravano un'allerta della Protezione civile prima di un uragano: "Non occorre dunque sottolineare la gravità della situazione". A Milano l'unica emergenza è quella di chi fugge dalla guerra di Marta Santomato Cosentino Il Manifesto, 13 giugno 2015 Tra i profughi bloccati alla Stazione Centrale, quelli diretti nel nord Europa e i "Dublino" che sono stati ricacciati indietro. "Se dobbiamo morire preferiamo tornare in Siria". Centri di accoglienza al collasso, il comune lancia un appello al governo e all'Europa: "I migranti un problema epocale, da soli non possiamo farcela". "È un Dublino". Nella Stazione Centrale di Milano è una frase che si sente pronunciare già salendo le scale mobili che conducono al mezzanino dove da oltre un anno e mezzo sono migliaia i profughi in transito. Fuggono dalle guerre e vogliono andare a nord, in Danimarca, Svezia, Germania in particolare. L'Italia, per loro, è solo una tappa obbligata di passaggio. Tra le tante migliaia di migranti passati in questi anni non più di 200 hanno deciso di fermarsi. Le persone che si incontrano in stazione sono arrivate da poco dalla Sicilia o appunto, sono dei "Dublino", i richiedenti asilo "schedati" sulla base del regolamento europeo che prevede che la domanda venga analizzata dallo Stato dell'Unione dove il richiedente ha fatto ingresso. Per evitare che vengano presentate più domande contemporaneamente, esiste un archivio comune delle impronte digitali. "Mi hanno rovinato la vita, se devo morire preferisco tornare in Siria". A parlare è un ragazzo di Aleppo che, a Trapani, è stato costretto a lasciare le proprie impronte digitali. È riuscito comunque ad arrivare in Germania nel tentativo di ottenere un ricongiungimento familiare ma, proprio in virtù di quell'archivio, è stato respinto in Italia. Insieme all'identificazione forzata ha raccontato anche di essere stato picchiato dalla polizia mentre si trovava nel centro di accoglienza in Sicilia. Non è l'unico ad essere stato rimandato indietro. Lo stesso è successo anche ad un altro siriano, ricacciato in Italia dopo 8 mesi trascorsi in Danimarca. Entrambi adesso aspettano sul mezzanino della stazione dove dormono da 5 giorni. In tanti sono nelle stesse condizioni. Molti non riescono nemmeno a varcare il Brennero, specie in questi giorni in cui il passo è ancora chiuso dopo il G7 in Germania della settimana scorsa. Una ragazza etiope ci ha provato qualche giorno fa. Voleva arrivare a Londra, dal fratello. Non ci è riuscita e ora vive nell'aiuola di fronte all'ingresso della stazione. Mahmud, un siriano di Damasco, racconta una storia simile. È un mese e mezzo che viaggia per fuggire dalle bombe della guerra civile nel tentativo di arrivare dai parenti in Germania. Dalla Siria è arrivato in Libia, passando per il Sudan. Dopo 20 giorni in attesa di prendere il mare ha pagato 5 mila dollari per rischiare il naufragio. È stato soccorso e da Catania ha preso un treno fino a Milano dove nel frattempo è stato ingoiato dal limbo del mezzanino. Dal 18 ottobre 2013 sono state circa 64.500 le persone che sono passate da qui. Gli ultimi arrivi lo scorso giovedi: 480 persone, per la maggioranza cittadini eritrei. Difficile, al momento, ricostruire le loro storie. Quasi nessuno parla inglese e non ci sono interpreti dal tigrino. Quelli che sono arrivati sono troppi per venir sistemati. Hanno trascorso la notte in stazione, sulle panchine di pietra del mezzanino o su quelle di metallo dei giardini di Piazza Duca d'Aosta. I centri di accoglienza milanesi sono troppo affollati perché si riesca a far fronte ai nuovi arrivi. Progetto Arca è l'associazione che si occupa dell'accoglienza, fornisce generi di prima necessità e distribuisce le persone nei centri sparsi per la città: l'allora Cie di Via Corelli, quelli di via Aldini e Mambretto, Casa Suraya. "Negli ultimi 10 giorni - spiega un responsabile - tra le 150 e le 300 persone hanno dormito all'aperto". I centri, che ospitano già un migliaio di persone, sono al collasso. La precedenza va a donne, bambini e ai nuclei famigliari. Molto spesso gli uomini, specie quelli che viaggiano da soli, restano fuori. Da inizio anno sono arrivate oltre 10 mila persone. I numeri sono quelli di Palazzo Marino che nella persona dell'assessore al Welfare, Pierfrancesco Majorino, ha rinnovato l'invito a Grandi Stazioni di migliorare l'assistenza ai profughi che quotidianamente arrivano in città. "Da mesi - dice - chiediamo che la situazione si sblocchi e vengano messi a disposizione dei locali idonei. Sappiamo che esistono ampi luoghi inutilizzati della Stazione dove accoglienza, smistamento e organizzazione delle presenze in città potrebbero essere svolte più adeguatamente". L'altra richiesta, per lungo tempo inascoltata, rivolta ad Asl e Regione Lombardia, per la creazione di un presidio medico permanente allestito in Stazione Centrale. Dallo scorso giovedì mattina è operativo nell'atrio. "In questi primi 2 giorni - ha spiegato Giorgio Cicanali, il medico responsabile del presidio - abbiamo assistito una media di 50 persone. Tra queste sono stati certificati 30 casi di scabbia e uno di malaria che sono stati trasportati in centri specializzati per le cure". Il presidio mobile offre una prima risposta alle esigenze sanitarie, i casi più critici vengono gestiti in ospedale. Da oggi, per 2 ore al giorno, ci sarà anche un pediatra che si unisce alla squadra di infettivologi già al lavoro. Il servizio, che non ha al momento una data di fine, è attivo dalle 9 alle 22. "I primi due giorni sono serviti per rodare la macchina - continua il medico - ma l'orario, così come le prestazioni offerte sono soggette alle esigenze che si manifesteranno giorno per giorno". Cicanali esclude che si possa parlare di emergenza umanitaria o di rischio contagio, respingendo le polemiche degli ultimi giorni. "L'unica emergenza - dice - è quella che vive chi fugge dalle guerre". Comune, Caritas, Privato Sociale, Protezione Civile Comunale e volontari proseguono il loro lavoro. Ma non basta. A chiedere che venga fatto di più è il sindaco Pisapia: "Non si può pensare che Milano da sola, o con pochi altri Comuni, possa risolvere un problema epocale. Oggi sempre di più ci vuole corresponsabilità di tutte le istituzioni a partire dal governo, dalle Regioni e soprattutto dall'Europa". La risposta offerta ad oltre 64 mila persone, di cui 14 mila bambini, non può non venir coordinata dal Ministero dell'Interno che non ha mai conteggiato quell'esercito di invisibili. La memoria delle loro storie, per la maggior parte, risiede nelle tante persone che portano aiuto al mezzanino. Conoscono le esigenze e le paure di chi viaggia. Si ricordano dei loro volti. Le storie più incredibili meritano una fotografia. Come quella di Abdel, che a 92 anni ha sfidato il mare e adesso aspetta a Milano di poter scappare in Europa. La Francia chiude le frontiere, caos a Ventimiglia e Nizza di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 13 giugno 2015 Caos alla frontiera franco-italiana, si riproduce quello che era successo nel 2011. In Costa Azzurra, 1.500 fermi di sans papiers in una settimana. A Parigi, la sindaca propone un centro di accoglienza, dopo le tensioni degli sgomberi degli accampamenti improvvisati nel XVIII arrondissement. Piano del governo la prossima settimana, ma riguarderà solo chi è candidato al diritto d'asilo. Per gli altri "espulsione". Ai posti di frontiera tra Ventimiglia e Mentone, sul Ponte San Ludovico sul mare e il Ponte San Luigi in altura, le stesse scene già viste nel 2011. Allora, erano i tunisini, emigrati dopo la "primavera". Oggi, sono eritrei, sudanesi, somali e altri cittadini di paesi sub-sahariani. Eritrei, sudanesi e somali sono candidati all'asilo politico, ma nella confusione delle ultime ore la polizia di frontiera non va per il sottile. Ieri pomeriggio, al tentativo di passare la dogana sul Ponte San Ludovico da parte di circa 150 persone, i Crs francesi hanno respinto tutti, senza verificare nazionalità e diritti, in vista di una frettolosa "riammissione" in Italia, stando al regolamento di Dublino e senza rispettare le regole di Schengen, che resta in vigore, secondo le quali i controlli non possono essere sistematici. Nei giorni scorsi, sono stati in molti a passare, a piccoli gruppi. Alcuni prendono anche i sentieri di montagna, sulla Giraude, dove antichi passaggi che hanno visto in più di cent'anni italiani, ebrei, più recentemente ex-jugoslavi e nord-africani oltrepassare clandestinamente il confine, sono stati ultimamente forniti di una rudimentale segnaletica, anche per evitare gravi incidenti sulle pareti scoscese della zona. La polizia francese interviene senza guanti anche alla stazione di Nizza, diventata una seconda frontiera con l'Italia, dove i migranti cercano di prendere un treno per Parigi. La Prefettura ha annunciato che nell'ultima settimana ci sono stati più di 1.500 fermi di sans papiers in Costa Azzurra. Coloro che sono riusciti ad arrivare nella capitale, si trovano in gran parte negli accampamenti di fortuna, che negli ultimi giorni sono stati via via evacuati dalle forze dell'ordine. Ancora giovedì sera ci sono state forti tensioni nel XVIII arrondissement, ma alla fine i 110 migranti che dopo essere stati evacuati dal giardino "comunitario" del Bois-Dormoy avevano cercato rifugio in una vecchia caserma ridotta a rudere, sono poi stati sistemati in vari punti di accoglienza, che possono essere dei centri di emergenza o anche degli alberghi. Ci sono state tensioni anche tra le associazioni di aiuto ai migranti, come Emmaus, France terre d'Asile o l'Esercito della Salvezza, e dei militanti dell'estrema sinistra, che hanno favorito l'occupazione della caserma-rudere. Dei consiglieri di arrondissement stanno cercando delle soluzioni pratiche, come la comunista Emmanuelle Becker, soddisfatta che l'accoglienza sia passata "da 65 a 110 posti, questo significa che cominciamo ad avere un vero dialogo con il comune di Parigi". L'Ofpra (Ufficio francese di protezione dei rifugiati e degli apolidi) interviene, ma solo per coloro che possono essere candidati all'asilo. Per gli altri, la sola prospettiva è l'espulsione dal territorio francese. Il primo ministro, Manuel Valls, lo ha ripetuto: "Chi non ha diritto all'asilo deve essere espulso". Il ministro degli interni, Bernard Cazeneuve, se la prende con i militanti di estrema sinistra, "individui irresponsabili" che secondo lui "strumentalizzano cinicamente la situazione drammatica nella quale si trovano i migranti per fini politicanti". La prossima settimana il governo dovrebbe presentare un piano per i rifugiati e per i migranti che non possono venire espulsi (oltre a chi ha diritto all'asilo, minorenni isolati o persone particolarmente vulnerabili). La sindaca di Parigi, la socialista Anne Hidalgo, ha proposto l'apertura di un "centro" nella capitale. Ma il progetto va male, soprattutto a destra. Potrebbe venire aperta una struttura di 250-300 posti letto, per accogliere a Parigi al massimo due settimane chi ha diritto all'asilo, per riposarsi e preparare la domanda. Oppure potrebbe essere una struttura più limitata: un semplice ufficio informazioni sui diritti. Brasile: caso Pizzolato; Garante Emilia Romagna "se estradato lunedì violato diritto Ansa, 13 giugno 2015 Se l'ex banchiere italo-brasiliano Henrique Pizzolato venisse effettivamente estradato lunedì, "si profilerebbe una violazione del diritto di difesa e della possibilità di adire l'autorità giudiziaria competente, per far accertare la ritenuta illegittimità del decreto di estradizione". Lo fa notare Desi Bruno, Garante regionale in Emilia-Romagna delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale, dopo aver appreso che il ministro della Giustizia avrebbe emesso un provvedimento con il quale autorizza il Governo brasiliano a dare esecuzione al decreto di concessione dell'estradizione dal 15 giugno per Pizzolato, condannato in Sudamerica e arrestato a febbraio 2014 nel Modenese. Ora è in attesa dell'esito del ricorso al Consiglio di Stato. "È pur sempre cittadino italiano - prosegue Bruno - ed è quindi una anomalia la mancata applicazione del Trattato sul trasferimento delle persone condannate tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo del Repubblica federativa del Brasile, sottoscritto a Brasilia nel 2008, che prevede la possibilità per il detenuto condannato di scontare la pena nel Paese di cui è cittadino". L'auspicio "è che quantomeno possa essere garantito a Pizzolato di restare in Italia, senza che sia data esecuzione all'estradizione verso il Brasile, sino a quando non siano stati esperiti tutti i rimedi giurisdizionali, interni e sovranazionali, potendosi profilare, in caso contrario, un pregiudizio grave e irreparabile". Stati Uniti: un altro po' d'inferno per Albert Woodfox, l'ultimo "Angola 3" di Luca Celada Il Manifesto, 13 giugno 2015 Dopo ben 42 anni di soprusi e cella di isolamento, Albert Woodfox stava per essere liberato. Ma la vendetta per la sua militanza politica in carcere continua. Con Robert King e Herman Wallace negli anni 70 formava la celebre e combattiva cellula carceraria delle Pantere nere. Questa settimana un giudice federale ha ordinato la scarcerazione di Albert Woodfox dal penitenziario della Louisiana in cui è rinchiuso da oltre 40 anni. Sembrava infine la conclusione di una vicenda emblematica dei soprusi cui vanno incontro i detenuti nel maggior sistema carcerario del mondo. Woodfox fa parte dei cosiddetti "Angola 3", tre detenuti afroamericani che rinchiusi nel famigerato carcere di Angola, negli anni 70 avevano costituito una cellula carceraria delle Pantere nere. I tre, Robert King, Herman Wallace e Woodfox, avevano organizzato proteste e petizioni contro gli abusi e le quotidiane ingiustizie che erano all'ordine del giorno, particolarmente nei confronti dei prigionieri neri nella ex piantagione schiavista di Angola, e ne avevano fatto le spese. Per aver organizzato una sciopero della fame contro le perquisizioni corporee arbitrarie, Woodfox aveva subito un pestaggio con randelli e mazze da baseball da parte di numerose guardie. Nel 1972 i tre uomini furono accusati dell'omicidio di un secondino durante una rivolta nel carcere. Malgrado l'insufficienza di prove e numerose irregolarità nel processo, i tre vennero condannati e segregati in regime di isolamento. Dopo 42 anni consecutivi di cella di isolamento Woodfox è ora il detenuto americano che più a lungo è stato sottoposto al regime carcerario punitivo che prevede la segregazione in una mini cella per 23 ore al giorno con accesso limitato a visite, telefonate, libri e contatti con altri detenuti. È anche l'ultimo dei tre a rimanere in carcere: Wallace è deceduto nel 2013, tre giorni dopo essere stato rilasciato per motivi umanitari. King liberato nel 2001 dopo 29 anni di isolamento, ha sempre denunciato la sua punizione "politica" e ha collaborato ad un documentario sul caso. Woodfox, che ha 68 anni e soffre di diabete, si è sempre dichiarato innocente pur subendo due processi per il presunto omicidio. Dopo il suo ultimo appello, il giudice federale James Brady ha ritenuto che "dato lo stato precario di salute, l'indisponibilità di testimoni affidabili, la punizione già inflitta al sig. Woodfox e il fatto che sia già stato processato due volte per un delitto di 40 anni fa" il detenuto dovesse essere immediatamente messo in libertà e il caso archiviato. Ma le autorità carcerarie che non gli hanno mai perdonato la militanza politica sono a loro volta nuovamente ricorse in appello ottenendo una ennesima proroga. Un'azione emblematica del giustizialismo punitivo che vige con tutte le discriminanti razziste del caso, all'interno del complesso carcerario industriale degli Stati Uniti. Il caso Woodfox dimostra inoltre le resistenze tuttora opposte da strutture anacronistiche come quella di Angola ai tentativi di riforma da parte di organi federali. Non è una sorpresa che il fenomeno sia più accentuato al sud, dove più radicate sono le tradizioni razziste e "irredentiste". È notorio da anni ad esempio il caso dello sceriffo Joe Arpayo che in Arizona da due decenni fa sfoggio di eclatanti iniziative come i lavori forzati, la messa ai ferri e la pubblica gogna dei prigionieri. Per ora ogni tentativo delle autorità giudiziarie di rimuoverlo dalla sua carica di Maricopa County sono stati vani. Il caso di Woodfox ha nuovamente focalizzato l'attenzione in particolare sulla prassi dell'isolamento ritenuta una forma di tortura fisica e psicologica da un numero crescente di attivisti. Dei 2,3 milioni di persone attualmente in carcere in America, oltre 80 mila sono tenute in isolamento, molte in unità speciali progettate per favorire la deprivazione sensoriale, senza finestre, con luci sempre accese e spesso serrature a controllo remote per ovviare anche al contatto occasionale con le guardie. Il risultato è che oltre il 60% soffrirebbero di disturbi mentali. Alcuni stati hanno costruito supercarceri per lo scopo specifico, come ad esempio il penitenziario-fortezza di Pelican Bay in California il cui famigerato Shu (Security Housing Unit) è stato progettato per segregare oltre mille detenuti. In seguito alle critiche di organizzazioni come Amnesty International, le Nazioni Unite e Human Rights Watch, si sono fatte più marcate le proteste per l'uso diffuso dell'isolamento come strategia penale per il controllo e la punizione. La scorsa settimana ha fatto scalpore il caso di Kalief Browder, un giovane di Brooklyn di 22 anni che si è suicidato dopo essere stato arrestato per il furto di uno zaino. Browder, la cui storia era stata raccontata dal New Yorker, ha passato tre anni in attesa di giudizio nel carcere di Rykers Island, due dei quali in isolamento, prima che un giudice archiviasse il suo caso. Prima di togliersi la vita aveva dichiarato di esser stato irrimediabilmente segnato da quella esperienza. Per quanto riguarda Albert Woodfox si dovrà attendere ancora qualche giorno per una nuova sentenza che potrebbe infine ridargli la libertà e chiudere così un capitolo vergognoso di giustizia sudista. Pakistan: respinto l'appello dell'Ue per moratoria "la pena di morte è un affare interno" Aki, 13 giugno 2015 Il Pakistan non perde occasione per rispondere all'Unione Europea che ha chiesto a Islamabad di ripristinare la moratoria sull'esecuzione delle condanne a morte. "Vengono mandati al patibolo solo i condannati coinvolti in crimini atroci", ha detto il portavoce del ministero degli Esteri pakistano, Qazi Khalilullah, durante un briefing con i giornalisti a Islamabad. Khalilullah, citato dai media locali, ha rivendicato come si tratti comunque di un "affare interno". Dopo il sanguinoso attacco dello scorso dicembre contro una scuola di Peshawar, in cui sono rimaste uccise 150 persone (per lo più bambini), le autorità pakistane hanno deciso la revoca della moratoria sulla pena di morte per i sospetti terroristi. A marzo, poi, è stata annunciata la revoca totale della moratoria. Negli ultimi sei mesi in Pakistan sono state eseguite 150 condanne a morte: secondo i dati dell'organizzazione Reprieve, il Pakistan ha così superato Paesi come l'Arabia Saudita per un triste record. Stando al ministero dell'Interno di Islamabad, nel braccio della morte in Pakistan ci sono almeno 8.000 detenuti. Venezuela: l'arcivescovo sudafricano Tutu chiede liberazione degli oppositori in carcere Ansa, 13 giugno 2015 Desmond Tutu, l'arcivescovo sudafricano premio Nobel per la pace nel 1984, ha chiesto al presidente venezuelano Nicolas Maduro di liberare i prigionieri politici nel suo paese, in un lungo articolo nel quale ha criticato duramente l'atteggiamento dei governi sudamericani riguardo alla situazione a Caracas. "Una nuvola scura incombe sul vertice" fra Ue e Celac che si è chiuso ieri a Bruxelles: "mentre centinaia di politici si riuniscono intorno a pasti suntuosi e si godono il vino buono, 77 prigionieri di coscienza sono rinchiusi nelle prigioni del Venezuela", scrive Tutu in un articolo pubblicato dal quotidiano spagnolo El Pais Secondo l'arcivescovo anglicano "la situazione attuale dei diritti umani in Venezuela è preoccupante", perché dopo le proteste di piazza del 2014 "il governo ha risposto con la forza" e un anno dopo "le cose stanno peggio". "Che un governo - aggiunge - agisca in questo modo contro i suoi propri cittadini quando esercitano la loro libertà di espressione è atroce". Tutu ricorda il caso di Leopoldo Lopez e Daniel Ceballos, due dei dirigenti dell'opposizione attualmente in carcere, sottolineando che "come altri famosi attivisti della non violenza, come Mahatma Gandhi e Martin Luther King, stanno pagando un prezzo molto alto per la loro ricerca di giustizia". In quanto alla reazione internazionale per la crisi in Venezuela, il religioso sudafricano ha sottolineato che "dovendo affrontare il collasso potenziale di un paese che chiamano fratello, i leader dell'America Latina hanno reagito con il silenzio: invece di difendere i diritti umani universali, si sono nascosti dietro alla scusa della non ingerenza". Russia: manifestazione a favore delle detenute, arrestata a Mosca una delle Pussy Riot Askanews, 13 giugno 2015 Una militante delle Pussy Riot è stata arrestata con un altro membro del gruppo dalle forze dell'ordine, mentre manifestavano a Mosca per rinvendicare un miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri russe per le donne. "Sono nel furgone della polizia (...). Non mi hanno detto verso quale commissariato ci stiamo dirigendo. C'è un'altra persona con me", ha affermato Nadejda Tolokonnikova alla radio d'opposizione Ekho Moskvy, postando sulla sua pagina Facebook foto all'interno del furgone e in attesa dell'identificazione in commissariato. I due attivisti sono stati arrestati per "manifestazione non autorizzata" in divisa da detenuti a piazza Bolotnaia, nel pieno centro della capitale, dove nel maggio 2012 si era svolta una manifestazione contraddistinta da scontri con la polizia alla vigilia dell'investitura di Vladimir Putin per un terzo mandato presidenziale. Nadejda Tolokonnikova ha spiegato che voleva richiamare l'attenzione sulle condizioni di detenzione delle donne nelle carceri russe. La manifestazione si è svolta nella giornata della Russia, un giorno in cui non si lavora per celebrare l'indipendenza del Paese dall'Unione Sovietica.