Chi ha la voglia e il coraggio di fare un'interrogazione sui circuiti di "Alta Sicurezza"? di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 12 giugno 2015 "Oggi in un articolo ho scritto che un giudice dovrebbe osservare la legge con gli occhi aperti perché molti di loro sono convinti che i cattivi non cambino, io invece voglio dimostrare che anche i cattivi cambiano quando gliene viene data una possibilità". (Diario di un ergastolano: carmelomusumeci). C'è qualche parlamentare che ha la voglia e il coraggio di fare una interrogazione sui circuiti di "Alta Sicurezza" nelle carceri italiane? Ultimamente i parlamentari Enza Bruno Bossio, Walter Verini, Roberto Rampi, Luigi Lacquaniti, Danilo Leva, Chiara Scuvera, Camilla Sgambato, Ernesto Magamo, Gea Schirò, Federico Massa, Cristina Bargero, Romina Mura, Alfredo Bazoli, Pia Locatelli, Paola Pinnadi, Franco Bruno hanno presentato un disegno di legge per rivedere il divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti che non collaborano con la giustizia. Se passerà questa legge sarà cancellato nel nostro paese l'ergastolo ostativo e un ergastolano, per usufruire dei benefici previsti dalla legge penitenziaria, non avrà più la necessità di mettere in cella un altro al posto suo e di mettere a rischio la sua famiglia. Ultimamente, sto dando il mio contributo alla redazione di "Ristretti Orizzonti" che si sta occupando di fare conoscere all'opinione pubblica i gironi spesso infernali che esistono nelle "Patrie Galere", dal regime del 41 bis, ai circuiti di "Alta Sicurezza". E ho pensato di chiedere, pubblicamente, a questi parlamentari, che hanno avuto il coraggio di ascoltare le parole di Papa Francesco, di avere il coraggio anche di fare una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia per fare luce e portare la legalità istituzionale in queste sezioni ombra, dove sai quando entri ma non sai quando ne esci. La redazione di "Ristretti Orizzonti" che cerca di fare un'informazione seria e d'inchiesta, andando a cercarsi le fonti più attendibili e le testimonianze, famosa (un pò come i radicali) per le lotte contro i mulini a vento, ha scritto a tanti detenuti nei circuiti di "Alta Sicurezza" facendogli delle domande sulla loro "storia carceraria", sulle loro condizioni di detenzione, sui regimi e i circuiti che hanno conosciuto: "Quanti anni hai trascorso in circuiti di Alta Sicurezza", "Quante richieste di declassificazione dall'Alta Sicurezza hai fatto?", "Quando ti è stata rigettata la declassificazione, il carcere ti aveva messo parere favorevole? E tante altre ancora. Ci hanno risposto molti detenuti e da questa inchiesta è uscito fuori uno spaccato da terzo mondo o se preferite dai tempi del medioevo. Abbiamo scoperto che ci sono detenuti "dimenticati" che dopo decenni che sono stati sottoposti al regime di tortura del 41 Bis, ora si trovano da anni nelle sezioni di Alta Sicurezza (prima chiamate sezioni di "Elevato Indice di Vigilanza"). Abbiamo scoperto che alle richieste di declassificazioni, i funzionari dell'Amministrazione Penitenziaria rispondono spesso con brevi, e simili con il passare dei decenni, motivazioni per tutti i detenuti, più o meno di questo tenore: "Considerata l'assenza di elementi certi tali da far desumere l'allontanamento dalle organizzazioni malavitose di provenienza e fatte salve ulteriori verifiche in tempi futuri" o ancora peggio "Rilevato che non risultano elementi univoci comprovanti l'interruzione dei collegamenti dell'istante con la criminalità organizzata". Io, adesso mi e vi domando: ma come può fare un detenuto a difendersi da queste motivazioni? Ed infatti nessuno ci riesce. La redazione di Ristretti Orizzonti ha deciso di rendere pubblici questi questionari, sia per i politici che desiderano chiedere una interrogazione parlamentare, sia per i mass media che vogliono informare l'opinione pubblica su che cosa accade nelle loro Patrie Galere. I questionari si possono richiedere all'indirizzo mail della direttrice di Ristretti Orizzonti Ornella Favero ornif@.iol.it e verrà mandato il materiale che abbiamo raccolto. Il Giudice Bortolato: sì alla revisione dell'art. 4bis e all'abrogazione dell'ergastolo ostativo di Emilio Quintieri emilioquintieri.wordpress.com, 12 giugno 2015 Il Magistrato di Sorveglianza di Padova Marcello Bortolato, membro della Giunta Esecutiva Centrale dell'Associazione Nazionale Magistrati (Anm) e del Comitato Esecutivo del Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza (Conams), sostiene la necessità che l'attuazione della delega di cui al Disegno di Legge C. 2798 del Governo. Attualmente all'esame della Commissione Giustizia di Montecitorio, "dovrebbe rispondere all'esigenza di una completa revisione del sistema del "doppio binario" introdotto con il Decreto Legge n. 306/1992, con riferimento all'Art. 4bis dell'Ordinamento Penitenziario, nell'ottica di una riaffermazione del principio di individualizzazione del trattamento la cui piena applicazione deve rimanere affidata, nel merito, alla Magistratura di Sorveglianza". Il Giudice di Sorveglianza padovano ha le idee molto chiare (pur se espresse a titolo personale), idee che convergono, esattamente, con la coraggiosa iniziativa legislativa assunta dalla Deputata democratica calabrese Bruno Bossio. Bortolato, infatti, afferma che "Pur senza l'abolizione del tutto dell'Art. 4 bis o.p. (nodo centrale di tutto il sistema delle preclusioni) la delega dovrebbe comportarne una rivisitazione secondo linee razionali che ne recuperino la coerenza e la compatibilità con il diritto penitenziario della rieducazione, ispirate a criteri di ragionevolezza ed uguaglianza (che ad esempio escluda dal catalogo dei reati alcune ipotesi, via via introdotte nel corso degli anni, che non hanno più alcuna ragione d'esservi)". "L'eliminazione di automatismi e preclusioni impone altresì una sostanziale abrogazione dell'Art. 58 quater o.p. (divieto di concessione in caso di revoca di benefici precedentemente concessi o di commissione di alcuni reati), così come la definitiva abolizione della preclusione alla detenzione domiciliare per i condannati per i reati di cui all'Art. 4 bis o.p. (Art. 47 ter c. 1 bis o.p.), che già possono usufruire del ben più ampio beneficio dell'affidamento in prova". Quanto, invece, allo specifico caso della pena dell'ergastolo, il componente della Giunta Esecutiva Centrale dell'Anm e del Comitato Esecutivo del Conams, aggiunge che "In materia di ergastolo la delega dovrebbe essere esercitata con l'eliminazione delle ipotesi di c.d. ergastolo "ostativo", anche attraverso l'affrancamento della liberazione condizionale dalle preclusioni penitenziarie nonché l'espunzione (anche per i condannati a pene temporanee) dall'Ordinamento Penitenziario della "collaborazione" quale requisito per l'accesso ai benefici (Art. 58 ter o.p.) imponendo viceversa quale unica condizione di ammissibilità, oltre al fattore temporale, la prova positiva della dissociazione". La posizione del il Senatore del Movimento Cinque Stelle Mario Michele Giarrusso Sen. Giarrusso è diametralmente opposta poiché sostiene che "consentire l'accesso ai benefici degli sconti di pena era sino ad ora riservato ai mafiosi che collaboravano manifestando così il proprio ravvedimento. Con questa proposta di legge invece anche ai mafiosi irriducibili potranno accedere ai benefici degli sconti di pena e salvarsi dall'ergastolo. Sarebbe la fine della lotta alla mafia e la libertà per migliaia di pericolosi criminali. Noi non lo possiamo permettere". Quanto dichiarato dal Senatore Giarrusso, che tra l'altro è anche Avvocato, non corrisponde al vero dice Emilio Quintieri, esponente dei Radicali Italiani il quale collabora con l'On. Enza Bruno Bossio proprio per le questioni penitenziarie. Nessuno ha proposto "sconti di pena" per i "mafiosi irriducibili" che non si ravvedono così come nessuno ha proposto di liberare "migliaia di pericolosi criminali". Si tratta, invece, di una riforma "costituzionalmente orientata" dei presupposti per l'accesso ai benefici penitenziari ed alle altre misure alternative alla detenzione che prescinda in toto dal titolo di reato per il quale è intervenuta la condanna e dalla pretesa di comportamenti di collaborazione, ritenendo sufficientemente idonea la verifica - da parte del Gruppo di Osservazione e Trattamento dell'Istituto in cui il condannato si trova detenuto e della Magistratura di Sorveglianza competente - del percorso risocializzante compiuto dal condannato e la mancanza di elementi che facciano ritenere comprovati contatti con la criminalità organizzata. Il divieto di non concedere l'ammissione ai benefici ed alle misure extra-murarie per i condannati per i reati di cui all'Art. 4 bis, solo per il fatto della loro mancata collaborazione con la Giustizia, appare di dubbia compatibilità con una concezione rieducativa della esecuzione penale, specie alla luce della copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che afferma che è in contrasto con la finalità rieducativa della pena ogni preclusione di natura assoluta all'accesso ai benefici penitenziari, che non lasci al Giudice di Sorveglianza la possibilità di verificare se le caratteristiche della condotta e la personalità del condannato giustifichino la progressione del trattamento rieducativo finalizzato al reinserimento sociale e, quindi, al suo ritorno in libertà al pari degli altri detenuti che hanno "collaborato" o la cui "collaborazione" sia stata ritenuta inesigibile o, comunque, irrilevante per essere stati integralmente accertati i fatti in giudizio. Questa discriminazione, fondata sul titolo di reato e sulla pretesa di atteggiamenti collaborativi - prosegue l'esponente del Partito Radicale - appare fortemente in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione perché, se i soggetti richiedenti l'ammissione ai benefici ed alle misure alternative, sono ritenuti "meritevoli" perché non vi sono elementi che dimostrano in maniera certa l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e perché comunque hanno fatto un certo percorso trattamentale durante l'espiazione della pena, non debbono trovare alcun altro "sbarramento preclusivo" all'ordinario regime di trattamento carcerario. L'On. Enza Bruno Bossio, proprio per tale motivo - conclude Emilio Quintieri - oltre alla nota proposta di legge, in questi giorni, depositerà in Commissione Giustizia alla Camera, delle proposte emendative al Disegno di Legge del Governo che ripropongono oltre alla revisione delle norme per l'accesso ai benefici ed alle misure alternative alla detenzione anche per i detenuti non collaboranti anche altre riforme della Legge Penitenziaria. Giustizia: se la politica comincia a sentirsi sempre più accerchiata dalla magistratura di Alessandro Campi Il Messaggero, 12 giugno 2015 L'impressione, a leggere le cronache e a sondare gli umori che provengono dai palazzi del potere, è quella di una politica che comincia a sentirsi sempre più accerchiata dalla magistratura. Per carità, nulla di paragonabile ad altre stagioni della storia italiana, nemmeno troppo lontane, quando i partiti non vennero semplicemente accerchiati, ma letteralmente disarticolati e condotti all'estinzione (non tutti, solo alcuni) a colpi di inchieste spettacolari e arresti in massa. Ma si affaccia insistente il timore, quando sembrava che la politica avesse finalmente riconquistato una minima autonomia d'azione, che siano nuovamente le Procure, non i cittadini e i loro rappresentanti, a decidere in ultima istanza alleanze parlamentari, maggioranze di governo e singole carriere politiche. D'altro canto con chi prendersela se la corruzione, il malaffare e il cattivo costume politico sono rimasti, vent'anni dopo Tangentopoli, caratteri endemici e strutturali della nostra vita pubblica? Sino a quando la politica, locale e nazionale, sarà inquinata dall'affarismo e affidata ad un personale largamente avventizio, del tutto indifferente al bene pubblico, risulterà difficile stabilire dove finisca l'azione professionale dei magistrati, che fanno semplicemente il loro dovere a difesa della collettività, e dove cominci invece il disegno politico eversivo che alcuni imputano alla corporazione. Anche il garantista più convinto rischia di dover abdicare al suo credo quando l'illegalità diviene una pratica diffusa e di massa. Basta leggere i resoconti sulla vicenda di "Mafia Capitale", un sistema di corruzione non solo politicamente trasversale ma soprattutto segnato da un tratto umano miserabile, per comprendere il perché vadano dilagando - non solo a livello popolare - gli istinti forcaioli, l'ansia di farsi giustizia a buon mercato e il desiderio di mandare in galera chiunque rivesta un incarico politico. Una deriva da evitare. Questo brutto clima - ci si chiede - rischia di produrre conseguenze sugli attuali equilibri politico-parlamentari? Qualcuno in effetti comincia a temerlo. I centristi di Alfano, che in una sola settimana hanno visto due loro importanti esponenti coinvolti in pesanti vicende giudiziarie, adombrano a mezza bocca il rischio che così continuando possa saltare il patto - già di suo fragile - sul quale si regge l'esecutivo. In particolare non hanno, gradito la decisione, annunciata dal Pd prima ancora di vedere le carte nell'apposita Giunta per le autorizzazioni, di votare "sì" all'arresto del loro senatore Gaetano Azzollini, accusato di associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta. Una decisione in effetti avventata e poco rispettosa delle prerogative costituzionali alle quali la Giunta dovrebbe attenersi: prima fra tutte, una volta esaminati gli atti giudiziari nel dettaglio, verificare l'inesistenza di fumo persecutorio a danno di un rappresentante del popolo. Il che la dice lunga sui tormenti che in questo momento, oltre Alfano, non risparmiamo nemmeno Matteo Renzi. Per quest'ultimo sarebbe facile argomentare che ci si comporterà nei confronti di Azzollini con la stessa intransigenza con cui il Pd, all'inarca un anno fa, si comportò nei riguardi della richiesta d'arresto avanzata per un suo deputato, Francantonio Genovese, imputato per associazione a delinquere, riciclaggio, peculato e truffa. Ma non è solo un problema di coerenza o equità politica. C'è in ballo in questo momento lo stesso progetto riformatore di Renzi, che tra le altre cose prevedeva il superamento dello storico conflitto tra politica e giustizia che per due decenni ha avvelenato la vita pubblica italiana. Renzi - per chiudere simbolicamente la stagione politica del berlusconismo e avviare la Terza Repubblica di cui aspira ad essere il fondatore - avrebbe voluto impostare su basi nuove il rapporto tra potere democratico e magistratura: restituendo al primo la sua funzione direttiva e sovrana e riportando la seconda nei suoi confini funzionali. Ci sono discorsi e dichiarazioni, già nei primi mesi del suo insediamento, che vanno coraggiosamente in questo senso; laddove il coraggio è da riferirsi allo stato di soggezione verso la magistratura nel quale la sinistra (salvo alcune minoranze) è vissuta per oltre un ventennio. Ma i tempi per liberare la politica dal controllo delle procure e dall'empito moralizzatore di certi magistrati evidentemente non sono maturi. Il perdurare degli scandali e degli episodi di corruzione ha anzi indotto il governo Renzi a trasformare un onesto e capace magistrato, Raffaele Cantone, in un inedito garante della Repubblica, con effetti politici distorsivi che rischiamo di misurare nei prossimi anni. Renzi, che di suo sarebbe un garantista e un fautore dell'autonomia della politica, ha ben chiaro il pericolo che grava su quest'ultima: di vedere le sue decisioni e azioni sempre più ostacolate o rese vane da quelle adottate dall'ordine giudiziario nelle sue varie articolazioni (dalla magistratura amministrativa alla giustizia costituzionale). Al tempo stesso, non può smettere per un solo attimo di porsi come il paladino a sinistra della battaglia per la legalità, specie dopo i guai che hanno colpito il suo partito e considerando con quale forza i grillini in particolare soffiano sul fuoco del giustizialismo. Ciò non vuol dire che il governo sia prossimo a cadere, nonostante qualcuno al suo interno ventili la minaccia. E se è vero che i numeri al Senato sono sempre più risicati, è anche vero che potrebbe presto arrivare il soccorso parlamentare dei dissidenti berlusconiani capeggiati da Denis Verdini. Non c'è dunque da aspettarsi un ritorno anticipato alle urne che peraltro nessuno sembra volere, nemmeno grillini e leghisti, e che comunque non sarebbe possibile, con la nuova legge elettorale, prima dell'estate 2016. Il rischio che corre l'Italia in questo momento è un altro, che è poi lo stesso di sempre per la politica nazionale: la palude, il galleggiamento, l'inazione. Il contrario dell'immobilismo, verso il quale il governo potrebbe lentamente scivolare, è naturalmente lo scatto di reni. Che per carattere non dovrebbe riuscire difficile a Matteo Renzi, visto che ha sempre detto di non voler vivacchiare a Palazzo Chigi come è capitato, dopo molte promesse e tanti annunci di cambiamento, a diversi suoi predecessori. I temi e le questioni non gli mancano e molti li ha già messi in campo. Ma c'è una questione che più di altre in questo momento meriterebbe di essere presa di petto, per dimostrare che la politica conta ancora qualcosa e che soprattutto si occupa non di sé ma dei cittadini: l'immigrazione incontrollata dal Sud del mondo. Un problema reale, sino ad oggi malamente sottovalutato dalla sinistra nelle sue implicazioni sociali e simboliche, divenuto il maggior alimento propagandistico delle opposizioni, sul quale - in mancanza di soluzioni originali, drastiche ed efficaci da parte dell'esecutivo in carica - si finiranno per decidere i futuri appuntamenti elettorali. Giustizia: Orlando al Consiglio UE su sovraffollamento carceri e velocizzazione processi Ansa, 12 giugno 2015 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando presenterà martedì prossimo al Consiglio d'Europa i risultati ottenuti in quest'ultimo anno dall'Italia con le iniziative prese per risolvere i problemi del sovraffollamento carcerario, della velocizzazione dei processi e dei risarcimenti a chi ha subito i processi lumaca regolati dalla legge Pinto. Il ministro, a quanto si è appreso, incontrerà il presidente della Corte europea dei diritti umani, Dean Spielmann e il segretario generale dell'organizzazione, Thorbjorn Jagland. La visita di Orlando a Strasburgo arriva un anno dopo che sia la Corte che il Comitato dei ministri hanno ‘promossò l'operato delle istituzioni italiane per risolvere la questione del sovraffollamento carcerario, per cui l'Italia era stata condannata - con la sentenza Torreggiani - per aver sottoposto i detenuti a trattamenti inumani e degradanti. Ma per chiudere definitivamente la questione, si osserva a Strasburgo, il Paese deve dimostrare che le soluzioni trovate sono durature e impediranno nuove violazioni. Per quanto riguarda la lunghezza dei processi e i ritardi nei pagamenti dovuti in base alla legge Pinto, la situazione dell'Italia alla Corte in questo ultimo anno è anch'essa migliorata, con una sostanziale diminuzione dei ricorsi pendenti. Ed è in questo quadro più positivo che il ministro presenterà le misure adottate, tra cui l'accordo firmato tra il ministero della giustizia e la Banca d'Italia per accelerare il pagamento dei risarcimenti Pinto. Giustizia: torna il reato di falso in bilancio e la tenuità del fatto si applica alle non quotate di Paolo Canaparo Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2015 Legge 27 maggio 2015 n. 69. In vigore da oggi il nuovo reato di falso in bilancio introdotto dalla legge n. 69 del 2015 che come si sa rivede l'impianto delle responsabilità penali in materia societaria. In particolare, gli articoli 9, 10 e 11 del provvedimento riformano la disciplina del codice civile in materia di falso in bilancio. Rispetto alla disciplina previgente, la riforma della legge 69 distingue tra falso in bilancio di società non quotate e falso in bilancio di società quotate, sanzionando entrambe le fattispecie come delitto. Viene prevista inoltre, per le società non quotate, una ipotesi attenuata del reato nonché uno specifico caso di non punibilità per lieve entità dell'illecito. Il falso in bilancio in società non quotate - Nel dettaglio, l'articolo 9 della legge 69 riformula l'articolo 2621 del codice civile - la cui rubrica rimane inalterata - sul falso in bilancio in società non quotate. Prevede che le false comunicazioni sociali, attualmente sanzionate come contravvenzione, tornino ad essere un delitto, punito con la pena della reclusione da 1 a 5 anni. Nulla cambia in relazione ai soggetti in capo ai quali la responsabilità è ascritta (amministratori, direttori generali, dirigenti addetti alla predisposizione delle scritture contabili, sindaci e liquidatori). Nel nuovo articolo 2621 Cc, la condotta illecita consiste nell'esporre consapevolmente fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero od omettere consapevolmente fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo concretamente idoneo a indurre altri in errore; per il reato è confermata la procedibilità d'ufficio (salvo nelle ipotesi in cui il fatto sia di lieve entità). Stante il limite di pena, nelle indagini su tale delitto non sarà possibile disporre le intercettazioni. Oltre al passaggio da contravvenzione a delitto, i principali elementi di novità del nuovo reato falso in bilancio di cui articolo 2621 del codice civile sono i seguenti: scompaiono le soglie di non punibilità (previste dal terzo e quarto comma dell'articolo 2621); è modificato il riferimento al dolo (in particolare, permane il fine del conseguimento per sé o per altri di un ingiusto profitto, ma viene meno "l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico" mentre è esplicitamente introdotto nel testo il riferimento alla consapevolezza delle falsità esposte); è eliminato il riferimento all'omissione di "informazioni" sostituito da quello all'omissione di "fatti materiali rilevanti" (la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene); è introdotto l'elemento oggettivo ulteriore della "concreta" idoneità dell'azione o omissione ad indurre altri in errore. Il riferimento dell'articolo 2621 del codice civile alle modalità del falso - ovvero al fatto che debba essere "concretamente idoneo a indurre altri in errore" - pare collegata alla scomparsa delle soglie di punibilità nonché alla previsione delle ipotesi di lieve entità e particolare tenuità (di cui ai nuovi articoli 2621-bis e 2621-ter del codice civile). I fatti di lieve entità - L'articolo 10 introduce nel codice civile due nuove disposizioni dopo l'articolo 2621 : gli articoli 2621-bis (Fatti di lieve entità) e 2621-ter (Non punibilità per particolare tenuità). L'articolo 2621-bis disciplina l'ipotesi che il falso in bilancio di cui all'articolo 2621 sia costituito da fatti "di lieve entità", salvo che costituiscano più grave reato. Tale fattispecie, punita con la reclusione da sei mesi a tre anni (fatta salva la non punibilità per particolare tenuità del fatto), viene qualificata dal giudice tenendo conto: della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta. Analoga sanzione si applica - in base al secondo comma del nuovo articolo 2621-bis - anche nel caso in cui le falsità o le omissioni riguardino società che non superano i limiti indicati dal secondo comma dell'articolo 1 della legge fallimentare (Rd 267/1942). In tal caso, il delitto è procedibile a querela della società, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari della comunicazione sociale. La sanzione ridotta prevista per le specifiche tipologie di società più piccole costituisce pertanto una presunzione assoluta, introdotta direttamente dalla legge, circa la sussistenza del fatto di lieve entità e l'applicabilità della relativa sanzione. La non tenuità dell'illecito - Il nuovo articolo 2621-ter del codice civile prevede che, ai fini della non punibilità prevista dall'articolo 131-bis del codice penale per particolare tenuità dell'illecito, il giudice valuti, in modo prevalente, l'entità dell'eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori dal falso in bilancio di cui agli articoli 2621 e 2621-bis. La disposizione introdotta dall'articolo 2621-ter deroga, quindi, ai criteri generali sulla non punibilità per particolare tenuità del fatto, previsti dall'articolo 131-bis del codice penale. Occorre valutare quali siano gli effetti del nuovo obbligo per il giudice di valutare "in modo prevalente" l'entità del danno, rispetto agli altri profili indicati dall'articolo 131-bis Cp (es. le modalità della condotta). In base agli articoli 2621, 2621-bis e 2621-ter del Cc, pertanto, in presenza di condotte concretamente idonee a indurre altri in errore nelle comunicazioni sociali relative a società non quotate, si potrà avere: a) l'applicazione della pena della reclusione da uno a cinque anni; b) l'applicazione della pena da sei mesi a tre anni se, in presenza delle citate condotte, i fatti sono di lieve entità, tenuto conto di una serie di elementi oppure per le società di minori proporzioni; c) la non punibilità per particolare tenuità in base alla valutazione del giudice, prevalentemente incentrata sull'entità del danno. Le false comunicazioni - L'articolo 11 della legge 69 modifica l'articolo 2622 del codice civile, attualmente relativo alla "fattispecie di false comunicazioni sociali in danno della società, dei soci o dei creditori". Tale fattispecie viene sostituita dal delitto di "false comunicazioni sociali delle società quotate", individuate dal nuovo articolo 2622, primo comma, come le società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese della UE. L'aumento della pena, nel massimo, da quattro ad otto anni previsto dalla nuova fattispecie rende possibile nelle relative indagini l'uso delle intercettazioni. Anche qui, i soggetti attivi del reato sono gli stessi di cui all'attuale articolo 2622 ovvero amministratori, direttori generali, dirigenti addetti alla predisposizione delle scritture contabili, sindaci e liquidatori, con la differenza che qui si tratta di ruoli ricoperti in società quotate. La condotta illecita per il falso in bilancio nelle società quotate consiste nell'esporre consapevolmente fatti materiali non rispondenti al vero ovvero omettere fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene in modo concretamente idoneo a indurre altri in errore sulla situazione economica della società. I principali elementi di novità del nuovo falso in bilancio delle società quotate di cui articolo 2622, primo comma, del codice civile - che parzialmente coincidono con quelli di cui all'articolo 2621 - sono i seguenti: la fattispecie è configurata come reato di pericolo anziché (come ora) di danno; scompare, infatti, ogni riferimento al danno patrimoniale causato alla società; le pene sono aumentate (reclusione da tre a otto anni, anziché da uno a quattro anni); scompaiono, come nel falso in bilancio delle società non quotate, le soglie di non punibilità (previste dai commi 4 ss. del previgente art. 2622 ); è anche qui modificato il riferimento al dolo (permane il fine del conseguimento per sé o per altri di un ingiusto profitto, ma viene meno "l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico" mentre è esplicitamente introdotto nel testo il riferimento alla consapevolezza delle falsità esposte); è eliminato il riferimento all'omissione di "informazioni", sostituito da quello all'omissione di "fatti materiali rilevanti" (la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene); è introdotto, come nell'articolo 2621, l'elemento oggettivo ulteriore della "concreta" idoneità dell'azione o omissione ad indurre altri in errore. La responsabilità amministrativa delle società - Infine, l'articolo 12 modifica l'articolo 25-ter del decreto legislativo 231 del 2001 (responsabilità amministrativa delle persone giuridiche), il quale reca una disciplina dei criteri di imputazione della responsabilità degli enti valevole per i reati societari. La disposizione interviene sui criteri soggettivi di imputazione della responsabilità e sull'applicazione delle sanzioni pecuniarie alle società (per quote). La norma, nella formulazione prima vigente, limitava per i reati societari la cerchia dei possibili autori del fatto a soggetti che ricoprono specifici ruoli nella compagine organizzativa dell'ente (amministratori, direttori generali, liquidatori o persone sottoposte alla loro vigilanza). Tale limitazione viene ora superata dalla soppressione del riferimento ai citati ruoli di vertice. In ragione del descritto ripristino di fattispecie penali in tema di cosiddetto falso in bilancio, le successive modifiche dell'articolo 12 riguardano, da un lato, l'introduzione del riferimento al reato di "delitto di false comunicazioni sociali" di cui all'articolo 2621 del codice civile e, dall'altro, l'elevazione del limite massimo edittale della relativa sanzione pecuniaria da trecento a quattrocento quote, nonché l'introduzione della sanzione pecuniaria da cento a duecento quote per il falso in bilancio di lieve entità. Con l'introduzione del nuovo delitto di false comunicazioni sociali delle società quotate è prevista la sanzione a carico della società da quattrocento a seicento quote. Confisca ammessa anche sugli acquisti precedenti la legge di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2015 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 11 giugno 2015 n. 24785. La confisca per equivalente può colpire anche beni acquistati prima dell'entrata in vigore della legge applicata dal giudice. Ciò che conta è che la condotta - cioè il reato - sia stata ovviamente perpetrata sotto la vigenza della norma incriminatrice (articolo 2 del codice penale). La Seconda sezione penale della Cassazione (sentenza 24785/15, depositata ieri) torna ancora una volta sul tema dei provvedimenti ablativi, per ribadire e ulteriormente specificare la natura e i limiti del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente. Il quesito era stato sollevato nell'ambito del ricorso di una srl della provincia di Monza utilizzata - secondo la prospettazione dell'accusa - per riciclare alcuni milioni di euro extra contabilizzati, fondi scoperti dalla Gdf nel corso di una verifica e "recepiti" nell'ordinanza emessa dal Gip brianzolo - provvedimento confermato peraltro dal Riesame. La questione posta è se i "sigilli" possano congelare anche i beni acquistati dai coimputati - persone fisiche - in periodo antecedente l'entrata in vigore del dlgs 231/2007 applicato nel caso concreto (articolo 25-octies) ovvero se l'irretroattività penale metta in salvo gli acquisti risalenti. La Corte con la decisione di ieri ha avallato le scelte dei giudici di merito, sottolineando che "il principio di irretroattività in materia penale attiene al momento della condotta e non invece al tempo ed alle modalità di acquisizione dei beni destinatari in concreto della sanzione", anche perché la data di acquisto dei beni provento di riciclaggio "non è elemento contemplato dalla norma" ablativa. La irretroattività in sostanza, argomenta l'estensore, "deve intendersi riferita al fatto reato e non certo alla data di acquisizione dei beni su cui cade la sanzione". Nel caso specifico, quindi, se il reato è stato commesso prima del 29 dicembre 2007 - entrata in vigore dell'articolo 648-quater - il sequestro per equivalente non sarebbe potuto essere disposto, mentre una commissione successiva legittima i "sigilli" anche sui beni oggetto di transazioni precedenti a quella data, e anche se - come ormai principio giurisprudenziale assodato - questi non abbiano alcun vincolo di pertinenzialità con il reato contestato. Facebook: foto profilo protette dal diritto d'autore di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2015 Tribunale di Roma - Sentenza 1° giugno 2015 n. 12076. La pubblicazione di foto sulla propria pagina Facebook "non comporta la cessione integrale dei diritti fotografici". Per cui nel caso di utilizzo non autorizzato da parte dei media scatta il risarcimento del danno morale e patrimoniale. Lo ha stabilito il Tribunale di Roma con la sentenza del 1° giugno 2015 n. 12076. Non si pensi solo ai casi di furto d'identità, peraltro già sufficientemente protetti dalle norme penali, ma anche all'ipotesi in cui un giornalista voglia scrivere un pezzo e pubblicare sul giornale le foto delle persone interessate dalla notizia. Insomma, quel che giustamente dice il tribunale capitolino è che la pubblicazione di foto sulla propria pagina Facebook non comporta la cessione integrale dei diritti fotografici. Per cui nel caso di utilizzo non autorizzato da parte dei media scatta il risarcimento del danno morale e patrimoniale. La foto profilo non rientra nelle cosiddette "opere fotografiche", le immagini cioè che presentano un margine di creatività dell'autore e che, pertanto, la legge tutela maggiormente rispetto alle foto semplici, quelle cioè che consistono in una semplice riproduzione di un determinato evento (come, per esempio, uno scatto alla natura o a un oggetto, senza personalizzazione del fotografo). Ma questo non vuol dire che siano totalmente sprovviste di tutela, tanto più che coinvolto c'è il ritratto di una persona, spesso in primo piano. La pubblicazione di una fotografia nella pagina personale di Facebook (o di qualsiasi altro social network) non è, di per sé, prova che il titolare dell'account ne possieda anche i diritti d'autore (potrebbe essere il caso dell'indicazione, sulla fotografia, del nome di un terzo quale fotografo, la condivisione di un contenuto appartenente ad altro utente o di altra pagina web, ecc.); tuttavia, lo stesso utilizzo, da parte del soggetto ritratto fa presumere (salvo prova contraria) che egli abbia la titolarità dei relativi diritti fotografici e di riproduzione. Contrariamente a quanto alcuni credono, quando ci si iscrive a Facebook non si cedono ai terzi (v. i giornalisti) i diritti d'autore sulle foto pubblicate sul proprio profilo, ma solo la libertà di utilizzo dei delle informazioni: non vi rientrano quindi i contenuti coperti da diritti di proprietà intellettuale degli utenti, rispetto ai quali l'unica licenza è quella non esclusiva e trasferibile concessa a Facebook, fino a quando la pagina è attiva. Dunque, scatta il risarcimento del danno patrimoniale e morale per il mancato riconoscimento della paternità delle fotografie per via del danno provocato dalla pubblicazione delle foto senza l'autorizzazione dell'autore e senza l'indicazione del suo nome. Firenze: all'Opg di Montelupo detenuto tenta il suicidio, salvato delle guardie carcerarie di Massimo Mugnaini La Repubblica, 12 giugno 2015 Polemiche per la mancata chiusura dell'ospedale psichiatrico giudiziario nonostante la soppressione prevista dal 31 marzo. "Qui ancora 90 persone che non trovano un'altra collocazione". Ha tentato di togliersi la vita impiccandosi con le lenzuola a una grata ma l'intervento tempestivo delle guardie carcerarie dell'Opg di Montelupo ha scongiurato il peggio. L'uomo, un detenuto di 27 anni affetto da problemi psichici, un anno di carcere ancora da scontare, se l'è così cavata con qualche escoriazione al collo ed è stato accompagnato all'ospedale di Empoli per gli accertamenti di rito. L'ennesimo evento critico nel carcere psichiatrico toscano, avvenuto ieri pomeriggio, ha però rinfocolato la polemica sulla mancata chiusura dell'Opg. "A Montelupo Fiorentino, dopo che la legge entrata in vigore lo scorso 31 marzo ha previsto la soppressione dell'ex Opg - denuncia il segretario regionale Fns Uil Fabrizio Ciuffini - rimangono ancora oltre 90 persone che non trovano diversa collocazione visto che nessuna struttura alternativa, prevista appunto dalla legge, è stata creata". In effetti la Regione Toscana ha già individuato le strutture alternative (la Rems a Volterra e le otto strutture non detentive dislocate sul territorio toscano) che dovranno accogliere gli internati di Montelupo, fornendone la lista al Ministero della Giustizia. Tuttavia le strutture non sono ancora operative né è chiaro quando lo saranno. "Il motivo di ciò è semplice - spiega il Garante dei Detenuti della Toscana Franco Corleone - le Regioni hanno sempre giocato al rinvio, sulla questione Opg. Peccato che l'ultimo rinvio non ci sia stato: è per questo che sono impreparate. Io non ho mai creduto alla data magica del 31 marzo, ma all'avvio di un processo sì. E invece ad oggi l'unica novità è che una decina di detenuti liguri è stata trasferita da Montelupo a Castiglione delle Stiviere, Mantova". "La Rems deve partire presto - prosegue il Garante - così come lo screening degli internati, che serve a valutare il loro livello di rischio e quindi a indicare dove mandarli. Se non si facesse neppure questo sarebbe davvero preoccupante. Mi auguro che la nuova Giunta Regionale si attivi in questo senso, non appena sarà insediata" conclude. Intanto domani sarà a Firenze il Guardasigilli Andrea Orlando, per la cerimonia di intitolazione del Palazzo di Giustizia a Piero Calamandrei. Proprio il Ministro della Giustizia lo scorso dicembre aveva annunciato il commissariamento per le Regioni inadempienti alla soppressione degli Odg e alla creazione delle Rems. Fns-Cisl: nella struttura ancora 90 persone, per loro ancora nessuna alternativa "Grazie al tempestivo intervento della Polizia Penitenziaria si salva un giovane Internato che ha tentato il suicidio Ieri nel primo pomeriggio, nella Struttura Penitenziaria di Montelupo Fiorentino, solo ed esclusivamente grazie all'immediato intervento dei Colleghi di Polizia Penitenziaria, è stata salvata la vita ad un giovane Detenuto (con problemi psichici e che deve scontare ancora qualche anno di carcere) che ha tentato il suicidio impiccandosi con l'uso di lenzuola. L'iniziativa del 27enne di mettere in pratica il suicidio è stata scoperta immediatamente e solo per la tempestività dell'intervento dei Poliziotti il Detenuto si è salvato. A Montelupo Fiorentino, dopo che la legge ha previsto la soppressione dell'ex Opg, rimangono ancora oltre 90 Persone recluse, che non trovano diversa collocazione visto che nessuna Struttura alternativa, prevista appunto dalla Legge, è stata creata. Nel frattempo il Personale di Polizia Penitenziaria continua ad assicurare - nonostante i molti detrattori - una funzione essenziale per la Sicurezza dei Cittadini e per l'assistenza e l'espiazione delle misure disposte dall'Autorità Giudiziaria nei confronti di Persone che non possono essere riammesse in libertà. Al momento, esclusa la Direzione Penitenziaria, nessuno ha inteso partecipare apprezzamento al Personale che ha evitato anche questa nuova tragedia. Ma non osiamo pensare cosa avremmo dovuto ascoltare, anche in termini di polemiche, se per caso fosse trascorso qualche "attimo di troppo" e fossimo oggi a commentare un esito diverso della vicenda". Roma: Antigone e Asgi "minori stranieri trattenuti a Regina Coeli per essere identificati" Ansa, 12 giugno 2015 Antigone e Asgi: grave e illegittimo. Il Governo riferisca in Parlamento. Le Associazioni Antigone e Asgi esprimono forte preoccupazione per la prassi adottata dalle Autorità italiane di trattenere presso le carceri e i centri di identificazione potenziali richiedenti asilo, anche minorenni, per le procedure di identificazione e di accertamento dell'età. La scorsa settimana, volontari delle Associazioni Antigone e Asgi hanno incontrato presso la Casa Circondariale di Regina Coeli alcuni minori somali che intendevano richiedere protezione internazionale in Francia. Anche a seguito del rilievo delle due Associazioni i minori sono stati immediatamente rilasciati. Resta però la gravità dell'accaduto. Trattenere minorenni, per di più che fuggono da guerre e conflitti interni, presso un istituto di pena destinato ai maggiorenni è contrario al buon senso prima ancora che al diritto, anche qualora questi non intendano presentare domanda di protezione internazionale in Italia. Chiediamo al Governo di riferire sull'accaduto in Parlamento e di porre fine a questa prassi illegittima. Tolmezzo: detenuto 66enne rischia la vita per la negligenza di un medico del carcere di Tommaso D'Angelo Cronache dal Salernitano, 12 giugno 2015 Rischia di morire perché sono rimaste inascoltati i suoi appelli. Perché, nonostante fatti acclarati, un medico del reparto detenuti dell'ospedale di Salerno ha preferito deriderlo "sbattendogli" in faccia i suoi titoli di studio invece di salvaguardare quel diritto alla salute che non dovrebbe mai essere negato a nessuno. Anche ad un detenuto. Anche a Francesco Sorrentino, esponente della Nco, condannato a 30 anni per il sequestro di Franco Amato (leggerete a parte) e detenuto nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo. L'avvocato difensore, Bianca De Concilio, dopo mesi di appelli a vuoti, e richieste che non hanno trovato alcun tipo di risposta, ha rotto gli indugi ed in una conferenza stampa ha ricostruita la storia di un uomo che aveva quasi scontato il suo conto con la giustizia e che è stato nuovamente tirato in ballo in una vicenda giudiziaria dallo stesso figlio. Uno dei pochi congiunti rimasti in vita dopo averne perso due in tragiche circostanze (uno impiccato e l'altra in seguito ad un malore accusato durante un processo in aula bunker). Per seguire le udienze del processo al Tribunale di Nocera Sorrentino il 29 gennaio viene trasferito al carcere di Fuorni. Qui inizia il dramma di un uomo già provato da 36 anni di carcere. Sorrentino denuncia tracce di sangue nelle urine. Dopo una visita sommaria ed esami di routine i medici gli somministrano antibiotici ma, nonostante ciò, le perdite ematiche continuano. Il sessantaseienne chiede che vengano effettuati nuovi esami ma il medico rovescia sistematicamente il campione prelevato nel water. "Comprendo una certa diffidenza nei confronti dei detenuti - ha sottolineato l'avvocato De Concilio- ma ci sono casi e casi e non si può far di tutta un'erba un fascio. Bisogna approfondire per garantire quel diritto alla salute che non va negato a nessun essere umano. Nel caso di Sorrentino dopo oltre trent'anni di carcere fatti dignitosamente non avrebbe mai cercato un escamotage per uscire". L'uomo, per sottolineare la sua buona fede, è arrivato a fare l'esame -in pratica- davanti al medico che anche in quel caso ha rovesciato il campione e, di fronte alle insistenze del sessantaseienne, ha ribadito di sapere quello che faceva in quanto aveva acquisito un titolo di studio: "Gli ha riferito che era solo un detenuto e doveva restare in silenzio e accettare le prescrizioni mediche fatte da chi ha competenza in materia". Il rientro a Tolmezzo. Il 31 marzo, nonostante la richiesta dell'avvocato De Concilio ed il parere favorevole del presidente del collegio giudicante del Tribunale di Nocera (Diograzia ndr), Sorrentino viene trasferito nuovamente a Tolmezzo in virtù di un rinvio lungo dell'udienza del processo che vede l'ex esponente della Nco imputato. I sanitari della struttura penitenziaria friulana si rendono immediatamente conto del cattivo stato di salute dell'uomo che lamenta perdite più forti ed è sempre più provato e dimagrito. Viene immediatamente disposta una visita urologica ed un'ecografia, esami che non erano stati disposti a Salerno. I medici riferiscono che bisogna intervenire al più presto ma nel frattempo Sorrentino rientra a Salerno il 5 maggio per l'udienza che sarà celebrata due giorni dopo. Qui inizia un nuovo calvario. La terribile diagnosi. L'uomo lamenta forti dolori alla vescica e chiede a gran voce esami più approfonditi. Litiga anche con i compagni di cella e con un poliziotto della penitenziaria. Vengono disposti 15 giorni di sospensione nonostante le condizioni fisiche di Sorrentino peggiorino di giorno in giorno. Il 26 maggio rende dichiarazioni spontanee davanti al giudice del Tribunale di Nocera, su consiglio dell'avvocato difensore, dove denuncia il suo delicato stato di salute e l'assoluto immobilismo dei medici del reparto detenuti del carcere di Salerno. Riferisce anche del suo delicato problema alla vescica. "Non si possono trattare i detenuti peggio dei cani". Vengono disposti esami più approfonditi ma nulla cambia. A Sorrentino vengono somministrati soltanto antibiotici fino al 31 maggio quando avverte un dolore lancinante e riferisce che non riesce più ad urinare. "Per fortuna di turno c'era un medico diverso da quello che finora l'aveva visitato ed immediatamente interviene inserendo un catetere e disponendo il trasferimento al pronto soccorso dove viene rilevata un'occlusione dovuta dal sangue. Le notevoli perdite di sangue hanno portato il valore dell'emoglobina a livelli bassissimi (otto). Vengono immediatamente disposte le trasfusioni e gli accertamenti rilevano un tumore alla vescica di grosse dimensioni. La diagnosi è gravissima con l'uomo che ora è in forte pericolo di vita per la negligenza di un medico che avrebbe potuto disporre accertamenti cinque mesi prima e, di conseguenza, intervenire, probabilmente, in condizioni meno disperate. In occasione dell'udienza in programma oggi al Tribunale di Nocera, ed in attesa delle risultanze degli accertamenti disposti, l'avvocato Bianca De Concilio depositerà gli atti relativi agli ultimi accertamenti effettuati da Sorrentino. "Il nostro intervento è fatto a tutele dei detenuti. Chiederemo al ministero un'accurata ispezione ed alle modalità di intervento applicate alle strutture carcerarie". Genova: manganellate in carcere a Marassi, tra i medici indagati c'è la dottoressa del G8 di Giuseppe Filetto La Repubblica, 12 giugno 2015 Cinque dottori della Asl non avrebbero denunciato le lesioni. Il Dap sospende un agente applicando le norme europee. Marassi sarà anche "una scatola di vetro", come assicura il direttore Salvatore Mazzeo, ma all'interno del carcere genovese è accaduto qualcosa che fa tornare alla memoria il G8 e la morte di Stefano Cucchi a Regina Coeli. Per due ragioni: il pestaggio di un detenuto da parte di una guardia; il coinvolgimento di un medico coinvolto nelle torture di Bolzaneto, La prima ragione: il pestaggio di Ferdinando B., detenuto di 36 anni, a quanto pare manganellato da un agente. Da Dario Pinchiera, di 30 anni, indagato per lesioni e ieri sospeso per un anno dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria. La seconda ragione: uno dei 5 medici della Asl-Tre indagati per "omissioni" (non avrebbero refertato il detenuto) e "favoreggiamento", si chiama Marilena Zaccardi, nota per essere stata processata per le torture a Bolzaneto. I reati sono andati in prescrizione, ma ritenuta responsabile in sede civile. Su lei rimane l'immagine della "condanna", tanto che all'epoca l'Ordine dei Medici la sospese per 2 mesi. Ciò nonostante, due mesi fa la Asl l'ha indicata come relatrice in un convegno sulla salute nelle carceri. La vicenda di Marassi, sulla quale è aperta un'inchiesta da parte del pm Giuseppe Longo, ieri ha avuto una svolta: la notifica di 10 avvisi di garanzia ai 5 medici della Struttura di Medicina Penitenziaria. Oltre a Zaccardi figurano i colleghi: Ilias Zannis, Giuseppe Papatola, Silvano Bertirotti e Silvia Oldrati. Più altri 3 medici. Più un paio di guardie carcerarie. Va detto che a ciascuno sono addossate responsabilità diverse, e le iscrizioni servono a chiarire le posizioni, anche a tutela. Oldrati, infatti, è la psichiatra che il 14 aprile scorso durante la visita alla quarta sezione del carcere, ha visto il detenuto (per reati di droga) tumefatto, lo ha medicato e lo ha segnalato "con lesioni sospette" al medico responsabile, Bertirotti. Cosa è accaduto il giorno prima, in parte è da ricostruire. Sembra, però, che il carcerato sia stato massacrato da Pinchiera. Il condizionale è d'obbligo. Quest'ultimo, infatti, avrebbe riferito al suo comandante, Massimo Di Bisceglie, che prima sarebbe stato aggredito dal detenuto, si sarebbe difeso e ci sarebbe stata una colluttazione; il recluso sarebbe scivolato, avrebbe avuto la peggio. All'aggressione non avrebbe assistito nessuno e la zona in cui si è verificata, non è coperta da telecamere. Il direttore Salvatore Mazzeo ha segnalato la vicenda alla Procura della Repubblica ed al Provveditore alle Carceri, Carmelo Cantone. E tempestivamente ha "invitato" la guardia carceraria a mettersi in ferie forzate. Dichiarando a Repubblica: "Chi ha sbagliato deve pagare, non facciamo sconti a nessuno; i manganelli si usano soltanto se autorizzati dal direttore o dal comandante delle guardie. Solo in caso di rivolta". Modena: la Messa alla prova con il lavoro di pubblica utilità nei Comuni della Provincia Gazzetta di Modena, 12 giugno 2015 Gli imputati per i quali il giudice decide la sospensione del processo, con "messa alla prova" verranno in lavori di pubblica utilità nei comuni della Provincia di Modena. La Provincia di Modena utilizzerà nei propri servizi gli imputati per i quali il giudice decide la sospensione del processo, con "messa alla prova" in lavori di pubblica utilità, una possibilità introdotta dalla legge 67 del maggio 2014 per i reati puniti con la sola pena pecuniaria e con pena sotto i quattro anni. L'attività si svolgerà sulla base di una convenzione siglata da Giancarlo Muzzarelli, presidente della Provincia di Modena, e da Vittorio Zanichelli, presidente del Tribunale di Modena. L'accordo prevede l'utilizzo a titolo gratuito degli imputati in servizi dell'ente da quelli amministrativi alle manutenzioni. "Dopo l'uscita del regolamento del ministro della Giustizia due giorni fa, è la prima convenzione in Italia - sottolinea Giancarlo Muzzarelli - di una pubblica amministrazione che sigla un accordo di questo genere con l'autorità giudiziaria. Crediamo che l'ente possa contribuire positivamente a mettere in pratica lo spirito della legge impiegando gli imputati in attività amministrative di vario genere, oppure esecutive e in affiancamento al nostro personale per attività di manutenzione di strade, piste ciclabili ed edifici". "La legge - spiega Zanichelli - introduce questo nuovo istituto della messa alla prova con l'obiettivo di favorire il reinserimento degli imputati, decongestionando il processo penale e evitando accessi al carcere per imputati di reati circoscritti e di lieve entità e allarme sociale. L'affidamento al servizio sociale avviene secondo un'analisi attenta delle attitudini e caratteristiche degli imputati che richiedono di usufruire di questa opportunità". Genova: sventata evasione, detenuto ha scavalcato il muro di cinta ma è stato bloccato Askanews, 12 giugno 2015 A Genova un detenuto italiano di 22 anni ha tentato di evadere dal carcere di Marassi, scavalcando il muro di cinta questa mattina durante l'ora d'aria ma è stato sorpreso e bloccato dalla polizia penitenziaria. Lo ha reso noto il segretario regionale del Sappe, Michele Lorenzo. Il giovane, che si trovava nel cortile passeggi, è riuscito a scavalcare il primo muro di cinta del carcere ed era in procinto di scavalcare anche il secondo, quando è stato notato da un poliziotto in servizio sulla torretta, che ha subito allertato i colleghi che lo hanno raggiunto e ricondotto all'interno del penitenziario. "Il detenuto che ha tentato la fuga - ha sottolineato Lorenzo - in precedenza aveva già creato innumerevoli problemi per la sicurezza dell'istituto in quanto affetto da problemi psichiatrici". Rossano (Cs): il Sappe denuncia carenze degli automezzi per la traduzione dei detenuti di Antonio Le Fosse cn24tv.it, 12 giugno 2015 Il personale della Polizia Penitenziaria del carcere di Rossano in agitazione per la criticità degli automezzi per la traduzione e il piantonamento dei detenuti. I delegati provinciali del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), hanno scritto una missiva al Ministero di Grazia e Giustizia per segnalare il problema: 1 Ducato Maxi su 4 assegnati per le traduzioni di circa 170 detenuti. Zero mezzi protetti su 3 consegnati, di cui sono fermi per ripristino funzionale o fuori uso, per la traduzione di terroristi islamici. Zero autovetture su 4 assegnate, sono in officina per effettuare il tagliando completo e risolvere una serie di anomalie. Su 12 mezzi assegnati all'Istituto Penitenziario di Rossano, per i servizi strettamente connessi al trasporto di circa 300 detenuti, al momento è disponibile un solo furgone (1 Ducato Fiat Maxi). Gli unici blindati sono in fermo in autoparco per problemi vari e per aver percorso oltre 500mila chilometri. Alcuni di questi sono stati messi su strada nel 1995 e, di conseguenza, richiedono continua manutenzione anche di carrozzeria come ruggine, infiltrazione di acqua piovana. È evidente, quindi, che non è solo questione di inadeguatezza, pericolosità ed invecchiamento del parco automezzi, ma anche di un problema di sicurezza e di insufficienza in merito allo stanziamento di fondi che sono necessari per il ripristino funzionale dell'intero parco automezzi. Ad oggi circa il 99,99 % dei mezzi in uso sono a rischio stop e tale dato crea un certo allarme in tutto il personale penitenziario, in considerazione dell'alto carico di lavoro che assicura l'NTP della Casa Circondariale di Contrada Ciminata, anche perché sono aumentate le traduzioni, dopo la chiusura del tribunale di Rossano, con trasferimenti giornalieri al nuovo Palazzo di Giustizia di Catrovillari. I delegati provinciali del Sappe, infine, chiedono al Ministero di farsi carico di questa problematica, affinché si possa garantire, con la consegna di nuovi mezzi blindati, la più totale sicurezza durante il trasferimento dei numerosi detenuti dall'Istituto Penitenziario di Rossano in diversi Palazzi di Giustizia e in altre sedi carcerarie regionali ed interregionali. Viterbo: nel carcere di Mammagialla strutture sanitarie insicure, la Regione che fa? di Coordinamento Sindacale Professionisti della Sanità tusciaweb.eu, 12 giugno 2015 L'altro ieri nel carcere Mammagialla di Viterbo si è verificata l'aggressione a medici, infermieri e agenti durante la visita medica di accesso alla struttura. Alcuni di loro sono rimasti feriti e si sono dovuti recare all'ospedale Belcolle. È l'ennesimo episodio che coinvolge il personale sanitario che lavora in situazione precaria per numeri ridotti e strutture evidentemente insicure. Nonostante il continuo sovraffollamento delle carceri, gli organici di personale sanitario rimangono assolutamente carenti risentendo del blocco del turn-over che sta portando al definitivo collasso la sanità pubblica del Lazio. Con il decreto del presidente della Regione Lazio 24 luglio 2009 n. 526 l'allora governatore Marrazzo aveva attivato l'osservatorio regionale permanente sulla sanità penitenziaria che aveva il mandato di valutare l'efficienza e l'efficacia degli interventi a tutela della salute dei detenuti, degli internati e dei minori sottoposti a provvedimento penale, di riferire su avvenimenti di interesse sanitario o problematiche insorgenti negli istituti penitenziari del territorio e nell'area penale esterna e di fornire elementi utili alle azioni volte al miglioramento dell'assistenza sanitaria ai detenuti. L'osservatorio dal 2009 al 2013 aveva effettuato diversi sopralluoghi negli istituti penitenziari della nostra regione presentando puntuali relazioni ai precedenti governatori Marrazzo e Polverini sulla situazione sanitaria degli istituti, evidenziando in particolare carenze di personale e problemi organizzativi e strutturali. Inspiegabilmente, dall'avvento di Zingaretti tutto tace, l'osservatorio non è stato più convocato dagli uffici della dirigenza regionale responsabile della sanità penitenziaria che era stata individuata quale tramite tra l'osservatorio e il governatore e le visite si sono interrotte mantenendo la totale e arbitraria discrezionalità della predetta dirigenza regionale senza alcuna verifica da parte dell'organismo di garanzia previsto da un apposito Dpcm e individuato nel Lazio con il decreto del Presidente della Regione del 2009. Il coordinatore Cimo - Co.Si.P.S. dott. Ernesto Cappellano, già membro dell'osservatorio lancia un segnale di allarme, occorre far ripartire i lavori dell'osservatorio, segnali preoccupanti pervengono dalle strutture sanitarie delle carceri del Lazio, il sovraffollamento aumenta il rischio di malattie tra i ristretti e la situazione merita uno stretto monitoraggio per salvaguardare i detenuti ma anche il personale che lavora tra le mura dei penitenziari. Due detenuti su tre hanno almeno una malattia come rivela uno studio presentato al congresso nazionale della società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simsp) che si è tenuto a Cagliari e le patologie infettive sono le più diffuse e interessano il 48% dei detenuti. Nessuna verifica è stata possibile anche nelle Rems che dovranno subentrare agli ospedali psichiatrici giudiziari. È di ieri la notizia della protesta del comitato Stop-Opg che, tra l'altro ha confermato che tra le 10 regioni in ritardo, c'è anche il Lazio. Cagliari: Sdr; vademecum delle Poste per i detenuti, renderà più veloce la corrispondenza Ristretti Orizzonti, 12 giugno 2015 "Nuova apprezzabile iniziativa di Poste Italiane per rendere più efficiente il servizio postale nel Villaggio Penitenziario di Cagliari-Uta dove, nelle scorse settimane, si erano registrati ritardi nella ricezione delle lettere da parte delle persone private della libertà". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme" che si era fatta carico di rappresentare le difficoltà dell'utenza. "Dopo un'indagine che ha rilevato le criticità e messo a fuoco anche degli errori nella compilazione degli indirizzi e/o nell'affrancatura, Poste Italiane ha inviato nella Casa Circondariale cagliaritana 200 copie di un vademecum destinato ai ristretti con le informazioni indispensabili per rendere più semplice la spedizione e la distribuzione della posta. Un significativo segnale di collaborazione con la Direzione dell'Istituto, affidata a Gianfranco Pala, e un modo pratico per cercare di migliorare un servizio fondamentale per quanti utilizzano la scrittura su carta e le missive quasi come esclusivo strumento di comunicazione con familiari, parenti e amici". Il libretto informativo "Poste: lo sapevi che…?", realizzato in collaborazione con le associazioni dei Consumatori, è stato pensato - si legge nella nota illustrativa - per venire incontro alle esigenze dei cittadini. Costituisce una vera e propria guida ai servizi e ai prodotti postali spiegati partendo dalle necessità dei consumatori. Il libretto raccoglie diverse domande, fornendo le relative risposte: da come spedire un pacco all'estero a cosa si può spedire, a cosa può essere spedito, a come scrivere l'indirizzo. Nell'ultima pagina è presente un bustometro che permette di verificare se gli invii sono stati predisposti correttamente, secondo gli standard previsti. Un ampio spazio è stato dedicato ai servizi di Pubblica Amministrazione erogati ai cittadini attraverso gli "Sportello Amico": il rinnovo dei permessi di soggiorno, il pagamento del ticket sanitario, la richiesta di certificati anagrafici, certificati Inps e visure catastali. Una sezione del libretto - conclude la nota di Poste Italiane - è poi dedicata alle Associazioni dei consumatori, con una presentazione delle principali attività ed iniziative. Verona: "Scuola-Carcere", il progetto ha portato 971 ragazzi in visita a Montorio di Alessandra Gaietto L'Arena di Verona, 12 giugno 2015 Uno spunto per riflettere e un'esperienza formativa per entrambe le "parti": il bilancio del progetto "Carcere -Scuola", che nei mesi scorsi ha visto entrare nella casa circondariale di Montorio 971 studenti e 118 docenti, fa pensare che questa iniziativa ha davvero un duplice e ricco risvolto. Da una parte infatti ci sono i ragazzi che, in carcere, hanno avuto la possibilità non solo di vedere gli spazi comuni, le celle e la mensa, insomma i luoghi della quotidianità di chi vive dietro le sbarre, ma anche di incontrare i detenuti e ascoltarne le storie, per un'intera giornata senza cellulare e richiami del mondo esterno. E dall'altra ci sono, appunto, i detenuti, per i quali accettare di raccontarsi ai giovani significa un primo recupero di quel senso di responsabilità rispetto a un vissuto fuori dalla legge che è condizione indispensabile per ripensare alla libertà come vera occasione. "Questo progetto offre sia ai ragazzi che ai detenuti uno scambio molto più ricco di una semplice visita estemporanea", ha spiegato il direttore del carcere Maria Grazia Bregoli. "Gli studenti hanno anche incontrato gli operatori di polizia penitenziaria, che vivono in prima linea con i detenuti, e gli agenti del servizio cinofilo antidroga con i loro cani. Questi ai ragazzi hanno spiegato anche gli effetti delle varie droghe, e hanno mostrato il lavoro dei cani nello scoprire sostanze stupefacenti. Il che può valere anche come deterrente". "Da 15 anni Microcosmo organizza incontri tra scuole e detenuti", ha aggiunto la responsabile dell'associazione Paola Tacchella. "Chi vive in carcere, incontrando questi ragazzi, può rivedere se stesso o i propri figli, e questo processo per tutti è un momento di crescita interiore e di presa di consapevolezza importante. Possiamo dire che c'è una generosità dei detenuti che accettano di rivivere le loro storie, dolorose, perché siano almeno, a risarcimento del danno sociale compiuto, utili ai cittadini di domani". "L'incontro con chi è in carcere nei momenti della quotidianità, per esempio in mensa per il pranzo, o durante il lavoro nei vari laboratori, ha un valore educativo forte per i nostri ragazzi", ha concluso Laura Dona, ispettore del Miur. Roma: racconti dal carcere; studenti e detenuti vogliono incontrarsi sulla scia di Eschilo di Giancarlo Capozzoli huffingtonpost.it, 12 giugno 2015 L'Università di Rebibbia non è solo il titolo di un bel libro di Goliarda Sapienza, relativa alla sua esperienza personale della detenzione. Breve e intensa, ovviamente. L'Università di Rebibbia è anche un'esperienza. Un evento. Una Ereignis, per intenderci filosoficamente. Un'esperienza cioè in cui più fattori diversi ne determinano l'essenza. Ciò che accade. L'Università di Rebibbia è innanzitutto l'esperienza che alcuni, pochi, troppo pochi per la verità, detenuti hanno deciso di fare e stanno facendo all'interno delle mura grigie e squallide della casa di reclusione. Da qualche anno ormai, infatti, si dà la possibilità, in collaborazione con le maggiori Università pubbliche a Roma, La Sapienza, Tor Vergata, RomaTre, di poter frequentare corsi universitari e sostenere gli esami e laurearsi, per chi, detenuto, vuole intraprendere o continuare il percorso accademico. Piuttosto che lasciarlo interrotto. Sospeso. È un'esperienza fondamentale anche per destinarsi a qualcosa di più grande e importante della condizione che si sta vivendo. Questo è un aspetto. E l'importanza è lampante. L'Università a Rebibbia è però anche un esperimento che, grazie alla collaborazione con la cattedra di Drammaturgia Antica di Tor Vergata, si sta tentando. Il tentativo è quello di fare incontrare due mondi, due realtà altrimenti lontane e incomparabili. Separate già alla partenza. Separato dai muri della galera, ovviamente. Separazione dovuta anche alla chiusura, per così dire, di entrambe queste realtà. Separate in partenza. Gli scenari sono separati in partenza. Questo incontro, questo accadimento, questo Evento può accadere, e sta già accadendo, con il tramite del teatro. Il teatro che si fa interlocutore e spunto di comunicazione tra due realtà che parlano anche lingue differenti. Il teatro dunque si fa luogo di incontro, di scambio. Di comunicazione. Il piano su cui avviene questo scambio è reale, è empatico, culturale, estetico, filosofico. Fisico e letterario assieme. Il teatro inteso come oltrepassamento delle proprie barriere mentali, e come superamento delle sbarre che limitano gli orizzonti e spengono i sensi. Il teatro, l'evento culturale tra l'università, da una parte, e il carcere dall'altra, si è detto. L'Università è uno dei luoghi, anzi il luogo deputato (almeno in una concezione teorica e intenzionale) alla produzione e alla diffusione della Cultura. L'Università è il luogo dell'approfondimento, dello studio e della ricerca di quelle materie e di quei temi che appassionano e che determinano (in parte e in teoria) anche le scelte future, gli studi, la Cultura, la propria crescita professionale e umana. La vita in una parola. L'università è in quest'ottica un progetto di vita. Si affrontano rinunce immediate in vista di un bene più grande, il sogno di diventare professionista, medico ingegnere architetto filosofo magistrato professore. Ci si progetta, appunto. Ci si getta avanti in vista di un futuro che quantomeno si è scelto. Nonostante il periodo storico di continua crisi economica, molti ancora inseguono l'idea e il sogno di realizzare ciò per cui si è studiato. L'Università è i libri scambiati, gli incontri nei corridoi, le lunghe pause caffè, le lezioni che infiammano gli animi, le nuove letture che stimolano pensieri diversi, l'Università è i professori e la loro disponibilità variabile verso i propri studenti. Ecco, l'Università è innanzitutto gli studenti e le studentesse che brulicano nei corridoi e animano le aule durante le lezioni. È la loro preparazione e la loro curiosità che stimolano ad un confronto costante. Questa è l'Università per come è diventata negli ultimi cinquant'anni. Ma, nonostante la diffusione sempre più aperta del sapere accademico, la popolazione degli studenti universitari appartiene, in linea di massima, a quella borghesia, che può permettere ai propri figli di studiare e progettare il proprio futuro senza la necessità di lasciare gli studi in cerca di una prima occupazione. A quella borghesia, cioè, che può immaginare per i propri figli un lavoro intellettuale, meno faticoso, più responsabilizzante e più remunerato anche. Già a partire da questo si può notare la prima separazione dal carcere. Almeno per quello che è oggi il carcere. Si è detto che in carcere alcuni, pochi, detenuti decidono di intraprendere un percorso universitario. I numeri sono pochi davvero, anche se in crescita. Il punto è che la maggior parte della popolazione detenuta è al limite della scolarizzazione e peggio, dell'alfabetizzazione. Il punto è, si noti bene, l'assenza quasi totale della capacità di capire un testo, anche semplice. Il senso, l'intenzione dell'autore, ma prima ancora la capacità di concentrarsi, e di saper leggere e scrivere. Leggere e scrivere. Fare incontrare queste realtà contrapposte, sì contrapposte, e distanti è la scommessa e l'intenzione a cui prima facevamo cenno. La proposta, fatta agli studenti e agli allievi che hanno partecipato al laboratorio interdisciplinare in vista di mettere in scena l'Agamennone di Eschilo, di portare in scena nel teatro interno al carcere e per i prigionieri lo spettacolo, è stata accolta entusiasticamente. Questi studenti hanno ben inteso il luogo di sofferenza e pena che occuperanno con i loro corpi e la loro voce. Non è stato necessario fare loro le avvertenze sul rispetto e sulla delicatezza da avere nei confronti degli interni. Il carcere non è uno zoo, ci sono esseri umani. Altri esseri umani. È un principio che devono tenere ben chiaro. Ed è ben chiaro. Nonostante il peso che affronteranno. D'altra parte invece i detenuti hanno accettato con altrettanto entusiasmo di assistere alla messa in scena di uno spettacolo, tutto per loro. Come un regalo. O un dono inatteso. Il dono è nella possibilità di vedere il mondo fuori. Di non essere dimenticati. Di rompere la monotonia. Di guardare semplicemente altri visi e altri sguardi. I detenuti fremono all'idea che qualcuno possa chiedere informazioni su di loro, sulle loro differenti personalità, hanno voglia di incontrare questi studenti, per confrontarsi o anche semplicemente per parlare. Questi ragazzi, detenuti, hanno voglia di innamorarsi della protagonista che già immaginano meravigliosa e altera. Altri si accontentano anche solo di una corrispondenza, di una lettera. Di un saluto anche solo accennato. Di un sorriso. L'Università e Rebibbia si incontrano in questo senso. L'Università e la prigione. La produzione e la diffusione della Cultura e l'incultura e l'ignoranza si incontrano. Il futuro e l'assenza di futuro. Il tempo che manca (per gli esami, per gli amici, per le relazioni per il tempo libero per gli amori) e l'assenza di tempo sempre uguale. Il corpo libero e il corpo recluso. O meglio: la possibilità di un corpo di potersi esprimere liberamente e nelle forme che vuole e il corpo, recluso che ha come modo di espressione solo lo sport. E il teatro appunto. Eppure. Eppure c'è da sottolineare uno strano accavallamento tra queste concezioni diverse del corpo libero/corpo recluso. Il corpo recluso è un corpo che si desensibilizza, si anestetizza, si spegne: olfatto, vista, udito, tatto, si anestetizzano non avendo altri stimoli oltre i soliti sempre uguali. Eppure, nonostante questa anestesia, il corpo recluso, perché privo di sovrastrutture borghesi, mantiene un ché di spontaneo di sfrontato, di necessariamente libero che invece manca a chi questa libertà la vive quotidianamente. Dimenticandosene. La dimenticanza del corpo, si potrebbe dire. Anche in questo senso si consuma la scommessa di questo incontro, quindi. La possibilità, cioè, che avvenga uno scambio, alla pari. Anche se da punti di partenza e di arrivo diversi. I liberi, gli studenti, possono trasmettere la bellezza della cultura, il piacere dello studio, l'importanza delle arti, la necessità dell'approfondimento, la complessità del pensiero, l'argutezza del pensiero critico, l'urgenza di un domandare filosofico. I detenuti, da parte loro, invece, possono insegnare e trasmettere la bellezza della spontaneità e la necessità dell'espressione del corpo stesso. Anche, o forse proprio perché, recluso. Possono insegnare, inoltre, ai liberi, che anche un corpo libero può essere recluso. Possono insegnare che anche in un corpo recluso si cela uno spirito libero. Roma: con "Un amore bandito" torna la Compagnia teatrale dei detenuti "Stabile Assai" Askanews, 12 giugno 2015 Torna, come, ogni anno sul palcoscenico del teatro Golden di Roma il più antico gruppo teatrale penitenziario italiano, la Compagnia "Stabile Assai". Si tratta dell`unica compagnia che mette in scena testi inediti basati sulle esperienze dei detenuti ed il cui organico è composto proprio da imputati che tuttora stanno scontando in carcere pene severe, la maggior parte legate a reati di mafia, camorra, ndrangheta, banda della Magliana. La Compagnia, il cui esordio è datato 1982 al Festival Internazionale di Spoleto e che, nel corso della sua carriera ha collezionato diversi riconoscimenti, tra cui la Palma d`Eccellenza del Premio Cardarelli (2007), il "Premio Troisi" (2011) e la medaglia d`oro del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per la valenza artistica della sua opera sociale (2013), si esibirà al Teatro Golden di Roma dal 15 al 18 giugno nello spettacolo, presentato in anteprima nazionale, "Un amore bandito" scritto da Antonio Turco e Patrizia Spagnoli con la Compagnia Karma & Coraggio del dopolavoro dell`Unicredit. "Un amore bandito" narra la storia d`amore tra Michelina Di Cesare e Franceschino Guerra, due giovani briganti, morti a soli 24 anni, con particolare riferimento alle loro ultime ore. Attraverso i loro ricordi viene ripercorsa la storia dell`Italia postunitaria. Carmine Crocco, il capo riconosciuto, il generale spagnolo Josè Borjes inviato dal Papa a militarizzare i briganti, il luogotenente Ninco Nanco, eroe della fantasia popolare, le brigantesse Filomena Pennacchio e Giuseppina Vitale, il Papa Pio IX e il generale piemontese Emilio Pallavicini saranno i protagonisti della rappresentazione. La storia del brigantaggio è rievocata con una attenzione al ruolo delle donne, ai sentimenti di odio e compassione, al ruolo della Chiesa, alla complessità di un mondo in cui sono state commesse atrocità raccontate con l`occhio triste di un capitano piemontese. Gli elementi citati, in cui assume veste primaria la voglia di vivere di uomini e donne della Lucania e di tutto il Sud, sono definiti in una opera caratterizzata da una riduzione in chiave di drammaturgia penitenziaria, come nello stile più classico della Compagnia Stabile Assai, il più antico gruppo teatrale carcerario italiano. La Compagnia, ha al suo attivo oltre 800 spettacoli fuori dalle mura del carcere, in tanti teatri stabili del territorio nazionale, in Università e in Musei. Roma: Riccardo Vannuccini; da Rebibbia ai campi profughi, venti anni di teatro sociale di Valeria Calò Redattore Sociale, 12 giugno 2015 Conversazione con Riccardo Vannuccini, regista di "Sabbia", spettacolo teatrale che vede protagonisti 20 rifugiati: solo l'ultima tappa di un percorso che ha attraversato carceri, istituti per disabili e villaggi in zone di guerra. In vista dell'arrivo di "Sabbia" sul palco del teatro Argentina di Roma - spettacolo che ha per protagonisti venti rifugiati del Cara di Castelnuovo di Porto (12-13 giugno), abbiamo incontrato il regista, Riccardo Vannuccini, che ripercorre i suoi vent'anni di attività nel teatro sociale, ponendo l'accento sull'importanza di portare all'interno di istituzioni totali o realtà chiuse una forma di "salvazione artistica". Per tentare di riabilitare la persona e l'affermazione della sua identità che all'interno di identità chiuse è sempre esposta all'azzeramento e all'automazione. Lo spettacolo va in scena in occasione della Giornata mondiale del rifugiato. Quando è iniziato il rapporto tra quello che è lo strumento del teatro e i luoghi in cui hai tenuto i laboratori teatrali? Ho iniziato alla metà degli anni novanta con le detenute di Rebibbia, quando era ancora abbastanza chiaro cosa fosse il carcere e cosa fosse il teatro. O almeno, sebbene fossero entrambe delle istituzioni o delle pratiche in crisi era l'incontro tra due soggetti riconosciuti, riconoscibili, ancora abbastanza esatti. Oggi invece entrando in un carcere fai fatica a distinguere i conduttori delle attività dai detenuti. Il rischio quindi è che il rapporto tra il luogo e lo strumento serva a mantenere in piedi l'istituzione carceraria, a riconoscerla, invece che andare a scardinarla e sollecitarne le criticità. Tant'è che oggi il teatro viene fatto allo stesso modo che negli anni cinquanta: torna a significare cultura, letteratura, parola pedagogica che giudica e separa nettamente. E torna ad esser fatto e gestito da chi lo conduce: l'intellettuale, il sapiente, il libero. Poi c'è l'altro, il detenuto, ed è sempre bene che ci sia e che sia riconoscibile, perché attira pubblico, commuove. E questo meccanismo funziona solo se viene ricordato al pubblico che quell' attore è un detenuto, e dunque resta un detenuto per sempre, anche se fa teatro, e che grazie al teatro si salva, ma solo a condizione che resti per sempre un detenuto. In certi casi il teatro in carcere è diventata una seconda forma di detenzione. E quale funzione deve avere invece il teatro all'interno di istituzioni chiuse? Deve rompere un equilibrio, innescare il caos, mettere a soqquadro, l'azione teatrale non deve contribuire a mantenere l'ordine o addirittura ad instaurarlo. Deve fare accadere una situazione di crisi che non vuol dire confusione, bensì quel caos generativo che genera la vita che illimita il possibile. Che è altra cosa che portare confusione, come è altra cosa che riproporre la divisione giudiziaria fra i sapienti e non. Vedi quello che è avvenuto nel settore femminile del carcere di Rebbibbia dove siamo stati invitati ad interrompere la collaborazione perché le detenute col teatro si divertivano troppo, erano "troppo eccitate". Dal nostro punto di vista, l'esperimento teatrale stava riuscendo, si stava raggiungendo il centro critico di quando il teatro entra in relazione con le cosiddette istituzioni totali. Questa forma di attrito si è riproposta anche in altre realtà? Nel campo profughi siriani spontaneo a Irbid, in Giordania, dove abbiamo lavorato con i bambini. L'azione teatrale ha generato il caos perché i capi del villaggio erano contrari al teatro: qui i bambini avevano il compito di andare a chiedere l'elemosina al semaforo. Quando siamo stati allontanati e il laboratorio di teatro si è interrotto, i bambini hanno reagito avviando una rivolta: volevano fare teatro. Così siamo arrivati ad una trattativa per cui chi voleva poteva venire con noi nel campo attrezzato palestinese di Irbid, dove invece siamo stati accolti con entusiasmo e dieci bambine palestinesi si sono unite al gruppo. Questa esperienza si è portata dietro delle trasformazioni. Ci sono delle cose che vengono assorbite dal corpo e restano come elementi che giocano nella relazione fra queste cose e gli accadimenti. Così il bambino torna a fare il bambino, torna a giocare, perché il gioco vuol dire capire il mondo. Ma non secondo un' operazione pedagogica o sociale, bensì di salvazione artistica. Dalle carceri ai villaggi profughi delle zone di guerra, fino ai centri di prima accoglienza per richiedenti asilo. Cosa ha determinato questa nuova fase del lavoro di Artestudio? Negli ultimi quattro o cinque spettacoli che ho visto sul tema i rifugiati avevano sempre la valigia in mano, ad interpretare la storia di chi ha viaggiato tanto, di chi ha sofferto tanto, con gli africani che ballano perché gli africani ballano. Insomma una serie di stereotipi capaci di rendere i rifugiati immediatamente riconoscibili, come se quella del rifugiato fosse una razza, piuttosto che una condizione. È lo stesso meccanismo di costruzione dell'immaginario che si ripropone anche negli spettacoli sul tema detentivo: i detenuti che parlano napoletano e che si vantano di chi hanno ucciso o di quello che hanno fatto. Per questo motivo all'inizio dell'esperienza fatta con i rifugiati abbiamo cambiato le collaborazioni, perché ci veniva detto "è uno spettacolo bellissimo ma non si capisce che sono rifugiati". Esatto. Far vedere quello che posso vedere è quello che fanno i giornali e le televisioni, oppure la fiction, che ormai condiziona moltissimo teatro. Il teatro invece deve poter parlare delle cose invisibili, delle cose che non si riescono a vedere. E Sabbia, in particolare, come è stato preparato? Il laboratorio è durato nove mesi. Come per gli altri spettacoli non abbiamo utilizzato un approccio letterario o scolastico in cui imparo a memoria una cosa e la ripeto, fosse Dante Alighieri o Shakespeare e tutto ciò che si impara a riferire è l'unica cosa che vale, che spiega appunto l'azione teatrale. Al contrario in questo caso la sapienza è rappresentata dall'essere presenti, cioè sapere quello che si sta facendo con tutto il corpo, dove lo si sta facendo e con chi, quando lo si sta facendo, e soprattutto come lo si sta facendo. Si tratta di azioni e non di chiacchere. Non esiste un copione. Si parla molto poco e tutto si concentra sulle azioni e nell'uso/espressività del corpo. I partecipanti, in questo caso giovani africani più o meno ventenni, lavorano su gesti semplici ma che in qualche modo, in maniera indiretta, sappiano rappresentarli. È quando un gesto è compiuto, quando nel gesto si è fondata attenzione, diventa rappresentativo, ci mostra altra cosa da quello che compie. Possono semplicemente spostare una sedia ma è come se stessero spostando la loro casa. Dunque quel gesto diventa azione scenica. L'obbiettivo consiste nell'individuazione di quello che a teatro si può chiamare la linea d'orizzonte. L'uomo primitivo all'inizio camminava curvo e mangiava a terra prendendo il cibo direttamente con la bocca. Finché era lì non aveva idea di dove fosse. Poi quando ha raggiunto una postura eretta ha visto l'orizzonte e si è potuto collocare in uno spazio, è iniziata un'azione culturale completa e complessa. Ecco il teatro dovrebbe servire a questo. Capire dove si sta, e cosa si sta facendo. In che modo il diario di viaggio di Ibn Battuta, oltre alla danza di Pina Baush o il teatro di Jerzy Grotowski, hanno contributo all'elaborazione di Sabbia? Per questo spettacolo ci siamo rifatti anche a Battuta, ma non tanto per le parole quanto per il fatto che questo signore ha compiuto fisicamente i suoi viaggi. Quei viaggi che sono durati ventotto anni, lungo i centoventimila kilometri che attraversano l'equivalente di quarantaquattro stati moderni dall'Africa a tutto il Medio Oriente, incontrando migliaia di persone e prendendo nota dei loro usi e costumi. Mentre oggi viaggiamo molto senza muoverci da casa. E questo fa la differenza, perché la conoscenza del mondo è scritta nel corpo, perché è proprio il corpo che comprende, che capisce. Quindi abbiamo indagato le sue reazioni quando per la prima volta ha incontrato gli africani e quel tipo di abitudini, su come il suo corpo ha capito e come ha reagito e come si è scandalizzato e come si è appassionato quando la notte gli hanno donato delle ragazze nude in omaggio al viaggiatore. Per i ragazzi del Cara di Castelnuovo di Porto è avvenuta una " salvazione artistica"? Non possiamo parlare di salvazione, ma di recupero di una forma di energia vitale grazie all' azione artistica del teatro direi di sì. Non per tutti naturalmente e non allo stesso modo. Ad esempio nel Cara di Gradisca d'Isonzo, dove abbiamo portato un laboratorio biennale, una giovane ragazza pakistana dopo un anno passato nel centro tra una brandina e la mensa, ha trovato il coraggio di allontanarsi da questo Centro e proporsi per un lavoro in un'altra città. Arrivare anche a Roma significa incontrare il giovane africano che sta in un posto con altre ottocento persone, dove ad esempio si mangia tutti la stessa cosa, allo stesso modo, alla stessa ora. E per quanto questo posto sia confortevole si mette in atto per lui una forma di umiliazione, di arretramento dell' essere umano, cui segue un annullamento identitario, una mortificazione delle capacità espressive ovvero di relazione col mondo. Allora è attraverso il gesto artistico che è possibile recuperare la possibilità di comprendere gli accadimenti dell' esistenza, di metterli in figura attraverso la creazione del possibile e della capacità espressiva, artistica tipica dell' essere umano che si realizza nella relazione. Quando il progetto di Sabbia è stato presentato agli ospiti del Centro quali reazioni e difficoltà avete incontrato? Abbiamo incontrato all'inizio una certa diffidenza. Purtroppo gli stereotipi come esistono per noi, esistono anche per loro. Dunque fargli capire che occidentale non significa solo ricco non è stato semplice. Come non è stato semplice spiegare che seppure l'ospitalità è sacra, in tutte le lingue e le religioni del mondo, l'accoglienza ha delle regole molto precise che impone anche a noi uno sforzo importante. Dopo vent'anni di teatro nelle istituzioni totali cosa resta? Sono un pò affaticato lo ammetto, ho incontrato tanta sofferenza: disabili dimenticati, bambini che fanno i meccanici a sei anni in un paese straniero, detenuti inutilmente detenuti, anche dal teatro, ragazzi giovanissimi con inspiegabili depressioni. Al tempo stesso la mia stanchezza è compensata dai giovani che adesso lavorano con ArteStudio. Giovani donne in questo caso, piene di energie e competenza, sono sorpreso dalla loro forza, dalla loro passione, dalla serietà con cui impostano il lavoro. Altro che giovani rammolliti. Ferrara: il progetto teatrale di Balamòs Teatro in tour alla Fondazione Onassis di Atene estense.com, 12 giugno 2015 Epanodos, centro di reinserimento sociale per i detenuti sotto la vigilanza del Ministero della Giustizia e dei Diritti Civili, organizza venerdì 12 e sabato 13 giugno alla Casa delle Culture e delle Arti della Fondazione Onassis ad Atene, un forum internazionale artistico, educativo e scientifico con titolo: "L'Arte scaccia l'ombra della paura dentro e fuori il carcere". Questo evento multiforme intende abbinare il teatro, la parola, l'educazione e l'approccio scientifico e ha come obiettivo far emergere il ruolo dell'arte al reinserimento sociale dei detenuti, e delle persone con problematiche di tossicodipendenza. Comprende laboratori (masterclass) per professionisti e addetti ai lavori, azioni teatrali dai gruppi che operano nel settore e un convegno scientifico relativo al ruolo dell'arte del teatro al reinserimento sociale. Partecipano scienziati e artisti provenienti dalla Grecia e dall'estero. Ieri, giovedì 11 giugno, presso il carcere minorile e il carcere maschile di Avlona, Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro e responsabile del progetto teatrale "Passi Sospesi" negli istituti penitenziari di Venezia, ha tenuto dei laboratori teatrali per minori e adulti. Oggi, venerdì 12 giugno, presso la Fondazione Onassis, Michalis Traitsis sarà presente al forum internazionale insieme a Stathis Ghrapsas (Grecia), e Joanna Lewicka (Polonia) con un masterclass rivolto ad esperti del settore provenienti dalla Grecia e dall'estero. Sabato 13 giugno, presso la Fondazione Onassis, Traitsis prenderà parte all'incontro pubblico "L'Arte scaccia l'ombra della paura dentro e fuori il carcere" per presentare il progetto teatrale "Passi Sospesi" negli istituti penitenziari di Venezia, insieme a registi, pedagoghi teatrali, criminologi, psicologi, sociologi, insegnati e studenti, provenienti dalla Grecia e dall'estero che ha come obiettivo il confronto tra opinioni ed esperienze pratiche. Salerno: al via rassegna teatrale "Diversamente liberi" nella Casa di Reclusione di Eboli Ristretti Orizzonti, 12 giugno 2015 Prende il via il prossimo 18 giugno la rassegna teatrale "Diversamente liberi" realizzata dalla Compagnia Teatrale "Le Canne Pensanti" della Casa di Reclusione di Eboli. La rassegna è il frutto di una complessa attività che prende le mosse da un intenso ed approfondito lavoro di ricerca e studio, propedeutico alla di scrittura dei testi (completamente originali) alla loro sceneggiatura ed al successivo allestimento scenico. Il tutto si completa con la ricercata scelta delle colonne sonore, con la realizzazione delle scenografie ed il confezionamento dei costumi. Un laboratorio, dunque, completamente autogestito dai detenuti, occupati a 360 gradi in quella che oltre ad essere esperienza creativa di grande importanza si pone come principale strumento di crescita personale e veicolo di benessere psico-fisico, superando, grazie al contatto con il mondo esterno, i limiti anche fisici che il carcere rappresenta. La rassegna, sostiene il direttore Dott. Rita Romano, vuole essere un momento di confronto tra esseri umani giocato sul filo sottile e delicato delle emozioni. Non si è reclusi ma diversamente liberi quando, complice le finzione scenica, mondi solo apparentemente diversi si incontrano e si confrontano. Il cartellone: 18 giugno "Diversamente Italiani: briganti, emigranti, terroni" opera originale dedicata alle vittime meridionali dell'invasore piemontese. 3 luglio "La Gatta Cenerentola" libero adattamento da "lu cunto re li cunti" ovvero "Il Pentamerone" di Gian Battista Basile. 17 luglio "Purché sia Purè". A tutto c'è rimedio... Anche ad un abbandono 24 luglio "Uomini contro..." dedicato a Simonetta Lamberti, a Giancarlo Siani, a Marcello Torre, ad Antonio Esposito Ferraioli, a tutte le vittime di mafia della nostra terra e tutte le donne e gli uomini che hanno il coraggio di schierarsi contro la violenza dell'illegalità. Migranti, la grande mistificazione di Ignazio Masulli Il Manifesto, 12 giugno 2015 Da settimane si agita lo spettro delle persone sbarcate in Italia per cercare rifugio nel nostro o negli altri paesi europei. In realtà, il loro numero dall'inizio dell'anno al 7 giugno è di 52.671. Quindi, poco più dei 47.708 registrati nello stesso periodo dell'anno scorso. Sulla base di questo trend è calcolabile un numero di 190.000 a fine anno (200.000 secondo altri). Come si giustificano, allora, le posizioni estreme e i toni, talora quasi paranoici, raggiunti nel dibattito su questo fenomeno in Italia e in Europa? Davvero si vuol far credere che l'arrivo di alcune centinaia di migliaia di persone costituisca una minaccia per gli equilibri economici e sociali di un gruppo di paesi tra i più ricchi del mondo? In realtà, stiamo assistendo a una grossolana mistificazione. Intanto, sembra smarrito ogni senso delle proporzioni e si parla come se s'ignorassero dati di fatto significativi. I paesi membri dell'Ue, alla fine del 2013, contavano un numero di immigrati di prima generazione (cioè nati all'estero), regolarmente registrati ed attivi nelle rispettive economie assommanti a più di 50 milioni, di cui circa 34 milioni nati in un paese non europeo. Questi immigrati, come gli altri che li hanno preceduti, concorrono direttamente alla produzione e alla ricchezza di quei paesi. E non si vede proprio come nuovi flussi che si aggiungono a quelli registratisi negli anni precedenti non possono essere assorbiti con vantaggi demografici, economici e socio-culturali, solo che si adottino politiche appropriate e positive d'inclusione sociale. In secondo luogo, invece di contrastare sentimenti xenofobi, che pure allignano in parti della popolazione, li si strumentalizza e incoraggia pur di guadagnare consensi elettorali nel modo più spregiudicato. L'esempio più vicino di tale irresponsabile comportamento viene dalle dichiarazioni dei governatori di alcune delle regioni più ricche del paese. Il loro lepenismo sembra ignorare che proprio la vantata ricchezza di quelle regioni è dovuta anche al massiccio sfruttamento del lavoro degli immigrati. Sfruttamento tanto più facile e pesante con i clandestini. E questo ci porta dritto alla seconda mistificazione cui stiamo assistendo in Italia e in Europa. Indicare gli immigrati come una minaccia serve a motivare misure di contrasto e leggi restrittive che in realtà servono a sfruttare al massimo il loro lavoro, inducendoli a lavorare in nero, in impieghi pesanti e mal pagati, in affitto, a chiamata e simili. Infatti, sono proprio le soglie di sbarramento all'integrazione, poste sempre più in basso, e il mancato o difficoltoso riconoscimento dei diritti ai lavoratori immigrati che permettono ai gruppi dirigenti economici e ai loro alleati politici di sfruttare anche l'immigrazione per spingere verso la concorrenza al ribasso delle condizioni di lavoro. In tal modo, si rendono più agevoli le politiche di restrizione dei diritti dei lavoratori e di smantellamento dello Stato sociale. In terzo luogo, agitare lo spettro del pericolo immigrazione occulta altre responsabilità. Il fatto, cioè, che i maggiori paesi europei, Gran Bretagna e Francia in testa, ma seguiti anche da Germania e Italia si sono fatti promotori, accanto agli Stati Uniti e insieme ad altri, di pesanti interventi politico-militari in Africa e in Medio Oriente. L'elenco è lungo. Si può cominciare dall'interminabile guerra in Afghanistan. Si può proseguire con il supporto dato alla ribellione contro il regime siriano, rinfocolando conflitti civili e religiosi che ora sfuggono ad ogni controllo. Ancor più diretto è stato l'intervento in Libia, col risultato di una situazione, se possibile, ancor più confusa e ingovernabile. Si è soffiato sul fuoco di vecchi conflitti tra le popolazioni in Africa Centro-orientale perseguendo obiettivi tutt'altro che chiari. E lo stesso può dirsi per gli interventi in Mali e altri paesi. Nel 2013, il numero di profughi che hanno cercato di fuggire da zone di guerra, conflitti civili, persecuzioni e violazioni dei diritti umani è stato di 51,2 milioni. Anche a considerare circa un quinto di essi, vale a dire gli 11,7 milioni di persone che, in quell'anno, si trovavano sotto il diretto mandato dell'Alto commissariato per i rifugiati delle nazioni unite e per i quali disponiamo di dati certi, vediamo che più della metà era costituito da persone che fuggivano dalla guerra in Afghanistan (2,5 milioni), dall'improvvisa deflagrazione del conflitto in Siria (2,4 milioni), dalla recrudescenza degli scontri da tempo in atto in Somalia (1,1 milione). Ad essi seguivano i profughi provenienti dal Sudan, dalla Repubblica democratica del Congo, dal Myanmar, dall'Iraq, dalla Colombia, dal Vietnam, dall'Eritrea. Per un totale di altri 3 milioni, sempre nel solo 2013. Altri richiedenti asilo cercavano di scampare dai "nuovi" conflitti in Mali e nella Repubblica Centrafricana. La grande maggioranza di queste e altri milioni di persone fuggite da situazioni di pericolo e sofferenza, sempre nel 2013, non hanno cercato e trovato accoglienza nei paesi più ricchi d'Europa o negli Usa, bensì nei paesi più vicini. Paesi con un Pil pro capite basso e variante tra i 300 e i 1.500 dollari l'anno. Infatti, fin dallo scoppio della guerra del 2001, il 95% degli afgani ha trovato rifugio in Pakistan. Il Kenya ha accolto la maggioranza dei somali. Il Ciad molti sudanesi. Mentre altri somali e sudanesi hanno trovato rifugio in Etiopia, insieme a profughi eritrei. I siriani si sono riversati in massima parte in Libano, Giordania e Turchia. Di fronte all'entità di questi flussi, il numero delle persone che, sempre nel 2013, hanno cercato protezione internazionale in 8 dei paesi più ricchi dell'Ue, con Pil pro capite dai 33.000 ai 55.000 dollari, assommava a 360mila (pari all'83% dei rifugiati in tutta l'Ue). Questi dati di fatto dimostrano l'assoluta mancanza di fondamento e la totale strumentalità che caratterizza la discussione in atto tra i paesi membri e le stesse istituzioni dell'Ue. Si discute di pattugliamenti navali, bombardamenti di barconi, per concludere con quello che viene definito un "salto di qualità" nel dibattito e che consisterebbe nella proposta di accogliere nei 28 paesi membri dell'Ue un totale di 40.000 rifugiati in due anni. Mentre, nel 2013, Pakistan, Iran, Libano, Giordania, Turchia, Kenya, Ciad, Etiopia, da soli, ne hanno accolti 5.439.700. Il che significa che un gruppo di paesi, il cui Pil è 1/5 di quello dei paesi dell'Ue, ha accolto in un anno un numero di immigrati e rifugiati che è 136 volte più grande del numero di quelli che sono disposti ad accogliere i paesi della grande Europa in due anni! Ma perfino questa misera proposta viene ora messa in discussione, dato anche l'atteggiamento negativo di paesi come la Gran Bretagna e la Francia, che pure si autodefiniscono grandi e civili. Lo spettacolo di tanta pochezza politica e morale induce a chiedersi se i nostri governanti e i dirigenti di Bruxelles si rendono conto che stanno assestando un altro colpo alla credibilità dell'Unione europea. Vogliamo integrarli? Sono persone non forza lavoro di Livia Turco Il Garantista, 12 giugno 2015 Quello dell'immigrazione è e sarà un tema cruciale e duro da governare perché richiederà cambiamenti profondi nelle forme della convivenza delle società europee ed obbligherà a ridefinire l'identità europea ed il senso della nazionalità e della cittadinanza. Tema ineludibile, rispetto al quale la cialtroneria e la meschinità del nostro Centrodestra e della Lega di volerlo rimuovere cavalcando le paure legittime delle persone arrecherà dei danni enormi al nostro paese ed alle generazioni future. Tema ineludibile perché le cause dell'emigrazione restano tutte, anzi si complicano (diseguaglianze, differenziali salariali, crescita economica e dei livelli di istruzione dei paesi più poveri, processi di urbanizzazione diffusi in tutto il mondo, le crisi ambientali con il possibile effetti di esodo di intere popolazioni a causa di desertificazioni o inondazioni di specifiche aree, le dinamiche demografiche). Il flusso più consistente sarà dai paesi dell'Africa Subshariana. L'esodo che assistiamo in questi giorni con i problemi dell'accoglienza si aggiungono a quelli della integrazione delle popolazioni, soprattutto giovanili che sono parte integrante della società europea. Si rammenti poi il dato dello squilibrio demografico per cui l'Europa sarà sempre più popolazione anziana con un forte deficit di popolazione attiva. Dunque, una classe dirigente che si rispetti deve affrontare di petto ed in tutta la sua complessità il problema immigrazione Considero una buona proposta l'Agenda europea recentemente presentata dalla Commissione Europea soprattutto perché individua la centralità dell'Africa, perché propone politiche di cooperazione e di partnership con i Paesi del mediterraneo rendendoli protagonisti in modo attivo del governo dell'immigrazione. Selezionare in loco le persone che hanno diritto d'asilo, promuovere il ritorno nei paesi di origine attraverso incentivi economici di quelli che da noi verrebbero espulsi sono misure importanti che l'Europa deve portare avanti con determinazione. Altrettanto cruciale è il principio della solidarietà nella gestione delle emergenze. Ma non si può eludere un interrogativo: perché è così difficile costruire una politica europea dell'immigrazione. Non tutto è spiegabile con la crescita dei populismi, con gli egoismi nazionali. Ravviso due questioni che attengono alla storia politica e culturale del vecchio continente. L'immigrazione ha sempre fatto parte della storia dei singoli paesi europei ma in modo molto peculiare, fortemente intrecciato alla peculiare storia nazionale. Non si può parlare di comuni dinamiche europee dell'immigrazione o di una comune storia europea dell'immigrazione. Queste peculiarità nazionali, questo intreccio nazione immigrazione è alla base della difficoltà a pensare una convenienza comune ed una storia comune, a forme comuni di convivenza tra nativi e migranti. E, dunque a politiche comuni. L'altro dato, secondo me più impegnativo e duro, è che pur avendo conosciuto i diversi paesi europei modelli diversi di integrazione di cui almeno tre hanno fatto scuola-assimilazionismo francese, neo-comunitarismo inglese, multiculturalismo olandese, tutti e tre non hanno mantenuto le promesse di integrazione. Non c'è stata integrazione sociale sostanziale, soprattutto tra i giovani. Il riconoscimento delle differenze si è tradotto in tolleranza delle differenze e o loro sostanziale ghettizzazione. Dopo l'uccisione di Pim Fortuyin, leader del neo partito populista Olandese da paese di un giovane olandese di origine mussulmana e gli attentati alla metropolitana di Londra da parte di giovani inglesi di origine mussulmana si è realizzatala svolta assimilazionista in ogni paese. Anzi, la conoscenza della lingua e della cultura del paese ospitante diventa non solo obbligo doveroso per chi arriva ma criterio di selezione per chi deve essere ammesso all'ingresso. La lingua, l'educazione civica da fattore di integrazione e cittadinanza a fattore di esclusione. Se la parola d'ordine delle politiche europee sull'integrazione è stata "interazione" come processo bidirezionale che deve coinvolgere e cambiare entrambi i soggetti; dialogo con l'altro ed accoglimento della peculiarità della sua cultura, fuori da ogni relativismo etico, nell'ambito dei nostri valori costituzionali,nei fatti questo non è avvenuto. Come mai? Come mai in ciascun paese europeo è stato così non praticato ciò che con toni ed in modi diversi da tutti sostenuto: riconoscere l'altro nella sua identità e cultura? Perché nell'immaginario collettivo,nel senso comune, nella cultura diffusa, di noi europei - nonostante gli immigrati soprattutto nei paesi di più antica immigrazione siano ormai una popolazione integrata, che accetta regole e valori del paese ospitante - essi restano per noi forza-lavoro, lavoratori ospiti e non cittadini. Questo in ragione del fatto che da parte delle classi dirigenti di ciascun paese europeo di fatto è prevalso un approccio economico corporativo al tema immigrazione. I migranti, le loro vite, le loro culture non sono diventati ingredienti delle identità nazionali e della identità europea. Nel corso di tanti anni, tranne rare eccezioni, non sono stati chiamati a costruire la comunità, a concorrere a definire le scelte che la riguardano. Non sono stati incentivati a diventare attori della polis, ad occupare e praticare la scena pubblica. Sono rimasti confinati nella dimensione economica e privata. Mi spiego tutto ciò con il permanere, soprattutto in noi italiani, di una concezione della cittadinanza e della identità italiana, come un fatto omogeneo, connesso al legame di sangue. Nonostante il cosmopolitismo della nostra cultura e gli italiani sparsi nel mondo il sentimento dell'identità nazionale non è diventato capace di praticare la pluralità. Anche per questo facciamo fatica a sentirci europei. Ecco, io penso che la difficoltà a costruire una politica europea dell'immigrazione risieda in questa concezione omogenea e nazionalista della cittadinanza e dell'identità nazionale che in modo diverso coinvolge ciascun paese europeo. Può sembrare paradossale ma per costruire una politica europea dell'immigrazione,più che dalle frontiere, dall'equa ripartizione dei profughi bisogna partire dalle fondamenta: la cittadinanza europea, l'identità europea, il sentimento europeo. Non si tratta di inventare nulla ma di sviluppare concretamente il concetto di cittadinanza europea contenuta nel Trattato di Lisbona e nella Carta dei diritti umani fondamentali che contempla il riconoscimento della pluralità di culture dentro l'orizzonte dei valori universali della dignità umana, libertà, democrazia. Il sentimento della cittadinanza europea apre alla pluralità, indica il motto dell'unità nella diversità. Può far scattare la curiosità umana e culturale verso gli italiani con il trattino, i nuovi italiani, quelli che vivono con noi da anni ma non abbiamo imparato a conoscere, continuiamo a considerarli quelli di cui non possiamo fare a meno perché fanno i lavori che non vogliamo più fare noi o coloro che ci rubano il lavoro. Una politica europea dell'immigrazione potrà veramente esserci quando in nome dei valori europei considereremo gli immigrati non forza lavoro ma persone, cittadini portatori di una diversità che può arricchire la nostra democrazia ed i nostri valori. Emergenza nel lager di Sparanise, senza cure i migranti con la scabbia di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 12 giugno 2015 Migranti con la scabbia lasciati senza cure. E poi lenzuola sporche e maleodoranti, niente prodotti per la pulizia, fili elettrici scoperti. Dalla relazione dei carabinieri di Sparanise sul centro gestito da "Un'ala di riserva" emerge la descrizione di un lager. "Tutti gli ambienti presentano gravi carenze igienico sanitarie ed in particolare i servizi igienici, con sudiciume non rimosso da tempo che ricopre pavimento e rivestimento. Si rileva la mancanza di prodotti per la pulizia degli ambienti e per l'igiene personale. Gli spazi abitati sono sprovvisti di suppellettili perla custodia degli effetti personali; residui di cibo, fornetti elettrici, indumenti, scarpe, pentolame sporco sono poggiati sul pavimento sudicio". È il 27 aprile scorso e i carabinieri della stazione di Sparanise, in provincia di Caserta, ispezionano l'edificio in cui "Un'ala di riserva", la onlus al centro delle inchieste di tre Procure, ospita 50 migranti. La relazione, due pagine appena, è così efficace da indurre il pm sammaritano Antonella Cantiello a disporre il sequestro della struttura e a iscrivere nel registro degli indagati, per il reato di maltrattamenti, Aniello Pirozzi: è il politico giuglianese che ha sostituito nella carica di responsabile Alfonso De Martino, l'uomo che con i soldi dei migranti ha costruito un piccolo impero. Quella che i carabinieri descrivono (con qualche vezzo linguistico) è una casa degli orrori: "1 letti nella maggior parte sono sprovvisti di lenzuola. Gli effetti letterecci (lenzuola, federe, copriletti, ndr) si presentano sporchi e maleodoranti. Sono presenti alcune buste di plastica aperte contenenti rifiuti vari non rimossi da alcuni giorni". È un crescendo: "Per quanto riguarda l'impianto elettrico, si è potuto constatare la presenza di fili sospesi e prese staccate dal muro. I posti letto sono in numero superiore alla capienza massima dei vani adibiti a camera da letto. Per quanto riguarda l'approvvigionamento idrico, la struttura è verosimilmente servita da un pozzo, mentre le acque nere, da quanto si è potuto accertare, confluiscono in vasche la cui tenuta al momento non è dato conoscere". I migranti ospiti sono esasperati e sofferenti: "Mostrano carenze dell'igiene personale, degli indumenti e delle calzature. Alcuni indossano ciabatte aperte e sistemate da loro con mezzi di fortuna. Alcuni di loro presentano dermatite di natura da definire, un giovane presenta una tumefazione alla base del collo, tutti lamentano assenza di assistenza medica. Addirittura un ospite ha esibito una certificazione medica dove veniva consigliata una terapia per la scabbia". Sui meccanismi che hanno reso possibile a "Un'ala di riserva" aggiudicarsi appalti da decine di migliaia di euro indagano il procuratore aggiunto di Napoli Vincenzo Piscitelli e i sostituti Raffaello Falcone e Ida Frongillo. Ieri sono state sentite come persone informate sui fatti un funzionario della Regione e uno della Prefettura di Napoli; nei prossimi giorni sarà interrogato in carcere Alfonso De Martino, che, dopo aver lasciato "Un'ala di riserva" a Pirozzi (il quale nei giorni scorsi si è a sua volta dimesso) ha fondato un'altra onlus, "E uscimmo a riveder le stelle". Dopo l'arresto di De Martino e le polemiche che ne sono seguite, la Prefettura di Napoli ha deciso di revocare a "E uscimmo a riveder le stelle" l'appalto per l'accoglimento di migranti in una struttura di Giugliano. Roma e Milano… campi profughi nelle stazioni ferroviarie di Vito Torre Il Manifesto, 12 giugno 2015 Nel capoluogo lombardo eritrei ed etiopi assistiti da Regione, Comune e volontari della Cri. Nella capitale interviene la polizia e ne ferma diciotto. Finché hanno potuto hanno cercato rifugio nel parcheggio dei pullman antistante la stazione Tiburina a Roma, un pò d'ombra sotto i pochi alberi, cartoni stesi sull'asfalto dove da giorni dormono uomini, donne e bambini provenienti da Eritrea e Etiopia. Abbandonati a loro stessi senza neanche una baracca dove andare da quando, a maggio, è stato sgomberata la baraccopoli di Ponte Mammolo. Una scena simile a quella che da giorni si vede anche all'interno della stazione centrale di Milano, dove sono accampate altre centinaia di profughi eritrei e somali. Una situazione resa più grave dalla decisione della Germania di sospendere Schengen fino al 15 giugno, impedendo così ai migranti di proseguire il loro viaggio verso il nord Europa. Scene simili fin a ieri pomeriggio quando, mentre a Milano la Croce rossa insieme alle autorità comunali e regionali intervenivano allestendo un presidio sanitario all'interno della stazione e distribuendo cibo e acqua ai profughi, a Roma a intervenire è stata la polizia sgomberando il parcheggio occupato dai migranti. Ne è seguito un fuggi fuggi generale. Alcune immagini ripresa dal Tg di Sky mostrano gli agenti che bloccano a terra i migranti mentre altri vengono fatti salire sui pullman e portati via. Alla fine 18 eritrei sono stati fermati e identificati e se non faranno richiesta di asilo politico rischiano di finire rinchiusi nel Cie di Ponte Galeria. Mercoledì sera a visitare i circa 300 migranti accampati davanti alla stazione Tiburtina c'erano i sanitari di Medu, Medici per i diritti umani. "Sono tutte persone che arrivano soprattutto dal Corno d'Africa, è un flusso continuo", spiega Alberto Barbieri di Medu. "Sono in condizioni psicofisiche molto critiche, alcuni di loro hanno passato mesi nelle prigioni libiche prima di arrivare qui dove non hanno nessun tipo di assistenza, al contrario di quanto avviene a Milano. Tra di loro ci sono anche molti bambini e alcune donne incinta". Qualche migrante ha trovato ospitalità in un centro della Croce rossa che si trova vicino alla stazione dove ricevono cure e un pasto caldo. "Queste persone presentano malattie dermatologiche, hanno ustioni provocate dalla nafta dei barconi o ferite da arma da fuoco non curate", spiegano medici e infermieri. Pur nella drammaticità della situazione, ottocento chilometri più a nord i loro connazionali sono decisamente più fortunati. Gli eritrei e gli etiopi accampati nella stazione centrale di Milano possono contare sull'aiuto dei volontari che forniscono loro cibi caldi e cure. Nonostante le polemiche dei giorni scorsi la Regione ha allestito un presidio sanitari di fronte allo scalo, mentre le ferrovie hanno deciso di adibire un'area della stazione a punto di prima accoglienza dei profughi. "Metteremo a disposizione un'ambulanza fissa per i casi di ricovero", ha assicurato il presidente regionale della Cri Maurizio Gusson. "Noi abbiamo fatto il nostro dovere istituzionale. Abbiamo segni forti di vicinanza e solidarietà", ha detto invece il sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Certo c'è un limite. Non si può pensare che Milano da sola, o con pochi altri comuni, possa risolvere un problema epocale. Oggi sempre di più ci vuole corresponsabilità di tute le istituzioni a partire dal governo, dalle regioni e soprattutto dall'Europa". Ieri sera invece, i migranti sfuggiti nel pomeriggio all'intervento fatto dalla polizia a Roma, hanno trovato rifugio in un centro di accoglienza di accoglienza non lontano dalla stazione Tiburtina. "Ora ci saranno circa 700 persone: in pratica il centro sta esplodendo", ha detto u volontario. "La nostra è una struttura autogestita con 210 posti letto - ha aggiunto - ora vedremo cosa succederà, ma sicuramente non tutti potranno passare qui la notte". "Inevitabilmente Roma resta l'epicentro di tutti i flussi migratori delle popolazioni che, in fuga dalle guerre e dalla povertà, usano l'Italia come ponte per raggiungere il Nord Europa, soprattutto Svezia e Germania", ha detto invece Francesca danese, assessore alle Politiche sociali del Comune di Roma. "Si tratta di persone che non vogliono essere identificate - ha proseguito Danese - e questo ovviamente rende più difficile intervenire con risposte concrete e veloci". In fuga dall'inferno dell'Eritrea di Paolo Dionisi L'Opinione, 12 giugno 2015 Ogni mese più di cinquemila Eritrei, donne e uomini di tutte le età, fuggono dall'inferno di casa con tutti i mezzi possibili, dando fondo a tutto ciò che possiedono per affidarsi a trafficanti di esseri umani senza scrupoli; il miraggio per tutti è l'Europa, dove potranno ricongiungersi con i familiari che hanno avuto più fortuna prima di loro. L'Europa per gli Eritrei è la terra promessa, dove poter iniziare da capo una nuova vita e far nascere un giorno figli liberi con una speranza di un futuro migliore. E il trampolino per l'Europa, dopo oltre 3500 chilometri, di un lungo e drammatico cammino che attraversa paesi africani duri, il deserto impenetrabile dove molti non ce la fanno e muoiono di stenti, è la Libia, dove decine di migliaia di Eritrei aspettano l'ultimo passaggio, quello decisivo, in barche spesso di fortuna verso le coste italiane. Si calcola che un terzo dei migranti che si imbarca o è in attesa di imbarco per raggiungere le coste italiane sia di nazionalità eritrea. Il popolo africano è il secondo per diffusione nella lista dei migranti, dopo i profughi che fuggono dalla guerra civile in Siria. Ma quale è il motivo che spinge migliaia di Eritrei ad un'odissea rischiosissima pur di scappare dal loro paese? L'Eritrea è indipendente dall'Etiopia dal 1993, dopo un lungo conflitto armato e un referendum popolare che ha avuto il 99 per cento dei sì; lo stesso anno viene eletto Isaias Afewerki, il capo del movimento indipendentista, presidente della nuova nazione. Afewerki conta molti amici e molto supporto tra i politici italiani a quel tempo in voga. Numerosi tra quelli sono ancora presenti sullo scenario politico nostrano, chissà se hanno mantenuto rapporti con il despota eritreo o ora fanno finta di non ricordarlo. Dalla sua prima nomina, Afewerki non ha più indetto altre elezioni; quello che sembrava un leader moderno che avrebbe portato libertà e sviluppo in una nuova nazione, si è rivelato uno dei più crudeli dittatori africani; l'Eritrea, sotto il suo regime, è diventata una ‘prigione a cielo apertò, come la definisce l'organizzazione "Reporters senza frontiere" che ha documentato gli abusi e le torture. Il paese del corno d'Africa è agli ultimi posti negli indici mondiali della libertà di stampa e di opinione e del buon governo, addirittura dietro alla Corea del Nord e al Turkmenistan, ed è tutto dire. Ad Asmara e nelle altre regioni, poverissime, del paese vige un sistema poliziesco del terrore: chi è ostile al regime è messo in carcere per anni, dopo essere torturato e deprivato, insieme alla sua famiglia, di tutti i suoi modesti beni. In un rapporto recentemente pubblicato dalle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Eritrea, è descritta una società da incubo: le persone sono sistematicamente arrestate a capriccio, torturate, uccise o semplicemente fatte scomparire. Gli Eritrei, donne e uomini, sono obbligati ad arruolarsi nell'Esercito nazionale a tempo indeterminato, sottostando a condizioni durissime di vita; molti vengono fatti lavorare in condizioni di schiavitù e a compensi irrisori nei posti di lavoro statali, militari e di altro tipo, a volte per decenni, senza alcuna possibilità di dimissioni o esonero dal servizio e subendo abusi da parte di funzionari statali e di partito che il rapporto delle Nazioni Unite non esita a individuare come crimini contro l'umanità. Il regime di Afeworki ha creato una sistema di sorveglianza di massa che gli ispettori onusiani definiscono orwelliano, dove i vicini di casa e a volte gli stessi componenti del nucleo familiare sono costretti alla delazione. A volte, per paura dei poliziotti, vengono denunciate di opposizione al regime anche persone del tutto innocenti che vengono arrestate e detenute per anni senza processi. Nessun uomo o donna sotto i 60 anni può avere un passaporto, perché fino a quell'età sono tutti chiamati a fare il servizio militare. Le carceri eritree sono stracolme di prigionieri politici, religiosi o semplici obiettori che vengono sottoposti sistematicamente a tortura. Decine di prigionieri vengono tenuti in celle sottoterra per mesi o anni. Altri vengono trattenuti in navi cargo alla fonda nei porti del paese, con temperature non tollerabili. Moltissimi sono i morti in carcere. L'Eritrea ha inoltre drammatici livelli di malnutrizione e denutrizione definiti allarmanti dalla Fao in occasione della recente giornata mondiale dell'alimentazione. Di fronte a una situazione senza speranza, che si sentono impotenti a cambiare, centinaia di migliaia di eritrei scappano dal loro paese per vie di fuga mortali attraverso deserti e paesi vicini in guerra e per mari pericolosi in cerca di sicurezza. Le Nazioni Unite hanno rivolto un appello alla comunità internazionale ad accogliere gli eritrei in fuga, offrire loro protezione e rotte migratorie più sicure. Il Mediterraneo, che doveva essere la strada per una vita migliore e sicura, è stata invece la tomba per centinaia di Eritrei che hanno visto svanire il loro sogno di libertà, tra inefficienze, fallimenti e lungaggini burocratiche di un sistema internazionale di accoglienza che stenta ancora ad organizzarsi. Come Italiani però dovremmo mostrare maggiore umanità, sensibilità, comprensione, generosità di animo e di mezzi. Se non altro, anche in rispetto della nostra storia. Forse molti di quegli italiani che ora voltano le spalle e che non vorrebbero accogliere in Italia questi disperati, faticano a ricordare che l'Eritrea è stata nostra colonia dal 1872 al 1941; generazioni di famiglie italiane sono vissute accanto agli avi di questi migranti, che hanno servito con lealtà e sono anche morti per il tricolore italiano; persino il nome Eritrea è stato ideato e suggerito dagli italiani. Guinea Equatoriale: caso Berardi, nuova interrogazione in Parlamento latinaquotidiano.it, 12 giugno 2015 Su Roberto Berardi arriva una nuova interrogazione parlamentare. Stavolta a presentarla è Angelo Attaguile, deputato di Lega Nord - Noi con Salvini. Si tratta di un'iniziativa che arriva dopo la mancata liberazione dell'imprenditore pontino detenuto da gennaio 2013 nel carcere di Bata, in Guinea Equatoriale. Berardi doveva essere liberato il 19 maggio, ma le autorità locali hanno prolungato la detenzione fino al 7 luglio. Proprio su questa mancata liberazione verte l'interrogazione di Angelo Attaguile. Nel testo il parlamentare ripercorre le vicende controverse che hanno portato Roberto Berardi all'arresto. Viene anche menzionato il duro regime di detenzione al quale l'imprenditore pontino è sottoposto: "Il regime e le condizioni della detenzione in Guinea Equatoriale - scrive Attaguile - non sono assolutamente paragonabili a quelle applicate nel nostro Paese, circostanza che sta nuocendo gravemente alla salute del Berardi, dimagrito di circa 30 chilogrammi, affetto ormai da numerose patologie, ristretto in una cella di due metri per tre e spesso oggetto di umiliazioni pesanti ad opera dei suoi carcerieri, che lo avrebbero frustato innumerevoli volte". Attaguile chiede quindi di sapere la verità sulla mancata scarcerazione. Sembrerebbe infatti che per il rilascio dell'italiano la Guinea Equatoriale, o meglio il socio di Berardi, Theodorin Obiang, abbia chiesto 1,5 milioni di dollari di risarcimento. Al Governo il deputato chiede di sapere la verità a proposito di questa richiesta risarcitoria, quali iniziative il Governo ha messo in campo per liberare Berardi, e infine, di quali informazioni dispone l'Italia a proposito della volontà della Guinea Equatoriale di rilasciare l'imprenditore pontino. Stati Uniti: vittime di errori giudiziari scarcerate dopo decenni di Kati Irrente nanopress.it, 12 giugno 2015 Vittime di errori giudiziari, strappati dal braccio della morte o liberati dopo decenni di carcere. La realtà giudiziaria americana nasconde nelle sue pieghe storie che sembrano incredibili, uomini che hanno trascorso parte della loro vita chiusi dietro le sbarre per omicidi che non hanno mai commesso. Le pagine di cronaca sono piene di casi di questo tipo. Molti detenuti sono stati rilasciati dopo anni di prigione per crimini non commessi, grazie all'esame del Dna: 101, secondo i dati del registro, sono i detenuti salvati dal braccio della morte. La prova scientifica infatti, in questi casi è stata fondamentale per determinare l'innocenza di persone che sono state condannata sulla base di mezzi indizi, supposizioni, pregiudizi. Secondo il registro nazionale degli Stati Uniti dedicato agli "innocenti", sono circa 2mila i casi di errori giudiziari. Vediamo nelle schede successive gli ultimi episodi più eclatanti-> Dopo 43 anni trascorsi in una cella di isolamento in Louisiana, negli Usa, Albert Woodfox, che ora ha 68 anni, sarà rilasciato. Il giudice federale James Brady ha stabilito la sua innocenza, rovesciando gli esiti di altri due procedimenti giudiziari, al termine dei quali era stato ritenuto colpevole dell'omicidio della guardia carceraria Brent Miller, avvenuto nel 1972 ad Angola, il penitenziario di Stato della Luoisiana, durante una rivolta. Anche Amnesty International aveva aiutato a rendere nota questa causa. I processi, alla luce di quanto successivamente emerso, si sono rivelati poco equi e impostati sul pregiudizio razziale e politico, dal momento che Albert Woodfox, che aveva sempre dichiarato la sua innocenza, era impegnato nel gruppo delle Pantere Nere. Glenn Ford, a 64 anni, è stato scarcerato dopo 30 anni, quasi la metà della sua vita, trascorsi nel braccio della morte in attesa dell'esecuzione per un crimine che non ha commesso. E sono circa 144 i detenuti che dal 1974 sono stati scarcerati dal braccio della morte. Un calvario inimmaginabile per lui, che si è sempre professato innocente, per la sua famiglia, ma anche per i familiari della vittima. Tutto inizia nel 1984 quando Ford viene condannato a morte per l'omicidio di Isadore Rozeman, un gioielliere di 56 anni, freddato durante una rapina. Ford si proclama innocente da subito, ma la giuria lo condanna alla pena capitale. Entra nel braccio della morte nel 1988, i ricorsi e gli appelli servono solo a procrastinare l'esecuzione della condanna, nessuno sembra credere a lui e ai suoi legali: Glenn non solo non ha ucciso, ma non era nemmeno presente alla rapina. Tutto cambia nel 2014 quando un giudice della Lousiana riconosce che il processo è "compromesso da avvocati inesperti e dal fatto che alcune prove sono state dichiarate inammissibili, incluse informazioni fornite da un testimone". Tornato in libertà, Glenn ora riceverà 330mila dollari di risarcimento, il massimo previsto dalla legge, per aver trascorso 30 anni in prigione, nel braccio della morte: troppo poco per un'intera vita passata dietro le sbarre. Paul House fu condannato nel 1985 per lo stupro e l'omicidio di Carolyn Muncey, in Tennesse. L'uomo era il vicino di casa della vittima e aveva già scontato una condanna per aggressione sessuale. Quando gli inquirenti trovarono tracce di sangue appartenenti al gruppo A, il suo gruppo sanguigno, non ebbero dubbi. Poco importava che fosse il gruppo sanguigno più comune: House venne condannato a morte. Nel 1999, dopo quasi 15 anni nel braccio della morte, House chiese e ottenne l'esame del Dna: le analisi scoprirono che l'omicida era il marito della donna, che aveva proprio il gruppo sanguigno A. House uscì dal carcere a 47 anni nel 2008, malato di sclerosi multipla, dopo 22 anni di prigione per un delitto non commesso. Anche Robert Dewey è stato liberato grazie al test del Dna, dopo 17 anni di prigione in Colorado, per l'omicidio di Jacie Taylor, 19 anni, trovata strangolata con un guinzaglio per cani in una vasca piena d'acqua. Il suo avvocato è riuscito a riaprire il caso dopo la condanna all'ergastolo usando la maglietta di Robert, macchiata solo del suo sangue e senza tracce di quello della vittima. Quando le tracce biologiche di sangue e sperma trovati sulla scena del crimine, vennero analizzate il Dna scagionò l'uomo: non era lui l'omicida di Jacie. Anche la battaglia giudiziaria di Henry Skinner, condannato a morte in Texas nel 1995 per l'omicidio della compagna Twila Busby e dei due figli di lei, sta avviandosi verso una fine diversa dall'iniezione letale. L'uomo trovò la donna e i figli massacrati in casa al suo rientro da una serata a base di alcol e droga: proclamatosi sempre innocente, ha chiesto per anni il test del Dna sugli oggetti ritrovati vicino ai corpi delle vittime. Altre analisi avevano rilevato il suo Dna in casa, ma, sostengono i suoi legali, era più che probabile che venisse trovato visto che l'uomo viveva in quella casa. A settembre i test sul coltello usato per gli omicidi e su altre tracce sul luogo del delitto hanno rilevato il Dna di un'altra persona, forse lo zio della donna, contro cui Henry aveva puntato il dito perché violento e già protagonista di tentativi di avance nei confronti della nipote nel corso di una festa tenuta la notte prima dell'omicidio. La giacca dell'uomo, trovato sulla scena del crimine, non venne mai analizzata e ora è scomparsa. Il test del Dna però potrebbe lo stesso scagionare Henry dopo 19 anni di carcere in attesa della morte. Stati Uniti: scarcerato dopo 12 anni di carcere, 10 dei quali nel braccio della morte Ansa, 12 giugno 2015 Ieri è stato scarcerato Alfred Dewayne Brown, 33 anni, nero. Ad attenderlo fuori dal carcere di Houston, anche la giornalista Lisa Falkenberg, che con i suoi articoli, per i quali ha vinto il Pulitzer 2015, ha aiutato a riaprire il caso. Brown era stato condannato a morte nella Harris County il 25 ottobre 2005 con l'accusa di aver partecipato ad una rapina nel corso della quale, il 3 aprile 2003, erano rimaste uccise 2 persone, il poliziotto Charles R. Clark, 45 anni, e la commessa di un negozio, Alfredia Jones, 27 anni. All'epoca del processo Brown sosteneva di essere stato a casa con la fidanzata, e di aver fatto una telefonata. Il tabulato di questa telefonata è stato ritrovato solo 2 anni fa, a casa di un detective della squadra omicidi che si preparava a traslocare. Dopo il ritrovamento del tabulato lo stesso giudice che aveva condannato Brown aveva sollecitato la corte d'appello a rivedere rapidamente il caso, e la attuale procuratrice della Harris County, Devon Anderson, aveva dato parere favorevole. Il 5 novembre 2014 la Corte d'appello di stato aveva annullato il verdetto di colpevolezza di Brown, riconoscendo che si trattava di quello che in gergo si chiama "Brady case", ossia il comportamento omissivo da parte della pubblica accusa che secondo la legge dovrebbe passare alla difesa anche le eventuali notizie positive riscontrate durante l'indagine. La procuratrice Anderson, dopo aver puntualizzato che a suo giudizio quello della polizia era stato un errore, e non un atto intenzionale, oggi ha formalizzato la sua decisione di non tentare di riprocessare Brown, ed ha dichiarato: "Abbiamo reinterrogato tutti i testimoni, abbiamo ricontrollato tutte le prove, e siamo giunti alla conclusione che non abbiamo elementi sufficienti per sostenere la colpevolezza di Brown oltre il ragionevole dubbio. Quindi, come prevede la legge, ritiro le accuse contro il signor Brown e ne chiedo la scarcerazione". Brown è stato aiutato da Anthony Graves, scarcerato il 27 ottobre 2010 dopo aver trascorso 18 anni nel braccio della morte, e dalla giornalista Lisa Falkenberg, che con i reportage con cui è riuscita a far riaprire il caso è stata finalista del premio Pulitzer nel 2014, e lo ha vinto nel 2015 con la motivazione: "Con i suoi articoli sullo Houston Chronicle, scritto dall'angolo visuale di una texana di sesta generazione, ha spesso sfidato i potenti, e dato voce a chi non l'aveva. Nei suoi racconti, vividi e innovativi, ha trattato gli abusi del sistema giudiziario che hanno portato ad una condanna a morte senza prove, e ad altri gravi problemi legali e del sistema dell'immigrazione". Lisa Falkenberg ha atteso Brown fuori dal carcere, assieme ai familiari di Brown. Graves, 49 anni, nero, ha aiutato Brown a ricontattare la ex fidanzata per verificare i tempi dell'alibi di cui la pubblica accusa sosteneva non esistessero riscontri, ed ha sensibilizzato i cronisti del Houston Chronicle. Anche nel caso di Graves era stato il procuratore a nascondere elementi favorevoli alla difesa, e nel gennaio 2014 ha avviato un'azione legale chiedendo che all'allora procuratore, oggi avvocato, venga ritirata la licenza professionale. Brown, dopo aver abbracciato Lisa Falkenberg, tenendo per mano sua sorella Connie Brown, ha scambiato alcune battute con i giornalisti: "Mi sento bene, è stata una lunga attesa, ma ne valeva la pena". Ha paragonato la vita in carcere al vivere in un canile. La cosa più difficile da sopportare è stato non essere in grado di abbracciare la sua famiglia, soprattutto sua figlia che compirà 15 anni a luglio. "Non si può raggiungere e toccare qualcuno. Si va in giro con le manette per tutto il tempo", ha detto Brown, che ha poi aggiunto di non essere amareggiato per la condanna che lo ha mandato nel braccio della morte. "Hanno fatto quello che credevano fosse giusto, anche se era sbagliato". Trattandosi di una indagine che a questo punto deve considerarsi ancora aperta, la procuratrice Anderson non ha voluto rispondere alla domanda se, al di là della mancanza di prove, ritiene che Brown sia comunque colpevole. Certi della colpevolezza di Brow si sono invece detti il capo della polizia di Houston, Charles McClelland, e il vicepresidente del sindacato della polizia di Houston, Joseph Gamaldi. Entrambe hanno voluto puntualizzare che il fatto che le prove presentate siano state considerate insufficienti non vuole dire affatto che l'uomo sia innocente. Certo dell'innocenza di Brown si è invece detto l'avvocato said Brian Stolarz, 41 anni, che ha seguito il caso di Brown per 5 anni. "Sono stato certo della sua innocenza dall'istante stesso in cui lo ho incontrato. Sono contento che sia stata fatta giustizia, e che non sia stata fatta troppo tardi". "Dopo la nascita di mio figlio, questo è il giorno più bello della mia vita. Per me, tirarlo fuori era un dovere professionale, ma in un certo senso anche religioso". Azerbaijan: Zampa (Pd); governo verifichi effettivo rispetto dei diritti umani 9Colonne, 12 giugno 2015 "Chiediamo al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni di verificare se siano stati effettivamente violati i diritti della giornalista investigativa Khadija Ismayilova, detenuta nel carcere di Baku dallo scorso 5 dicembre, le cui condizioni di detenzione violano completamente le convenzioni internazionali in quanto non le è permesso di vedere né la famiglia né il suo avvocato. Il governo italiano, che con l'Azerbaijan ha rapporti improntati ad una intensa e positiva collaborazione in campo economico, commerciale e culturale con particolare riguardo all'approvvigionamento energetico, si impegni a monitorare il rispetto dei diritti umani e dei diritti di libertà nel paese che si affaccia sul mar Caspio". Lo ha detto Sandra Zampa, deputata del Pd in commissione Esteri che ha presentato una interrogazione in commissione al ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, su questo tema. "Il rapporto di Amnesty International Guilty of Defending Rights del 2015 - si legge nell'interrogazione - mette in luce la crescente persecuzione nei confronti di chi critica il governo azero. Dal 2001 l'Azerbaigian fa parte del Consiglio d'Europa, i cui principali obiettivi sono la tutela, il miglioramento e la promozione dei diritti umani, della democrazia, dello Stato di diritto e della libertà di espressione ma attualmente si contano circa 100 prigionieri politici nelle carceri azere. Le motivazioni dell'arresto della giornalista investigativa dell'Occrp (Organized Crime and Corruption Reporting Project) addotte dalle autorità riguardavano la vita privata della stessa giornalista ma non avendo trovato alcuna prova la magistratura l'ha trattenuto in carcere ipotizzando nuove fattispecie di reato. Il giorno prima dell'arresto, che è seguito a vari episodi di minacce e ricatti come le foto scattate nella sua camera da letto dove evidentemente qualcuno aveva installato telecamere nascoste, il capo dell'Ufficio di presidenza Ramiz Mehdiyev aveva definito la Ismayilova il miglior esempio di giornalismo contro il governo". Marocco: 10 nuove prigioni entro l'anno, il piano per migliorare il sistema detentivo Ansa, 12 giugno 2015 Il Marocco pianifica l'apertura di dieci nuove case circondariali entro il 2015, per ospitare 13 mila detenuti. Il progetto fa parte in realtà di un più vasto programma che punta a costruire 37 nuovi edifici destinati alla detenzione e alla rieducazione per oltre 45 mila detenuti, in vista del 2018. Secondo la delegazione governativa che si occupa delle case circondariali e che è posta sotto tutela del capo di governo, oggi il sistema nel suo complesso è in grande sofferenza, la popolazione carceraria supera di almeno il doppio la capacità di accoglienza delle strutture. Nonostante gli sforzi, sono molte le denunce che riguardano le prigioni e le condizioni in cui versano i detenuti in Marocco. Numerose Ong internazionali e locali hanno puntato il dito in particolare contro la prigione di Ain Kadouss di Fes, contro Dakhla, Laayoune e altre piccole città sull'asse tra Rabat e Casablanca. Un gruppo di 33 associazioni ha lanciato un portale Prisonmaroc.org per la promozione dei diritti dei detenuti. Arabia Saudita: Amnesty; frustate a blogger Badawi potrebbero riprendere domani Adnkronos, 12 giugno 2015 Le autorità saudite potrebbero riprendere domani a infliggere 950 frustate al blogger Raif Badawi, dopo che il 6 giugno scorso la Corte Suprema di Riad ha confermato la sua condanna a 10 anni di carcere e a 1.000 frustate. L'allarme arriva dagli attivisti di Amnesty International. "A cinque mesi dalle ultime frustate inflittegli in pubblico - ha detto Said Boumedouha, vice direttore di Amnesty per il Medio Oriente e il Nordafrica - la minaccia di questa punizione crudele e inumana torna a incombere su Raif Badawi". La conferma della sentenza, secondo Boumedouha, dimostra che "le autorità non cercano di fare giustizia, ma di fare di Badawi un esempio, per sradicare la libertà d'espressione". Il blogger è stato condannato una prima volta a maggio 2014 per "insulto all'Islam". Ha subito le prime 50 frustate in una piazza di Gedda il 9 gennaio scorso, ma le successive sono state sospese, inizialmente per motivi di salute, poi per ragioni non precisate. "Il mese sacro del Ramadan - ha affermato Boumedouha - che sta per cominciare, è tradizionalmente un'occasione per il rilascio di prigionieri. Chiediamo quindi a re Salman di farne l'occasione per liberare Raif Badawi e permettergli di ricongiungersi alla sua famiglia", che nel frattempo ha ottenuto l'asilo in Canada. Per la liberazione di Badawi è in corso da mesi una campagna internazionale, respinta dalle autorità saudite. Lo scorso 7 marzo, il ministero degli Esteri di Riad ha espresso "sorpresa e sgomento" per la campagna, affermando che "il regno respinge in modo netto ogni aggressione che usi il pretesto dei diritti umani".