Non in mio nome di Igiaba Scego Internazionale, 8 gennaio 2015 Oggi mi hanno dichiarato guerra. Decimando militarmente la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo mi hanno dichiarato guerra. Hanno usato il nome di dio e del profeta per giustificare l'ingiustificabile. Da afroeuropea e da musulmana io non ci sto. "Not in my name", dice un famoso slogan, e oggi questo slogan lo sento mio come non mai. Sono stufa di essere associata a gente che uccide, massacra, stupra, decapita e piscia sui valori democratici in cui credo e lo fa per di più usando il nome della mia religione. Basta! Non dobbiamo più permettere (lo dico a me stessa, ai musulmani e a tutti) che usino il nome dell'islam per i loro loschi e schifosi traffici. Vorrei che ogni imam in ogni moschea d'Europa lo dicesse forte e chiaro. Sono stufa di veder così sporcato il nome di una religione. Non è giusto. Come non è giusto veder vilipesi quei valori di convivenza e pace su cui è fondata l'Unione europea di cui sono cittadina. Sono stufa di chi non rispetta il diritto di ridere del prossimo. Stufa di vedere ogni giorno, da Parigi a Peshawar, scorrere sangue innocente. E ho già il voltastomaco per i vari xenofobi che aspettano al varco. So già che ci sarà qualcuno che userà questo attentato contro migranti e figli di migranti per qualche voto in più. C'è sempre qualche avvoltoio che si bea delle tragedie. È così a ogni attentato. A ogni disgrazia cresce il mio senso di ansia e di frustrazione. A ogni attentato vorrei urlare e far capire alla gente che l'islam non è roba di quei tizi con le barbe lunghe e con quei vestiti ridicoli. L'islam non è roba loro, l'islam è nostro, di noi che crediamo nella pace. Quelli sono solo caricature, vorrei dire. Si vestono così apposta per farvi paura. È tutto un piano, svegliamoci. Per questo dico che mi hanno dichiarato guerra. Anzi, ci hanno dichiarato guerra. Questo attentato non è solo un attacco alla libertà di espressione, ma è un attacco ai valori democratici che ci tengono insieme. L'Europa è formata da cittadini ebrei, cristiani, musulmani, buddisti, atei e così via. Siamo in tanti e conviviamo. Certo il continente zoppica, la crisi è dura, ma siamo insieme ed è questo che conta. I killer professionisti e ben addestrati che hanno colpito Charlie Hebdo vogliono il caos. Vogliono un'Europa piena di paura, dove il cittadino sia nemico del suo prossimo. E in questo vanno a braccetto con l'estrema destra xenofoba. Tra nazisti si capiscono. Di fatto vogliono isolare i musulmani dal resto degli europei. Vogliono vederci soli e vulnerabili. Vogliono distruggere la convivenza che stiamo faticosamente costruendo insieme. Trovo bellissimo che alla moschea di Roma alla fine del Ramadan, per l'Eid, ci siano a festeggiare con noi tanti cristiani ed ebrei. Ed è bello per me augurare agli amici cristiani buon Natale e agli amici ebrei happy Hanukkah. È bello farsi due risate con gli amici atei e ridere di tutto. Si può ridere di tutto, si deve. Ecco perché questo attentato di oggi è così pauroso. Fa male sapere che degli esseri umani siano stati uccisi da una mano vigliacca perché volevano solo far ridere, ma fa male anche capire il disegno che c'è dietro, ovvero una volontà di distruzione totale. Una distruzione che sapeva chi e cosa colpire. Niente è stato casuale. Sono stati spesi molti soldi da chi ha organizzato il massacro. Sono stati scelti uomini addestrati. È stato scelto un target, la redazione di un giornale satirico, che era sì un target simbolico, ma anche facile da attaccare. Tutto è stato studiato nei minimi dettagli. D'altronde una dichiarazione di guerra lo è sempre. Chi ha compiuto questo attentato sa cosa produrrà. Sa il delirio che si sta preparando. Allora se siamo in guerra si deve cominciare a pensare come combatterla. In questi anni la teoria della guerra preventiva, dell'odio preventivo, delle disastrose campagne di Iraq e Afghanistan hanno creato solo più fondamentalismo. Forse se si vuole vincere questa guerra contro il terrorismo l'Europa si dovrà affidare a quello che ha di più forte, ovvero i suoi valori. Chi ha ucciso sa che si scatenerà l'odio. Ora dovremmo non cascare in questa trappola. Ribadire quello che siamo: democratici. Ha ragione la scrittrice Helena Janeczek quando dice che liberté, égalité, fraternité è ancora il motto migliore per vincere la battaglia. E i musulmani europei ribadendo il "Not in my name" potranno essere l'asso nella manica della partita. L'Europa potrà fermare la barbarie solo se i suoi cittadini saranno uniti in quest'ora difficile. Giustizia: il Viceministro Costa "pronto a rivedere la norma sui risarcimenti ai detenuti" Ansa, 8 gennaio 2015 Rischio che interpretazioni altalenanti compromettano le tutele. Il Viceministro della Giustizia Enrico Costa ha ricevuto il Segretario dei Radicali Italiani Rita Bernardini per un confronto sulle criticità nell'applicazione della nuova normativa sui risarcimenti ai detenuti. Il provvedimento prevede misure risarcitorie e compensative in favore di detenuti e internati che siano stati sottoposti a condizioni di detenzione inumane o degradanti a causa del sovraffollamento carcerario in Italia, in violazione dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. In particolare, Bernardini ha denunciato l'ineffettività degli strumenti risarcitori e preventivi previsti dalla nuova disciplina ed ha espresso l'intenzione dei Radicali Italiani di inviare un dossier al Comitato dei Ministri del Consiglio D'Europa. Sono stati evidenziati infatti rischi di difformità interpretative della norma che, legando l'ammissibilità delle domande all'attualità del pregiudizio, ridurrebbe notevolmente l'effettività della tutela del detenuto. A ciò si aggiungono i ricorsi respinti sulla base di imprecisioni nella descrizione del danno subìto dal detenuto, nonché le difformità di interpretazione sul calcolo dello spazio minimo di detenzione. Costa ha manifestato disponibilità ad analizzare con attenzione tali criticità (già oggetto, peraltro, di interrogazioni parlamentari) e a monitorare l'esito dei ricorsi pendenti, con particolare riferimento ai tempi dell'esame da parte della Cassazione ed ai suoi orientamenti. "È fondamentale - ha commentato - che la norma dispieghi appieno la sua efficacia. Il permanere di incertezze interpretative rischia di indebolire l'impianto di tutele che ci hanno consentito di superare le obiezioni dell'Europa". Se la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha respinto 3.564 ricorsi avanzati negli ultimi anni dai detenuti italiani contro il sovraffollamento, ritenendo che l'Italia, grazie ai recenti interventi, sia in grado di far fronte al problema, e ha rinviato il contenzioso ai giudici nazionali, d'altro canto, il Consiglio d'Europa ha rimandato a maggio 2015 il momento della valutazione degli effetti concreti delle misure adottate dall'Italia. "Se, a causa di discutibili interpretazioni, le tutele previste dalla norma dovessero essere compromesse - ha precisato Costa - si dovrà valutare l'esigenza di un intervento legislativo chiarificatore". Giustizia: la magistratura che serve… fuori dalla guerra fredda di Giovanni Maria Berruti (Presidente sezione di Cassazione) Corriere della Sera, 8 gennaio 2015 Caro direttore, la guerra fredda è finita da tempo. Ma hanno tardato a finire le strutture culturali e di potere che la caratterizzavano. Comunisti ed anticomunisti. Una contrapposizione che era "l'in sé" della guerra fredda. Quella guerra, combattuta con le armi della politica e dell'economia, giustificava che ogni Paese dell'allora Occidente affidasse agli anticomunisti il governo. E che alcuni Paesi come l'Italia affidassero ai comunisti il monopolio dell'opposizione. Quel patto, non so bene se tacito, attribuiva a ciascun contraente ruoli e poteri. Di questo assetto la magistratura ebbe parte significativa. Si divise tra sinistra e conservatori. Dando vita a una dialettica fondamentale, ricca, emozionante; e costituendo un grande motore di cambiamento costituzionale. Ma puntellò anche, di fatto, un assetto di guerra fredda. Poi negli anni Novanta, al terremoto indotto dalle grandi indagini milanesi, Berlusconi rispose rispolverando in modo geniale la guerra fredda. Fece risorgere i comunisti, e con essi le schiere mai dome di anticomunisti. La magistratura cadde nella trappola. Perché agli attacchi e alle provocazioni è difficile non reagire. Rispolverò anch'essa una sorta di intolleranza verso la politica e verso i politici. Aprendo una ferita profonda. Oggi quella stessa politica ha chiuso la guerra fredda e con le convenzioni che escludono. Tutti fanno patti con tutti. Nessuno, perciò, ha ancora bisogno di una magistratura moderata o di una magistratura progressista, che bilancino le corrispondenti spinte culturali. Si chiede, invece, una magistratura di servizio: che non tocchi le grandi scelte, ma faccia la sua parte, che non imprima all'ordinamento una velocità che la politica non ha concepito. L'inferno scoperchiato dalle indagini romane - in un panorama che pareva destinato, con il pensionamento per decreto legge di alcune centinaia di magistrati, l'intervento sulle ferie, quello sulla normativa dei procedimenti del Consiglio superiore, alla marginalizzazione della magistratura, in qualche modo nascosta dalla nomina di ottimi magistrati a cariche importanti - può cambiare questa tendenza. Ma, temo, in modo incontrollabile. La democrazia moderna, che accetta il cambiamento economico come sua costante, ha bisogno di una magistratura indipendente. Certamente controllabile, dal punto di vista sociale e processuale: ma indipendente dall'esecutivo. E l'attività del giudice può essere davvero indipendente se assicura ad ogni tesi portata in aula la professionalità adeguata al tempo. La giurisprudenza non è aritmetica. È ragionamento a trama storica. Che sconta il quadro di fatti nei quali una vicenda, anche ripetuta nel tempo, si colloca. Le indagini romane vanno seguite. A differenza di quelle che oggi definiamo Tangentopoli, esse segnano la fine della guerra fredda. Non si tratta della corruzione di un ambiente politico omogeneo - il che fece dire che la magistratura aveva azzerato uno o due partiti, salvando gli altri. Roma dimostra l'eternità dell'illegalità, ma anche la miseria morale diffusa, che utilizza chiunque si omologhi. Non è un partito. Non è un solo clan. La dimensione sociologica è molto più estesa. Allora l'attenzione deve essere massima, perché l'indagine può essere sfruttata come maglio contro la democrazia formale degli eletti dal popolo. Può diventare la prova che il sistema democratico è di per sé peculato e corruzione. Una tesi che circolava negli anni Cinquanta. In piena guerra fredda. Quella che Napolitano, anche nel messaggio di Capodanno, ha respinto, chiedendo normalità costituzionale. Giustizia: il caso Van den Bleeken e i dubbi sull'eutanasia, quando morire è l'ultima speranza di Valter Vecellio America Oggi, 8 gennaio 2015 La questione è indubbiamente spinosa e lacerante; come spinose e laceranti sono tutte le cose che riguardano la vita e la morte; e in particolare quando si arriva a un punto, ben sintetizzato da Leonardo Sciascia, quando la speranza non è più l'ultima a morire, ma morire è l'ultima speranza. Così si può decidere di rinunciare alla vita come tre anni fa ha scelto un regista scanzonato come Mario Monicelli, "volato" dal balcone al quinto piano dell'ospedale San Giovanni di Roma; o come ha deciso di fare un altro regista Carlo Lizzani che si è lasciato "scivolare" giù, dalla finestra di casa. Oppure come Lucio Magri, dopo aver attentamente programmato, e fatto più ricognizioni, che ha scritto la parola fine in una clinica svizzera... E ancora: il caso di Brittany Maynard, malata di un tumore devastante, innamorata della vita, e che tuttavia sceglie di trasferirsi nello stato dell'Oregon, per poter morire con dignità, come voleva. Storie diverse, che non ci si deve permettere di giudicare; bisognerebbe piuttosto cercare di capire, comprendere. Ora il caso di Frank Van den Bleeken, l'assassino stupratore seriale belga in carcere da trent'anni, e che ha chiesto (e ottenuto) l'eutanasia, perché si ritiene inguaribile, vittima di raptus e impulsi irrefrenabili che lo condurrebbero a rifare i delitti che ha commesso, "se tornassi libero rifarei tutto. Sono un pericolo per la società, ma sono anche un essere umano, e qualunque cosa abbia fatto, resto un essere umano. Perciò concedetemi l'eutanasia". Le commissioni che hanno esaminato il caso di Van Den Bleeken hanno ritenuto che rientra tra quelli "ammessi"; così tra qualche giorno verrà trasferito in un ospedale segreto, trascorrerà un paio di giorni in compagnia della sua famiglia, avrà il conforto di un sacerdote, infine un medico gli praticherà un'iniezione che metterà la parola fine a questa vicenda. Fino a un certo punto, perché il caso Van Den Bleeken potrebbe aprire la strada ad altri simili: almeno quindici detenuti in varie prigioni belghe hanno chiesto che anche a loro sia riconosciuto il diritto di farla finita come per lui. Come avere certezze (e sicurezze) di fronte a casi come questi? E questo pur ritenendo necessaria una legge che legalizzare la "dolce morte", che eviti ai Monicelli, ai Lizzani, ai tanti suicidi di ogni giorno, di togliersi la vita come hanno dovuto fare; una legge che consenta ai Lucio Magri di poterlo fare come hanno fatto, senza dover "emigrare" in Svizzera. Sarebbe disonesto negare i miei dubbi e le mie perplessità, sull'esser giusto che un detenuto, anche quel detenuto, possa chiedere di essere aiutato a sopprimersi perché "soffre troppo" a livello psicologico; mi chiedo se a Van den Bleeken sia giusto riconoscere quello che gli è stato riconosciuto; al riguardo, non lo nascondo, nutro parecchie riserve, ho molti dubbi. Di questi argomenti non se ne parla molto; si preferisce glissare; eppure sono questioni che ci riguardano, tutte e tutti, nessuno escluso: scegliere come e quando farla finita è una facoltà che dovrebbe essere riconosciuta a tutti, inscindibile dal libero arbitrio che nessuno mette in discussione; poi, evidentemente, ognuno si comporta come crede e ritiene. Una quantità di sondaggi demoscopici documentano che l'opinione pubblica sente l'esigenza di poter discutere e confrontarsi su questioni cruciali come questa; eppure è quello che non accade. Si rinuncia perfino ad avviare indagini conoscitive per accertare le dimensioni del fenomeno "eutanasia clandestina" quotidianamente praticata negli ospedali e nelle cliniche italiane. Se chi è contrario alla legalizzazione dell'eutanasia ritiene di avere buoni argomenti per motivare il suo NO, dovrebbe avere tutto l'interesse a potersi esprimere e far conoscere le sue ragioni. E invece... che invece si preferisca il silenzio omertoso, si tema il confronto e il dibattito, vorrà pur dire qualcosa. Giustizia: perché chiudere le mense della cooperazione sociale in carcere? di Daniele Biella Vita, 8 gennaio 2015 Prorogato al 31 gennaio il servizio in scadenza che coinvolge dieci carceri, altrettante coop e centinaia di lavoratori detenuti e non. Ma senza un rapido finanziamento strutturale, l'esperienza, valutata positivamente anche dai direttori degli Istituti di pena, volgerà al termine. Come si può cancellare un esperimento che funziona, piuttosto che renderlo strutturale una volta per tutte? Domande che si stanno facendo in tanti nel mondo carcerario italiano, da quando il servizio mensa garantito da detenuti assunti da cooperative sociali in dieci carceri è a rischio data l'imminente scadenza della convenzione: doveva essere il 15 gennaio 2015, lo scorso 30 dicembre è stata prorogata dal ministero della Giustizia al 31 gennaio, ma a oggi quest'ultima è la data della fine della sperimentazione e dello stop al lavoro di almeno 170 reclusi, più altrettanti lavoratori dell'indotto e almeno 40 tra psicologi, educatori, cuochi e formatori che collaboravano a rendere virtuosa l'esperienza. Virtuosa, sì. E non lo dicono solo i membri delle cooperative: c'è una lettera congiunta di tutti i direttori dei 10 istituti coinvolti (allegata in alto a destra), datata 28 luglio 2014, che sottolinea "l'indubbio miglioramento della qualità del vitto somministrato ai detenuti", nonché "di pari passo con quello delle condizioni igienico-sanitarie delle cucine" e con numerosi "vantaggi economici", come i risparmi "sulla manutenzione ordinaria e, non di rado, straordinaria delle attrezzature", "sull'acquisto di prodotti per le pulizie, "per le utenze e le mercedi". Ancora, i direttori sottolineano i risultati in termini trattamentali: "I detenuti assunti dalle cooperative hanno avuto modo di sperimentare rapporti lavorativi veri che li hanno portati ad acquisire competenze e professionalità rivelatesi decisive per il loro reinserimento sociale". Alla fine della lettera, essi chiedono il passaggio "da una fase progettuale a un sistema strutturato di esternalizzazione del servizio". Nato nel 2003 e finanziato fino al 2009 dal Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) con capitoli di spesa legati alle mercedi, negli ultimi cinque anni è stato garantito da stanziamenti ad hoc della Cassa delle ammende. Ma ora il rubinetto si chiude, come ha sentenziato lo stesso ministro Andrea Orlando (escludendo categoricamente legami con gli scandali di Mafia capitale) alle cooperative e ai garanti dei detenuti presenti lo scorso 30 dicembre 2014 all'incontro a cui è seguita la proroga di 15 giorni del servizio. "Non è escluso che le cooperative possano continuare a gestire alcuni servizi, si valuterà caso per caso. Ma va ripensata l'architettura del sistema", sono state le parole del ministro. In tutto, servirebbero 3,5 milioni di euro che, per ora, non ci sono. "La proroga concessa è un elemento positivo e la nostra fiducia permane, ma i tempi si accorciano e la preoccupazione aumenta", sottolinea Nicola Boscoletto, presidente della cooperativa sociale Giotto, una delle 10 coop coinvolte che occupa personale detenuto e non nel carcere di Padova. "Stiamo aspettando un incontro con il nuovo capo del Dap (Santi Consolo, eletto a fine novembre 2014, ndr), speriamo si arrivi presto a una soluzione positiva. Davvero non capiamo quale sia il motivo di un eventuale conclusione del servizio dati i risultati ottenuti". I garanti dei detenuti, in primis quello di Roma, Angiolo Marroni, avevano chiesto almeno sei mesi di proroga, per un servizio che garantisce 7mila pasti al giorno e che ha dimostrato negli anni come si possa fare a tutti gli effetti impresa sociale in carcere. Giustizia: mense nelle carceri, il ministero conferma il no alle cooperative dei detenuti La Difesa del Popolo, 8 gennaio 2015 La sperimentazione coinvolge dal 2004 dieci carceri italiane, compresa Padova. Ogni anno la Cassa delle ammende ha versato in media 4 milioni di euro per impiegare 170 detenuti nel settore delle mense interne agli istituti di pena. I risultati ci sono ma non basta: rubinetti chiusi dopo l'incontro tra i presidenti delle 10 cooperative interessate e il ministro Orlando. La Cassa delle ammende non finanzierà per il 2015 le cooperative di detenuti che si occupano di mense dentro le carceri e servizi di catering al di fuori di esse. A nulla è servito l'incontro, alla vigilia di capodanno, tra i rappresentanti delle dieci cooperative coinvolte nel progetto, il ministro della giustizia Andrea Orlando, il capo gabinetto Giovanni Melillo e i vertici del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap). "Il capo gabinetto del ministro ha detto che si cercheranno delle soluzioni individuali, per ogni singola cooperativa, in modo che non si perda l'esperienza - ha spiegato all'uscita dall'incontro Luigi Pagano, vice direttore del Dap - Il capo dipartimento Santi Consolo ha chiesto un po' di tempo per capire la situazione, è stato nominato da due settimane". La sostanza però è che senza i 4 milioni circa all'anno versati dalla Cassa delle ammende (il fondo alimentato dalle multe comminate dai tribunali) il progetto della gestione delle mense carcerarie affidato direttamente a cooperative di detenuti rischia di saltare in toto. In tutto, sono strutture dove si trovano ristretti 7 mila detenuti. Di questi, sono in 170 quelli che hanno lavorato dal 2004 ad oggi per le cooperative incaricate della gestione delle mense. Sono la Ecosol a Torino; la Divieto di sosta a Ivrea; la Campo dei miracoli a Trani; L'Arcolaio a Siracusa; La Città Solidale a Ragusa; Men at Wotk e Syntax Error a Rebibbia; ABC a Bollate (Milano); Pid a Rieti e la Giotto a Padova. "Secondo il progetto avrebbero dovuto implementare le commesse esterne e rendersi autosufficienti ma purtroppo non è successo", continua Luigi Pagano. Il numero due del Dap non mette in discussione gli esiti positivi di questa sperimentazione: il tasso di recidiva drasticamente ridotto per chi ha fatto parte del progetto, l'indotto per i dipendenti e le ore passate fuori dal carcere. Ma non basta: "Il Dap non può costringere la Cassa delle ammende a pagare, per quanto siano presieduti dalla stessa persona", aggiunge. Questo è un altro dei lati paradossali di questa vicenda: il Capo dipartimento dell'amministrazione penitenziaria è anche presidente della Cassa delle ammende, la quale però ha poi un consiglio d'amministrazione che prende le decisioni collegialmente. E che questa volta ha deciso di non finanziare più le cooperative che avevano cominciato dieci anni fa a impiegare detenuti nella ristorazione. Con l'avvicinarsi del 15 gennaio, ultimo giorno di lavoro, anche Giuseppe Guerini, presidente di Federsolidarietà - Confcooperative, rilancia l'allarme sulla sorte delle cooperative e di un modello virtuoso: "Sebbene sia difficile oggi parlare di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti - aggiunge Guerini - bisogna prendersi la responsabilità di farlo. Sono le esperienze, i fatti, a parlare sotto gli occhi di tutti. Un detenuto che impara un mestiere in carcere, è un criminale in meno che torna a delinquere al termine della sua pena. Lo stesso ministero di giustizia e il dipartimento amministrazione penitenziaria confermano che grazie al lavoro delle cooperative sociali il tasso di recidiva, cioè di ex detenuto che torna a delinquere, si abbatte dall'80 per cento a meno del 10 per cento". Alle istituzioni la richiesta di una "assunzione di responsabilità e di distinguere le buone esperienze e prendere, con determinazione, le decisioni più adeguate. È come se dall'oggi al domani si decida di chiudere un'impresa d'eccellenza e mandare a casa oltre 200 lavoratori, detenuti che in carcere stanno cercando di ripartire, diventare pizzaioli, camerieri, cuochi. Solo qualche mese fa l'Italia per rispondere alla condanna della Corte per i diritti dell'uomo per le condizioni delle carceri valorizzava l'esperienza dell'inserimento lavorativo, adesso invece che estendere queste esperienze al resto del paese, le cancelliamo con un colpo d'ala, come se niente fosse". Giustizia: interrogazione parlamentare sulla gestione delle mense carcerarie alle coop Askanews, 8 gennaio 2015 Rossomando, Amoddio, Sorial e Iacono. Al Ministro della giustizia, per sapere, premesso che: nel 2003 il Dap, Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, ha avviato un progetto sperimentale in dieci istituti penitenziari italiani (Trani, Siracusa, Ragusa, Rebibbia circondariale, Rebibbia reclusione, Torino, Milano-Bollate, Padova e Ivrea) per promuovere l'attività lavorativa in carcere, attraverso la ristrutturazione delle cucine e l'affidamento della gestione a delle cooperative sociali, con il compito di formare professionalmente i detenuti, assunti con paga regolare dalle cooperative, attraverso periodi di formazione, affiancamento con professionisti del settore, impostazione di gestione secondo criteri di efficienza, adeguamento a standard di sicurezza e qualità; questo progetto, finanziato dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria a partire dal 2004 e successivamente, a partire dal 2009, dalla Cassa ammende, viene rinnovato di anno con risultati giudicati molto positivi, sia per quanto riguarda la produzione di pasti di qualità, sia per la nascita di vere realtà imprenditoriali (servizi di catering a Torino e Bollate, produzione di panettoni a Padova, taralli a Trani e dolci di mandorla e catering a Siracusa e Ragusa), che hanno raccolto l'apprezzamento anche dei consumatori esterni; Secondo quanto riportato da articoli di stampa, a riscontro del dato positivo di questa esperienza, il 17 marzo 2014 l'allora direttore del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino, a seguito di un colloquio con i direttori dei 10 istituti penitenziari coinvolti, sottolineava il giudizio fortemente positivo sui risultati del progetto, ribadendo l'intenzione di proseguire nell'iniziativa, rendendola strutturale e diffondendola anche ad altri istituti; nel periodo di vacanza alla direzione del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, da maggio 2014, le cooperative sociali impegnate nelle carceri hanno più volte chiesto riscontro al Ministero circa il futuro del progetto, in scadenza il 31 dicembre 2014; nei giorni scorsi, con una circolare ministeriale inviata ai dieci direttori carcerari interessati, è stata comunicata la proroga del progetto fino al 15 gennaio 2015 e la successiva chiusura della sperimentazione, con il ritorno della gestione delle cucine all'amministrazione penitenziaria; Tale decisione ha provocato forte preoccupazione tra gli operatori del settore e tra chi guarda con interesse e speranza al recupero e al reinserimento delle persone detenute, e non da ultimo alla loro formazione professionale, per la chiusura di una esperienza che ha prodotto effetti grandemente positivi non solo in termini economici e produttivi ma anche in termini di risparmio e di riqualificazione dell'esperienza detentiva; l'impiego dei detenuti in attività lavorative, infatti, non solo aumenta le possibilità di reinserimento del detenuto nella società, ma abbatte drasticamente l'eventualità di recidiva; l'articolo 15 dell'ordinamento penitenziario, di cui alla legge n. 354 del 1975, attribuisce al lavoro un ruolo centrale nel processo rieducativo e di risocializzazione del condannato, così come stabilito dall'articolo 27, comma terzo, della Costituzione. Proprio nel riconoscimento dell'importanza del lavoro per la riabilitazione dei detenuti, con la legge n. 193 del 2000, (cosiddetta legge Smuraglia) sono stati forniti strumenti e modalità per l'avvio di attività lavorative in carcere da parte di imprese pubbliche o private e di cooperative, attraverso la stipula di un'apposita convenzione con l'amministrazione penitenziaria; Dai dati forniti dal Ministro della giustizia il 19 dicembre 2014, durante la conferenza stampa di presentazione del nuovo assetto del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e del sistema carcerario, è emerso che, per quanto riguarda il lavoro dei detenuti, si è passati dal 20,87 per cento del 2011 al 26,25 per cento del 2014: quali iniziative intenda avviare per dare continuità all'esperienza del progetto sopra descritto, anche con forme di finanziamento diverse da quelle adottate finora, al fine di non vanificare gli importanti risultati fin qui ottenuti, a partire dal 2004, negli istituti penitenziari interessati. Giustizia: Tribunale Sorveglianza di Roma "no a revoca del regime di 41 bis per Provenzano" Agi, 8 gennaio 2015 "Il Collegio ritiene che le restrizioni trattamentali in esame siano pienamente giustificate e funzionali rispetto alla finalità di salvaguardia dell'ordine e delle sicurezza pubblica, sussistendo il pericolo di continuità di relazioni criminali tra Bernardo Provenzano e la potente organizzazione di appartenenza, che annovera latitanti di massimo spicco (quale Matteo Messina Denaro); con la conseguenza che il regime speciale di cui all'articolo 41 bis deve essere confermato". Lo sostiene il Tribunale di sorveglianza di Roma rigettando il reclamo proposto dai difensori di Bernardo Provenzano contro la proroga del regime di carcere duro. Il capomafia corleonese è attualmente detenuto presso il carcere milanese di Opera, nel reparto di medicina protetta dell'ospedale San Paolo e in regime di 41 bis. I giudici del Tribunale di sorveglianza prendono atto, dalla relazione del 25 novembre scorso dei sanitari del San Paolo, che "il detenuto trascorre le giornate allettato alternando periodi di sonno e vigilanza... l'atteggiamento del paziente, le condizioni neurologiche primarie e la storia clinica lasciano supporre un grave decadimento cognitivo". Tuttavia, secondo i giudici che hanno rigettato il reclamo, "tali condizioni non consentono di ritenere venuto meno il pericolo che il detenuto, capo indiscusso da tempo remoto dell'associazione Cosa Nostra - possa mantenere contatti con l'organizzazione criminale". I giudici del Tribunale di sorveglianza sostengono che "invero, la valutazione dei sanitari, formulata comunque in termini supposizione circa il grave deterioramento cognitivo... indica non già la totale incapacità di attenzione e orientamento spazio temporale, bensì il degrado, tra l'altro neanche quantificato, delle funzioni attentive e cognitive, tale da non escludersi del tutto e in termini di assoluta certezza che il medesimo non possa impartire direttive di rilevanza criminale o strategiche per le attività dell'organizzazione attraverso i familiari o persone di fiducia". I magistrati ritengono, respingendo il reclamo, che si sia in presenza di un quadro sanitario non ostativo alla sempre possibile veicolazione all'esterno di messaggi, indicazioni, direttive criminali, che "essendo provenienti dal capo supremo di Cosa Nostra, soggetto depositario di innumerevoli segreti e conoscenze... È di tutta evidenza - scrivono nell'ordinanza di rigetto - che, anche una esternazione apparentemente frammentaria e semplice, assumerebbe una valenza estremamente significativa e pericolosa se fatta pervenire con qualunque mezzo all'interno dell'organizzazione criminale, solo sulla base della mera provenienza da Bernardo Provenzano". Bernardini (Radicali): la conferma del 41-bis a Provenzano è decisione sconcertante "Appaiono sconcertanti le motivazioni con le quali il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha confermato il 41-bis a Bernardo Provenzano. La proroga del "carcere duro" ad un ultraottantenne incapace di intendere e di volere, alimentato artificialmente e allettato, offende l'intelligenza ed è la dimostrazione del basso livello di democraticità del nostro Stato che usa metodi peggiori di quelli delle cosche per contrastare la criminalità organizzata di stampo mafioso". Lo dichiara in una nota Rita Bernardini, segretaria nazionale di Radicali italiani. "In un attimo di lucidità Bernardo Provenzano potrebbe ancora impartire direttive criminali", così i giudici motivano il loro provvedimento, palesemente dimostrando l'inefficienza di uno Stato che - denunciano i Radicali - senza la gabbia di vetro del 41-bis, non è in grado di stoppare il passaggio di un pizzino che peraltro Provenzano non è nemmeno in grado di scrivere". "Ciò che rattrista di più è che, nonostante tutti questi magistrati ‘lottatori', la criminalità mafiosa prospera e si diffonde in ogni angolo nel Paese - conclude Rita Bernardini - a scapito dello Stato democratico sempre più anoressico, ormai agonizzante". Legale: conferma 41-bis Provenzano è insulto a logica "Di fronte ad una decisione come questa mi viene da chiedere: a chi giova una motivazione cosi'? Si puo' dire che, se questi sono i provvedimenti, allora dovremmo stare molto attenti a tutti i rinnovi di 41 bis?". Non usa mezzi termini l'avvocato Rosalba Di Gregorio, legale di Bernardo Provenzano, per commentare la decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma di rigettare la richiesta di revoca del regime di carcere duro a cui è sottoposto l'anziano e malato boss corleonese. "Avevamo chiesto -aggiunge il legale- una perizia che non è stata realizzata. Avevamo inoltre chiesto di acquisire i colloqui videoregistrati, avvenuti con i parenti, al fine di verificare l'effettivo stato di Provenzano. Ricorreremo in Cassazione. Per gli insulti alla logica -conclude il legale- non occorre parlare, basta leggere il provvedimento". Giustizia: Bernardo Provenzano rimane al 41 bis, così muore il diritto di Maria Brucale e Rosalba Di Gregorio Il Garantista, 8 gennaio 2015 Per i medici il corleonese non sa più parlare, non risponde agli stimoli, ma per i giudici è ancora in grado di fare il boss. Bernardo Provenzano deve crepare al 41 bis. Così ha deciso il Tribunale di Sorveglianza di Roma nel respingere il reclamo presentato dai suoi legali. Nel chiedere la revoca del regime di detenzione speciale, ormai oltre un anno addietro, i legali avevano allegato la relazione dei sanitari che avevano in cura Provenzano: "Grave decadimento cognitivo e sindrome ipocinetica, dovuta a sindrome estrapiramidale ed agli esiti di una devastante emorragia cerebrale, neoplasia prostatica in trattamento ormono-soppressivo". Avevano sollecitato la trattazione dell'udienza ricevendo come risposta che le condizioni di salute del soggetto non avevano rilievo per valutare la legittimità del 41 bis. La prima udienza di trattazione, il 20 giugno scorso, veniva rinviata al 3 ottobre, poi di nuovo al 5 dicembre. Il Tribunale aveva richiesto al San Paolo di Milano, nel reparto detentivo del quale si trova Provenzano, "informazioni più dettagliate e precise in ordine alla storia clinica, alla diagnosi, alle patologie riscontrate, con indicazione di esami clinici e strumentali effettuati e relativi esiti soprattutto in merito alle patologie neurologiche". E le informazioni erano arrivate: "Paziente solo a tratti contattabile, non esegue gli ordini della visita; si oppone all'apertura delle palpebre. Muove spontaneamente gli arti superiori e ruota i globi oculari in tutte le direzioni. L'eloquio è incomprensibile per afonia e disartria. Non può eseguire ordini o fornire risposte". Nel frattempo, il Tribunale di Milano incaricava medici specialisti perché redigessero una perizia, le cui conclusioni, depositate ai Giudici di Roma, erano del seguente tenore: "Per ciò che concerne le problematiche di natura cognitiva i periti hanno ribadito la valutazione di uno stato cognitivo gravemente ed irrimediabilmente compromesso ed annotato come il paziente, all'atto della visita peritale, "è risultato risvegliabile ma sostanzialmente non contattabile, con eloquio privo di funzione comunicativa, probabilmente confabulante, incapace di eseguire ordini semplici. Tale condizione risulta di fatto evoluta in senso peggiorativo rispetto a quanto descritto nella valutazione neuropsicologica dell'aprile 2014. Anche la collaborazione appare oggi sostanzialmente non valutabile per l'incomprensibilità della produzione verbale". Tutti i medici e i sanitari interpellati, ritenevano che il malato fosse del tutto incompatibile con qualunque regime carcerario ed in progressivo peggioramento. Ma il Tribunale di Sorveglianza di Roma, dopo oltre un anno e tre rinvii istruttori ha ritenuto il detenuto ancora pericoloso. Potrebbe ancora mantenere contatti con l'organizzazione criminale! Il gravissimo e irreversibile decadimento cognitivo - attestato dai medici che lo hanno in cura e che lo hanno sottoposto a perizia - che rende l'ex boss privo di funzione comunicativa non basta. Se detenuto in condizioni di alta sicurezza, ma non più in 41 bis - sempre in un reparto di lungodegenza ospedaliera perché staccato dai macchinari che lo tengono in vita morirebbe in poche ore - potrebbe venire in contatto con un sodale che - questo sembrano dire i giudici di sorveglianza - da un movimento dell'arcata sopracciliare potrebbe trarre un comando di mafia. Per sostenere questa incredibile tesi, il collegio di magistrati usa una relazione redatta dalla polizia penitenziaria nella quale agenti deputati al controllo del detenuto hanno affermato di avergli sentito, fino al maggio 2014, proferire alcune espressioni di senso compiuto (sebbene del tutto decontestualizzate, assi sporadiche e frammentarie e, all'evidenza, non rispondenti ad alcuna logica). Ci si domanda come mai affermazioni del medesimo tenore non siano state fatte da alcun soggetto del personale ospedaliero e non si rinvengano nelle relazioni sanitarie. Ma il dato inquietante e decisivo è che, da allora, otto mesi e tre rinvii di udienza sono passati e nel corso di essi il quadro clinico del Provenzano è drammaticamente peggiorato. Da molto tempo Provenzano non è un boss e non è più nemmeno un uomo se a tale concetto si correla la capacità di muoversi, di parlare, di comunicare in qualunque forma, di trasmettere emozioni. Quando il diritto muore lo Stato muore. Ogni volta che un giudice non applica la legge, che si sostituisce ad essa, la giustizia si spegne. Non importa che a subire l'abuso sia un boss, un assassino, un pedofilo, uno stupratore. È un abuso e deve suscitare lo sdegno di chiunque si senta cittadino di un Paese che ha voluto, ha preteso, che anche la magistratura si inchini alla legge. Oggi la giustizia è morta, lo Stato di diritto è morto. In quanti lo piangono? Giustizia: Sippe; la Gazzetta è sbagliata e le magliette della Polpen non costano 480 euro Agenparl, 8 gennaio 2015 Poiché il costo di 480 euro ciascuna delle magliette della polizia penitenziaria era apparso piuttosto elevato, Alessandro De Pasquale, Segretario Generale del Sippe, il 19.12.2014, aveva inviato una email al vice capo vicario del Dap, dott. Luigi Pagano, chiedendo chiarimenti in merito all'assurda vicenda, lo stesso Pagano, rispondendo nella stessa giornata al sindacato, dichiarava che avrebbe dato i dati esatti della questione; dati che purtroppo non sono mai arrivati. Mentre però lo Stato se la prende con comodo nel comunicare i dati corretti - dichiara De Pasquale - la ditta che si è aggiudicata l'appalto scrive al Sippe riferendo che la notizia relativa "ad una aggiudicazione di magliette polo ignifughe per il personale della Polizia Penitenziaria, non corrisponde alla realtà. Per un errore di digitazione sulla Gazzetta Ufficiale, è stato indicato un importo di aggiudicazione di 793.000,00 euro anziché di 79.300,00?. L'azienda ha inviato anche uno stralcio del contratto dal quale si evince l'importo esatto ma, secondo il Sippe, quello che conta per gli italiani è ciò che è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale e fino a quando non se ne provi l'inesattezza, mediante esibizione di atto autentico rilasciato dal Ministro Guardasigilli o dall'archivio centrale dello Stato, tutti gli atti pubblicati si presumono conformi all'originale e costituiscono testo legale. De Pasquale auspica che il Dap e il Ministero della Giustizia rettifichino il testo pubblicato in Gazzetta ufficiale in modo da chiarire la questione agli italiani. Se il vice Capo vicario del Dap Pagano avesse fornito i dati promessi il 19.12.2014 - conclude De Pasquale - la vicenda si sarebbe chiarita già da tempo, senza sollevare alcuna polemica, tanto da necessitare un'interrogazione parlamentare da parte del Movimento cinque stelle della Camera dei Deputati. Valle d'Aosta: il Garante "lavoriamo per migliorare condizioni di vita dei detenuti" www.valledaostaglocal.it, 8 gennaio 2015 Enrico Formento Dojot ha rivolto ai carcerati e alle loro famiglie gli auguri "di un sincero e sereno 2015"; l'affollamento dei penitenziari sta diminuendo ma resta il problema del reinserimento nella società. "Posso assicurare l'impegno dei Garanti per un miglioramento concreto delle condizioni carcerarie". Lo ha detto Enrico Formento Dojot, Garante dei diritti dei detenuti per la Valle d'Aosta, rivolgendo ai carcerati e alle loro famiglie gli auguri "di un sincero e sereno 2015". "So che le mie possono apparire, ai vostri occhi, ancora parole astratte - si legge nella lettera di auguri formulata da Formento Dojot. Si è chiuso un anno fatto di luci ed ombre per i detenuti nelle carceri italiane. Penso, ad esempio, alle misure deflattive dell'affollamento, ma anche alle criticità insorte nell'applicazione dei benefici del nuovo ordinamento penitenziario, nei quali riponete affidamento". "La quasi totalità dei commentatori vede un 2015, in generale, denso di incognite - prosegue il Garante valdostano - soprattutto dal punto di vista della tanto auspicata ripresa dell'economia e, conseguentemente, dell'occupazione, che tanto vi sta a cuore, perché rappresenta lo snodo verso un vero reinserimento nella vita sociale dopo la detenzione". Eppure qualche segnale positivo non manca "e occorre coglierlo - afferma Formento Dojot. L'affollamento sta diminuendo e, nel corso di un incontro con i Garanti, il ministro della Giustizia ha comunicato la sua intenzione di convocare gli Stati generali delle carceri, coinvolgendo tutti gli addetti ai lavori e gli esperti del settore, per una riflessione complessiva sulla detenzione in Italia". Monza: detenuto 28enne si impicca in cella, muore in Ospedale dopo dieci giorni Giornale di Monza, 8 gennaio 2015 Il suicidio di un detenuto ha riacceso i riflettori sul penitenziario di Sanquirico dopo l'allarme lanciato dai Sindacati di Polizia penitenziaria nelle scorse settimane sulla preoccupante escalation di autolesionismo (ben 75 nei primi sei mesi, uno ogni cinque giorni). Martedì 23 dicembre 2014 un recluso di 28 anni, mentre si trovava in infermeria, pochi minuti prima delle 7, ha preso la cintura dell'accappatoio e ha tentato di impiccarsi alle grate. L'uomo è stato soccorso e trasportato al Policlinico di via Amati in codice rosso. È morto in ospedale il 3 gennaio 2015. Venezia: detenuto di 19 anni morto suicida, era in attesa del ricovero in Comunità Ansa, 8 gennaio 2015 L'autopsia effettuata ieri sul corpo del 19enne romeno morto in carcere a Venezia due giorni fa ha confermato che si tratta di un suicidio. Il dato, reso noto dalla procura, emerge dalle risultanze dell'autopsia eseguita dall'anatomopatologo Antonello Cirnelli alla presenza del medico nominato dai genitori del giovane. Il ragazzo, che viveva nel comasco con la madre separata, si era temporaneamente trasferito a Mestre dove stava con il padre, operaio in difficoltà economiche. Proprio qui era stato prelevato dai carabinieri su istanza del Tribunale di Como per dei carichi pendenti relativi a danni al patrimonio. Una volta rinchiuso nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore aveva ottenuto dal Gip di Venezia gli arresti domiciliari ma nelle more del reperimento di una comunità cui affidarlo il giovane si è suicidato nel bagno della cella che condivideva con altri due detenuti usando una striscia di lenzuolo come cappio mentre fingeva di farsi la doccia. Scattato l'allarme, dato dagli stessi, sul posto sono intervenuti i sanitari che hanno constatato la morte; sia la scientifica dell'arma che un primo esame medico sul cadavere alla presenza del Pm Lucia D'Alessandro, avevano già escluso atti di violenza sia da parte della polizia penitenziaria che da altri carcerati. Gli atti, sulla vicenda, saranno trasmessi al Tribunale di Como. Aversa (Ce): internato di 50 anni muore all'Opg, la Procura apre un’inchiesta di Biagio Salvati Il Mattino, 8 gennaio 2015 Sarà un’inchiesta della Procura della Repubblica di Napoli Nord a stabilire le cause della morte di un marittimo di Vico Equense, affetto da turbe psichiche, deceduto nel pomeriggio dell’Epifania nell’Ospedale Psichiatrico di Aversa dove era detenuto da circa dieci anni. Il corpo di Antonio Staiano, 50 anni - questo il suo nome - è stato trovato senza vita dal personale di polizia penitenziaria poco dopo le cinque del pomeriggio del 6 gennaio scorso, durante i controlli di routine degli agenti. I poliziotti hanno notato l’uomo immobile, in una posizione che ha insospettito la divisa e che ha poi trovato riscontro nella constatazione del decesso da parte del medico legale. Staiano, morto apparentemente per una crisi cardiaca, era detenuto nella struttura aversana in quanto accusato del duplice omicidio dei suoi genitori avvenuto nella notte fra il 20 ed il 21 agosto del 2001. Bussò alla porta dei genitori e si scagliò contro la madre, accoltellandola. Fece lo stesso con il padre mentre riuscì a sfuggire alla morte sicura, la sorella. Sposato e all’epoca padre di una bambina di tre anni si costituì al carcere di Poggioreale approdando successivamente all’Opg di Aversa, per il suo stato di infermità mentale dopo una condanna a dieci anni non del tutto scontata. Sul corpo dell’uomo, a quanto si apprende, sarebbe stata disposta un’autopsia per accertare con più precisione i dettagli della morte: un decesso che ha fatto aprire un’inchiesta della Procura competente di Napoli Nord. Nel carcere aversano, infatti, il sostituto procuratore Rossana Esposito ha presenziato al sopralluogo giudiziario protrattosi fino a tarda notte delegando i carabinieri del Ris di Napoli che hanno eseguito una serie di accertamenti fino a tarda notte. Una morte naturale trattata - visto anche il contesto - con un vero e proprio approfondimento sulla dinamica che ha portato al decesso di quell’omone di circa due metri, rinchiuso a scontare la cosiddetta “pena bianca” in una struttura che è stata teatro di diversi decessi (anche suicidi) e inchieste giudiziarie che in passato hanno toccato medici, personale e vertici. Nel fascicolo giudiziario aperto dalla Procura sono confluite anche testimonianze e altri elementi acquisiti dagli investigatori che hanno lavorato usando strumentazioni e apparecchiature dello speciale reparto dell’Arma seguendo un particolare protocollo. Anche l’anno scorso si sono susseguite una serie di decessi naturali mentre uno degli ultimi episodi, legati alla morte dei reclusi, risale a circa due anni fa quando il corpo di un internato fu trovato carbonizzato. La salma di Staiano è stata trasferita presso l’istituto di Medicina Legale di Caserta dove verrà eseguita l’autopsia (per una questione di tutela) tra oggi e domani: un ulteriore passaggio per certificare ulteriormente la causa della morte che è risultata essere per arresto cardiaco. Anche l’Opg aversano, diretto da Elisabetta Palmieri, secondo la legge avrebbe già dovuto chiudere. E invece, 76 campani nel 2013 sono usciti, ma 107 sono entrati a distanza di due anni dall’annunciata chiusura delle sei strutture che nella penisola oggi contengono un migliaio di uomini e donne e avrebbero dovuto cessare le attività già al marzo del 2013: data slittata al marzo del 2015 dopo due proroghe. Intanto, si aprirà il il 27 marzo prossimo, davanti al giudice monocratico del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, il processo a carico dell'ex direttore dell'Opg di Aversa, Adolfo Ferraro (peraltro anche autore di libri tra cui uno sulle storie del manicomio aversano) accusato con altri 17 medici di maltrattamento e sequestro di persona. L'inchiesta nasce da un'ispezione e dalle denunce di alcuni familiari dei pazienti raccolte in un fascicolo della Procura. Si tratta di reati commessi ai danni degli internati, dal 2006 e fino al gennaio 2011. Gli imputati sono accusati, tra l’altro, di aver costretto alcuni internati nei letti di contenzione per periodi temporali e con modalità non consentiti. Catania: Sappe; l'effetto carcere e la sindrome del burnout… dopo l'ennesimo suicidio La Sicilia, 8 gennaio 2015 Il suicidio del poliziotto penitenziario di 46 anni in servizio al nucleo traduzioni della casa circondariale di Catania Bicocca, che si è tolto la vita a bordo della sua auto nelle campagne di Caltagirone, lasciando moglie e due figlie adolescenti, riporta in primo piano il problema delle carceri italiane, dove sempre più spesso detenuti e "custodi" continuano a togliersi la vita nell'indifferenza generale. Donato Capece, segretario generale del Sappe, ha ricordato che "nel 2014 sono stati 10 i casi di suicidio nelle file della Polizia Penitenziaria". Altre cifre parlano di oltre cento poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita dal 200 a oggi. Spesso le cause segrete dietro questi gesti sono da attribuirsi al degrado delle carceri del nostro Paese, dove in condizioni disumane non vivono solo i detenuti - come denuncia continuamente l'Unione europea - ma anche gli agenti della polizia penitenziaria. Condizioni che poi sovente portano a gesti estremi, le cui motivazioni reali spesso restano oscure ma che potrebbero essere spiegati con la cosiddetta sindrome del burnout, ovvero un eccessivo carico emotivo attribuito al lavoro, con assenza di fattori motivanti. Il burnout è legato alle professioni d'aiuto (helping profession). Queste sono le professioni che si occupano di aiutare il prossimo nella sfera sociale, psicologica, etc. Si parla quindi di infermieri, medici, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, preti ecc. Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro stress personale e quello della persona aiutata. Ne consegue che, se non opportunamente trattate, queste persone cominciano a sviluppare un lento processo di "logoramento" o "decadenza" psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato. Letteralmente burnout significa proprio "bruciare fuori". Dunque è qualcosa d'interiore che esplode all'esterno e si manifesta. Burnout è quindi il "non farcela più", l'insoddisfazione e l'irritazione quotidiana, la prostrazione e lo svuotamento, il senso di delusione e di impotenza di molti lavoratori e conduce gli operatori a diventare apatici, cinici con i propri "clienti", indifferenti e distaccati dall'ambiente di lavoro. Se a questo si aggiunge che nel caso dei poliziotti penitenziari, l'ambiente di lavoro è il carcere - dove si condividono spazi ristretti in una nota condizione di sovraffollamento e dove si è sollecitati da richieste plurime, si capisce che il problema non è solo psicologico e va affrontato anche con interventi di carattere organizzativo da parte del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. È per questo che il segretario generale aggiunto del sindacato Osapp, Domenico Nicotra, ha chiesto nuovamente al capo del dipartimento di affrontare seriamente i problemi della polizia penitenziaria che - come ha ricordato Donato Capece - è uno dei cinque Corpi di Polizia dello Stato italiano. Chieti: negato permesso per i funerali della nonna, 21enne tenta il suicidio in carcere Corriere dell'Abruzzo, 8 gennaio 2015 Donato Colasante, 21enne di Guardiagrele, ha provato a togliersi la vita tagliandosi le vene nel carcere di Madonna del Freddo a Chieti, dopo che gli è stato vietato di partecipare ai funerali della nonna. Il giovane, che ora versa in condizioni critiche nell'ospedale clinicizzato teatino, è detenuto in quanto accusato insieme a Davide Nunziato di aver intimidito con una finta bomba l'ex segretario nazionale della Cisl Raffaele Bonanni. Il 21 marzo scorso i due avrebbero piazzato il falso ordigno esplosivo nei pressi dell'abitazione estiva del sindacalista abruzzese a Francavilla al Mare. Dopo che il suo avvocato Graziano Benedetto gli ha comunicato che la Procura Distrettuale Antimafia dell'Aquila gli aveva negato il permesso di rendere omaggio alla nonna paterna Lucia, deceduta l'altro ieri all'età di 78 anni e alla quale era legato da un affetto quasi morboso, in preda alla disperazione Colasante si è tagliato le vene di un avambraccio al fine di dissanguarsi. Prontamente soccorso dalla guardie carcerarie all'alba di ieri, il ragazzo è stato trasportato d'urgenza al policlinico teatino dove è stato sottoposto ad un delicato intervento chirurgico per ricucire i vasi sanguigni danneggiati. A seguito di un breve periodo di rianimazione, il 21enne è stato trasferito nel reparto di chirurgia vascolare, anche se i medici si sono riservati la prognosi. Tra l'altro, il giovane è tossicodipendente e da qualche giorno era finito in crisi di astinenza dopo la sospensione della terapia a base di metadone. Radicali: irragionevole decisione dei giudici "Il tentativo di suicidio da parte di un giovane detenuto a Chieti a cui è stato negato il diritto di far visita alla salma dell'amata nonna, colpisce per non solo per l'irragionevolezza della decisione dei giudici ma, soprattutto, per l'accanimento che si è dimostrato verso un ragazzo, appena ventunenne, detenuto in attesa di giudizio e, quindi, tecnicamente tuttora innocente". Lo affermano in una nota congiunta Dario Boilini, segretario dell'associazione Radicali Abruzzo e membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani e Alessio Di Carlo, membro di Giunta di Radicali Italiani. "Purtroppo, pero', anche nelle aule di giustizia della nostra regione - proseguono - il principio di presunzione di innocenza viene sistematicamente calpestato: e questo nell'indifferenza della classe politica che da oltre tre anni deve nominare il garante regionale dei detenuti il quale potrebbe efficacemente monitorare lo stato generale della detenzione carceraria abruzzese per evitare che accadano tragedie come quella, fortunatamente appena sfiorata, avvenuta ieri a Chieti". Torino: ricoveri di detenuti ridotti a un terzo, quasi dimezzate spese per la gestione sanitaria di Claudio Laugeri La Stampa, 8 gennaio 2015 L'invio di detenuti in ospedale ridotto a un terzo in meno di due anni, la spesa per la sanità in carcere passata da 10 a sei milioni di euro. A parità di servizi. "Ma abbiamo ancora molto lavoro da fare per razionalizzare la spesa" spiega Roberto Testi, direttore del dipartimento Tutela della salute e direttore della Medicina legale della Asl2, che da pochi giorni ricopre anche l'incarico di responsabile sanitario per il "Lorusso e Cutugno". In attesa di un concorso, sostituisce la collega Lucia Casolaro, che aveva gestito la struttura negli ultimi cinque anni con un incarico appena scaduto e non rinnovabile. Già da tempo, i sindacati della polizia penitenziaria (in particolare l'Osapp) e la stessa Asl2 (diretta da Maurizio Dall'Acqua) avevano sollevato perplessità sul frequente invio di detenuti in ospedale. Sia chiaro, il principio della cura è sacrosanto: per quanto possibile, chi è in carcere ha diritto alle stesse attenzioni di chi sta fuori. E l'infermeria non può avere le attrezzature né gli specialisti di un ospedale. Nonostante questo, dai 271 (23 in media ogni mese) ricoverati al Maria Vittoria nel 2012, l'ospedale è passato a ospitarne 93 (8 al mese). La cifra dei trasporti dal carcere al pronto soccorso, però, è un po' più alta. "Calcoliamo che almeno l'80 per cento resta in osservazione per 24 ore" spiega Testi. Una precauzione necessaria, quando i problemi segnalati siano potenzialmente gravi. E questo accade sovente: la maggior parte chiede aiuto per dolori al petto oppure all'addome, assai difficili da valutare senza esami radiografici. "Abbiamo istituito anche un piccolo presidio di emergenza, proprio per valutare al meglio le situazioni ed evitare trasferimenti inutili" spiega ancora Testi. E non solo. Per quanto riguarda i problemi al cuore, i medici del "Lorusso e Cutugno" fanno in infermeria gli elettrocardiogrammi e prelevano gli enzimi cardiaci, che inviano in ospedale per le analisi. In questo modo, è possibile evitare il trasferimento del detenuto, fino al momento della terapia oppure della visita specialistica, decisa dopo aver valutato il quadro clinico. C'è ancora un problema, però, che nessuno ha risolto. Un anno fa, la direzione del carcere (in accordo con Asl e provveditorato regionale delle strutture penitenziarie) aveva inaugurato il "superwc", studiato per trattare con getti d'acqua ad alta pressione gli escrementi dei detenuti sospettati di aver ingoiato "ovuli" di droga. Un macchinario "gemello" è utilizzato dal Cto. E funziona. Quello del "Lorusso e Cutugno" fa cilecca: pressione dell'acqua troppo bassa. Problema segnalato anche dal sindacato Osapp. "Mi sono informato, ho contattato tecnici, mi sono anche dichiarato disponibile a pagare una pompa ausiliaria. Ho saputo più nulla" dice il direttore generale Dall'Acqua. Addirittura, alcuni mesi fa la direzione del carcere aveva rassicurato il provveditore sul fatto che il "superwc è perfettamente funzionante". Sarà, ma fino a ieri gli agenti di polizia penitenziaria sono stati costretti a fare senza. Palermo: l'Ucciardone cambia volto e diventa Casa di reclusione di Alessandra Ziniti La Repubblica, 8 gennaio 2015 Il "Grand hotel Ucciardone", come lo chiamavano i boss quando, per motivi di giustizia erano costretti ad "andare in villeggiatura" non esiste ormai più da molti anni. Ma adesso c'è un altro pezzo di Palermo nell'immaginario collettivo che tramonta: ed è lo spauracchio di quel vecchio carcere borbonico da sempre meta del classico "s'u purtaru", espressione dialettale utilizzata quando nelle case nottetempo bussavano polizia, carabinieri o guardia di finanza e arrestavano qualcuno. Dal primo gennaio, il carcere dell'Ucciardone ha cambiato definitivamente il suo volto: non più casa circondariale ma casa di reclusione, il che significa che nei suoi bracci verranno ospitati solo detenuti definitivi, dunque coloro che dovranno espiare la pena, e non più gli arrestati in regime di custodia cautelare, che saranno invece destinati al carcere di Pagliarelli che ospiterà anche una sezione per detenuti definitivi. "Quello che è sempre stato il carcere simbolo di Palermo cambierà radicalmente - spiega Maurizio Veneziano, responsabile del Dipartimento affari penali in Sicilia - grazie alla rivisitazione delle strutture penitenziarie disponibili in Sicilia, siamo finalmente riusciti a differenziare la stessa natura dei due istituti di pena di Palermo e adesso l'Ucciardone sarà votato alla filosofia del recupero del detenuto in espiazione pena con una serie di attività che verranno ospitate in una delle sezioni che stiamo ristrutturando, la quinta, dove ci saranno dalle aule di insegnamento ai laboratori professionali. E in ristrutturazione sono anche altre due sezioni, la sesta e la settima dove contiamo di ricavare altri 108 posti per ognuna e soprattutto a garantire le condizioni di una detenzione civile così come previsto dalle direttive della comunità europea". Solo detenuti definitivi dunque all'Ucciardone, ma non "eccellenti". Nelle sezioni dello storico carcere borbonico costruito nei primi dell'Ottocento alla fine di via Enrico Albanese in un vecchio campo di cardi (in francese chardon, da cui il nome ‘U ciarduni), andranno solo uomini chiamati a scontare pene per reati comuni. Niente a che vedere con gli ospiti di questa vecchia struttura che hanno segnato la storia dell'Ucciardone, i grandi boss di Cosa nostra che, alla settima sezione, ricevevano i "picciotti" nelle loro celle in vestaglia di seta e banchettavano a champagne e aragosta che i familiari facevano giungere in quantità da fuori in via Albanese numero 14, e che si facevano persino cucinare. A Tommaso Buscetta, nella seconda metà degli anni Settanta, colazione, pranzo e cena arrivavano ogni giorno da uno dei più noti ristoranti di Palermo. Nessuno dei capi di Cosa nostra, per principio, si degnava di mangiare il "rancio del governo", troppo disonorevole. E la potenza di un boss detenuto in quegli anni si misurava anche da quello che riusciva a ottenere in carcere, dagli abiti firmati, al cibo e - si dice - ogni tanto persino delle donne. All'Ucciardone i mafiosi "si facevano il carcere con dignità" mentre continuavano tranquillamente a gestire i loro affari e persino a regolare i loro conti in perfetta sincronia con chi stava fuori: in cella fu assassinato a colpi di padella Vincenzo Puccio mentre nelle stesse ore suo fratello Pietro veniva assassinato al cimitero dei Rotoli nel momento in cui pregava sulla tomba della madre. Non erano ancora i tempi del 41 bis e per quanto incredibile possa sembrare persino i boss latitanti riuscivano a entrare per andare a trovare gli "amici", come fece un giorno Saro Riccobono in visita all'amico Gaspare Mutolo. Fu all'Ucciardone che i capi della Cupola brindarono a champagne alla morte di Giovanni Falcone prima e a quella di Paolo Borsellino dopo subito, prima di essere portati tutti via in una notte nelle carceri di Pianosa e dell'Asinara quando il 41 bis cancellò per sempre i fasti del "Grand Hotel Ucciardone". Adesso, con i suoi 600 detenuti comuni in regime di espiazione pena, l'Ucciardone limiterà il suo contatto con i mafiosi solo ai processi ospitati in un altro pezzo di storia di quelle mura, l'aula bunker che fu teatro del maxiprocesso a Cosa nostra. Verona: i Radicali Lucchiari, Martini, Sacco e Boldo hanno visitato il carcere di Montorio www.radicali.it, 8 gennaio 2015 Lunedì 5 gennaio una delegazione del Partito Radicale, composta da Maria Grazia Lucchiari, Sergio Martini, Antonella Sacco e Tiziana Boldo ha effettuato una visita ispettiva al carcere di Montorio (Verona). La visita, durata più di 6 ore, è iniziata dal carcere femminile - che ospita oggi 57 detenute, di cui solo 10 impiegate in lavori manuali, per poi passare in infermeria dove si rilevano le situazioni di maggiore disagio: anche 3 detenuti per cella fra cui un cardiopatico, un detenuto affetto da hiv, ritenuto non compatibile con gli altri dal medico del Sert, un altro con sospetto di tbc e un caso di scabbia contratta nelle docce. Una detenuta presenta patologia accertata di schizofrenia e anoressia, un detenuto è da quattro giorni in sciopero della fame per le mancate cure di una patologia renale. Il settore maschile conta 568 detenuti di cui più di 400 extracomunitari e solo una settantina impiegati lavorativamente. Tutti i detenuti lamentano la scarsità di educatori e psicologi nonché l'assenza della figura del mediatore culturale. Per quanto riguarda le strutture, nel settore maschile si arriva ad un sovraffollamento con quattro detenuti per cella, manca l'acqua calda per l'igiene personale e la notte il riscaldamento viene abbassato per cui l'ambiente risulta gelido. Per alcuni è impossibile telefonare a casa ai famigliari. Tutti sono concordi nel sottolineare la disponibilità e la competenza del personale carcerario che con sensibilità assolve i compiti di un lavoro spesso molto duro e poco appagante. Roma: Ass. "A Roma, Insieme" confortati da parole assessore su servizio trasporto bambini Ristretti Orizzonti, 8 gennaio 2015 Interruzione del servizio di trasporto dei bambini 0 a 3 anni della Sezione Nido della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia. Apprezzamento dell'Associazione "A Roma, Insieme - Leda Colombini" delle dichiarazioni dell'assessore ai Servizi Sociali di Roma Capitale, Francesca Danese. Le dichiarazioni della neo Assessora Francesca Danese, in ordine all'emergenza rappresentata dalla ventilata interruzione del servizio trasporto dei bambini, detenuti con le loro madri nel Nido di Rebibbia femminile, ci conforta. Apprezziamo in particolare il Suo dichiarato impegno ad operare, nell'ambito delle proprie responsabilità istituzionali, per rendere finalmente attuativa la legge 62 del 2011, finora rimasta immotivatamente sulla carta. L'Assessora Danese, nello sforzo teso a realizzare tali impegni, troverà al suo fianco l'Associazione "A Roma, Insieme - Leda Colombini". L'augurio sincero è che il nuovo anno rappresenti per i tanti e diversi soggetti, che a vario titolo si sono negli anni impegnati per rendere meno dolorosa la condizione di bambini che, senza colpa, vivono dietro le sbarre, un terreno più avanzato e fruttuoso per il riconoscimento dei diritti e della dignità dell'infanzia. Parma: il direttore ai Radicali "presto risolto rischio back-out telecamere del carcere" Ansa, 8 gennaio 2015 Il problema della videosorveglianza nel carcere di Parma, dove sono detenuti boss di calibro e il presunto capo di Mafia Capitale Massimo Carminati, "è un problema tecnico che verrà risolto in brevissimo tempo". Ad assicurarlo oggi all'esponente dei Radicali Marco Maria Freddi, è stato il direttore del penitenziario di Parma, Mario Antonio Galati. "Sono appena rientrato da una visita al carcere di Parma - spiega Freddi, segretario dei Radicali a Parma - abbiamo visitato alcune celle destinate al carcere duro, il 41 bis, e l'infermeria. Le condizioni del carcere sono buone: le celle sono pulite, ordinate; ogni cella del 41 bis ha il bagno e un piccolo televisore. I problemi legati al sistema di video sorveglianza e video registrazione a rischio continuo di black-out sono dovuti ai lavori nella nuova ala del carcere, lavori che sono al momento fermi. Ma il problema, mi è stato assicurato, verrà risolto nel giro di poco tempo". La questione era stata sollevata nei giorni scorsi dal deputato Pd Davide Mattiello, componente delle commissioni Giustizia e Antimafia, che a Parma aveva incontrato il presunto boss di Roma Capitale Massimo Carminati. Il carcere di Parma conta al momento 537 detenuti di cui circa la metà è in regime di 41 bis o in alta sicurezza. "Il direttore ci ha comunicato - ha aggiunto Freddi - che nel giro di due settimane entrerà in vigore anche in questo penitenziario la sorveglianza dinamica, grazie alla quale i detenuti "comuni", con un percorso di auto-responsabilizzazione, svolgeranno nel carcere, per 8 ore giornaliere, una serie di attività di formazione e di riabilitazione. Siamo grati al direttore Galati - ha concluso l'esponente dei Radicali - di aver consentito in tempi brevissimi questa nostra visita al carcere, siamo lieti per queste novità che arriveranno a breve e siamo dispiaciuti per il fatto che non rimarrà a lungo a dirigere il penitenziario. Rimaniamo sempre in attesa che il legislatore decida di evitare il carcere ad una miriade di reati prevedendo pene alternative". Firenze: i Radicali "le parole del cardinal Betori sulle carceri siano utili ai politici" www.gonews.it, 8 gennaio 2015 Dopo l’omelia di ieri, i radicali fiorentini Maurizio Buzzegoli, segretario dell’Associazione “Andrea Tamburi”, e Massimo Lensi, componente del Comitato nazionale di Radicali Italiani, hanno voluto ringraziare l’Arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, per le parole sulla disumanità delle carceri. Salerno: infermiere e agente aggrediti da detenuto nella medicheria del carcere di Petronilla Carillo Il Mattino, 8 gennaio 2015 Un infermiere preso a pugno e un agente della polizia penitenziaria spedito in ospedale con una prognosi di dieci giorni per un problema al ginocchio. È l'esito dell'ennesima violenza avvenuta all'interno del carcere di Fuorni dove un detenuto ha picchiato i due uomini per "futili motivi". È accaduto domenica scorsa ma soltanto ieri il fatto è stato denunciato dal segretario regionale del Sappe, Emilio Fattorello. Il detenuto in questione è di quelli definiti in lessico detentivo, "giudicabili", in carcere per reati comuni. Secondo la ricostruzione fatta dagli agenti della penitenziaria, l'uomo era finito in infermeria per essersi ustionato con l'acqua bollente mentre, in cella, preparava la pasta. Così è stato soccorso dall'agente poi ferito e da lui accompagnato in medicheria. Qui, una parola tira l'altra, ha avuto un diverbio con l'infermiere per futili motivi e lo ha pestato con calci e pugni. L'agente penitenziario se n'è accorto ed è intervenuto ma il detenuto lo ha violentemente spinto causandogli problemi alla gamba, per i quali nei prossimi giorni sarà sottoposto ad ulteriori accertamenti. "È nell'ennesimo atto di violenza all'interno del carcere di Fuorni - denuncia il segretario regionale Sappe, Emilio Fattorello - uno dei tanti. E tutto ciò perché, nonostante le nostre ripetute denunce, nulla si muove e l'organico resta sempre sottodimensionato". Per Fattorello la situazione a Fuorni è al collasso: "Sono almeno 25 le unitò mancanti e in più c'è anche un problema organizzativo. Nel senso che ancora non siamo stati convocati dalla dirigenza per approntare un adeguato programma di organizzazione del lavoro, condizione indispensabile per garantire una maggiore qualità nell'attività professionale e una maggiore tutela e sicurezza sul posto di lavoro per il nostro personale". E prosegue: "Non è la prima volta che a Salerno accadono episodi di questo tipo. Anzi. Spesso i nostri agenti si ritrovano anche a dover gestire detenuti con problemi psichiatrici. E se questa è la situazione nel carcere di Fuorni, non mancano i problemi a livello di amministrazione centrale: ancora non è stata istruita la pratica per il riconoscimento al collega delle lesioni riportate in servizio". Fermo (Ap): i detenuti si raccontano nel giornale "L'Altra chiave news", uscito nuovo numero www.informazione.tv, 8 gennaio 2015 È uscito in questi giorni il quarto numero de "L'Altra chiave news", la rivista realizzata da alcuni detenuti nella casa circondariale di Fermo. Tema di questo numero, la vita tra dentro e fuori, il racconto di chi sta vivendo misure alternative per scontare la propria pena e di chi tenta la difficile ricostruzione di un percorso di vita positivo. Le fotografie portano la firma di Andrea Braconi che ha saputo catturare immagini in bianco e nero di grande impatto emotivo, i testi sono realizzati dagli stessi detenuti, una decina, che hanno chiesto di far parte della redazione. Grande la soddisfazione della direttrice del carcere, Eleonora Consoli, che parla di una iniziativa che aiuta i detenuti a lavorare sul loro destino: "Siamo riusciti anche ad avere qualche risultato concreto, i detenuti lavoranti hanno avuto la possibilità di dipingere le camere detentive e la sezione, le prime di bianco e la seconda di un colore che dà luce. Con i fondi avuti dal Provveditorato regionale abbiamo aperto un locale comune per i detenuti del primo piano che non avevano spazi per la socialità e stiamo sistemando il tetto della palestra che nei giorni di pioggia creava problemai. Tra tante difficoltà si va avanti e i risultati si vedono". Intanto sono appena trascorse le feste di Natale, l'ultimo giorno dell'anno è passata in visita ai detenuti il consigliere regionale Letizia Bellabarba che ha voluto augurare un anno migliore al gruppo della redazione de L'Altra chiave news. Una visita che i detenuti hanno particolarmente apprezzato: "L'abbiamo sentita veramente solidale e sincera, ha speso un po' del suo tempo in questi giorni di festa per noi e gliene siamo grati davvero, ci ha detto che apprezza molto gli sforzi che facciamo per reagire nel modo più positivo possibile a questa situazione. Già tante volte è stata tra noi per ascoltare le nostre esigenze e le difficoltà e per noi la sua vicinanza è importante, ci fa sentire persone come tutti e come tutti degni di attenzione". Pisa: Ben e Buffy, nel carcere Don Bosco per regalare un sorriso ai detenuti di Alessio Ante La Nazione, 8 gennaio 2015 Questo è il lavoro di Ben e Buffy, la sensazione di libertà che sanno donare gli amici a 4 zampe di Do Re Miao. Vanno nel carcere Don Bosco a confortare i detenuti, sono i nostri amici a quattro zampe. "Ben e Buffy, due bellissimi Golden Retriever di 10 anni che fanno veri e propri miracoli - racconta Barbara Bollettini, presidente dell'associazione " Do Re Miao" che con orgoglio dichiara - il cane non ti chiede chi sei, cosa hai fatto o perché sei in prigione. Non ti giudica, ma offre ai detenuti la sua amicizia". Da anni infatti l'associazione ed i cani affiancano con costanza chi, ospite forzato del carcere Don Bosco, ha deciso di ripartire da zero. Basta una carezza, a volte, o qualche esercizio con Ben, Buffy ed i loro conduttori Flavio Langone e Francesco Romano, per avere la sensazione di libertà oltre le sbarre. "Un ragazzo che prima di conoscere la nostra associazione aveva sempre rifiutato di seguire qualsiasi attività all'interno del carcere - continua la dottoressa Bollettini - quando ha conosciuto i nostri cani qualcosa è cambiato in lui. Qualche tempo dopo ha ottenuto gli arresti domiciliari e, grazie ai volontari e al direttore del carcere, gli è stato concesso il permesso di uscire per accompagnare i cani, chiaramente in orari stabiliti e controllati. Forse, senza Ben e Buffy, quel ragazzo sarebbe ancora vittima del clima di solitudine che attanaglia i carcerati. Varese: "Dona un francobollo", aiuta un detenuto a spedire una lettera ai suoi cari www.varesenews.it, 8 gennaio 2015 Chi è in carcere non può utilizzare internet, mail e sms. L'unico modo per comunicare i sentimenti privatamente è la tradizionale lettera di carta. Il progetto "Dona un francobollo" serve a questo Chi è detenuto in carcere non può utilizzare internet, mail e sms. Può utilizzare il telefono solo per dieci minuti alla settimana e avere colloqui per un totale di 6 ore al mese. L'unico modo per comunicare i sentimenti privatamente con i famigliari è la tradizionale lettera di carta. Il progetto "Dona un francobollo" serve a questo, un gesto semplice che può dare felicità ai detenuti. Per chiunque volesse contribuire si può lasciare il francobollo nell'apposita cassetta presso il carcere dei Miogni di Varese, consegnarlo ai volontari o al cappellano del carcere don Marco Casale presso la segreteria della parrocchia della Brunella (via Marzorati 5 Varese, dal lunedì al sabato dalle 10 alle 12 dalle 16 alle 18). Nel caso si vogliano dare contributi e offerte economiche è possibile farlo a questo Iban: IT11P0306910810000028365132. Intesa San Paolo. L'associazione assistenti carcerari e il cappellano promuovono altre attività come la raccolta di vestiario maschile, prodotti per l'igiene personale e di cancelleria, oltre al corso di italiano per detenuti stranieri, la redazione del notiziario "9m news", la catechesi, l'animazione della messa domenicale e progetti per la manualità. India: per i marò la giustizia indiana funziona con bastone e carota di Antonio Angeli Il Tempo, 8 gennaio 2015 Prima la "linea dura", poi la mano tesa in modo umanitario: la giustizia Indiana continua (ormai da molto tempo) a sferzare i nostri marò, Latorre e Girone, e poi a rassicurarli, con dimostrazione di amicizia. Un copione che va avanti ormai da tre anni. Su richiesta dei legali di Massimiliano Latorre, la Corte Suprema indiana si è detta ieri disponibile a discutere l'eventualità di una proroga al permesso di restare in Italia per cure mediche concesso al marò italiano, ingiustamente accusato della morte di due pescatori nel Kerala. La notizia è stata pubblicata dal quotidiano "The Hindu". L'udienza fissata dalla Corte si terrà il prossimo 12 gennaio che, casualmente, è l'ultimo giorno utile, visto che il rientro di Latorre era previsto per il 13 (anche se ha già ottenuto una mini-proroga di tre giorni, quindi avrebbe tempo per rientrare fino al 16). La notizia è stata confermata dalla Farnesina: "L'Italia ha presentato una nuova petizione", ha detto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ieri durante la commemorazione a Reggio Emilia della nascita del Primo Tricolore. "Le condizioni di salute di Massimiliano Latorre sono sotto gli occhi di tutti - ha aggiunto Gentiloni - l'altro ieri è stato sottoposto ad un nuovo intervento al cuore, quindi ci sono tutte le ragioni da parte dell'Italia per proporre una nuova petizione, cosa che abbiamo fatto stamattina e che verrà discussa lunedì". Sulla vicenda dei marò Gentiloni, che sin dal suo insediamento ha precisato che questa per lui è una vicenda primaria, ha spiegato: "Si sta discutendo da tempo con l'India, i risultati finora ottenuti non sono stati soddisfacenti. Tuttavia il dialogo è in corso, dal punto di vista innanzitutto umanitario ci aspettiamo una risposta dalla Corte Suprema indiana alla richiesta che abbiamo fatto stamattina. Per il resto - ha detto ancora Gentiloni - continuiamo il dialogo con le autorità indiane che finora non ha dato risultati che ci aspettavamo: per questa ragione, prima di Natale, abbiamo richiamato il nostro ambasciatore per le consultazioni". L'insoddisfazione di Gentiloni è ben giustificata: le autorità indiane sembrano adottare il sistema del "bastone e della carota": alternano momenti di estrema durezza, durante i quali alcuni politici sembrano dare per scontata la colpevolezza (mai dimostrata) dei nostri militari a dimostrazioni di cordiale disponibilità. Il Cocer, il sindacato delle stellette, in merito ha chiesto un incontro con il governo e il senatore Maurizio Gasparri ha detto che "bene fanno i Cocer a chiedere un confronto sulla drammatica vicenda dei due fucilieri di Marina e ritengo più che doveroso che le commissioni Difesa di Camera e Senato incontrino i rappresentanti dei Cocer sul sequestro dei Marò. A tal fine - ha aggiunto - come membro della commissione Difesa e vicepresidente di Palazzo Madama, ho esortato i presidenti Latorre e Vito ad assumere le necessarie iniziative". L'eurodeputato della Lega Nord, Mario Borghezio, afferma invece che "la questione legata al rientro in India del marò Latorre, tra scadenze e possibili rinvii dell'ultim'ora, dimostra che la misura è colma. Per questo lanciamo un ultimatum al Governo: è bene che quel fantoccio di Renzi sappia che i patrioti non resteranno con le mani in mano". E ancora: "La decisione della Corte Suprema indiana di discutere l'estensione del permesso di Latorre il 12 gennaio non è un segnale distensivo, ma solo un modo degli indiani di prendere tempo, ingarbugliando ancora di più una situazione a dir poco ridicola - ha aggiunto Borghezio - Dopo i miei interventi nei confronti del presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz e del presidente dell'Afet Elmar Brok, prosegue il mio impegno al fianco dei nostri due fucilieri: parteciperò a Roma ad una conferenza per chiederne la liberazione, mentre la prossima settimana farò sentire la mia voce a Strasburgo. È il momento di agire". India: caso marò "Li vogliamo liberi", oggi a Roma convegno dell'Associazione Sovranità Adnkronos, 8 gennaio 2015 Organizzato dall'Associazione Sovranità, che lancerà anche un boicottaggio dei prodotti indiani. "Il caso dei due fucilieri di Marina Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, da tre anni ingiustamente detenuti in India, solleva una questione di giustizia, di libertà e soprattutto di politica sovranista". Per ribadire tutto ciò, l'associazione "Sovranità" affronterà il caso nel corso del convegno intitolato "I Marò sono innocenti e li vogliamo liberi subito!", che si terrà oggi, 8 gennaio, alle 17.30, presso il Centro Congressi Cavour a Roma, in via Cavour numero 50. Alla conferenza interverranno il perito giudiziario Luigi Di Stefano, il generale di brigata Fernando Termentini, l'eurodeputato della Lega Mario Borghezio e il direttore de Il Tempo Gianmarco Chiocci. "Nel corso del convegno - spiega l'associazione Sovranità - verrà lanciata una campagna di boicottaggio dei prodotti indiani o prodotti in India, per far sì che la fermezza che non ha mostrato finora il governo sia mostrata dal popolo italiano". Francia: la situazione delle carceri, seppur precaria, è migliore di quella italiana di Paolo Padoin www.firenzepost.it, 8 gennaio 2015 Un antico proverbio dice che tutto il mondo è paese. La saggezza del detto dei nostri nonni è confermata da un articolo apparso sul giornale parigino "Le Monde" in tema di sovraffollamento delle carceri. Sembra di leggere gli articoli che impazzano periodicamente in Italia quando diversi ministri della giustizia, che si succedono nell'incarico, promettono di ridurre il numero delle persone ospitate nei nostri penitenziari. Cosa dice in sostanza il quotidiano francese? Che il sovraffollamento delle carceri è ancora una realtà in Francia, anche se il numero di detenuti al 1° dicembre è risultato in calo in confronto all'anno precedente. Le prigioni transalpine denotano un tasso di affollamento del 116 %, secondo le ultime statistiche della Direzione dell'amministrazione penitenziari pubblicate a dicembre. Ecco i dati principali. La Francia contava 67.105 detenuti contro i 67.738 dell'anno 2013, con una diminuzione dello 0,9%. Di questi 12.441 sono in soprannumero, visto che le prigioni francesi dispongono di soli 57.854 posti , dei quali 979 sono costituiti da materassi posti sul pavimento. La percentuale di sovraffollamento risulta quindi del 116 %. Ben 12.660 detenuti sono ospitati in stabilimenti situati à Paris e in Ile-de-France, dove la densità è pari al 139 %, quella maggiore. Le prigioni amministrate dalla Direzione interregionale di Marseille, con 8.000 detenuti, vantano il secondo surplus carcerario, pari a una percentuale del 112,5 %. Alla stessa data erano ospitati in tutti gli stabilimenti francesi anche 686 minori, di cui 465 in custodia cautelare e 221 condannati. Questa cifra è pià bassa rispetto al dicembre 2013, quando la Francia contava 737 minori reclusi nei suoi penitenziari. L'Italia, secondo le statistiche del Consiglio d'Europa, nel 2012 era risultata nella top ten dei paesi con il maggior numero di detenuti rispetto ai posti disponibili. A fronte di 66.271 detenuti esistevano 45.568 posti. C'erano dunque 145 carcerati per ogni 100 posti. Peggio dell'Italia solo la Serbia, con un rapporto di quasi 160 detenuti per ogni 100 posti. La Francia si classificava all'8° posto. Ma la situazione da noi è migliorata nel corso del 2014, tanto che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha potuto annunciare che: "Quest'anno si è affrontato con risultati importanti il sovraffollamento e siamo vicini alla chiusura della forbice tra detenuti e posti" che sono rispettivamente 54.050 e 49.494 (in due anni sono aumentati i posti). Nell'anno in corso, il 2015, l'obiettivo è quello di pareggiare posti e detenuti. Tenendo conto delle cifre la situazione francese è relativamente migliore di quella dell'Italia, anche perché occorre fare una considerazione supplementare. In Francia le leggi e i giudici sono molto meno di manica larga nei confronti dei delinquenti, per cui non molti la fanno franca. E in più politici, governi e ministri non fanno ricorso così di frequente a amnistie, indulti e depenalizzazioni come avviene nel nostro paese, per ridurre l'affollamento carcerario. Nel confronto quindi usciamo largamente perdenti sotto ogni profilo. Giappone: nel carcere di Yogyakarta 4 detenuti attendono la loro esecuzione www.informazione.it, 8 gennaio 2015 Quattro detenuti sono stati condannati a morte e si trovano nel carcere penitenziario di Wirogunan in Yogyakarta e sono in attesa della loro esecuzione che avverrà entro la fine di questo mese. Il presidente può dare l'amnistia, ma da quando Jokowi è salito al potere ha sempre condannato. I quattro sono: Mary Jane Fiesta Veloso, Hardani, Khoirul Anwar e suo figlio, Yonas Revalusi. Veloso è stato condannato a morte per il tentativo di far entrare in Indonesia 2.622 chilogrammi di eroina dall'aeroporto Adisucipto International Airport di Yogyakarta il 24 aprile 2010 e ha cercato l'amnistia da parte del presidente, ma non ha ancora ottenuto una risposta. Hardani, un ex agente di polizia, Khoirul e suo figlio Yonas sono stati condannati a morte per lo stupro e l'omicidio di una studentessa di un liceo professionale in Yogyakarta nel 2013, anche loro hanno chiesto l'amnistia del presidente dopo che il loro appello è stato respinto dalla Corte Suprema. Il capo della Legge e dell'Agenzia per i diritti umani in Yogyakarta, Endang Surdirman ha detto che in questa prigione ci sono quattro condannati a morte in attesa di esecuzione e sarebbe giusto che il presidente ripensasse alla legge e a punire in modo duro chi sbaglia, ma senza ricorrere alla pena di morte. Il Capo del penitenziario di Wirogunan, Zainal Arifin, ha detto che i quattro detenuti hanno sempre obbedito a tutte le attività quotidiane della prigione e sono stati autorizzati a frequentare la loro chiesa, professando la loro religione, Veloso è un cristiano, mentre gli altri tre sono musulmani. Il Procuratore generale Prasetya ha recentemente dichiarato che il plotone di esecuzione avrebbe immediatamente eseguito la condanna a morte appena il presidente respingerà le richieste di amnistia fatte dai detenuti. In questi giorni altri due condannati a morte, coinvolti in casi di droga, sono stati inviati in questo penitenziario e le esecuzioni in programma per il dicembre 2014 sono stati sospese per dare ai detenuti la loro ultima possibilità di presentare una revisione del caso o cercare l'amnistia da parte del presidente. Il presidente Joko "Jokowi" Widodo, ha sempre rifiutato di dare l'amnistia per i crimini più gravi e per i casi di droga e ha recentemente ordinato l'esecuzione di diversi condannati a morte per far vedere la sua intolleranza verso questi detenuti. Iran: appello per salvare Ali Moezi, già eseguita condanna per un detenuto politico curdo www.ncr-iran.org, 8 gennaio 2015 La Resistenza Iraniana chiede all'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e a tutti i difensori dei diritti umani di intraprendere un'azione urgente per salvare la vita del detenuto politico Ali Moezi. Moezi è stato trasferito sabato 3 Gennaio dagli aguzzini del regime teocratico, dalla prigione di Ghezel Hessar ad una località sconosciuta. Il 12 Ottobre 2014, gravemente malato, invece di essere portato in ospedale è stato trasferito in isolamento nella prigione di Evin a Tehran e sottoposto a torture per due mesi e solo poche settimane fa è stato riportato nella sezione 209 della prigione. Nonostante la condanna a 5 anni di prigione per Ali Moezi stia per scadere, gli agenti del Ministero dell'Intelligence e della Sicurezza intendono ostacolare il suo rilascio creando nuove false accuse. I suoi aguzzini hanno minacciato di condannarlo a morte o di aggiungergli altri 5 anni di prigione per il reato di propaganda contro il regime. Le autorità hanno ripetutamente minacciato Moezi, che è il padre di due membri dell'opposizione iraniana attualmente a Camp Liberty in Iraq, dicendogli: "Alla fine morirai di una morte lenta in prigione e non uscirai vivo dal carcere". Ali Moezi, già detenuto politico negli anni 80, soffre di varie malattie tra cui una grave malattia renale e un'ostruzione intestinale causata da anni di carcere e torture. Nel 2009 è stato arrestato per aver fatto visita alle sue due figlie a Campo Ashraf e condannato a due anni di prigione, più tre anni di pena sospesa. A Giugno 2011 è stato arrestato per la terza volta per aver partecipato al funerale di Mohsen Dokmehchi, membro dell'Organizzazione dei Mojahedin del Popolo Iraniano che fu torturato a morte dato che gli venne negato l'accesso alle cure mediche. Ali Moezi ha sempre subito enormi pressioni, torture fisiche e psicologiche per il suo sostegno al Pmoi. La Resistenza Iraniana condanna l'esecuzione di un detenuto politico curdo La Resistenza iraniana porge le sue condoglianze ai familiari e agli amici di Saber Mokhled Mavaneh, il detenuto politico curdo giustiziato all'alba del 6 Gennaio nella prigione centrale della città di Orumiyeh. La Resistenza Iraniana chiede al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, al Segretario Generale dell'Onu, all'Alto Commissario Onu per i Diritti Umani e agli altri organi competenti di condannare questa esecuzione criminale. Ribadisce inoltre la sua richiesta di presentare il dossier su questo regime criminale alla Corte Penale Internazionale, in particolare quello sull'esecuzione di circa 120.000 prigionieri politici. Saber Mokhled era stato arrestato a Luglio 2012 con l'accusa di "Moharebeh", "atti contro la sicurezza nazionale" e "collaborazione con i partiti politici curdi che si oppongono al sistema". In seguito è stato condannato a morte. Mokhled era uno dei 27 detenuti politici curdi rinchiusi nella sezione 12 della prigione centrale di Orumiyeh, che dal 20 Novembre avevano praticato per un mese lo sciopero della fame, per protestare contro le misure repressive adottate dal regime contro i detenuti politici. Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana