Giustizia: lo Stato e la pena senza speranza Il Foglio, 7 gennaio 2015 Tra chi ha sottoscritto questo testo c'è un'ampia pluralità di opinioni a proposito dei temi detti "di fine vita" e della drammatica questione dell'eutanasia. E tuttavia concordiamo nel giudizio sulla vicenda di Frank Van den Bleeken, ergastolano belga 52enne. Questi, detenuto da 30 anni per stupri e omicidio, persona psicologicamente disturbata, aveva chiesto e aveva ottenuto di accedere al protocollo per l'eutanasia, fissata per domenica 11 gennaio. Ora, pare che la decisione sia stata annullata a seguito della valutazione negativa dell'équipe medica, le cui motivazioni sono coperte dal vincolo della privacy. Ma, ciò nonostante, il problema rimane in tutta la sua tragica complessità. Van den Bleeken avrebbe voluto esser curato in una clinica specializzata, ma non gli è stato concesso, nonostante ripetute richieste. Lo stato, di fatto, ha preferito la sua morte, con l'ipocrisia di un atto giustificato come rispondente alla sua dignità. Una dignità che non è bastata a far sì che si affrontassero i misteri della sua personalità, che gli si concedesse la chance di una uscita dal tunnel dell'orrore, che lo si liberasse dalla continua sollecitazione al suicidio, a quanto si legge, da parte di altri detenuti. Così la pena senza speranza ridiventa, anche in senso materiale, pena di morte. Un facile disimpegno rispetto alla sua condizione. Un costo economico in meno. Un interrogativo in meno da porsi sul problema del male: proprio all'opposto di ciò che Papa Francesco ha sollecitato nel discorso del 23 ottobre all'Associazione internazionale di diritto penale. La questione non riguarda soltanto l'ordinamento belga, ma vi è il pericolo che produca effetti a catena. Parrebbe che altri quindici detenuti abbiano richiesto, in quel paese, l'eutanasia e, presa questa strada, le conseguenze rischiano di andare ben oltre i confini del Belgio. Purtroppo, siamo capaci di mettere le persone in condizione di disperazione. Ed è ciò che gli stessi sistemi penali non devono più determinare. Continuare a farlo offrendo al detenuto la prospettiva della morte o perpetuando l'indifferenza per le troppe morti in carcere è qualcosa che tocca i vertici dell'inumanità. È una sconfitta dei principi fondamentali del diritto e della nostra civiltà. È cedere all'imbarbarimento e alla vittoria del male. Forse c'è ancora tempo per qualche presa di posizione culturale e istituzionale che possa condurre a un ripensamento. Firmato da: Luciano Eusebi, Stefano Anastasia, Livio Ferrari, Luigi Manconi, Claudia Mazzucato, Michele Passione, Livio Pepino, Milena Santerini Giustizia: è giusto concedere l'eutanasia a un detenuto? di Maria Antonietta Farina Coscioni (Comitato Nazionale Radicali Italiani) Il Garantista, 7 gennaio 2015 Si può decidere di rinunciare alla vita a novantun anni, sedute al tavolo di cucina, e si ingeriscono una quantità di ansiolitici che ti procurano un sonno da cui non ci si risveglia più, come un anno fa ha fatto la scrittrice femminista Carla Ravaioli, preda di un male oscuro che ti tormenta più di una dolorosa malattia; si può decidere di farla finita come tre anni fa ha scelto il regista Mario Monicelli, "volato" dal balcone al quinto piano dell'ospedale San Giovanni di Roma. O come Carlo Lizzani: "un gesto da lucidità giovane", definisce la scelta di Monicelli, e poi lo imita lasciandosi scivolare giù, dalla finestra di casa. Oppure come Lucio Magri, dopo aver attentamente programmato, e fatto ricognizioni, la fine in una clinica svizzera. E più di recente il caso di Brittany Maynard, ammalata di un tumore devastante, innamorata della vita, e che tuttavia sceglie di trasferirsi nello stato dell'Oregon, e muore con dignità, come voleva. Storie diverse, certo; e che non ci si deve permettere di giudicare; bisognerebbe piuttosto cercare di capire, comprendere. Ora il caso di Frank Van Den Bleeken, l'assassino stupratore seriale belga in carcere da trent'anni, e che ha chiesto l'eutanasia, perché si ritiene inguaribile, vittima di raptus e impulsi irrefrenabile che lo condurrebbero a rifare i delitti che ha commesso, "preda di fantasie atroci, se tornassi libero rifarei tutto. Sono un pericolo per la società, ma sono anche un essere umano, e qualunque cosa abbia fatto, resto un essere umano. Perciò concedetemi l'eutanasia". Van Den Bleeken dice di aver ben ponderato la decisione di farla finita, è consapevole, così ha scelto. In un primo momento le autorità belghe avevano acconsentito. Poi, probabilmente anche sull'ondata che questo caso ha provocato, ci hanno ripensato. La questione però resta, per le sue implicazioni giuridiche ed etico-morali. L'altro giorno Vittorio Feltri, che si è formato alla scuola di Indro Montanelli e sempre più somiglia al suo "maestro", ha affrontato la questione, arrivando alla conclusione che "se un cristiano confessa di non essere in grado di resistere alla tentazione di uccidere e stuprare, significa che non è responsabile delle sue azioni se non quella di voler soffocare i propri tormenti riposando al cimitero. Aiutarlo ad andarci è un gesto di pietà pura che non collide con la morale evangelica. Amen". Confesso di non riuscire, in questo caso, ad avere la certezza di Feltri, pur essendo sostenitrice della necessità di legalizzare la "dolce morte", che vi sia anche in Italia una legge che eviti ai Monicelli, ai Lizzani, ai tanti suicidi di ogni giorno, di togliersi la vita come hanno dovuto fare; che consenta ai Lucio Magri di poterlo fare come hanno fatto, senza dover "emigrare" in Svizzera; e mi interrogo, sarebbe disonesto negare i miei dubbi e le mie perplessità, sull'esser giusto che un detenuto possa chiedere di essere aiutato a sopprimersi perché "soffre troppo" a livello psicologico; non faccio del moralismo a un tanto al chilo. Mi chiedo se consentire a individui come Van Den Bleeken non sia "anche" una sconfitta di quanti (in Belgio, ma il discorso vale anche per l'Italia, ovviamente), non hanno saputo (o potuto, o voluto) assicurare una assistenza sufficiente anche ai Van Den Bleeken, e se una persona detenuta sia davvero nella condizione di poter scegliere in "scienza e coscienza", se insomma lo si possa davvero ritenere consapevole; a chi dice che era giusto riconoscere a Van Den Bleeken riconoscere il diritto alla "dolce morte" rispondo che nutro parecchie riserve, ho molti dubbi. Una cosa però, va comunque riconosciuta a Feltri: l'aver affrontato la questione, l'aver espresso con chiarezza il suo punto di vista, e di aver avviato, si spera, un dibattito. Di queste cose infatti non se ne parla, non ci sono confronti in trasmissioni di grande ascolto, si glissa e si preferisce ignorare; eppure sono questioni che ci riguardano, tutte e tutti, nessuno escluso: scegliere come e quando farla finita è una facoltà che dovrebbe essere riconosciuta a tutti, inscindibile dal libero arbitrio che nessuno mette in discussione; poi, evidentemente, ognuno si comporta come crede e ritiene. Una quantità di sondaggi demoscopici documentano che l'opinione pubblica sente l'esigenza di poter discutere e confrontarsi su questioni cruciali come questa; eppure è quello che non accade: una classe politica sorda, indifferente, pavida non mette neppure all'ordine del giorno la discussione di progetti di legge depositati, rinuncia perfino ad avviare un'indagine conoscitiva per accertare le dimensioni del fenomeno "eutanasia clandestina" che viene quotidianamente praticata negli ospedali e nelle cliniche italiane. Se chi è contrario alla legalizzazione dell'eutanasia ritiene di avere buoni argomenti per motivare il suo no, dovrebbe avere tutto l'interesse a potersi esprimere e far conoscere le sue ragioni. Che invece si preferisca il silenzio omertoso, si tema il confronto e il dibattito, vorrà pur dire qualcosa. Giustizia: se la morte serve ad arginare il male, tra eutanasia e misericordia di Eduardo Savarese Il Foglio, 7 gennaio 2015 Il caso dell'eutanasia che avrebbe dovuto essere praticata il prossimo 11 gennaio all'ergastolano belga Frank Van den Bleeken, su sua richiesta, dopo aver scontato circa trent'anni di pena (e avendone molti altri ancora da scontare, essendo poco più che cinquantenne) e che ieri i medici hanno deciso di non effettuare, senza finora comunicarne la motivazione, ha provocato un ampio dibattito. Lo stato ha ritenuto di accogliere la richiesta e parrebbe che alcuni sacerdoti abbiano parlato di un gesto di pietà giustificato (un sacerdote avrebbe dovuto assistere il moribondo nei prossimi giorni). È bene premettere alcuni fondamentali dati di fatto. L'uomo in questione si è macchiato di alcuni delitti terribili: torture, stupro e omicidio di giovani donne. Nel carcere, la vita gli è resa impossibile dai compagni che lo istigano, giorno per giorno, a togliersi di mezzo. Lui, d'altra parte, affetto da disturbi psichici, avrebbe affermato di essere per sua natura incapace a non compiere quel genere di crimini. Lamentando lo stato di prostrazione psicofisica in cui versa, Frank Van den Bleeken ha chiesto allo stato di morire. L'eutanasia, si sa, in Belgio è permessa dalla legge. I familiari delle vittime si sono però opposti alla decisione dello stato di accogliere la domanda di eutanasia. E hanno indicato una soluzione differente, la stessa suggerita dai compagni di carcere: il suicidio. Questo racconto, che ho cercato di ridurre all'osso, pur nella sua asciuttezza, lascia sgomenti. Veniamo messi di fronte a molte questioni difficili, per l'etica (in generale e nell'amministrazione carceraria, in particolare), per la religione, per la giustizia penale (quanto all'efficacia della pena, e alle finalità di essa). Il fondo della vicenda, tuttavia, è legato inestricabilmente alla vera, essenziale e finale ragione dello sgomento: la morte, non accaduta, ma ricercata. E non ricercata con le proprie mani, ma attraverso le mani di altri, e di un altro che si chiama stato. L'eutanasia scinde la volontà (la determinazione della condotta) dall'esecuzione della stessa, perché i due momenti appartengono a soggetti differenti. Noi tutti sappiamo che dobbiamo morire. Di norma, però, non conosciamo il momento esatto della morte (con l'eccezione dei condannati alla pena capitale). Noi osserviamo la morte degli altri. Non osserviamo la nostra stessa morte. È un fenomeno che c'è, ma che sfugge ("la morte propria è l'evento divorante che strangola sul nascere ogni sapere", con Vladimir Jankélévitch). Questo vale anche per il suicida (chi decide di morire e agisce di conseguenza) e per chi si sottopone a eutanasia. Tuttavia, credo che per questi insorga un minimo spazio di osservazione della propria morte. La morte decisa da me e realizzata per mano di altri quasi oggettiva quel fenomeno, come se non fosse più mia la morte, ma la morte di qualcun altro - che però è e resta la mia. Credo che accada qualcosa del genere, una sorta di manipolazione parziale della altrimenti assoluta inosservabilità della mia propria morte. E credo pure che sia questo aspetto a costituire l'apparenza di innaturalità dell'eutanasia che atterrisce molti e fa rivoltare il cattolicesimo. La vicenda dell'ergastolano belga, tuttavia, è complicata ulteriormente dal legame tra la Morte ed il Male: la Morte serve a interrompere il Male in due sue declinazioni, il male che patisce l'ergastolano per la sua condizione carceraria e il male che segna la sua vita, la sua psiche, la sua libertà di uomo. Questo secondo male è il terribile mysterium iniquitatis che ci insegna il cristianesimo. Ma non è la Morte stessa un male, anzi il Male? Cristo risorgendo sconfigge la Morte e ci assicura la Vita. Per l'eternità. La Morte equivalente al Male, sconfitta dalla Resurrezione (per chi ci crede), non sta però nella mera interruzione biologica della singola vita, ma nel destino di tragica inutilità da cui la Creazione sarebbe altrimenti marchiata. Cristo vince l'irrisione della morte. Ma la Morte è anche "nostra sorella morte corporale", è parte cioè di un ciclo naturale, e, nella sua terribilità, dà una misura alla nostra vita. Succede, allora, che talvolta essa vada invocata, sperata. E, anche, desiderata, avvicinata, accelerata. Essa, però, come la vita, non è mai meritata, perché sfugge a qualsiasi nostro merito o demerito. La pena capitale è per questo una forma di tracotanza collettiva. Che il singolo individuo, tuttavia, nella propria coscienza profonda, arrivi alla conclusione (non alterata, dunque, da stati psicofisici del momento) che l'interruzione della propria vita biologica sia un bene, per sé e/o per gli altri, è, al contrario, un arrendersi umile alla nostra finitezza (nonostante, in alcuni casi, l'orgoglio solo apparente di cui il gesto è rivestito), un consegnarsi, una resa incondizionata che riconosce la travalicante forza degli eventi. Questo arrendersi è spesso ulteriormente fragile: non riuscirà allora il gesto suicida. E si chiederà aiuto. Un aiuto legalizzato, nel caso dell'eutanasia, che, pur cattolico, non mi sento di giudicare moralmente e religiosamente illecito. Nel caso di Frank Van den Bleeken, la legittimità della richiesta affonda per me le radici in una piaga terribile: appunto il mysterium iniquitatis. Se essa servisse solo a sfuggire da condizioni carcerarie disumane, sarebbe una intollerabile resa dello stato, che deve evitare che la pena scontata diventi una tortura (e, quindi, una vendetta collettiva, come vorrebbero - comprensibilmente - i parenti delle vittime, ma come non può e non deve volere la società organizzata nello stato). Ma questa eutanasia, nella misura in cui interromperebbe una vita gravata dall'impossibilità di redimersi, dalla negazione di ogni cambiamento interiore, e che si trascina nel tormento inflitto dagli altri, senza la capacità di desiderare altro da quanto già si è, rovinosamente, desiderato, serve a porre un argine al Male, al misterioso svolgersi della storia del Male nel mondo. Io credo che Frank Van den Bleeken sappia di essere preda e strumento del Male. Questa eutanasia non può essere ridotta alla facile scappatoia per evitare il carcere a vita. Essa diventa necessaria, come il suicidio di Giuda, al quale Giuseppe Berto nell'omonimo romanzo mette in bocca le parole finali: "Corro verso la mia disperazione finale. O Eterno, io grido a te da luoghi troppo profondi: Signore, non ascoltare la mia voce". Consentire questa eutanasia non sarebbe forse ascoltare lo stesso grido? Concederla assumerebbe (avrebbe assunto, se infine il fatto in sé non avverrà), forse, una connotazione superiore alla pietà: è un atto di misericordia. Giustizia: eutanasia a Van den Bleeken, gesto di pietà o di giustizia? di Mario Iannucci (Psichiatra psicoanalista, Casa circondariale di Sollicciano) Ristretti Orizzonti, 7 gennaio 2015 In risposta a Vittorio Feltri. Comincerò col dire che non amo "il Giornale", così da sgombrare subito il campo da fraintendimenti "ideologici". Ho però apprezzato non poco l'articolo del 5 gennaio nel quale Vittorio Feltri difende la scelta del Governo Belga di concedere, dietro sua espressa richiesta, l'eutanasia a Frank Van Den Bleeken, l'ergastolano belga condannato, oltre trent'anni or sono, per l'omicidio e lo stupro di una ragazza, oltre che per lo stupro di alcune altre donne. L'ho apprezzato perché, con il coraggio che abitualmente va riconosciuto a Feltri, in questa Italia sovrastata dai pregiudizi religiosi che mettono in forma anche le scelte di politica sociale, si è schierato apertamente a favore non solo dell'eutanasia a Frank Van Den Bleeken, ma dell'eutanasia tout-court, in Belgio dove già è stata legalizzata e in Italia dove da tempo giacciono impolverate diverse proposte di legge. Solo che, a mio parere, Vittorio Feltri, dopo avere lanciato il sasso, sembra ritirare un po' la mano nella chiusa del suo articolo, lì dove sposa una delle tesi delle autorità belghe nel concedere l'eutanasia a Van Den Bleeken: "Se un cristiano confessa di non essere in grado di resistere alla tentazione di uccidere e stuprare, significa che non è responsabile delle sue azioni se non quella di voler soffocare i propri tormenti riposando al cimitero. Aiutarlo ad andarci è un gesto di pietà pura che non collide con la morale evangelica". Io non ho alcuna "autorità" per decidere se una richiesta di eutanasia (avanzata da Frank Van Den Bleeken o da altri) collida con la morale evangelica. Apprezzo moltissimo la pietà, che è talora coraggiosa e spesso silenziosa. Trovo però sbagliatissimo - da un punto di vista logico, morale e politico - indicare la concessione dell'eutanasia all'ergastolano belga come un "gesto di pietà". Esso infatti è, molto semplicemente e laicamente, un gesto di giustizia. L'eutanasia, in Belgio, è accordata a tutti i cittadini che la richiedano e che abbiano dimostrato di farlo mentre sono in possesso di quella che, in Italia, indicheremmo come una piena "capacità di intendere e di volere" (di coloro che sono cioè "responsabili delle loro azioni"). Dire allora che Frank Van Den Bleeken, condannato trent'anni or sono all'ergastolo come "responsabile delle sue azioni delittuose", non lo sarebbe più adesso se le reiterasse una volta rimesso in libertà, mentre invece sarebbe pienamente responsabile (capace di intendere e di volere) della sua richiesta di eutanasia, a me pare fortemente contraddittorio. Non soffermiamoci sulla scelta giudiziaria di condannare un ventiduenne omicida e stupratore seriale come "responsabile delle sue azioni", non soffermiamoci sulla scelta di farlo vivere quotidianamente a contatto con compagni che lo istigano al suicidio, non soffermiamoci sull'altra istigazione legale al suicidio costituita dall'ergastolo e nemmeno sulla incapacità della istituzione penitenziaria di allontanare Frank Van Den Bleeken dal peso morale della reiterazione di fantasie di stupro e di omicidio. Concentriamoci piuttosto sulla sua "capacità di intendere e di volere" tutta la portata di una richiesta di eutanasia. Se tale richiesta è formulata in Belgio, Paese che per legge ammette l'eutanasia, da una persona che viene stimata formularla in maniera "responsabile", la concessione dell'eutanasia non è un "gesto di pietà", ma piuttosto un inevitabile "gesto di giustizia". Giustizia: Napolitano nomini il Garante dei diritti dei detenuti di Stefano Anastasia Il Manifesto, 7 gennaio 2015 È passato più di un anno da quando il governo Letta, il 23 dicembre 2013, ha istituito il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Sembrò quello il modo più limpido per rispondere alle polemiche suscitate dall'interessamento della ministra Cancellieri alle sorti penitenziarie di una detenuta d'eccezione, figlia di amici di famiglia. Attraverso l'istituzione del Garante nazionale delle persone private della libertà sarebbe stata assicurata a qualunque detenuto, quale che fosse il suo status sociale e giudiziario, la possibilità di accedere a un'autorità indipendente capace di verificare e sollecitare la garanzia dei diritti previsti dall'ordinamento prima di avviare un formale ricorso giurisdizionale. È una vecchia campagna di Antigone, del "manifesto" e delle altre associazioni impegnate nella tutela e nella promozione dei diritti dei detenuti, questa dell'istituzione di un'autorità indipendente non giurisdizionale. Ne cominciammo a discutere quasi vent'anni fa, a Padova, confrontandoci con magistrati di sorveglianza della levatura di Alessandro Margara e Giancarlo Zappa. È del gennaio 1999 la prima proposta di legge, sottoscritta da senatori di quasi tutti i gruppi parlamentari dell'epoca; ma non se ne fece nulla, in quella come nelle successive legislature. Fino allo scorso anno e a quel decreto governativo. Nel frattempo, molte regioni e amministrazioni locali sedi di istituzioni penitenziarie e di centri di detenzione per stranieri hanno istituito garanti regionali e locali, cui - non senza fatica - è stato riconosciuto un potere di visita alle istituzioni penitenziarie e che, nei limiti del possibile e secondo la capacità di ciascuno, in questi anni hanno contribuito a denunciare le condizioni più intollerabili di trattamento dei detenuti. I garanti istituiti da enti territoriali hanno potere esclusivamente nei loro confronti, richiamandoli alle loro responsabilità nella tutela della salute e nella predisposizione di politiche sociali e del lavoro finalizzate al reinserimento dei detenuti, ma nulla possono di fronte all'azione e alle responsabilità delle amministrazioni dello stato. Per questo è necessario un Garante nazionale dei detenuti cui rispondano il ministero della giustizia e quello dell'interno in primis. E serve tanto più oggi che il procedimento giurisdizionale di tutela dei diritti dei detenuti è stato tanto formalizzato quanto, inevitabilmente, burocratizzato. E serve tanto più oggi che l'Italia, sotto osservazione internazionale, ha ratificato l'adesione al protocollo opzionale delle Nazioni unite contro la tortura che prevede in ciascuno Stato membro l'istituzione di un'autorità nazionale indipendente di monitoraggio delle condizioni di detenzione. Serve, ma non c'è. È passato più di un anno dall'istituzione del Garante ma la sua nomina ancora non c'è stata. Avrebbe dovuto essere nominato, "previa delibera del Consiglio dei ministri, con decreto del Presidente della Repubblica, sentite le competenti commissioni parlamentari". E questa è la ragione della petizione indirizzata da Antigone al Presidente della Repubblica affinché nomini il Garante prima di lasciare il Quirinale. Giorgio Napolitano è stato sensibile quanto altri mai, in quel ruolo, alle condizioni di vita dei detenuti. Ricordiamo la sua denuncia dell'"estremo orrore" degli ospedali psichiatrici giudiziari e la costante sollecitazione alla riduzione della popolazione detenuta, fino all'unico formale messaggio inviato alle Camere nell'ottobre del 2013. Perché non consentirgli di apporre la sua firma in calce al decreto di nomina del primo Garante nazionale delle persone private della libertà? (firma la petizione su www.fuoriluogo.it). Giustizia: un 41-bis su misura per bambini innocenti… puniti per "salvarli" di Vincenza Palmieri (Presidente Istituto Nazionale Pedagogia familiare) Il Garantista, 7 gennaio 2015 Centinaia di minorenni in Comunità non possono incontrare i genitori, perché lo ha deciso un burocrate. Lettera alla befana di una pedagoga indignata. A Natale speravano, ma son stati delusi. Hai mai visto un bambino dopo un incontro "protetto"? È stravolto, sfiancato, dolorante, malato: un' ora con mamma e poi basta, dopo 15 giorni, un'ora con papà e poi il nulla. "Mamma, mamma, mi fa male la pancia!" "Papà, ho paura del buio!....". Il dolore che spezza il vuoto dell'attesa del ritorno. Spesso, la risposta dell'Istituzione è: "meglio diradare o sospendere gli incontri". Ci sono tante storie da raccontare. Quella di Maria, per esempio: aspettava la zia, ma la tutrice ha cambiato l'orario, lei ha perso il treno e non è più partita. Ha pianto, rotto tutto, buttato per aria gli oggetti: perciò hanno chiamato l'ambulanza, l'hanno sedata, ha dormito due giorni. Questo succede ai ragazzini che stanno in comunità perché le autorità hanno deciso che era meglio toglierli ai loro genitori, perché -dicono - i genitori non sono adatti, o sono delinquenti, o sono violenti. I dati però stabiliscono che solo nel 7 per cento dei casi questo è vero. Nell'altro 93 per cento? È una specie di 41 bis per bambini innocenti. Cara Befana, sei passata l'altra notte, ma non hai trovato molti bambini. Non c'erano Jenny, Serena, Alessio... migliaia di bambine e bambini. Non sono scappati di casa, né sono in guerra, neanche in ospedale, né in vacanza. Sono i bambini allontanati dalle proprie famiglie e collocati in Comunità, in Case Famiglia o già dati in adozione ad un'altra mamma e un altro papà, pur avendo genitori vivi che li amano e li rivorrebbero con loro. Sono i bambini fantasma, dimenticati dai Servizi e dai Tribunali. Sono quelli che non sono potuti tornare a casa neanche per le Feste di Natale, perché il Giudice, cara befana, non ha firmato il decreto, perché non c'era la relazione dei Servizi, perché il tutore non era d'accordo, perché ... cento buone ragioni per lasciarli lì, come una volta nei brefotrofi, con le signore di buona Società, con pacchi dono in elemosina. Una licenza premio non si nega a nessuno: ai soldati in guerra, ai criminali in carcere, ai lavoratori migranti, anche ai ragazzini del Minorile. Ma ai bambini delle case famiglia: no! "Loro devono rimanere lì; troppo rischioso rimandarli dai genitori, dai fratelli, dai nonni, dai giocattoli sotto l'albero... no! Si deve incancrenire la loro lacerazione del distacco, della solitudine, del nulla. Devono soffrire all'infinito, sospesi nel vuoto dell'attesa e del percepito abbandono. Ed i genitori, castigati perché poveri, ignoranti, litigiosi, o semplicemente ingenui, sprovveduti, stranieri. Ignari delle trappole del nuovo potere: quello che ha fatto grande "mafia capitale" sulle spalle dei neri e dei soli. Sai, cara befana, non sono tutti abusanti i genitori ed i nonni dei bambini in casa famiglia o in affido presso altri. Prova a guardare i numeri (quelli ufficiosi, perché quelli ufficiali non ci è dato conoscerli). Pare che solo il 7% di questi bambini sia oggetto di maltrattamenti; forse saranno un po' di più o un po' di meno, forse non hanno nessun altro parente entro il quarto grado che possa occuparsi di loro, ma gli altri? Tutti gli altri? Sono solo dei bambini, puniti da un sistema che non li garantisce. Chi dovrebbe farlo è stritolato esso stesso dal bisogno di garantire più il sistema, la propria faccia e facciata, il proprio posto, piuttosto che i bambini stessi, per i quali è stato messo lì! A chi parlare in queste ore? Pablo cantava "potrei scrivere i versi più tristi questa sera..." ma se questa è l'emozione, non può essere il fare. Potresti tu parlare a Matteo, Giorgio, Laura, Pietro, Francesco e ricordare loro che migliaia di bambini oggi, mentre tutte le famiglie sono riunite, non sono potuti tornare da mamma e papà? Raccontagli che quei bambini sono innocenti ma vivono il carcere duro, non hanno mai fatto del male ma sono puniti, provano il dolore e l'impotenza dell'ingiustizia ma vengono drogati con sedativi ed antipsicotici; si percepiscono abbandonati e quindi cattivi: probabilmente lo diventeranno e a 18 anni torneranno comunque là da dove erano stati strappati, dove niente è mutato. Hai mai visto un bambino dopo un incontro "protetto"? È stravolto, sfiancato, dolorante, malato: un' ora con mamma e poi basta, dopo 15 giorni, un'ora con papà e poi il nulla. "Mamma, mamma, mi fa male la pancia!". "Papà, ho paura del buio!....". Il dolore che spezza il vuoto dell'attesa del ritorno è lacerante. Spesso, la risposta dell'Istituzione è: "meglio diradare o sospendere gli incontri: il bambino è turbato dopo ogni visita!" Dio Santo! È come dire: l'assetato vuole ancora bere, chiede ancora acqua, non giace disidratato immobile, e quindi senza pretese, nel suo letto di morte! L'assetato ha preso un po' di vigore, ne vuole ancora, urla il suo bisogno! Cara befana, puoi spiegare a Renzi, Napolitano, Boldrini, Bergoglio, Grasso (scendi dal camino e avvicinali) che potrebbero fare anche loro qualcosa a riguardo? Forse per Giorgio, il nonno d'Italia, non è tardi: potrebbe essere un bel gesto, prima di lasciare la grande casa del Quirinale, spiegare ai "padroni del sistema" che il bambino, turbato dopo una visita, è un assetato a cui è stata data un po' di linfa: sta solo apprezzando, con tutte le sue forze, quel poco che ha! Perché punire? È la stessa logica con cui sono stati vietati i ritorni a casa nei giorni di festa. La permanenza in Istituto, anche a Natale o a Capodanno, o alla Befana, ha solo questo scopo: lasciarli lì, impotenti, disillusi, incapaci, soli e "cattivi". Sai, mi hanno chiamato molti genitori, in questi giorni. Carlo aveva preparato, insieme ai nonni, il pranzo con le vongole, per la cena di Natale e, sotto l'albero, la bicicletta e la rete per pescare le telline. Le zie erano pronte con dolci e vestiti nuovi. Anche i cuginetti erano ad attendere il figlio del pescatore Carlo, ma il piccolo non è arrivato. Ed anche Lory: "eravamo tutti pronti, nulla osta... " ma poi il Giudice ci ha ripensato. Ma perché? Mamma e papà prima litigavano, ora non più. Perché punire il figlio? Della piccola Maria mi hanno detto che aspettava la zia, ma poi la tutrice ha cambiato l'orario, la piccola ha perso il treno e non è più partita. Ha pianto, rotto tutto, buttato per aria gli oggetti della Comunità: perciò hanno chiamato l'ambulanza ed è stata portata via. Mi ha raccontato la zia che l'hanno sedata, ha dormito due giorni, che oggi prende gli stessi antipsicotici della nonna. Era solo una bambina portata via dalla sua casa perché fosse "messa in sicurezza", oggi è ridotta a piccola demente, chimicamente deviata, resa oppositiva, borderline, con un disturbo della personalità. Chi pagherà per tutto questo? Quanto ancora negare e continuare questa guerra dei numeri? Ancora indifferenza. È Festa in questi giorni: Tribunali chiusi, non succede niente in queste ore, ma i miei amici Sardi ci sperano ancora: "Dottoressa, ci sono i fratellini, a casa! Lo stanno aspettando, il fratellino loro: lo hanno portato via due anni fa perché mia moglie non voleva prendere gli psicofarmaci! Ora lei li prende tutti i giorni, ma neanche adesso va bene, perché ora, mi dicono, ne prende troppi, non può curare il bambino. Io mi sento in una trappola, ma perché, almeno nelle feste di Natale non ce l'hanno mandato a casa?". Accanimento terapeutico, sul bambino e sulla famiglia! Potrei continuare all'infinito e "potrei scrivere i versi più tristi questa notte". E chissà che non succeda ancora una grande protesta popolare: "Tanto tuonò che piovve!", scrisse il mio amico Francesco, qualche mese addietro Ma il tuono, ripetuto ed assordante, di un piccolo gruppo di coraggiosi esseri, porterà cascate ed uragano addosso a chi molesta i bambini! A chi, davvero, molesta bambini e famiglie, infanga gli affetti, a chi non vede o nega, a chi sfrutta ed abusa, ai farisei sulla pelle dei più piccoli. Porta per me questa nota a Rosetta, Enza, Laura, Pietro - loro ne faranno buon uso - a nonno Giorgio, papà Matteo e al Santo Padre. E a tutti gli uomini e le donne di buona volontà. A coloro che preparano le prime pagine dei giornali o a chi sa trasportare, sulla rete, il più lontano possibile, non le mie parole, ma quelle di migliaia di bambini, costretti al carcere duro, al 41 Bis dei bambini, invece di una lunga notte delle stelle, tra una scopa, una slitta e una stella cometa. Perché, non oggi, tutti Re Magi? Giustizia: frodi fiscali, tre strade per superare la norma "salva-Berlusconi" Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2015 I nodi si scioglieranno solo nel Consiglio dei ministri del 20 febbraio quando, oltre al provvedimento sulla certezza del diritto, saranno esaminati anche gli altri provvedimenti attuativi della delega, come reso noto ieri dal premier Matteo Renzi nella sua e-news. La soluzione più ardita - sia politicamente che tecnicamente - è l'abbassamento della soglia di non punibilità di tutti i reati per chi evade sotto il 3% dell'imponibile dichiarato o dell'Iva evasa. L'ipotesi più tranchant e più difficile da giustificare politicamente è l'eliminazione del tanto contestato articolo 19-bis inserito nell'ultimo giro di tavolo a Palazzo Chigi il 24 dicembre. Alla fine, quindi, potrebbe prevalere una soluzione di compromesso. La via di mezzo consentirebbe di salvare la "faccia" e la norma, giustificando così le scelte fatte alla Vigilia di Natale, ma prevedendo l'inapplicabilità della soglia nei casi in cui la violazione configuri una frode fiscale. In questo modo, i grandi evasori sarebbero puniti e la norma perderebbe l'etichetta di "salva-Berlusconi". L'amministrazione finanziaria e lo stesso presidente emerito della Consulta, Franco Gallo, considerano la soglia del 3% tecnicamente errata. Ne parlerà oggi nella riunione d'urgenza proprio la commissione di esperti e tecnici guidata da Gallo per rivedere la stesura finale del decreto sulla certezza del diritto e tutte le possibili criticità. Nella formulazione attuale, la disposizione consente la non punibilità se l'imposta evasa non supera il 3% di imponibile dichiarato per tutti i reati tributari, compresi quelli di dichiarazione fraudolenta, per di più realizzata anche con particolari artifici, dunque con il dichiarato intento di frodare e ingannare il fisco. Quindi, secondo alcune delle voci critiche levatesi in questi giorni, la disposizione si tramuterebbe, di fatto, in un aiuto agli evasori più pericolosi con il rischio di minare la deterrenza dell'intero impianto penale-tributario. Per l'amministrazione finanziaria, poi, la soglia del 3% contraddice di fatto l'intera ratio del decreto sterilizzando il meccanismo delle soglie che lo stesso decreto introduce e rivede per le differenti tipologie di reato tributario, anche quelle dove la violazione è più grave. Motivi che porterebbero a pensare a una completa cancellazione della norma, se non fosse per un retromarcia politicamente difficile da giustificare soprattutto alla luce del fatto che la revisione del testo è stata rinviata al 20 febbraio. Ecco perchè la "mediazione" potrebbe portare a lasciare in vita la soglia magari rivedendo la percentuale anche alla luce delle indicazioni che potrà fornire il Parlamento una volta che il decreto approderà all'esame delle Camere, ma prevedendo espressamente l'esclusione della non punibilità quando l'illecito configura una frode fiscale. Del resto, proprio Renzi l'ha definita ieri "una norma semplice che rispetta il principio di proporzionalità" lasciando intendere tra le righe che la soluzione intermedia potrebbe essere quella più quotata. Lo spostamento al 20 febbraio consentirà di avere più tempo per una verifica anche sugli altri nodi del testo licenziato a Natale. Prima di tutto va ricordato che la soglia del 3% non è l'unica clausola di esclusione di punibilità ma ce n'è un'altra che estingue il reato: chi chiude i conti con il fisco prima del dibattimento in primo grado rischia di mettere su piani differenti i contribuenti perché le disponibilità finanziarie per effettuare l'adesione all'accertamento potrebbero fare la differenza. Altri punti controversi (si veda anche la grafica in pagina) riguardano poi essenzialmente le soglie: quella minima di mille euro al di sotto della quale le false fatture sono depenalizzate, quella triplicata sugli omessi versamenti di Iva e ritenute (che il provvedimento del 24 dicembre puntava a portare da 50mila a 150mila euro) e i limiti più alti a partire dai quali scatta il reato di dichiarazione infedele. Tutti aspetti su cui i critici intravedono la possibilità di indebolire l'effetto deterrenza in chiave antievasione delle norme penali-tributarie. A ciò si aggiunge poi la questione del raddoppio dei termini di accertamento. Lo schema di Dlgs non fa riferimento al regime transitorio (ipotesi circolata nei giorni precedenti) per il 2015 e il 2016, che avrebbe consentito al fisco la presentazione o la trasmissione della denuncia rispettivamente entro due anni e un anno dal termine di decadenza. In più la legge delega chiede, comunque, di salvaguardare gli effetti degli atti di controllo già inviati al momento dell'entrata in vigore delle nuove norme. E anche questo sarà un aspetto da pesare attentamente per non rischiare altri infortuni. Giustizia: reato di diffamazione, bavaglio alla stampa di Liana Milella La Repubblica, 7 gennaio 2015 Sparisce la reclusione per i giornalisti ma in cambio la nuova legge prevede multe da migliaia di euro, rettifiche senza diritto di replica, "oblio" che cancellerà i fatti. Scatta una raccolta di firme contro. Per una volta, contro i giornalisti, sembrano proprio tutti d'accordo. Niente divisioni politiche in questo caso. La legge sulla diffamazione, una delle peggiori tra le tante che si sono succedute ormai da un decennio in Parlamento, incombe alla Camera. Atto 925-B. Se dovesse passare così com'è adesso, il bavaglio per la stampa, anche e soprattutto per quella online, è assicurato. Multe da migliaia di euro, rettifiche ad horas, ma soprattutto quell'odioso "diritto all'oblio" che non c'entra nulla con la legge, ma che finirà per cancellare la memoria stessa di centinaia di fatti. Il giornalismo scomodo ha le ore segnate, cronisti ed editori rischiano di immolare sull'altare della cancellazione del carcere la libertà stessa di fare questo mestiere, senza gioghi e senza incubi. Pare proprio che non ci sia nulla da fare. Intorno alla legge sulla diffamazione, già approvata al Senato e oggi in commissione Giustizia alla Camera in attesa degli emendamenti, si registra soprattutto consenso. Perfino i rappresentanti della categoria, quando sono stati ascoltati, hanno dato la netta impressione che, sull'altare del carcere definitivamente abolito, sarebbero disposti ad accettare una legge pesante, che sta mettendo in profondo subbuglio tutto il mondo dell'informazione online. A scatenare l'allarme è soprattutto la previsione di un meccanismo rigido della rettifica, il "prezzo" che ogni tipo di stampa, dai quotidiani, alle testate registrate sul web, ai libri, alla tv, dovrà pagare per evitare le manette. Basta leggere questa lapidaria indicazione contenuta nel testo: "Il direttore è tenuto a pubblicare la rettifica gratuitamente e senza commento, senza risposta e senza titolo". Inutile cercare di far capire che per una pena del carcere rara come l'araba fenice, cadrà addosso a tutti i giornalisti e ai direttori italiani un obbligo di rettifica capestro. La nuova legge impone di pubblicare la nota del presunto diffamato non solo entro 48 ore, ma soprattutto senza alcuna chiosa. Il tempo estremamente risicato impedirà di poter verificare se la richiesta è fondata oppure se si tratta di un'imposizione pretestuosa e arrogante, come purtroppo avviene molto spesso. Non solo: la negazione del diritto di replica, ai limiti della costituzionalità, mette a rischio il giornalista e il direttore della testata, una figura parafulmine, che risponderà di ogni riga pubblicata, anche anonima. Se la rettifica non esce, perché viene considerata spropositata e inaccettabile, ma soprattutto falsa dagli autori del pezzo e dai responsabili della testata e ovviamente dagli avvocati difensori, il presunto diffamato potrà rivolgersi al giudice che a sua volta potrà segnalare il caso pure all'Ordine professionale per una rivalsa disciplinare sul cronista. È superfluo aggiungere che, nel caotico mondo del web e delle tv che trasmettono news 24 ore al giorno, una rettifica così congegnata rischia di provocare la paralisi dell'informazione. Ma i guai non finiscono di certo qui. Ecco le multe. Un altro capitolo pesantissimo. Fino a 10mila euro per una diffamazione commessa, per così dire, in buona fede. Ma se invece c'è "cattiva fede", se è stato pubblicato "un fatto determinato falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità" (definizione, in verità, un po' ridicola), allora la multa andrà da 10 a 50mila euro. In tempi di crisi, una cifra simile potrà avere effetti catastrofici sui magri bilanci delle aziende editoriali e produrrà un solo effetto, una stretta automatica sulle notizie, forme di autocensura, raccomandazioni alla prudenza e alla cautela. La stampa si mobilita, numerose e autorevoli le firme (Rodotà, Annunziata, Gabanelli, Vauro, Iacopino) che stanno sottoscrivendo l'appello sul sito www.nodiffamazione.it promosso da "Articolo 21" e da giuristi e giornalisti. Giustizia: il marito di Veronica "dici bugie sul nostro Lorys, addio" di Giusi Fasano Corriere della Sera, 7 gennaio 2015 L'incontro in carcere tra il padre del bimbo ucciso e la moglie accusata dell'omicidio. Lui: "Chi stai coprendo? In paese parlano di un amante". Veronica: "Credimi, ti prego". Carcere femminile di Agrigento. Un uomo e una donna si avvicinano l'uno all'altra, nella sala colloqui. Lei gli va incontro, vorrebbe un abbraccio, una carezza, vorrebbe sentire il calore delle mani di quell'uomo. Ma gli agenti della polizia penitenziaria che seguono a distanza l'incontro vedono lui ritrarsi. "No, Veronica, per favore... non posso". E lei capisce da quel gesto che questa partita l'ha perduta. Suo marito, l'uomo che l'ha tanto amata, non le crede più. Davide Stival ci ha provato, ieri. Ha voluto guardare negli occhi la donna che per dieci anni ha creduto moglie e madre esemplare, la stessa che la procura di Ragusa accusa di aver ucciso il figlio Lorys, otto anni, strangolato e buttato in un canale a Santa Croce Camerina, nel Ragusano. "Ho voluto darle una possibilità" ha detto Davide al suo avvocato, Daniele Scrofani Cancellieri. "Ma lei insiste con le bugie e per me i ponti si chiudono qui". Un'ora assieme, la prima da quando Veronica Panarello è in carcere. Lei lo aveva supplicato più e più volte: "Ti prego, Davide, non abbandonarmi. Io non ho ucciso il nostro Lorys". Lui ci ha pensato a lungo e alla fine ha deciso che la madre del suo bambino perduto e di Diego, il più piccolo di casa, meritava una chance. Una specie di prova del fuoco per quest'uomo mite che voleva capire, più di quanto non sappia già, dagli occhi e dalla voce di sua moglie. "Dimmi la verità, non raccontarmi bugie e io cercherò di aiutarti, proverò farti uscire da qui. Dammi la possibilità di aiutarti, te lo chiedo per favore..." l'ha supplicata. "Ma perché non mi credi? Non sono stata io: quella mattina l'ho portato a scuola, è questa la verità" ha giurato lei ancora una volta. Ma nella mente di Davide scorrevano le immagini delle telecamere di Santa Croce, quelle viste assieme agli inquirenti la notte che Veronica è stata arrestata: la Polo nera di sua moglie che seguiva un percorso diverso da quello raccontato da lei... la sagoma di Lorys che usciva di casa e invece di salire in macchina tornava indietro... l'auto che correva in direzione del Vecchio Mulino, proprio dove c'è il canale. Le domande arrivano da sole: "Ho i visto i video, perché ti ostini a raccontare un percorso che non hai fatto?". "Non ho detto bugie. Ho fatto la strada che ho detto". "Ma si vede la macchina e non va verso la scuola". "Io l'ho portato a scuola". "Non mentirmi, Veronica. Si vede Lorys che torna a casa. Non è mai andato a scuola". "Non è vero, si vede un'ombra e non è Lorys. Io l'ho lasciato vicino alla scuola". Veronica piange, è fin troppo evidente che lui non crede a una parola. Chiede di Diego, vorrebbe vederlo, è disperata. Ma Davide non segue la sua emotività, la guarda con distacco, la incalza. "Stai cercando di coprire qualcuno? C'è qualcuno che ti minaccia o che minaccia Diego? In paese si dice che avevi un amante, che forse stai proteggendo lui... Si dice che Lorys forse ha visto qualcosa. Può essere per questo che non vuoi parlare? Dimmi come stanno le cose, ti prego. A questo punto me lo puoi dire". Ancora una risposta decisa, razionale: "Non sto coprendo nessuno. E se anche ci fosse stato un amante ti pare che potrei pensare di coprire lui davanti al nostro bambino ammazzato? Si può mai pensare di ammazzare un figlio per salvare il matrimonio? Mi conosci. Non so come fai a pensare a quello che si dice in paese dopo dieci anni passati con me, non posso credere che tu mi pensi capace di una cosa del genere". Un'ora e un milione di parole rimaste in sospeso. Il tempo è bastato appena per capire che le strade di Veronica e di Davide sono ormai divise, forse per sempre. "Tornerai a trovarmi?" "No, mi dispiace. Non posso più sentire le tue bugie". Carcere femminile di Agrigento. Un uomo e una donna si salutano nella sala colloqui. Sanno tutti e due che potrebbe essere un addio. Lettere: la tortura e le ragioni di Stato risponde Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2015 Caro Furio Colombo, in un recente articolo, Valter Vecellio definisce i metodi di cattura, prigionia e interrogatorio che hanno segnato l'America di Bush uno dei tanti frutti perversi della "Ragion di Stato", la stessa che viene invocata per non svelare segreti e non rendere pubblici certi documenti. Sono convinto anch'io (e dunque d'accordo con i Radicali) che la "Ragion di Stato" è l'impenetrabile scudo di decisioni arbitrarie. Ma la "Ragion di Stato" non ha impedito le rivelazioni americane. Allora perché non avviene anche nel nostro Paese? Gianfranco Ho ascoltato l'articolo di Vecellio letto nella rassegna stampa mattutina di Radio Radicale (e che era stato pubblicato quel giorno, 4 gennaio, da "Il Garantista"). Sono ovviamente d'accordo sia con la campagna che i Radicali conducono da sempre contro la sparizione di interi ed essenziali fatti e decisioni della vita italiana sotto il cemento del segreto di Stato, sia con la narrazione della esemplare vicenda americana: la senatrice Diane Feinstein, entrata in possesso di documenti sul comportamento di vari diversi servizi impegnati nella lotta al terrorismo, per ragioni del suo lavoro parlamentare, ha preso la decisione di renderli pubblici, perché disumani, con l'intento di denunciare una violazione grave delle leggi americane e della Costituzione del Paese. È stata accusata di tradimento da Dick Cheney, un personaggio disposto a tutto, che era stato vice presidente di George W. Bush e che, con l'occasione e il pretesto di difendere il suo capo, adesso attribuisca a Bush tutta la responsabilità di ciò che, di illegale, è accaduto sotto la sua presidenza. Di suo era arrivato al punto da far trapelare l'affiliazione "coperta" alla Cia - dunque creando un immediato pericolo di vita - contro personaggi che avevano smentito lui e Blair e avevano avversato la guerra in Iraq, dimostrando che non vi erano armi di distruzione di massa. Ha ragione di nuovo Vecellio quando ricorda che si deve a Blair e a personaggi come questi se una guerra terribile ma evitabile è scoppiata in anticipo per sventare l'accordo quasi perfezionato di esilio e di abbandono del potere per Saddam Hussein a cui avevano lavorato fin quasi al successo i Radicali italiani. Tutto ciò però non era segreto di Stato ma politica cieca, che ha condotto migliaia di americani a una guerra rovinosa e a una morte inutile, e ha provocato il disastro che dura tuttora e minaccia il crollo di quella parte del mondo. Per questo la senatrice Feinstein ha potuto rivelare ciò che ha rivelato senza incorrere in alcuna accusa di tradimento (la violenza di Cheney è in vista della elezioni presidenziali del dopo Obama). Lo ha fatto perché ha coraggio e ha voluto tener fede al giuramento costituzionale di rispondere ai suoi elettori. Molti italiani avrebbero potuto farlo in circostanze simili, ma hanno ritenuto utile e prudente tacere. E vorrei difendere Obama dalla accusa di "non aver mosso un dito". L'avversione di alcuni potentati del Pentagono contro il presidente è storia nota quasi solo in America e poco narrata anche in quel liberissimo Paese. Infatti Obama stesso ha scelto la strada di aggirare quasi in silenzio certi ostacoli, per esempio svuotando a poco a poco Guantánamo con ordini presidenziali che non passano dal Congresso, sulla base di vari espedienti sostenuti di volta in volta dai media liberal e avversati ferocemente da quella Fox Television che è la fonte delle accuse di Cheney. Per capire la gravità della opposizione che assedia Obama si pensi che un presidente che ha mantenuto tutte le sue promesse, cominciando dalla riforma del sistema sanitario, e ha portato a una crescita del suo paese unica al mondo, del 5 per cento, ha perduto la maggioranza alla Camera e al Senato. Ma è vero che il segreto di Stato pesa su quel Paese e sul nostro, dove però è "dichiarato" dieci volte di più che negli Usa, dove non si fanno avanti senatori come Feinstein, dove da decenni si bloccano inchieste e processi e accertamenti di fatti, in molti casi gravissimi. È questa la battaglia, combattuta da Pannella e dai Radicali per decenni, e sempre attualissima, in difesa dello Stato di diritto contro la ragion di Stato, di cui ha parlato Vecellio, nel suo ultimo articolo. Lettere: ladri di cibo di Alessandra Longo La Repubblica, 7 gennaio 2015 Entrare in un supermercato con la fame addosso. Portarsi via le cose, rubarle, per puro istinto di sopravvivenza. Succede sempre più spesso che vengano sorpresi "i ladri di cibo", quelli che non lo farebbero mai ma ci provano, maldestramente, per mangiare. Le cronache ci raccontano di un senzatetto piacentino fermato in un negozio con le tasche gonfie. "Ho fame e non so come fare", ha detto agli agenti. E sapete cosa hanno fatto quelli del 113, in accordo con il direttore del supermercato? Lo hanno portato in un fast-food e gli hanno pagato il pranzo. Sempre a Piacenza anche il secondo episodio di queste ore. I poliziotti hanno intercettato un italiano di 51 anni che, dopo aver saltato una recinzione, rovistava nei cassonetti di un negozio di alimentari in cerca di avanzi e alimenti scaduti. Gli agenti hanno visto la scena. È calato il silenzio. Nessuna denuncia. Sono scene che fanno male. Venezia: "In casa non ti rivogliamo"… e lui si uccide in cella a 19 anni di Damiano Aliprandi Il Garantista, 7 gennaio 2015 L'ha fatta finita a Santa Maria Maggiore, Venezia. Era un ragazzo. Ed era stato arrestato per un furtarello prima di capodanno. Con l'anno nuovo si ricomincia la triste e inarrestabile conta delle morti in carcere. Domenica scorsa, un diciannovenne romeno, residente ad Appiano Gentile (Como), si è tolto la vita all'interno del carcere di Santa Maggiore a Venezia. Era stato tratto in arresto alla vigilia di Capodanno per un reato contro il patrimonio, ovvero per un furto; un reato non grave, tanto è vero che il magistrato Andrea Gomez ha ritenuto dì non doverlo rinchiudere in carcere, ma affidarlo agli arresti domiciliari mentre è in attesa di giudizio. La vicenda drammatica del ragazzo sarebbe iniziata con il fatto che i genitori avrebbero rifiutato di accoglierlo in casa. A quel punto, senza nessuna dimora dove scontare la custodia cautelare, al ragazzo è rimasta come una unica alternativa il carcere stesso. Ma non ha resistito perché dopo cinque giorni è stato ritrovato impiccato nella doccia della cella che divideva con altri detenuti. Nonostante il tempestivo intervento degli operatori sanitari del 118, per il giovane non c'è stato nulla da fare e, dopo numerosi tentativi di rianimazione, non e rimasto altro che constatare il decesso. Il ragazzo, sulla cui morte stanno attualmente indagando i carabinieri del nucleo investigativo, viveva in Italia da ben quattordici anni. E un terribile dramma umano che mette di nuovo in luce il problema principale dei detenuti senza fissa dimora, e colpisce soprattutto gli stranieri. I reati di cui sono in genere responsabili i senza fissa dimora rientrano nella cosiddetta "micro-criminalità": la scarsa gravità dei reati da una parte, e dall'altra i benefici previsti dalla legge per pene di questo genere (affidamento ai servizi sociali, semilibertà, etc. etc.), farebbero pensare a buone possibilità di reinserimento per questa area di detenuti. Oppure, proprio per i reati non gravi, hanno la possibilità di non essere rinchiusi in carcere mentre sono in attesa di giudizio. La realtà è un'altra e possono accadere anche eventi paradossali come la storia del clochard arrestato perché era "evaso" dalla panchina. Era agli arresti domiciliari. Ma non avendo una casa, aveva eletto come domicilio una panchina del parco di Borgosatollo, un paese alla porte di Brescia. E il giudice aveva dato parere favorevole. Ma quando i carabinieri effettuarono il solito controllo, non vedendolo sulla panchina, lo considerarono alla stregua di un evaso. E così, per il 43enne Ilario Bonazzoli, questo il nome del clochard, nel 2009 per arrivata la condanna in primo grado a 10 mesi dì carcere: la motivazione suona come una beffa recitando che l'imputato era colpevole "per non essersi fatto trovare a casa nonostante fosse agli arresti domiciliari". L'anno scorso la sentenza d'appello aveva ribaltato il primo grado e sancì che Bonazzoli doveva lasciare il penitenziario di Ivrea dove era attualmente detenuto. Ma la questione del domicilio si ripropose inevitabilmente. Il problema, a quel punto, ricadde sui servizi sociali di Borgosatollo, dove il senza fissa dimora doveva risiedere: "Oggi come oggi, non saprei nemmeno dove alloggiarlo, non abbiamo strutture da offrirgli - commentò all'epoca il sindaco di Borgosatollo Francesco Zanardini. L'unico aiuto che gli possiamo dare è trovare una residenza fittizia". Per i senza fissa dimora, il carcere non sarà mai la soluzione e la punizione non è utile per la stessa sicurezza sociale. I comportamenti - considerati "devianti" dalla società - tendono a ripetersi nel tempo per assenza di alternative sostanziali. L'esperienza di detenzione infatti si inserisce in situazioni personali e familiari spesso deprivate sia dal punto dì vista economico che culturale: questa posizione di svantaggio - assieme alla carenza di risorse del sistema di sicurezza sociale - fa sì che chi "sbaglia" una volta, paga una pena doppia: cioè la detenzione e la successiva esclusione ripetuta esclusione del contesto sociale e lavorativo. Chi ha precedenti penali infatti avrà sempre poche speranze di trovare un lavoro regolarmente retribuito. Ad aggravare questa situazione è l'assenza di una fissa dimora; la ricerca dì un lavoro si presenta pressoché impossibile a meno che non si reperisce una sistemazione alloggiativa, ma altrettanto irraggiungibile per una persona sola senza un reddito fisso. Altrettanto difficile è, per loro, usufruire delle misure alternative alla detenzione. La prima difficoltà è dell'ordine economico: l'impossibilità di pagarsi un avvocato fa sì che debbano ricorrere alla difesa dell'avvocato d'ufficio. Inoltre non sempre dispongono delle informazioni necessarie per richiedere i benefici di cui hanno diritto: è necessario un collegamento con l'esterno, una conoscenza delle risorse del sistema sociale che chi vive per strada spesso non ha. Un ruolo decisivo, come abbiamo già raccontato, è di nuovo determinato dalla possibilità di avere una dimora stabile che è indispensabile per ottenere misure alternative come gli arresti domiciliari o l'affidamento in prova al servizio sociale o delle licenze. Sarà forse il caso di evocare meno "giustizia penale" e invocare, invece, più "giustizia sociale"? Suicida a 19 anni a Santa Maria Maggiore (La Nuova Venezia) Il giovane si è impiccato nelle docce con un lenzuolo. La Procura apre un'indagine. il padre: "Voleva disintossicarsi". Si è impiccato a 19 anni, nella doccia di una cella del carcere di Santa Maria Maggiore, domenica. È morto così un ragazzo di nazionalità rumena, ma residente sin da piccolo in provincia di Como - ad Appiano Gentile - arrestato il 31 dicembre a Venezia dai carabinieri, su ordine di custodia cautelare emesso dalla Procura di Como, per un reato contro il patrimonio: nulla di così drammaticamente grave, tanto che il giudice per le indagini preliminari Andrea Comez - che lo ha sentito in sede di interrogatorio di garanzia - avrebbe voluto disporre per lui gli arresti domiciliari, ma la madre ha negato l'autorizzazione ad accoglierlo in casa, dopo una vita di tribolazioni, tra i continui arresti, furti e "bravate" del figlio, con problemi di tossicodipendenza. La donna sperava che tenendolo lontano dal Comasco, il ragazzo riuscisse a stare fuori dai guai e disintossicarsi. Invece il giovane Adrian è tornato in cella, ha portato con sé in doccia un lenzuolo e si è impiccato nel piccolo bagno: uno spazio non visibile, per questioni di privacy. Nel tardo pomeriggio di domenica l'allarme, dato dai due compagni di cella che hanno tentato inutilmente di aiutarlo, come vano è stato l'intervento del personale del carcere (prima) e dei medici del Suem 118 (dopo). Fino a tarda ora sono proseguiti gli accertamenti da parte dei carabinieri del Nucleo investigativo e dei Ris, alla presenza del pubblico ministero di turno, Lucia d'Alessandro, rimasta in carcere con gli investigatori fino alle 3 di notte, per sentire gli agenti di Polizia penitenziaria e i due compagni di cella del ragazzo. Non è emersa alcuna responsabilità nella morte di Adrian da parte del personale del carcere o di altri detenuti, ma gli accertamenti proseguiranno con l'autopsia, affidata al medico legale Antonello Cirnelli: il suicidio di un ragazzo affidato allo Stato in un carcere è un dramma da chiarire in ogni aspetto. Una vita così breve, eppure segnata più volte da piccoli furti, segnalazioni alle forze dell'ordine di Appiano Gentile, che ben conoscevano il ragazzo e i suoi problemi con la droga: Adrian a 14 anni era scappato di casa e da solo, alla guida di un'auto, aveva raggiunto il padre, che da anni abita in un furgone a Marghera. Poi i carabinieri lo avevano riportato indietro. Agli investigatori ieri il padre, distrutto, ha raccontato che avrebbe dovuto incontrare il figlio a Venezia, per andare a visitare insieme una comunità. Invece erano scattate le manette - nella serata di san Silvestro - per quell'ordine di custodia in arrivo da Como: sabato 3 gennaio l'interrogatorio di garanzia e il ritorno a Santa Maria Maggiore in attesa del processo, non essendo stato possibile individuare un'abitazione per gli arresti domiciliari. Poche ore dopo, la tragedia di una famiglia. Caltagirone (Ct): suicida agente di Polizia penitenziaria in servizio a Bicocca La Sicilia, 7 gennaio 2015 Un poliziotto penitenziario di 46 anni in servizio al nucleo traduzioni della casa Circondariale di Catania Bicocca, si è tolto la vita, nel primo pomeriggio, a bordo della sua macchina nelle campagne di Caltagirone, vicino al penitenziario della cittadina sicula. Ne danno notizia il Sindacato autonomo polizia penitenziaria e l'Osapp. "Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei cinque Corpi di Polizia dello Stato italiano" dice Donato Capece, segretario generale del Sappe che ricorda come "nel 2014 furono 10 i casi di suicidio nelle file della Polizia Penitenziaria". Ancora oscure le cause che hanno portato l'uomo, sposato e padre di due figlie di 13 e 17 anni, al tragico gesto, ma Capece sottolinea come sia importante "evitare strumentalizzazioni ma fondamentale e necessario è comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l'attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere dal poliziotto. "È arrivato il momento che il nuovo Capo del Dipartimento cominci seriamente ad affrontare i problemi del Corpo e dei suoi uomini, perché adesso più che mai è diventato sempre più complicato, anche sotto l'aspetto psichico, fare il Poliziotto Penitenziario nelle carceri italiane", dice il segretario generale aggiunto dell'Osapp Domenico Nicotra. Caltanissetta: detenuto suicida in carcere nel 2011, dossier nelle mani del Gip di Vincenzo Falci Giornale di Sicilia, 7 gennaio 2015 Il giudice dovrà pronunciarsi sulla seconda richiesta di archiviazione avanzata dalla procura e che è stata impugnata dai familiari della vittima. Nelle mani del Gip il dossier a carico di cinque medici indagati per omicidio colposo sull'onda del suicidio in carcere di un detenuto. Sarà il giudice a stabilire da che parte penderà l'ago della bilancia. Se verso la procura che per la seconda volta ha proposto l'archiviazione del caso o, piuttosto, dall'altro lato, quello dei familiari della vittima (assistiti dall'avvocato Massimiliano Bellini) che di contro hanno chiesto nuove indagini o, spingendosi oltre, anche l'imputazione coatta. Una partita giudiziaria tutta da giocare. E che ruota attorno all'estremo gesto compiuto in carcere dal quarantaseienne Giuseppe Di Blasi, trovato ucciso nella sua cella del "Malaspina" il pomeriggio del 27 dicembre 2011. I suoi familiari hanno sempre posto sul tappeto la precarie condizioni di salute del detenuto. Che nel periodo di detenzione aveva pure perso parecchio peso. Di Blasi, al momento del suo ingresso in carcere per scontare una condanna, pesava infatti oltre cento chili. Ma nel giro di nove mesi si sarebbe smagrito perdendo oltre venticinque chilogrammi. Padova: Pegoraro (Cgil penitenziari); Alta Sicurezza? magari la trasferissero Il Mattino di Padova, 7 gennaio 2015 Il progetto di trasferire la sezione Alta sicurezza (che occupa un piano della casa di reclusione Due Palazzi ed ospita un centinaio di detenuti), fa tirare un respiro di sollievo a Giampietro Pegoraro, coordinatore regionale Cgil penitenziari. Il direttore del carcere, Salvatore Pirruccio, parla di un "progetto non imminente, al momento non c'è alcun atto ufficiale" e ci tiene a precisare che "i detenuti in Alta sicurezza che hanno intrapreso un percorso riabilitativo-trattamentale (scuola, corsi, lavoro) potrebbero essere esclusi dall'eventuale trasferimento". Pegoraro, dal canto suo, vede con grande ottimismo il futuro del Due Palazzi dopo il trasloco della sezione Alta sicurezza. "Allora sì potrebbe diventare un carcere modello. E potrebbero essere incrementate le attività per i detenuti comuni, il lavoro, la partecipazione a corsi e attività, la frequenza a scuola. Tutte cose che hanno maggiori limitazioni in presenza di una sezione Alta sicurezza". Non solo: "Per gli agenti di polizia penitenziaria si eviterebbero tensioni e rischi sul lavoro", continua il coordinatore regionale della Cgil. E, si può aggiungere, anche rischi di corruzione come quella che ha coinvolto sei agenti, uno dei quali si è suicidato in agosto, che ha portato a 15 arresti e 31 persone indagate. "Senza l'alta sicurezza si libererebbero molte risorse e molti uomini e il fatto che non ci sarebbe più differenza di trattamento e condizioni tra detenuti consentirebbe di allargare molto la partecipazione ad attività lavorative o ricreative". Tanto per fare un esempio concreto, Giampietro Pegoraro tira fuori la faccenda delle visite mediche, o dei ricoveri, in ospedale di detenuti in regime di Alta sicurezza. Un solo detenuto che debba essere accompagnato in ospedale comporta la mobilitazione di almeno dieci agenti per scorta e sorveglianza, del cellulare e di forze dell'ordine esterne, polizia o carabinieri: "Senza contare il disagio per i cittadini che sono in ospedale e che si trovano davanti poliziotti con il mitra in mano", spiega il sindacalista. "In caso di ricovero poi rimane la la scorta fissa in corsia, dove ovviamente ci sono anche gli altri malati. Questo prevedono le norme di sicurezza. E questo è un grande problema da risolvere". Lecce: rischio tubercolosi, l'Asl chiede controlli su immigrati e detenuti www.leccesette.it, 7 gennaio 2015 L'azienda chiede massima attenzione per una patologia infettiva che da noi era quasi scomparsa. Attenzione alla recrudescenza da Tbc. Lo chiede la Asl allertando gli operatori che devono prestare soccorsi a immigrati e ai detenuti del carcere di Borgo San Nicola. Come spiega il sito salutesalento.it da qualche anno in qua la Tbc fa paura per la sua recrudescenza, soprattutto la forma "bacillifera". Una patologia infettiva che da noi era quasi scomparsa e che ha ripreso a galoppare dopo l'accoglienza e l'ospitalità agli immigrati e agli extracomunitari. Soggetti, spiegano gli pneumologi di casa nostra, che spesso sono portatori sani, nei quali la Tbc lantentizza. "Rispetto agli anni passati, quando i casi di Tbc erano rari - ha riferito Anacleto Romano primario di Malattie Infettive al "Vito Fazzi" nel corso di un convegno - Adesso è quasi sempre presente in reparto almeno un paziente con una Tbc polmonare bacillifera. E in alcuni periodi anche 2-3-4 ricoverati contemporaneamente. Si tratta in genere di soggetti immigrati, che vengono soprattutto dell'est, come la Romania e dall'Africa. Ma anche casi di italiani infettati". Ma il rischio della ripresa della Tbc, per il quale la Asl di Lecce sta mobilitando e allertando le sue unità operative, ridefinendo funzioni e responsabilità, risale ad alcuni anni addietro. Elio Costantino, presidente regionale di Aipo, l'associazione italiana degli pneumologi ospedalieri, ha confermato che "in Puglia la presenza di immigrati e di extracomunitari ha sicuramente una relazione con il ritorno della Tbc e con l'aumento delle Bpco (broncopneumopatie). Sono state fatte delle indagini al Cara, il centro accoglienza richiedenti asilo di Bari in tre anni successivi: 2009 -2010 e 2011. Per il 2009 e 2010 si è visto che l'incidenza di "cutipositivi", cioè di soggetti che erano risultati positivi al "tine-test", era presente in una percentuale intorno al 30 per cento. Di questi però soltanto 4 su 912 presentavano tubercolosi attiva. I dati del 2011 erano parziali perché l'indagine venne fatta i giorni in cui ci fu la rivolta per il riconoscimento di rifugiati politici". I tisiologi spiegano che lo screening è necessario "perché questi soggetti presentano un'infezione tubercolare latente; cioè sono venuti a contatto con il bacillo di Kock, ma non sono soggetti malati e non sono pericolosi per gli altri, "ma qualora le difese immunitarie dovessero abbassarsi - mette in guardia il dottore Costantino - possono slatentizzare la malattia e diventano con Tbc attiva". Al Servizio Pneumotisiologico Sovradistrettuale della Asl è stato affidato il coordinamento funzionale degli Ambulatori Distrettuali di Pneumologia e degli Pneumologi in servizio presso la Casa Circondariale di Lecce. Roma: funerali padre vietati al detenuto, no a visite anche prima che morisse di Francesca Mariani Il Tempo, 7 gennaio 2015 Aveva saputo che il padre stava male. Da un momento all'altro il cuore del genitore si sarebbe potuto fermare. Così non ha esitato a rivolgersi al giudice per chiedere un permesso necessario per andare a visitare il padre. Nulla da fare. Il Tribunale gli ha negato questa possibilità. E così, il detenuto non ha potuto far altro che venire a sapere dalla cella di Rebibbia che il papà dopo qualche giorno dalla sua richiesta era morto. E così non ha potuto dargli l'ultimo saluto. L'uomo, detenuto nella sezione di alta sicurezza di Rebibbia, Nuovo Complesso, aveva infatti chiesto un permesso di necessità di due ore con scorta per visitare il padre gravemente malato, ma per la Corte di appello di Napoli non sussisteva il requisito dell'imminente pericolo di vita. Qualche giorno dopo, però, l'uomo è deceduto senza che il figlio detenuto potesse fargli visita. Protagonista della vicenda, denunciata dal Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, è il napoletano Massimiliano P., 48 anni, rinchiuso nel penitenziario romano in attesa di giudizio. La vicenda risale al primo dicembre, quando l'uomo - che si è rivolto al Garante per segnalare quanto accaduto - aveva chiesto alla Corte d'appello di Napoli di visitare il padre malato ma i giudici napoletani, negando il permesso, avevano valutato l'uomo non in imminente pericolo di vita. Purtroppo però, smentendo drammaticamente quanto scritto nel provvedimento di diniego, il 26 dicembre il padre del detenuto è deceduto, senza che il figlio potesse fargli visita un'ultima volta. A ciò si aggiunga che Massimiliano P. non ha potuto presenziare alle esequie o vedere la salma prima della cremazione perché un'altra richiesta alla Corte di appello è rimasta senza risposta. Per protestare, il 29 dicembre il detenuto ha iniziato uno sciopero della fame, sospeso solo dopo l'intervento degli operatori del Garante. "La cosa che più mi rattrista - ha raccontato l'uomo al Garante - è sapere che mio padre aspettava me per morire. Lo sciopero della fame non me lo riporterà, né riuscirà a placare la rabbia di ingiustizia. Voglio solo esprimere pacificamente il mio dolore per evitare che, in futuro, si verifichino altri casi del genere". Sulla vicenda, il Garante Angiolo Marroni, ha inviato una lettera al Presidente della 1 sezione della Corte di appello di Napoli. "Mi chiedo - ha scritto Marroni - sulla base di quale istruttoria ha ritenuto di rigettare l'istanza in questione e se vi siano state ragioni particolari che hanno giustificato un trattamento inumano nei confronti del detenuto in questione". E ancora: "Prova ne sia il fatto che pochi giorni dopo quella richiesta lo stesso è deceduto. Le chiedo inoltre quali siano le ragioni che hanno impedito di rispondere alla richiesta del detenuto di poter presenziare alle esequie". E intanto un poliziotto penitenziario di 46 anni in servizio nella Casa circondariale di Catania si è tolto la vita a bordo della sua auto a Caltagirone. Varese: il carcere di Miogni nella "lista nazionale" di Libera sulla corruzione di Adriana Morlacchi La Provincia di Varese, 7 gennaio 2015 Lo scandalo del carcere è tra i primi dieci della classifica di Libera. Il vicepresidente Ginelli: "Si riparta dall'onestà di chi amministra". Varese è entrata a pieno titolo nella "hit parade" della corruzione. Si è posizionata al nono posto tra i dieci scandali più eclatanti del 2014, secondo una classifica compilata dall'associazione Libero e dal Gruppo Abele. Tutta colpa del carcere di Varese, definito "a luci rosse", perché, secondo l'accusa, "i membri della polizia penitenziaria hanno fatto evadere uno sfruttatore di prostitute in cambio di rapporti". Un carcere dove "la corruzione non è a base di denaro, ma di sesso", usando gli stessi termini con cui ne parla ItaliaOggi. Essere nella hit - nella stessa lista dove compaiono la "cupola romana", con la cooperativa di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, nonché le spese pazze dell'ex governatore del Piemonte Roberto Cota - rappresenta una vera e propria onta che non sarà facile cancellare. Come recuperare? "Operare secondo canoni etici" "In provincia di Varese abbiamo sempre avuto la mentalità che il successo derivasse da lavoro sano e incessante". "Sicuramente stiamo diventando come il resto dell'Italia - afferma Giorgio Ginelli, vicepresidente della Provincia - Fondamentale per cambiare rotta deve essere l'onestà degli amministratori pubblici e dei dipendenti. Bisogna adoperarsi secondo i cardini etici per cui la Provincia di Varese ha sempre brillato". Gli strumenti ci sono già, anche se farli rispettare non è semplice e andrebbero forse in parte semplificati. "La normativa per appalti e gare è strettissima, non bisogna fare altro che farla applicare, producendo tonnellate di carta per onorare tutti gli impedimenti richiesti. Il problema è la disonestà imperante" continua Ginelli, che suggerisce anche di "dare pubblicità assoluta della situazione reddituale a tutti i livelli". "Un risveglio delle coscienze" "Tenere le porte degli uffici sempre aperte, in modo che tutti possano sentire le conversazioni degli altri. In un open-space, il dirigente quando parla con un fornitore ha davanti gli impiegati, cosa che funziona da controllo incrociato". Il caso del carcere dei Miogni, però, secondo Ginelli non rappresenta la città: "Quella è una situazione miserabile, mentre ci sono esempi molto positivi nel nostro territorio. Guardiamo anche il bicchiere mezzo pieno". La presenza di Varese nella hit può servire a risvegliare le coscienze. Soprattutto quelle che pensano che la corruzione non ci riguardi, che sia roba d'altri. "Che Varese figuri in quella lista sorprende perché stiamo parlando di una città di provincia, caratterizzata da un tessuto produttivo di alto livello - commenta Antonella Buonopane, portavoce varesina di Libera, associazione contro la corruzione - Caratteristiche che, in altre realtà, hanno dimostrato di non essere di per sé un anticorpo alla corruzione. Il dato significativo è che fino a qualche anno fa si riteneva che il Nord Italia fosse immune alla corruzione. Cosa che non è assolutamente vera. Non è la graduatoria che preoccupa, ma la pervasività della corruzione nelle istituzioni e nella politica, con interrelazioni con il mondo dell'impresa". Libera ha un'idea per combattere il fenomeno: "Ci siamo attivati da un anno per allargare la legge 109 sulla confisca dei beni non solo ai mafiosi, ma anche ai corrotti". "Ovvero: quando nacque la legge era stata concepita anche per i corrotti. Ma quando fu votata, non si estese la confisca alla corruzione. Quella è una lacuna che va colmata". Como: Radicali Italiani e Fondazione Exodus in visita al carcere del Bassone www.radicali.it, 7 gennaio 2015 Dichiarazione di Valerio Federico, tesoriere di Radicali Italiani: "I detenuti, anche a Como, scontano due pene, quella per i reati commessi e quella, supplementare, per le condizioni che vivono all'interno degli istituti penitenziari. Questa seconda pena, illegale, è scontata anche dai detenuti in custodia cautelare, in Italia - in percentuale - quattro volte quelli della Francia e otto volte quelli della Gran Bretagna". "Il regolamento penitenziario del 1975, modificato nel 2000, afferma una serie di diritti per il detenuto finalizzati alla rieducazione e a trattamenti "umani", come previsto dalla Costituzione delle Repubblica. Questo ordinamento è pluri-violato: gli imputati dovrebbero pernottare in camere a un posto, non avviene; i servizi igienici, compresa la doccia, è previsto che siano collocati in un vano annesso alla camera, non avviene; "ai fini del trattamento rieducativo al condannato e all'internato va assicurato il lavoro", non avviene. Si potrebbe continuare. Ad esempio con l'acqua calda che dovrebbe essere disponibile nelle celle e che non essendolo, porta i detenuti di Como, privi di lavanderia, a lavare i propri indumenti sotto le 3 o 4 docce (una in condizioni pietose proprio per i 17 detenuti della sezione infermeria) disponibili ogni 60 detenuti. Lo Stato italiano viola dunque le regole che si dà e l'ordinamento penitenziario, nelle carceri italiane, è di fatto carta straccia". "Va segnalato inoltre un tasso di sovraffollamento a Como pari al 180 per cento, 367 detenuti presenti in 200 posti effettivamente utilizzabili. Sono cinque gli educatori, uno ogni 73 detenuti. Accanto al carcere vi è un'aula bunker per la quale si spesero oltre 10 miliardi di vecchie lire. È stata utilizzata per un solo processo oltre 20 anni fa ed è ora in stato di completo abbandono". "È rilevante la novità della sorveglianza dinamica, lodevole iniziativa del Dap, che a Como ha portato i detenuti di cinque sezioni su sette a poter "socializzare" fuori dalle celle per oltre dieci ore giornaliere". "Otto detenute della Casa Circondariale di Como hanno aderito con un giorno di sciopero della fame - preannunciato per giovedì 8 gennaio - al Satyagraha di Natale con Marco Pannella". Firenze: il Card. Betori "nelle carceri condizioni disumane, nessuna dignità" www.gonews.it, 7 gennaio 2015 "Oppressione e violazione della dignità umana assumono molte forme nella nostra società". Così l'arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, nell'omelia per la messa dell'Epifania nella cattedrale di Santa Maria del Fiore. Tra queste violazioni Betori ne ha voluta citare una in particolare: "Le condizioni disumane in cui versano le nostre carceri, che non assicurano dignità di persona e possibilità di riscatto ai detenuti". Il carcere, secondo l'arcivescovo, deve "garantire condizioni di vita dignitosa e percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale a chi, pur avendo commesso delitti, non può però essere rifiutato per sempre, senza prospettiva di espiazione e di rinascita". Rifacendosi alla luce che insieme al cammino è uno dei simboli dell'Epifania cristiana, Betori si è chiesto "quali siano oggi i nostri idoli, quelli che facciamo entrare in concorrenza con lo splendore della luce che è Dio". "Si è persa l'identità propria dell'uomo" e questo porta ad altre forme di idolatria, "quelle legate alla presunzione dell'uomo di farsi misura a se stesso, di pensare di poter trovare felicità andando dietro alle proprie voglie, senza riferimenti morali e dimenticando gli altri". "Dall'individualismo, che trasforma i desideri in diritti, scaturisce anche l'indebolimento dei legami sociali - ha concluso l'arcivescovo, fino alla ricerca di affermare se stesso contro l'altro, fino a schiacciarlo, a schiavizzarlo". Aversa (Ce): "Viviani e non solo" all'Opg spettacolo-omaggio a Pino Daniele www.campanianotizie.com, 7 gennaio 2015 L'atteso spettacolo "Viviani e non solo", ideato e magistralmente interpretato da Antonio Buonomo, l'ultimo artista vero della tradizione napoletana, in programma giovedì 8 gennaio 2015, alle ore 18, presso il teatro dell'Ospedale Psichiatrico "F. Saporito" di Aversa, rappresenterà anche un omaggio a Pino Daniele. Il doveroso tributo a uno dei cardini della musica internazionale, a un pezzo di cuore della nostra Napoli, è stato fortemente voluto da Buonomo in piena sintonia con i promotori dell'evento, l'Associazione Casmu e PulciNellaMente, che da alcuni anni non hanno lesinato energie pur di testimoniare una solidarietà concreta - piuttosto che evocata - agli internati della struttura penitenziaria normanna cui la vita purtroppo ha riservato sofferenza e disperazione. Antonio Buonomo ha avuto il privilegio di seguire Daniele fin da giovanissimo e l'improvvisa quanto dolorosissima scomparsa lo ha fortemente addolorato come traspare da questo suo personale ricordo: "Addio Pinotto, così ti chiamavo da ragazzo. Ti ho visto muovere i tuoi primi passi nel mondo della musica e mi vanto di essere stato uno a cui hai chiesto il parere su quello che scrivevi. Non ho mai avuto dubbi sulla possibilità che avresti avuto un grande successo e fui uno dei primi a dirtelo. Hai fatto grandi cose e se il nostro orgoglio. Così come altri grandi artisti che se ne sono andati prima di te, lasci un vuoto incolmabile in tutti noi, cià guagliò". "Non immaginavamo neanche lontanamente - dichiarano il coordinatore Mario Guida e il direttore di PulciNellaMente Elpidio Iorio - di realizzare lo spettacolo "Viviani …. e non solo" nelle ore in cui si celebra il funerale di Pino Daniele alla cui arte - che resterà eterna - tutti noi ci inchiniamo. Dopo l'iniziale sconforto, sentendoci con Antonio Buonomo - che come si può immaginare è fortemente provato - abbiamo deciso che l'occasione dello spettacolo sarebbe stato propizia per tributare un immediato omaggio a Daniele. Il contesto dell'Opg, con i suoi ospiti segnati dalla sofferenza ma per nulla disposti a perdere la speranza, ci siamo detti è il luogo che Daniele avrebbe sicuramente gradito per essere ricordato perché lì più che altrove ci sono quei valori che nella sua opera ha più volte evocato e tutelato". Dunque appuntamento a giovedì prossimo, presso il teatro della struttura normanna dell'Amministrazione Penitenziaria, dove andrà in scena l'atteso spettacolo "Viviani …. e non solo". Un evento teatrale imperdibile per quanti amano l'attore teatrale, il compositore, il poeta e scrittore Raffaele Viviani. I protagonisti di questo spettacolo sono Antonio Buonomo e Patrizia Masiello, al pianoforte il M° Ciro Brancaccio, alle percussioni il M° Bruno Del Grosso, al sassofono il M° Vincenzo Savarese. Presenta la serata Cristina Del Grosso. Ancora una volta Antonio Buonomo, una grande personalità del teatro e della canzone napoletana, compie un gesto di grande vicinanza verso gli internati dell'Opg offrendo loro uno spettacolo in cui restituisce una nuova luce all'intramontabile canzone classica napoletana, protagonista dei suoi spettacoli di varietà e prosa, spaziando in particolare tra i capolavori tratti dalla vasta opera del grande Viviani. L'iniziativa, ancora una volta, è promossa grazie alla felice intesa tra l'Associazione Casmu, presieduta da Mario Guida, la Rassegna Nazionale di Teatro scuola PulciNellaMente, rappresentata dal direttore Elpidio Iorio, e i vertici dell'OPG aversano, ovvero la direttrice Elisabetta Palmieri e il comandante commissario Luigi Mosca. Si avvale, inoltre, del patrocinio del Comune di Aversa, che attraverso il sindaco Giuseppe Sagliocco ha voluto fortemente sostenerla per il suo alto significato solidale. Sio Giordano coordinerà i services tecnici di audio e luci; Nicola Perfetto si occuperà di addobbi e fiori, il buffet sarà offerto dal Bar Crystal di Gricignano di Aversa mentre l'animazione sarà curata dall'agenzia "Frizzi Party" di Cesa. Belgio: niente eutanasia per lo stupratore seriale, stop a 5 giorni dall'iniezione La Repubblica, 7 gennaio 2015 Dietro-front della commissione medica in extremis: Frank van Den Bleeken aveva chiesto di beneficiare della legge del 2002 per porre fine alle ‘sofferenze psicologichè della vita in cella: "Non posso uscire perché colpirei di nuovo". Ora lo stop inatteso e la decisione del ministro di trasferirlo in una struttura medico-carceraria. I parenti delle vittime: "Deve marcire dentro". Non riceverà l'eutanasia Frank Van Den Bleeken, il belga in carcere da 30 anni per omicidio e diversi stupri. Il governo, sulla base di un parere medico, ha negato la richiesta del suicidio assistito avanzata dall'ergastolano di 52 anni. Richiesta che pochi giorni fa era stata accolta, tanto che l'iniezione letale era già fissata per l'11 gennaio. Van Den Bleeken aveva ammesso di non poter riuscire a contenere la violenza. "Se sarò rimesso in libertà mi comporterò allo stesso modo, sono un pericolo pubblico. Che cosa dovrò fare, stare seduto qui a marcire fino all'ultimo giorno della mia vita? Preferisco l'eutanasia", aveva dichiarato motivando la sua richiesta. Il ministro della Giustizia belga, Koes Geens, ha però bloccato la "procedura d'eutanasia", decidendo che il detenuto sarà trasferito in una struttura psichiatrica legale, specializzata in lungodegenti, a Gand, aperta di recente dove, spiega, avrà una "vita qualitativamente decente". Una decisione, fa sapere il ministro dopo le polemiche dei giorni scorsi, che attiene a "motivi personali legati al segreto medico" e soprattutto dimostra "la capacità logistica del Belgio di agire in conformità con gli standard moderni di monitoraggio di questo tipo di carcerati". Van Den Bleeken violentò e strangolo una ragazza di 19 anni nel 1989 in un bosco nei pressi di Anversa. La madre della vittima morì di crepacuore. Le sorelle della donna uccisa da Van den Bleeken si sono opposte alla concessione dell'eutanasia: "Quell'uomo deve marcire in cella", hanno detto. L'eutanasia in Belgio è legale dal 2002 e nel 2013 c'è stato il record dei casi, 1.807. Giorni fa, quando un giudice della Corte d'Appello belga aveva accolto la richiesta di Van Den Bleeken, la Lega dei Diritti dell'Uomo aveva duramente criticato il silenzio delle autorità politiche di Bruxelles, sottolineando come quella tragica domanda di eutanasia fosse la conseguenza immediata dell'incapacità dello Stato di fornire a detenuti con gravissimi problemi mentali un trattamento medico adeguato. Del resto, lo stesso Van Den Bleeken aveva dichiarato di desiderare la morte proprio perché si trovava in carcere in condizioni "disumane". In quel luogo, aveva sottolineato, non aveva alcuna possibilità di "convivere con i suoi enormi problemi psicologici e di controllare i suoi impulsi sessuali". Il caso ha sollevato forti polemiche sui limiti del ricorso all'eutanasia, in un Paese come il Belgio che ha una delle legislazioni tra le più articolate ed estese al mondo. Il testo, aggiornato nel 2002, prevede infatti il via libera all'eutanasia in caso di una "sofferenza fisica o psichica costante e insopportabile". Tuttavia, tanti, anche qui in Belgio, hanno visto dietro la scelta iniziale dei medici a favore del suicidio assistito una sorta di resa di fronte a un sistema carcerario inefficiente. Oggi il dietrofront del governo che smorza, ma solo in parte, il dibattito, restringendo la casistica di applicazione della norma, almeno per quanto riguarda gli ergastolani. Stati Uniti: Obama svuota in segreto Guantánamo, voli notturni con detenuti Ansa, 7 gennaio 2015 Si moltiplicano i voli segreti notturni per rilasciare i detenuti in questi due ultimi mesi, e Guantánamo non è mai stata così vuota. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, punta a centrare un obiettivo finora impossibile, nonostante sia stata una delle sue promesse all'inizio del primo mandato: svuotare il carcere militare americano a Cuba negli ultimi due anni di presidenza. L'idea è di lasciare a Guantánamo solo tra i 60 e gli 80 detenuti in modo che tenere aperto il carcere di massima sicurezza non abbia più senso dal punto di vista economico. Così facendo l'inquilino della Casa Bianca metterebbe il Congresso di fronte alle proprie responsabilità: controllato da oggi dall'opposizione repubblicana, recisamente contraria a portare negli Stati Uniti pericolosi terroristi islamici (o presunti tali) Capitol Hill si batte da sempre contro qualsiasi tipo di spreco e i costi di Guantánamo lieviterebbero, se calcolati per singolo detenuto. Nel carcere situato a Cuba ci sono ora 127 detenuti, in drastico calo rispetto ai 680 del 2003 e in due mesi sono stati realizzati più progressi rispetto ai 5 anni precedenti. La Difesa è pronta a rilasciare altri due gruppi nelle prossime due settimane. Un'ondata che sarà seguita da un probabile rallentamento dei rilasci, anche se l'amministrazione non ha intenzione di allentare gli sforzi. Il Pentagono e il Dipartimento di Giustizia devono infatti trattare con i governi stranieri la restituzione dei prigionieri, 59 dei quali sono già stati dichiarati idonei al rilascio. La strada è ancora lunga ma Obama ritiene che Ashton Carter, neo-segretario alla Difesa, si muoverà in modo più aggressivo rispetto al suo predecessore Chuck Hagel. Hagel, un repubblicano, si è mosso troppo lentamente nella liberazione dei detenuti, suscitando la frustrazione della Casa Bianca. Secondo indiscrezioni, Carter è più vicino alle posizioni di Obama e alla sua volontà di chiudere il capitolo Guantánamo. Obama punta a smantellare il carcere di massima sicurezza da quando si è insediato alla Casa Bianca. E il non esserci finora riuscito gli ha attirato critiche, con molti che ritengono che non abbia perseguito l'obiettivo con forza sufficiente. Dopo aver incontrato la resistenza del Congresso nel 2009, Obama aveva infatti in parte accantonato l'ipotesi, tornando a cavalcare l'obiettivo solo nel 2013. "Il Dipartimento della Difesa continua a premere per i trasferimenti" dei prigionieri di basso livello di pericolosità che sono stati dichiarati idonei, afferma Paul Lewis, l'inviato speciale del Pentagono per la chiusura di Guantánamo. Ma "abbiamo l'obbligo di valutare seriamente la potenziale minaccia dei detenuti prima dei trasferimenti". Pakistan: impiccati 2 terroristi, 9 esecuzioni da revoca moratoria pena morte Aki, 7 gennaio 2015 Due uomini accusati di reati terroristici sono stati impiccati alle 6 di questa mattina ora locale nel nuovo carcere centrale di Multan, nel Punjab orientale in Pakistan. Lo riferisce il sito di Dawn. Salgono così a nove le persone impiccate da quando il primo ministro Nawaz Sharif ha revocato la moratoria sulla pena di morte in seguito al massacro compiuto dai Talebani il 16 dicembre in una scuola dell'esercito a Peshawar e costato la vita a circa 150 persone, in gran parte bambini. La prima esecuzione di una condanna a morte risale al 20 dicembre scorso a Faisalabad. Attualmente sono 7791 i detenuti nel braccio della morte in Pakistan. A essere stati impiccati sono stati oggi Ahmed Ali, alias Sheshnag, e Ghulam Shabbir, alias Fauji. Ahmed Ali, abitante a Shorkot, è stato condannato a morte per aver ucciso tre uomini, Altaf Hussain, Mohammad Nasir e Mohammad Fiaz nel 1998. Ghulam Shabbir, residente del distretto di Khanewal, era invece nel braccio della morte per aver ucciso il vice sovrintendente della polizia Anwar Khan e il suo autista Ghulam Murtaza il 4 agosto 2000. Cuba: liberi 53 prigionieri politici, i detenuti erano sulla lista statunitense Ansa, 7 gennaio 2015 Il governo cubano ha rilasciato 53 prigionieri politici che erano sulla lista statunitense. Lo afferma il portavoce del dipartimento di Stato, Jennifer Psaki, sottolineando che la liberazione dei detenuti è importante, ma ancora di più lo è avere un dialogo. La decisione rientra nell'ambito della normalizzazione dei rapporti fra Stati Uniti e Cuba. Svizzera: allo studio l'ipotesi della "esportazione" dei detenuti stranieri Ansa, 7 gennaio 2015 Non solo orologi e cioccolata, la Svizzera potrebbe in futuro esportare anche detenuti affinché scontino la loro pena in penitenziari stranieri. L'ipotesi - serissima - è emersa in seno alla Conferenza dei direttori cantonali di giustizia e polizia che riunisce i responsabili in materia di ogni cantone elvetico. Con una maggioranza risicata, la Conferenza ha deciso di rivolgersi alle autorità federali affinché esplorino la questione, ha riferito la stampa elvetica. Durante la discussione è stata evocata la possibilità di inviare detenuti condannati in Svizzera, in Germania e in Francia, due Paesi vicini che disporrebbero di capacità in eccesso, ha detto il segretario generale della Conferenza Roger Schneeberger, citato dall'agenzia di stampa svizzera Ats, ha confermato oggi a Berna Folco Galli, portavoce dell'Ufficio federale di giustizia, ora incaricato di esaminare la questione. Nessuna scadenza è stata fissata. Secondo i media svizzeri, la Confederazione elvetica registra un deficit di circa 700 posti nei suoi penitenziari, con una situazione particolarmente acuta a Ginevra. La Confederazione elvetica non sarebbe in ogni caso il primo Paese ad esportare i propri detenuti. Vi è infatti il principato del Liechtenstein che invia i propri condannati in Austria o il Belgio che li in Olanda. Francia: droga, soldi e telefoni, i selfie dei detenuti che indignano la nazione di Marta Serafini Corriere della Sera, 7 gennaio 2015 Aperta una pagina Facebook dove i carcerati di Marsiglia hanno postato le immagini della loro vita quotidiana. "Tutt'altro che dura", secondo alcuni. Con un mazzo di banconote in mano sulla branda di una cella. Al telefono. Con l'hashish sul tavolo. Mentre giocano a poker come a Las Vegas. A torso nudo in pose da machi. I galeotti si fanno i selfie, come studenti di un qualunque liceo. E li postano su Facebook. Accade in Francia, a Marsiglia, dove alcuni detenuti del carcere de Les Baumettes hanno aperto un profilo social raccontando la loro vita quotidiana che appare tutt'altro che dura. L'amministrazione penitenziaria francese ha aperto un'inchiesta sulla vicenda e la pagina Facebook, che si chiamava Mdr o Baumettes e aveva già raccolto 4.800 like, è stata chiusa (anche se ne esiste un nuova "versione"). "Il profilo è stato aperto da un detenuto appena rilasciato", ha spiegato una guardia a Le Figaro. "Ma le immagini postate sono state realizzate in carcere, non c'è dubbio. Anche perché molti detenuti hanno il telefono". Il che costituisce una violazione del regolamento penitenziario francese che, come spiegato qui, vieta espressamente il possesso degli smart-phone. Una violazione che gli esponenti sindacali dei secondini giustificano con la mancanza di personale: "Siamo uno ogni 15o detenuti, troppo pochi per poterli controllare tutti". Mentre si discute sulle cause di questa violazione, la direzione del carcere ha identificato tutti i prigionieri immortalati ma non è chiaro se saranno puniti per la violazione del regolamento anche perché si temono rivolte. La vicenda, sollevata dal giornale La Provence di Marsiglia, ha sollevato un grande dibattito in Francia sulle condizioni dei detenuti. Dalle immagini sembra infatti che chi è in carcere sia libero di fare ciò che vuole, dal gioco d'azzardo passando per la droga, fino all'uso del telefono per comunicare con l'esterno. "La prigione delle Baumettes è diventata un centro vacanza", scrive il deputato marsigliese Eric Ciotti su Twitter. In realtà, secondo i dati ufficiali del ministero della Giustizia francese, il carcere è stato costruito per la detenzione di 1.373 persone su una superficie di oltre 30 mila metri quadri. Ma, come succede anche in Italia, la struttura in realtà è sovraffollata e a fine 2012 i prigionieri erano 1769 con celle di nove metri quadrati per 3 detenuti. Inoltre negli Usa e in Gran Bretagna si discute da tempo se sia lecito o meno consentire ai prigionieri l'uso dei social network, proprio come viene permesso fare telefonate di tanto in tanto. E non è la prima volta che i detenuti vengono pizzicati a comunicare con l'esterno. Una situazione simile a quella de Les Baumettes si è verificata qualche anno fa in un carcere di massima sicurezza britannico, dove un uomo minacciava attraverso i social i componenti di una banda rivale. Già, perché al di là del dibattito sul diritto dei detenuti a un uso di internet controllato o meno, resta il fatto che introdurre telefoni fra le sbarre è davvero facile e non sono mancati episodi di detenuti che hanno molestato attraverso i social le loro vittime che li avevano denunciati.