Quando i trasferimenti di detenuti assomigliano a vere deportazioni Il Mattino di Padova, 5 gennaio 2015 La vecchia abitudine di fare buoni propositi per l'anno nuovo appartiene un po' a tutti. A noi piacerebbe però che fosse l'Amministrazione penitenziaria a fare una promessa per il 2015: ridurre al minimo i trasferimenti, non trincerarsi sempre dietro i motivi di sicurezza per giustificare gli spostamenti di persone detenute da un capo all'altro dell'Italia, senza nessuna preoccupazione per le loro famiglie, costrette a viaggi sfiancanti, costosi, per vedere i loro cari per poco tempo in sale colloqui squallide. Il vocabolario definisce la deportazione come una "pena consistente nella relegazione del condannato in un luogo lontano dalla madrepatria, con privazione dei diritti civili e politici": ecco, certi trasferimenti assomigliano tanto a deportazioni, e privano i detenuti di tutto, anche del diritto a preservare i loro affetti. Quelle che seguono sono due testimonianze di detenuti che, dopo anni passati in carceri di massima sicurezza lontano dalle famiglie, sono arrivati a Padova, dove sono riusciti a ricostruire i legami spezzati e a dare un senso alla loro carcerazione, ma ora pare che chiuderanno la sezione di Alta Sicurezza, e chi vi è rinchiuso rischia di essere trasferito, magari in Sardegna, dove hanno costruito carceri in modo sconsiderato, e di perdere di nuovo quel po' di umanità che aveva ritrovato. È desolante che le persone detenute troppo spesso siano trattate come pacchi e spostate senza avere la minima possibilità di decidere qualcosa della loro vita. Come se la perdita della libertà significasse perdere anche la dignità propria di ogni essere umano. Qualcuno vuole spezzarmi la catena del bene Sono un detenuto con il fine pena 9999, mi chiamo Biagio Campailla, forse qualcuno avrà letto qualche mio articolo o mi avrà visto partecipare ai convegni organizzati dalla redazione di Ristretti Orizzonti o in occasione degli incontri fatti con centinaia di studenti nel progetto Scuole/Carcere. In tante occasioni ho detto che ho contribuito con i miei reati a costruire la catena del male, e poi ho sentito persone come Agnese Moro, vittime di reati gravissimi, dire che la catena del male bisogna spezzarla, rifiutando un'idea di pena che al male risponde con altrettanto male. Invece oggi dico che mi stanno spezzando la catena del bene. Il motivo? Circola la notizia che la sezione di Alta Sicurezza di Padova verrà chiusa. Le conseguenze? Saremo tutti trasferiti. È come se avessi ricevuto una coltellata al cuore. Per prima cosa mi dico: "È finita di nuovo per me, cosa mi è servito fare un percorso di autentico cambiamento con la redazione?". Subito ho pensato che mi hanno preso tutti in giro, ci ho messo tutto il mio cuore e la mia anima per spezzare la catena del male. Dagli incontri con gli studenti ho imparato un linguaggio diverso con cui parlare anche ai miei figli; in quegli incontri quasi quotidiani nella redazione di Ristretti il confronto con gli studenti mi ha fatto capire tante cose, io raccontavo la mia esperienza, quello che mi ha portato a giocarmi la vita murandomi dietro quattro mura, e cercavo di fare prevenzione verso questi ragazzi che mi avevano dato tanto e cambiato la vita. Tutto questo molto probabilmente presto lo perderò, perché sarò trasferito in un altro carcere, dove si è rinchiusi senza possibilità di confronto con il mondo esterno, sicuramente sarò buttato in qualche carcere che io definisco "giungla", dove per andare avanti devi combattere tutti i giorni, dove le persone detenute nelle sezioni di Alta Sicurezza non hanno mai avuto una possibilità di reinserimento, una opportunità di ripensare alla loro storia e alle loro responsabilità, dove i pensieri e gli atteggiamenti restano fermi al periodo del reato. Anche io fino a qualche anno fa ero così e vivevo così, sempre con gli artigli di fuori, attaccando subito alla prima provocazione. Oggi, dopo il percorso che ho iniziato nel carcere di Padova, io questi artigli non ce li ho più. E adesso? Vengo riportato nella stessa giungla senza artigli, almeno se me li lasciavano potevo ritornare violento e potevo difendermi. E invece no. Ed ecco che quando ancora hai fiducia nelle istituzioni, rischi di nuovo di essere mangiato. Devo pensare che era meglio rimanere cattivo per sempre e andare avanti? Cosa è servito dopo tanti anni di lontananza, farmi ritrovare le mie figlie che oggi posso vedere molto più frequentemente, recuperando un po' d'amore che non avevano mai avuto da me, e perdere tutto di nuovo? Ne vale la pena, di fare un percorso dentro il carcere e poi rischiare di uscirne distrutto molto più facilmente? Allora dico: ho fatto di tutto per inserirmi, ma certe istituzioni non vogliono che io cambi davvero. Ancora una volta hanno spezzato la catena del bene, quel bene che mi avevano dato i ragazzi del progetto con le scuole, quel "cuore" che mi hanno fatto ritrovare nella redazione di Ristretti Orizzonti, rischia di andare tutto in fumo. Ci sono tanti miei compagni che come me hanno fatto un percorso, chi con le scuole, chi è riuscito a laurearsi, chi ancora frequenta l'università, chi lavora in pasticceria, ora tutto rischia di andare perso. Dove andremo a finire adesso? a ritrovare quella violenza che credevamo di esserci lasciata dietro le spalle? Mi chiedo: perché lo Stato ha investito su di noi per rieducarci, per poi farci tornare al punto di partenza? Perché ci considerano dei pacchi postali, sempre pronti ad essere spediti? qualcuno pensa al dolore che proveranno nuovamente le nostre famiglie? a cosa mi devo preparare? Comunque non finirò mai di ringraziare tutti quei ragazzi che ho incontrato nel progetto con le scuole, che mi hanno trasmesso tantissime emozioni, da cui ho ricevuto pensieri positivi e propositivi e che hanno messo in moto un percorso che ora rischia di interrompersi. Biagio Campailla Trasferimenti che distruggono drammaticamente i legami famigliari Dopo quasi otto anni trascorsi nella Casa di reclusione di Padova, molto probabilmente nei prossimi mesi sarò trasferito, poiché la sezione di Alta Sicurezza dove attualmente mi trovo sarà chiusa per motivi a me ignoti, che sicuramente riguardano delle convenienze ministeriali, ma che non rispettano per niente le vite delle persone. Trovo infatti che questi trasferimenti avvengano senza tenere minimamente in considerazione i detenuti come esseri umani, né le famiglie che devono pellegrinare su e giù per l'Italia per andare a trovare il loro caro. E sono proprio queste condizioni di detenzione che spesso determinano molti allontanamenti fra i detenuti e le loro famiglie. Forse a quasi 50 anni sono ancora un po' ingenuo a non capire che queste lunghe distanze hanno proprio il fine di creare una vera e propria rottura con ogni affetto familiare. Ma insieme alla distruzione degli affetti, viene cestinato anche il percorso carcerario che un detenuto per anni svolge con impegno costante, cercando in tutti i modi di partecipare a quelle iniziative culturali e lavorative che sono così importanti per ricostruire la propria vita. Questi comportamenti delle istituzioni determinano delusione e sfiducia e fanno perdere alle persone la voglia di intraprendere ulteriori percorsi carcerari in altri istituti di destinazione, dove dovrebbero ripartire da zero, magari dopo più di vent'anni di carcere alle spalle, con l'angoscia di sapere che poi questi percorsi saranno quasi sicuramente spazzati via dalla prossima, immotivata deportazione di massa. Perché di deportazione si tratta, non c'è niente di umano in questi trasferimenti, nessun rispetto, nessuna considerazione per la dignità delle persone. Gaetano Fiandaca Giustizia: Marco Pannella; il mio digiuno per aiutare il governo sulla legalità di Giovanni Innamorati Ansa, 5 gennaio 2015 "Ti rispondo con un concetto di Gandhi: Non dobbiamo mai, quando ci sono lotte, ostentare sofferenza o difficoltà, ma essere lieti nel fondo di questi eventi drammatici". Così Marco Pannella, intervistato da Radio Radicale, ha parlato del proprio digiuno in favore dell'amnistia e della soluzione del problema del sovraffollamento delle carceri. Da sabato lo storico leader radicale è ricoverato in una clinica romana in via precauzionale. Pannella ha ribadito che il suo digiuno non deve essere definito "protesta", come ha fatto qualche giornale. "Per un non violento, parlare di protesta anziché proposto o dialogo è come dare del comunista a un fascista o viceversa. L'obiettivo è quello di aiutare il nostro interlocutore, e cioè il nostro Paese e chi lo rappresenta, cioè il governo, a rispettare la legalità. Mi domando quanti italiani sanno perché i radicali fanno quello che fanno. Lo fanno per aiutare il governo. Perché non sia un governo che incorra nella condizione criminale di non rispettare la legge". Il leader radicale, che fu "grande elettore" di Sandro Pertini e Oscar Luigi Scalfaro, si è schernito sul futuro inquilino del Quirinale: "non ho rapporti tale da influire nel ristretto numero delle 100 persone del jet set, nazionale e internazionale, che possono influire nell'elezione del Presidente della Repubblica". Infine alla domanda su come "prosegue questa giornata di lotta nonviolenta", Pannella ha replicato in modo autoironico in romanesco: "Se vuoi sapè quando moro, nun lo so". Giustizia: quasi 50mila firme a petizione per inserire i delitti ambientali nel Codice penale Adnkronos, 5 gennaio 2015 Promossa da "Libera" e "Gruppo Abele". In nome del popolo inquinato: subito i delitti ambientali nel Codice penale. È quanto chiede una petizione, promossa da Libera e Gruppo Abele su Change.org. che chiede "al Senato di approvare subito il disegno di legge sull'introduzione dei delitti ambientali nel Codice penale". L'iniziativa ha raccolto finora più di 49.400 adesioni. "L'Italia -sottolineano i promotori, primi firmatari Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente e Luigi Ciotti, presidente di Libera - ha bisogno di una vera e propria riforma di civiltà, che sanerebbe una gravissima anomalia: oggi chi ruba una mela al supermercato può essere arrestato in flagranza perché commette un delitto, quello di furto, mentre chi inquina l'ambiente no, visto che nella peggiore delle ipotesi si rende responsabile di reati di natura contravvenzionale, risolvibili pagando un'ammenda quando non vanno - come capita molto spesso - in prescrizione. Non esistono nel nostro Codice penale, infatti, né il delitto di inquinamento né tantomeno quello di disastro ambientale". Si tratta, spiegano i promotori in una lettera aperta al presidente del Senato, Pietro Grasso, al presidente della Commissione Territorio, Ambiente, Beni Ambientali del Senato Sen. Giuseppe Francesco Maria Marinello e al presidente della Commissione Giustizia del Senato Francesco Nitto Palma, di "uno squilibrio di sanzione anacronistico, insostenibile e a danno dell'intero Paese, che garantisce spesso l'impunità totale agli eco-criminali e agli eco-mafiosi". "Oggi, finalmente, siamo vicini a una svolta. Nel febbraio 2014, infatti, la Camera dei deputati ha approvato a larghissima maggioranza un disegno di legge che inserisce 4 delitti ambientali nel nostro Codice penale: inquinamento ambientale, trasporto e abbandono di materiale radioattivo, impedimento al controllo e disastro ambientale. Il testo, però - viene rilevato - è inspiegabilmente fermo da mesi al Senato, per alcuni limiti tecnici che sarebbero facilmente superabili con poche modifiche". L'approvazione del disegno di legge "rappresenterebbe, invece, una pietra miliare nella lotta alla criminalità ambientale, garantendo una tutela penale dell'ambiente degna di questo nome e, soprattutto, assicurando strumenti investigativi fondamentali per le forze dell'ordine e la magistratura". "Serve un ultimo sforzo, perché non c'è più tempo da perdere. In nome di quel popolo inquinato che attende da troppo tempo giustizia -concludono i promotori dell'iniziativa- è giunto il momento che ciascuno si assuma le proprie responsabilità davanti al Paese". Giustizia: caso Van Den Bleeken, l'eutanasia non è la pena di morte di Paolo Morelli e Cecilia Russo www.thelastreporter.com, 5 gennaio 2015 In prigione da quasi 30 anni, Frank Van Den Bleeken chiede e ottiene l'eutanasia in Belgio. Soffre di gravi disturbi psichiatrici e denuncia da anni pessime condizioni carcerarie. Frank Van Den Bleeken chiede di morire da 4 anni e sarà accontentato domenica prossima, 11 gennaio, nel carcere di Bruges, in Belgio. L'uomo è in prigione da quasi 30 anni, nel carcere di Turnhout, condannato all'ergastolo per ripetuta violenza sessuale e per un omicidio, e da anni denuncia le pessime condizioni di vita all'interno del carcere. Ha chiesto ripetutamente di accedere all'eutanasia (in Belgio è legale dal 2002) e dopo diverso tempo e pareri medici favorevoli, ha ottenuto l'ok dal Ministero della Giustizia belga: riceverà l'iniziezione letale la prossima settimana. È la prima volta che un detenuto ottiene l'eutanasia. Come stanno le cose. La storia è molto complessa e sta accendendo un dibattito molto caotico, nel quale è necessario fare chiarezza. Il quotidiano cattolico Avvenire ha parlato di "pena di morte legalizzata" ma, se a prima vista può apparire esattamente così, la realtà è molto distante da questa interpretazione. Per ottenere l'eutanasia in Belgio si devono rispettare tre requisiti fondamentali: la richiesta dev'essere volontaria, ragionata e ripetuta. Inoltre sono necessari dei pareri medici che attestino uno stato di sofferenza - anche psicologica - che non è possibile alleviare in nessun modo. "Sono un pericolo per la società - ha dichiarato più volte Van Den Bleeken ai media belgi - e sento che non potrò mai essere riabilitato. Nonostante quello che ho fatto, resto comunque un essere umano, quindi ho diritto all'eutanasia". Anni fa, Van Den Bleeken ha rifiutato la scarcerazione e ha chiesto invece di essere trasferito in una struttura olandese, attrezzata per la cura dei detenuti con problemi psichiatrici. Trasferimento rifiutato, da quel momento ha iniziato a chiedere l'eutanasia. Le condizioni di vita dei detenuti psichiatrici. La questione importante, invece, riguarda le condizioni dei detenuti con problemi psichiatrici in Belgio, che sono pessime. Il Paese è già stato più volte al centro delle critiche per le loro condizioni di vita. Esattamente un anno fa, la Corte Europea per i Diritti dell'Uomo ha condannato il Belgio per aver violato l'articolo 5 della Convenzione Europea, in merito al trattamento di otto malati psichiatrici detenuti in prigione. Ad aprile 2014, una legge nazionale ha equiparato i detenuti psichiatrici allo status di pazienti, dando loro diritto alle cure per i "liberi" malati psichiatrici. Ma questa legge non trova ancora adeguata applicazione. I detenuti con problemi psichiatrici però sono pazienti, quindi rientra nei loro diritti chiedere l'eutanasia. È per questo che altri 15 detenuti, dopo l'accoglimento della domanda di Van Den Bleeken, hanno chiesto l'eutanasia. Una sorta di "pena di morte al contrario" dove, in questo caso, è il detenuto che chiede di morire, non è lo Stato a deciderlo - come insinua erroneamente Avvenire - anzi, ottenerla non è nemmeno così semplice come sostiene il quotidiano cattolico, chiamandola addirittura "morte a richiesta". La condizione di sofferenza dev'essere confermata dai medici, per la quale devono constatare che non esiste cura; a meno di non sostenere che impedire ai detenuti psichiatrici l'accesso all'eutanasia sia una pena accessoria. Piuttosto, il problema vero riguarda la condizione dei detenuti con problemi psichici in Belgio: se arrivano a chiedere l'eutanasia significa che esiste un problema a monte. Pessime condizioni carcerarie. "Questo avvenimento è scioccante e non dovrebbe accadere - ha commentato Juliette Moreau, presidente dell'Osservatorio Internazionale delle Prigioni - ma non ci sorprende, in quanto denunciamo da anni la mancanza di cure per i detenuti, in particolare per le malattie psichiatriche. Vengono parcheggiati in carcere per anni, in attesa di essere trasferiti in strutture adeguate, ma a volte non succede mai perché non ci sono ospedali che accettino di accogliere questo genere di detenuti". Se rispettano i ristretti requisiti di legge, anche per i detenuti con malattie psichiatriche è possibile accedere all'eutanasia. Ma il problema principale riguarda le loro condizioni di vita e la mancanza di strutture adeguate a curarli, sempre all'interno della loro pena detentiva. Il dibattito sull'eutanasia. Il caso ha riacceso il dibattito in Europa sull'eutanasia. Il giornale francese Le Parisien riporta - di corredo all'articolo su Van Den Bleeken - un'interessante mappa che raffigura quasi tutti i paesi europei mostrando la loro politica nei confronti del fine vita. L'Italia, insieme a Irlanda, Grecia, Croazia, Bosnia, Bulgaria, Romania e Polonia, è tra i pochi paesi che non hanno nemmeno aperto una discussione legislativa sul tema, almeno per ora. Due discorsi distinti. È necessario discutere del tema del fine vita, argomento che in Italia è ancora tabù (più tra le istituzioni che tra i cittadini) e che spesso subisce distorsioni. Dall'altro, invece, bisogna parlare della cura dei detenuti con malattie psichiatriche: tema che in Italia invece è decisamente meglio affrontato. Bollare l'eutanasia di un detenuto con problemi psichiatrici come "reintroduzione" della pena di morte è davvero troppo semplicistico, quindi distante dalla realtà. Giustizia: caso Van Den Bleeken, l'eutanasia allo stupratore è un gesto di pietà di Vittorio Feltri Il Giornale, 5 gennaio 2015 La richiesta del detenuto accolta dal Belgio da noi sarebbe respinta per ipocrisia. Inattuata l'idea che il carcere rieduchi. E il Parlamento sulla "dolce morte" tace. Domenica prossima, 11 gennaio, un ergastolano belga, Frank Van Den Bleeken, 52 anni, sarà ucciso con un'iniezione letale praticatagli legalmente da un medico. "L'esecuzione" avverrà in un ospedale autorizzato dopo che il condannato vi avrà trascorso un paio di giorni, quale degente, giusto il tempo per conversare con i familiari e un sacerdote. Non si tratta tuttavia di pena capitale, inesistente in Belgio, bensì di eutanasia gentilmente concessa al detenuto su sua richiesta, motivata dal fatto che Frank non sopporta il carcere dove è stato recluso per aver torturato e ammazzato, trent'anni orsono, una ragazza diciannovenne, senza contare una catena di stupri. Egli, nella domanda di eutanasia rivolta all'autorità giudiziaria, ha scritto che i compagni di prigione lo incitano al suicidio dalla mattina alla sera dicendogli che è indegno di vivere; poi ha affermato che, casomai dovesse ottenere la libertà, ne profitterebbe per continuare a commettere i reati che lo hanno portato dietro le sbarre, aggiungendo che il proprio cervello non cessa di elaborare progetti criminali. Di qui la sua decisione di farla finita. I giudici, supportati dal parere di periti, gli hanno dato il via libera in base al principio, riconosciuto per legge dal Belgio, che il diritto alla "dolce morte" è esteso a tutti i cittadini con i requisiti idonei per pretendere di andare all'altro mondo. Tanto è vero che altri 15 detenuti, sull'esempio di Van Den Bleeken, hanno espresso formalmente il desiderio di essere eliminati e sono in attesa di realizzarlo. Queste vicende hanno dato la stura nel Paese a polemiche infuocate. Molte persone sono convinte che gli ergastolani debbano marcire in cella per espiare le proprie colpe e non possano, dunque, accedere al privilegio di crepare per propria iniziativa. Il dibattito infuria su vari livelli: religioso, politico, filosofico. Dibattito che in Italia sarebbe inconcepibile, dato che l'eutanasia da noi - pur sollecitata da varie parti - non è prevista per nessuno, figuriamoci per i galeotti che la gente comune vorrebbe murati vivi. La mancanza di pietà è la caratteristica più spiccata dal popolo, amante delle maniere spicce e della giustizia sommaria, peraltro contrastanti con la nostra Costituzione, secondo la quale la detenzione avrebbe una finalità rieducativa. L'ergastolo, occorre precisare, non si concilia con la Carta, poiché è la negazione di qualsiasi tipo di riabilitazione tesa a un reinserimento nella società. È pur vero che la formula "fine pena mai" di fatto raramente si applica in quanto, scontati 30 anni, all'ergastolano viene accordata di norma la scarcerazione. Ma rimane una contraddizione che meriterebbe un intervento del legislatore: l'ergastolo o c'è o non c'è. Inoltre: o il carcere ha lo scopo di emendare o ha quello di punire e basta. Certe ambiguità e certi dubbi andrebbero sciolti. Invece qui si va avanti alla carlona col risultato di creare una gran confusione, anche per quanto riguarda l'eutanasia. Mentre in Belgio chi soffre in modo indicibile e aspiri a terminare in anticipo - libero o carcerato che sia - la partita terrena può avvalersi del suicidio assistito, in Italia ha soltanto la facoltà di gettarsi dal sesto piano, e se abita al pianterreno si arrangi diversamente. Una proposta di legge in merito giace alla Camera da oltre un anno nell'indifferenza disumana del ceto politico, impegnato a litigare senza costrutto sul sistema elettorale e sui papabili alla presidenza della Repubblica. Non c'è verso di compiere un passo avanti nella conquista dei diritti civili. Vietato perfino parlarne pacatamente senza irritare i conservatori cattolici, quasi che disciplinare l'eutanasia equivalesse a renderla obbligatoria anche per chi non intenda fruirne. Oddio, non che in Belgio la questione sia stata superata pacificamente. Tornando a Frank, coloro che sono o stili alla sua opzione mortale sono numerosi. Ma sono stati zittiti da un argomento forte adottato dalle autorità che hanno permesso all'ergastolano di avere soddisfazione. Se un cristiano confessa di non essere in grado di resistere alla tentazione di uccidere e stuprare, significa che non è responsabile delle sue azioni se non quella di voler soffocare i propri tormenti riposando al cimitero. Aiutarlo ad andarci è un gesto di pietà pura che non collide con la morale evangelica. Amen. Giustizia: caso Loris; mamma Veronica sorvegliata a vista, per timore di gesti estremi Ansa, 5 gennaio 2015 Una mazzata. Per Veronica Panarello la decisione del Tribunale del riesame di Catania di lasciarla in carcere è un colpo alle sue aspettative. In carcere dal 9 dicembre scorso con l'accusa di avere ucciso suo figlio Loris di 8 anni, a Santa Croce Camerina, aveva risposto grandi speranze nella decisione dei giudici che, era convinta, l'avrebbero liberata "permettendo a una madre innocente di potere piangere sulla tomba" del figlio morto e di potere "tornare ad abbracciare" quello più piccolo. Ma il Tribunale del riesame ha sposato in pieno la tesi della Procura di Ragusa, condividendo le valutazioni del Gip Claudio Maggioni che il 12 dicembre ha convalidato il fermo eseguito da polizia di Stato, squadra mobile e carabinieri della donna. A tenere in piedi l'accusa "i gravi indizi di colpevolezza". I giudici, infatti, hanno li valutati esistenti e concreti. Mentre lei era convinta di essere a un passo dalla scarcerazione. "Non mi hanno creduto, neppure i giudici... ma perché" continua a dire senza spegnere la televisione. Il suo stato di salute e i precedenti di due tentativi di suicidio fanno alzare l'allerta nel sistema di sorveglianza. Veronica Panarello non è isolamento, ma detenuta in media sicurezza, ma guardata vista per il timore di gesti estremi. Pm: inchiesta è aperta, vertice in Procura La decisione del Tribunale del riesame di Catania di lasciare in carcere Veronica Panarello non ferma le indagini sulla morte di Loris Stival, di 8 anni. La conferma dei "gravi indizi di colpevolezza" nei confronti della mamma del bambino non chiude l'inchiesta che, sottolineano i Pm, "resta aperta". E senza perdere tempo: domani ci sarà un incontro in Procura, a Ragusa, con polizia di Stato, squadra mobile e carabinieri per "fare il punto della situazione" e valutare le "ulteriori iniziative da intraprendere". Perché, si sottolinea dal Palazzo di Giustizia, restano "episodi da chiarire e sviluppare", per quelli che il procuratore Carmelo Petralia e il sostituto Marco Rota chiamano "tutti gli scenari possibili". Ma non solo, si osserva: "un conto sono gli indizi di colpevolezza per un'udienza cautelare, un'altra cosa è portare prove in un eventuale processo". E verifiche e indagini si accentrano su tre scenari: la donna ha agito da sola o ha avuto un complice che l'ha aiutata a compiere il delitto o nell'occultare il cadavere portando il corpo di Lori nel canalone di Mulino Vecchio. Tutte "ipotesi piene di criticità", per la difesa. Tutti indizi che, per il momento, per Procura e Gip di Ragusa e Tribunale del riesame di Catania portano ad una sospettata: Veronica Panarello. Giustizia: le ferite dell'economia e i "cerotti" del diritto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2015 Non è mai un bel vedere quando alla crisi si guarda (anche) attraverso il cannocchiale del diritto. Perché il rischio è quello di scambiare la causa (economica) con le cause (civili). E tuttavia, sempre più, l'efficacia di una riforma giuridica deve misurarsi con le conseguenze provocate nel tessuto sociale. Allora la ricerca del Sole 24 Ore del Lunedì mette in evidenza come le difficoltà del Paese si specchino anche negli istituti giuridici. A fare data dal 2011 è così assai significativa la crescita delle istanze di fallimento (+20%) e degli sfratti (+46%). Due elementi che fotografano l'impatto della recessione sui due assi portanti dell'organizzazione sociale, famiglie e imprese. Colpite negli aspetti chiave della disponibilità di una casa e della continuità aziendale. Ma si potrebbe aggiungere anche l'aumento dei ricorsi per decreto ingiuntivo (+21%), a segnalare almeno i ritardi nei pagamenti da parte dei debitori. E se il diritto non è per forza lo strumento migliore per scattare la fotografia della crisi a quest'altezza di tempo, è altrettanto certo che può rappresentare un elemento per arrestarne un ulteriore peggioramento. Insomma, dall'istantanea al cerotto. Facciamo un esempio. In parte il diritto fallimentare in questi anni ha provato a lanciare segnali di resistenza, un po' all'insegna del paradosso un po' nel segno di un inevitabile realismo. A volte anche eccedendo. Mentre il ministro della Giustizia Andrea Orlando annuncia una nuova commissione per modificare la Legge fallimentare, le riforme di questi anni hanno in larga parte tracciato la direzione. Che è stata prima quella di mitigare la risposta dell'ordinamento nei confronti del fallito, trapiantando istituti come l'esdebitazione, indirizzati a non penalizzare troppo l'imprenditore che durante la procedura si comporta correttamente e a permettergli una "seconda chance" per rimettersi in piedi. E poi, negli ultimi anni, il rafforzamento di istituti come il concordato preventivo, anche anticipandone i tempi di richiesta, e gli accordi di ristrutturazione. Avendo chiaro come obiettivo la garanzia della continuità d'impresa (anche con misure discutibili come lo scioglimento dai contratti in corso). Insomma, il diritto può essere utilizzato se non come leva per lo sviluppo - anche se certo il suo malfunzionamento può rappresentare un freno, basti ricordare le ormai frequenti rilevazioni che segnalano il gap di efficienza della nostra amministrazione della giustizia rispetto a quella di altri Paesi occidentali - almeno come uno strumento per rallentare la gravità della caduta. Certo, è una visione emergenziale della legislazione. Ma va anche ricordato che è quella più consueta per Governo e Parlamento. L'importante sarebbe darsi delle priorità chiare e non invece contribuire alla confusione. Per cui un giorno l'emergenza è la corruzione, il giorno dopo la lentezza dei processi, quello dopo ancora le regole di procedura. Giustizia: scoppia il caso "salva-Berlusconi", stop del governo al decreto fiscale di Francesco Di Frischia Corriere della Sera, 5 gennaio 2015 Salta la norma "salva Berlusconi": il decreto fiscale che la conteneva torna in Consiglio dei ministri su richiesta dello stesso premier Renzi. Salta la norma "salva Berlusconi": il decreto fiscale che la conteneva, che stava per essere trasmesso in Parlamento per i necessari pareri, torna in Consiglio dei ministri su richiesta dello stesso premier Renzi. Infuriano, però, le polemiche dentro e fuori la maggioranza. Il governo quindi fa marcia indietro, ma il 24 dicembre era stato proprio l'esecutivo ad approvare in prima lettura, tra le norme della delega fiscale, anche l'articolo 19 bis: la norma prevede una soglia del 3% dell'evasione rispetto all'imponibile, al di sotto della quale il reato non sarebbe più punibile penalmente. Tale codicillo, secondo alcune interpretazioni, permetterebbe a Berlusconi di vedersi derubricato ad una semplice sanzione amministrativa il tipo di pena, la frode fiscale, alla quale è stato condannato nell'agosto del 2013 in via definitiva. Sempre in base a alcune interpretazioni, decadrebbe la condanna che gli impone i servizi sociali e, soprattutto, quella che gli interdice la candidabiltà. Luigi Di Maio(M5S) attacca a testa bassa: "O Renzi non sa che cosa firma o fa regalini al Cavaliere: in entrambi i casi è un inizio di anno che non lascia presagire nulla di buono". E Matteo Salvini (Lega Nord) taglia corto: "Il decreto inciucio sul fisco è l'ennesima renzata. Un giorno promette una cosa e il giorno dopo la smonta. Fa così da un anno". Critiche piovono pure da Pippo Civati (minoranza Pd) che usa l'ironia: "Se il premier non ne sapeva nulla, se il ministero dell'Economia dice non averlo visto, e se il ministro della Giustizia aveva espresso perplessità, chi ha portato quel testo nel Consiglio dei ministri? Va a finire che il decreto si è scritto da solo. Che possa riguardare Berlusconi è solo un caso, ovviamente". E la civatiana Lucrezia Ricchiuti (Pd) rincara la dose: "In pratica la legge del Nazareno dice che più sei ricco e più puoi evadere: l'articolo 19 bis supera la fantasia". Per questi motivi Alfredo D'Attorre (minoranza Pd) chiede: "Renzi e Padoan hanno il dovere di chiarire di chi sia la responsabilità e di prendere l'impegno formale che questa norma non sarà riproposta". Replica su Twitter Andrea Marcucci (Pd): "Nessun favore a Berlusconi, chi fa dietrologia ha preso un'altra cantonata". E il numero due del Pd, Lorenzo Guerini, chiede di mettere un freno alla "continua ossessione del Cavaliere e dei suoi processi". Sul caso interviene il Sottosegretario all'Economia, Enrico Zanetti: "Forse bastata e avanzava garantire sin d'ora che nella norma contestata del 3% sarebbe stata inserita la precisazione che si applicava solo a reati diversi dalle frodi". Poi il sottosegretario rivela che comunque su quel provvedimento lui non era d'accordo e "con i colleghi di Scelta Civica - ricorda - avevamo proposto questa modifica per ragionamenti di principio, prima che scoppiasse la solita patetica querelle su Berlusconi". A difesa del Cavaliere si muove Daniela Santanché (FI): "Pur di sabotare il patto del Nazareno, gli esclusi dalle decisioni importanti sono disponibili ad inventarsi qualsiasi cosa". Laconico Giovanni Toti (Fi): "Se si ritira un provvedimento per il sospetto che aiuti Berlusconi anche se aiuta i cittadini, allora l'Italia è un Paese destinato a non cambiare mai". Lettere: il carcere e la voce della ragione di Laura Coci Il Cittadino, 5 gennaio 2015 "La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti e le grida di tanti che son guidati dalla cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco nell'intimo de loro cuori". Così, duecentocinquanta anni or sono, Cesare Beccaria. Scrivere di giustizia e carcere è ora - se possibile - ancora più impopolare di quanto lo fosse nel 1764, anno nel quale Dei delitti e delle pene fu dato alle stampe a Livorno, anonimo, per sfuggire ai rigori della censura, già ostile al pensiero dell'Illuminismo, allo spirito di libertà e uguaglianza che animava filosofi e riformatori. Neppure due anni dopo la pubblicazione, l'opera fu posta all'Indice dei libri proibiti; ma nel 1786 il granduca di Toscana Pietro Leopoldo, monarca attento alla voce della ragione, abolì la pena di morte nel proprio stato, ove il testo di Beccaria aveva visto la luce per la prima volta. Il 2014 sarebbe stato dunque un buon anno per onorare nei fatti concreti, e non soltanto nelle occasioni accademiche, Cesare Beccaria e il suo trattato. Un trattato che a duecentocinquanta anni di distanza non ha perso in attualità, a disonore del tempo presente. Un tempo nel quale vediamo riproporsi mali antichi: "la pena di morte non è scomparsa, la tortura ha addirittura conosciuto un'orribile rinascita, il disordine legislativo ci avvolge, i giudizi sono eterni - scrive Stefano Rodotà . L'arbitrio, di nuovo l'arbitrio di poteri prepotenti e incontrollati, sembra avere il sopravvento". Di qui, l'appello al diritto di Beccaria e dei suoi compagni milanesi dell'Accademia dei Pugni, che lo coadiuvarono nella stesura dell'opera: tra questi Pietro Verri, autore delle modernissime Osservazioni sulla tortura, e Alessandro Verri, che nel 1763 era "protettore de carcerati" di Milano, quasi un garante dei diritti dei detenuti, e che grazie al suo ufficio conosceva assai bene le criticità della giustizia penale e le condizioni inumane dei reclusi. In effetti il 2014 era iniziato sotto buoni auspici: in pochi mesi erano stati approvati due decreti, poi convertiti in legge, cosiddetti "svuota carceri" (Legge 9.08.2013 n. 94 e Legge 21.02.2014 n. 10) e un disegno di legge, pure convertito in norma (Legge 28.04.2014 n. 67), che prevede tra l'altro l'ampio ricorso alla detenzione domiciliare e la depenalizzazione dei reati di lieve entità. Poi - dopo la promozione "con debito" dell'Italia da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, ovvero la concessione al nostro Paese della proroga di un anno per portare a compimento il percorso di riduzione del sovraffollamento penitenziario - la "questione carceraria" è nuovamente ripiombata nell'indifferenza e nel silenzio. Questione impopolare, ora come duecentocinquanta anni fa. Per questo, ma non solo, giova leggere e rileggere Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Una lettura illuminante. Due le parole chiave che immediatamente colpiscono nel compulsare l'opera: "uguaglianza" (sociale) e "felicità" (pubblica). Senza la prima, non si dà la seconda. Il (buon) "diritto", al quale il filosofo e riformatore milanese costantemente fa appello, promuove uguaglianza, e se non rimuove le cause della diseguaglianza, della "disperata necessità" che troppo spesso è all'origine dei delitti, tuttavia garantisce pene che abbiano per fine non la vendetta nei confronti del reo, ma la convivenza sociale, la felicità del più alto numero di persone possibile, senza danno irreparabile per i singoli. Se i cittadini - che a questo fine cedono allo Stato parte della propria libertà - hanno diritto a essere difesi dalle aggressioni, hanno altresì diritto a essere considerati innocenti fino a che il delitto loro imputato non sia dimostrato con assoluta certezza; hanno diritto a una carcerazione preventiva che, "essendo essenzialmente penosa, deve durare il minor tempo possibile e dev'essere meno dura che si possa"; hanno diritto a un processo equilibrato e a un giudizio sereno; se riconosciuti colpevoli, hanno diritto a una pena che non risulti lesiva della dignità, che sia "pronta" ma anche "equa" e "proporzionata" al reato commesso, perché "ogni pena che non derivi dall'assoluta necessità è tirannica". Hanno diritto, soprattutto, all'uguaglianza, a non essere vittime dell'arbitrio del potere, che è nemico della ragione e degli esseri umani. Letti d'un fiato i quarantasette capitoli del trattato, brevi e incisivi, non possiamo non riconoscere in Beccaria e nei suoi compagni milanesi la voce della ragione, la voce che vorremmo ascoltata dai "monarchi" del tempo presente. Ma la "questione carceraria" è questione impopolare, ora come duecentocinquanta anni fa. Ancora più impopolare a seguito della conversione in legge (Legge 11.08.2014 n. 117) del decreto "recante disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori a favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali […]": rimedi risarcitori quantificati in otto euro per ogni giorno di pena "inumana e degradante". Un'infamia, perché umilia a materia di contrattazione la dignità di una persona, persona nonostante la reclusione: "non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di esser persona e diventi cosa" - ammonisce Beccaria, e ancora - "il fine delle pene non è di tormentare e affliggere un essere sensibile". Una beffa, perché al 27 novembre scorso su 18.104 istanze di rimborso presentate da persone detenute vittime del sovraffollamento ne erano state esaminate 7.351 e di queste giudicate ammissibili soltanto 87! Ben 6.395 sono state infatti le istanze rigettate per mancanza di documentazione, in quanto le procedure per ottenere il risarcimento non sono state definite in modo univoco, lasciando spazio alla discrezionalità e all'arbitrio esecrati in Dei delitti e delle pene (fonte: Ministero della Giustizia). L'inchiesta "Mafia capitale" dimostra del resto come la cura degli ultimi (detenuti, disabili, rifugiati) sia divenuta un affare lucroso per la criminalità organizzata, che nel tempo presente ha assunto una forte dimensione pubblica, sia per dominanza sia per debolezza del pubblico in sé. È infatti il pubblico che offre maggiore possibilità di carriera, e questa è troppo spesso correlata alla prospettiva di arricchimento personale; e d'altra parte è ancora il pubblico che, demandandola a terzi, abdica alla propria missione: "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale" (così la Costituzione repubblicana) per ristabilire "uguaglianza" e "felicità" (così Cesare Beccaria). È l'amministrazione pubblica che per mancanza di capacità o di risorse delega la gestione di pezzi di stato sociale ad altri soggetti (il cosiddetto "privato sociale"): un meccanismo che comporta costi maggiori e minori controlli, ma che garantisce consenso e supporto elettorale. La scrittura di Dei delitti e delle pene testimonia l'esigenza di profondo impegno morale e di attenzione ai problemi più urgenti della vita civile, ora come duecentocinquanta anni fa. Ma non solo: "se sostenendo i diritti degli uomini e dell'invincibile verità contribuissi a strappare dagli spasimi e dalle angosce della morte qualche vittima sfortunata della tirannia o dell'ignoranza, ugualmente fatale, le benedizioni e le lagrime anche d'un solo innocente nei trasporti della gioia mi consolerebbero dal disprezzo degli uomini". Dunque, non solo la ricchezza non deve essere uno strumento per acquisire potere, ma anche il lavoro intellettuale non può esser un mezzo per conquistare consenso e benevolenza. Il che, nel tempo presente, è di grande conforto a chi scrive di giustizia e carcere. Padova: Alta Sicurezza verso la chiusura, niente più detenuti mafiosi al Due Palazzi di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 5 gennaio 2015 Dopo l'inchiesta sugli agenti penitenziari corrotti, via i reclusi legati alla criminalità mafiosa presenti nell'istituto di pena. Il progetto del Ministero: la struttura ospita 800 reclusi. Stop al reparto di Alta sicurezza della casa di reclusione Due Palazzi di Padova, la struttura penitenziaria riservata ai detenuti condannati in via definitiva che ospita attualmente circa 800 persone? Se ne parla da qualche mese, in particolare da quando, dopo l'inchiesta-scandalo su un reparto del carcere padovano trasformato in un supermarket fuorilegge dove tutto aveva un prezzo, i vertici del Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) lo hanno reso noto almeno a livello progettuale. Un centinaio i reclusi nel "braccio" di Alta sicurezza del Due Palazzi, alcuni dei quali hanno goduto dei "favori" degli agenti di polizia penitenziaria arrestati o indagati, come Gaetano Bocchetti legato al clan camorristico "Alleanza di Secondigliano": si tratta di uomini legati alle organizzazioni di stampo mafioso della pugliese sacra corona unita e della calabrese ‘ndrangheta, nomi non noti al grande pubblico; esclusi i condannati anche all'ergastolo come il serial killer Donato Bilancia o uno dei componenti della banda dell'Uno bianca detenuti a Padova tra i "comuni". Ecco che cosa è l'Alta sicurezza, un circuito (nel Triveneto ce ne sono due, rispettivamente con sede in città e a Tolmezzo in Friuli), riservato a condannati per reati di tipo associativo (mafia, traffico di droga a livello internazionale, sequestri di persona, reati di terrorismo) sottoposti ad una sorveglianza più stretta rispetto ai "comuni" in quanto inseriti nella criminalità organizzata. La ragione di fondo della separazione è semplice: evitare che il possibile assoggettamento dei detenuti comuni a soggetti appartenenti a consorterie organizzate di tipo mafioso o terroristico possa provocare fenomeni di reclutamento oppure di strumentalizzazione per turbare la sicurezza degli istituti di pena. "L'obiettivo del progetto sarebbe quello di trasformare il carcere di Padova in una struttura riservata solo ai cosiddetti detenuti comuni" spiega il direttore del carcere padovano Salvatore Pirruccio, "Al momento non c'è alcun atto ufficiale" ammette il massimo dirigente della struttura penitenziaria che punta a rassicurare alcuni detenuti in Alta sicurezza preoccupati di trasferimenti a breve proprio quando stanno tentando di portare avanti un "percorso di cambiamento". "Chi ha intrapreso un percorso rieducativo-trattamentale, per esempio andando a scuola, frequentando corsi, lavorando, potrebbe essere escluso da trasferimenti come prevede il progetto di chiusura dell'Alta sicurezza. Un progetto che, ripeto, non è imminente" insiste il direttore Pirruccio, "Se il Dap si deciderà a portarlo avanti, lo vedremo" osserva ancora. Intanto nella casa di reclusione si attende l'esito dell'ispezione decisa dal Dap ed eseguita a metà dello scorso novembre da parte di una delegazione dell'amministrazione penitenziaria guidata da un dirigente con l'incarico di provveditore e formata da un commissario e due ispettori di polizia penitenziaria. L'obiettivo? Tutto di natura amministrativa: verificare eventuali manchevolezze e negligenze nella gestione del carcere dopo la bufera giudiziaria dell'estate scorsa. Palermo: carcere dell'Ucciardone ancora sovraffollato, ma il vero problema è il "gelo" Giornale di Sicilia, 5 gennaio 2015 Riscaldamento spento e acqua fredda, la denuncia ai radicali in visita nel carcere del capoluogo. Poco cibo e freddo all'Ucciardone, un centro medico che andrebbe potenziato al Pagliarelli. È questa la situazione nei due penitenziari palermitani, dove i livelli di sovraffollamento sarebbero tutto sommato ridotti. Il quadro è emerso il 31 dicembre, durante la visita compiuta dal Partito radicale all'interno delle due strutture. Donatella Corleo, storica attivista del movimento di Marco Pannella, ha ribadito nuovamente che l'Ucciardone, per i suoi problemi strutturali, andrebbe chiuso come carcere e preservato invece come monumento. Nella vecchia struttura borbonica, infatti, anche se sono stati apportati dei piccoli miglioramenti - come la prenotazione delle visite ai detenuti per mail o la possibilità per chi sta scontando la pena di stare fuori dalla cella tra le 8 e le 17 - resta priva di riscaldamento e di acqua calda. Alcuni detenuti avrebbero detto chiaramente durante la visita dei Radicali di "fare la fame". La direttrice della struttura penitenziaria (che da mercoledì non è più casa circondariale ma semplice istituto di reclusione e può dunque ospitare solo condannati in via definitiva a pene superiori ai cinque anni), Rita Barbera, ha però chiarito che la quantità di cibo è quella stabilita dal ministero. A pesare, secondo Barbera, sarebbe invece la crisi che colpisce i famigliari dei detenuti, che non riescono a portar loro alimenti in più dall'esterno. I riscaldamenti, poi, potrebbero essere attivati in una sezione, ma per evitare disparità tra i reclusi, si preferisce lasciarli spenti. Molto più tranquilla la situazione al Pagliarelli, dove, secondo i Radicali, andrebbe potenziato il centro medico, visto che deve servire per più di mille detenuti. Oristano: sanità penitenziaria; l'Asl riserva camere per detenuti all'Ospedale San Martino di Elia Sanna La Nuova Sardegna, 5 gennaio 2015 All'ospedale verranno allestite stanze con misure di sicurezza speciali per chi sconta la pena nel carcere di Massama. L'ospedale San Martino avrà uno spazio speciale per i detenuti. Oltre al potenziamento dei servizi all'interno del carcere di Massama, la Asl ha previsto infatti anche la realizzazione di alcune stanze dotate di speciali misure di sicurezza nell'ospedale oristanese. Sono queste alcune delle novità annunciate dal nuovo Commissario straordinario della Asl 5 Maria Giovanna Porcu. Il manager visiterà la struttura carceraria nei prossimi giorni, per rendersi conto della situazione del presidio sanitario allestito all'interno della Casa circondariale. È evidente che la presenza di un alto numero di detenuti, la maggior parte in regime di alta sorveglianza, ha necessità di una struttura e di servizi sanitari adeguati alle nuove esigenze. Dopo una partenza decisamente lenta la struttura sanitaria di Massama era stata potenziata anche di recente con l'attivazione di alcuni servizi specialistici. Nel corso di una delle recenti proteste promosse dai carcerati erano state messe in evidenza proprio alcune carenze. I detenuti stessi, in più occasioni, venivano trasferiti al San Martino anche per patologie semplici, il che ha comportato enormi sforzi organizzativi da parte della polizia penitenziaria, già penalizzata da gravi carenze di organico. Problemi che oggi si sono accentuati in virtù della presenza di pericolosi personaggi della criminalità organizzata campana e calabrese. "La Asl 5, in collaborazione con l'amministrazione carceraria, si era già attivata per garantire e implementare la sanità penitenziaria - ha spiegato il commissario Maria Giovanna Porcu. Per quanto riguarda la specialistica ambulatoriale all'interno del carcere sono attivi da tempo i servizi di odontoiatria, urologia, endocrinologia, diabetologia, oculistica, cardiologia e ecografia. A questi, attivati in origine per cinque ore settimanali, ne sono state aggiunte da dicembre altre dieci per far fronte alle numerose richieste". Il potenziamento delle prestazioni sanitarie si era reso necessario dopo il trasferimento a Massama di oltre cento nuovi detenuti, provenienti dalle altre strutture carcerarie dell'isola. "All'occorrenza, quando se ne presenta cioè la necessità, vengono comunque garantite anche altre prestazioni specialistiche - ha sottolineato il commissario della Asl. Nei casi di emergenza e di urgenza in cui si renda necessario il trasferimento in ospedale, è allo studio la possibilità di destinare delle stanze riservate ai detenuti dotate di idonee misure di sicurezza all'interno del San Martino". I lavori per allestire le stanze speciali che dovranno ospitare detenuti sottoposti all'alta sorveglianza, dovrebbero iniziare nei prossimi mesi. Vigevano (Pv): Associazione San Vincenzo; un orto per insegnare un lavoro alle detenute di Giuseppe Del Signore La Provincia Pavese, 5 gennaio 2015 Un orto tra le mura del carcere dei Piccolini per consentire alle detenute di coltivare la terra e rivendere i prodotti in città, a chilometro zero. È il progetto che la Società San Vincenzo de Paoli di Vigevano sta preparando per favorire il reinserimento dei carcerati. "La nostra opera - spiega il presidente. Maria Luisa Baldi - non è a livello di emergenza, ma di accompagnamento. Sì, diamo le borse ai poveri, ma la nostra finalità è il reinserimento sociale, non l'assistenza a vita. Per questo collaboriamo con la casa circondariale e dopo la ludoteca - inaugurata nel corso del 2014 con il finanziamento di Fondazione Piacenza e Vigevano - abbiamo pensato all'allestimento di un orto-vivaio in cui coltivare prodotti da vendere in Vigevano. Lo scopo è far sentire il carcere come un quartiere della città". Favorendo in questo modo da un lato una percezione positiva della struttura e dall'altro la "rieducazione del condannato" a cui devono tendere tutte le pene in accordo con l'articolo 27 della Costituzione. Al momento il progetto è in fase di lancio, grazie al contributo dell'istituto agrario Pollini di Mortara, che ha accettato di fornire le competenze specifiche imprescindibili per realizzare l'orto. Per passare alla fase operativa la San Vincenzo dovrà reperire le risorse necessarie, almeno 50mila euro. "Per prima cosa - dichiara Baldi - abbiamo presentato il progetto alla sede nazionale per capire se può rientrare in uno dei bandi disponibili, in seconda battuta stiamo tentando la strada del cofinanziamento insieme a delle fondazioni". In attesa di verificare la disponibilità di queste ultime, prosegue l'attività ordinaria della Società, che è la più antica di Vigevano e una delle più antiche del mondo, essendo stata fondata a Parigi nel 1833 e presente in città dal 1867. Le 5 conferenze, sedi operative che fanno capo al consiglio centrale di Vigevano, complessivamente assistono oltre 300 famiglie di italiani e stranieri. "Abbiamo - afferma il presidente - più stranieri, il rapporto è circa 60-40%, ma il numero delle famiglie si avvicina perché una famiglia straniera di solito ha più figli. Sono tanti i pensionati così come le persone sole e in questi casi il numero degli italiani aumenta. La situazione in città non è molto bella e non so come possa evolversi; di certo è in peggioramento. C'è una difficoltà di inserimento, perché mancano le possibilità di lavoro". Benevento: il 7 gennaio l'Unicef organizza un incontro con i figli dei detenuti www.ilquaderno.it, 5 gennaio 2015 Il 7 gennaio, come di consuetudine, i volontari Unicef incontrano i figli di detenuti presso la Casa Circondariale di Benevento. La collaborazione fra Casa Circondariale e Unicef provinciale è iniziata parecchi anni fa in conseguenza dell'accordo fra l'Unicef Nazionale e il Dipartimento Ministeriali. I Volontari Unicef dedicano ai figli dei detenuti una giornata di giochi, di intrattenimento e di dialogo sempre riguardanti i diritti dell'Infanzia e dell'Adolescenza ed è sempre un'esperienza molto importante confrontarsi con una realtà fra le più difficili del nostro tempo. Da molti anni i detenuti partecipano attivamente a molti progetti Unicef, soprattutto per la realizzazione di bellissime Pigotte a protezione del progetto vaccinazioni. I Volontari Unicef sanno che la realtà carceraria è molto dura anche se impostata su finalità rieducative di recupero e reinserimento, ma hanno anche sperimentato la sensibilità dei detenuti e il loro attaccamento ai figli. Sono queste le leve migliori per riconquistare dignità e, nel rispetto delle leggi, dare ai proprio figli "un mondo migliore" , così come spera il Natale Azzurro di quest'anno. Trento: "Qui si resta passando", a teatro nel carcere di Spini di Gardolo di Nadia Clementi www.ladigetto.it, 5 gennaio 2015 "Qui si resta passando" è il titolo dello spettacolo per cui sono andati in scena i detenuti del carcere di Trento. Il nostro giornale aveva visitato il carcere di Via Pilati e ne aveva più volte sollecitato la chiusura. Era invivibile. Così, quando quello vecchio è stato chiuso e siamo andati alla presentazione e all'inaugurazione del nuovo carcere di Spini di Gardolo, ci siamo sentiti sollevati. Vedi i servizi della presentazione e dell'inaugurazione. Ora, carcerati e guardie carcerarie almeno potevano respirare. Naturalmente è rimasto un "carcere vero" a tutti gli effetti, per cui quando abbiamo sentito che sarebbe andato in scena uno spettacolo nel carcere, l'abbiamo presentato con un senso di sollievo. Per noi è andata Nadia Clementi ad assistere allo spettacolo e scrivere il pezzo che segue. Uno spettacolo teatrale non è molto, ma se si pensa al principio che "dilettando educa", possiamo dire che un piccolo passo avanti per il recupero della gente che ci vive e ci soffre è stato fatto. Sabato 13 dicembre 2014 dodici detenuti del nuovo Carcere di Trento, assieme ad un gruppo esterno di giovani attori italiani e stranieri, si sono esibiti con singolare entusiasmo sul palcoscenico della sala presente nella struttura penitenziaria. In scena lo spettacolo "Qui si resta passando", il lavoro conclusivo di un laboratorio educativo che i detenuti hanno seguito sotto la direzione artistica del regista Emilio Frattini e con la collaborazione di Francesca Sorrentino e Chiara Ore Visca. Lo spettacolo è stato co-prodotto dal Centro Servizi Culturali S. Chiara, dalle Associazioni "Con Arte e con pArte" di Trento e "Sagapò Teatro" di Bolzano, con il sostegno del Servizio Attività Culturali della Provincia Autonoma di Trento, il patrocinio del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati e il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto. In sala è tutto esaurito, c'è fermento, attesa, inquietudine e un rincorrersi di sguardi rapidi e intensi tra gli agenti della polizia penitenziaria e il pubblico presente in sala, composto da un centinaio di detenuti e rappresentanti istituzionali della Provincia di Trento. L'atmosfera è quella di una recita per dilettanti, le emozioni quelle che ogni attore in erba prova durante la prima esibizione sul palco; questa volta però non si è trattato di un teatro normale, gli attori non sono appassionati di filodrammatica e il pubblico non è composto da parenti e amici. Un teatro che ha visto applausi, euforia, urla e risate, ma dove si è anche respirata la tensione dovuta al dispiegamento delle forze dell'ordine in sala che hanno vigilato sulle due ore di… "evasione" e di insolito divertimento. Il sipario si è alzato alle 15.30, sullo sfondo di una scenografia essenziale: una piazza irreale fatta di semplici quinte nere dove bighellona un barbone, interpretato con maestria dal regista Emilio Frattini. Seduto sulla panchina il clochard è spettatore di brevi scene di vita quotidiana, di gente che attraversando la piazza si racconta, ignara di essere osservata. Così il barbone rappresenta la figura incognita che diventa il filo conduttore tra disperazione e humor e funge anche da specchio interiore dei singoli personaggi. Ma sono i detenuti dallo spiccato accento straniero i veri protagonisti del palcoscenico: si alternano celermente in personaggi comuni interpretando con disinvoltura la parte di fidanzato, criminale, ubriaco, agente di polizia, sportivo, ambulante, accompagnati e sostenuti dalla bravura di giovani attori professionisti. Assieme rivivono sul palco quella vita che li aspetta al di là delle sbarre, fatta di ricordi, sogni e aspettative di un domani che ricorderanno un giorno come "Qui si resta passando". Il pubblico applaude, divertito e sorpreso, apprezzando il lavoro svolto dal regista Frattini, che saluta e ringrazia tutti i presenti attraverso la sua mimica facciale carismatica e sorniona che ha saputo conquistare la simpatia dei detenuti, donando loro risate e momenti di riflessione sui contenuti della vita. L'obiettivo del progetto era quello di colmare la distanza tra "il dentro e il fuori", analizzare il carcere attraverso la creatività e l'arte della recitazione cercando di favorire la crescita dei partecipanti rispetto la consapevolezza di sé, l'armonia con gli altri, le competenze umane, civili e sociali, nonché le capacità relazionali e di convivenza. La dimensione educativa, rieducativa e terapeutica del teatro è da anni oggetto di riflessioni ed esperienze: da un lato l'espressione artistica, dall'altro l'elaborazione emozionale a livello psicologico. Perché l'essere "attori" del proprio disagio o delle proprie problematiche, nel senso di agirli e di rappresentarli, consente di operare a fine terapeutico per favorire la diluizione del singolo conflitto interiore. Come è nato il Teatro in carcere L'idea è nata con l'entrata in vigore della Legge 663/1986, che costituisce la principale modifica alla legge di riforma dell'ordinamento penitenziario del 1975 (n. 354). Ispirandosi a esigenze di risocializzazione e rieducazione, la legge Gozzini prevede misure alternative alla pena che permettono ai detenuti di uscire dal carcere e introduce attività affidate a operatori provenienti dalla società civile. È così che il teatro è entrato in carcere grazie ai primi esperimenti di attuazione della legge e all'iniziativa di compagnie e di registi professionisti che hanno inaugurato una serie di percorsi laboratoriali destinati, nel giro di pochi anni, a disegnare una mappa di esperienze articolata sul piano nazionale. È chiaro fin da subito che nel Teatro Carcere convivono due prospettive differenti: da una parte riconduce l'attività teatrale all'offerta "trattamentale", ossia al programma di "interventi diretti a sostenere interessi umani, culturali e professionali" del detenuto, favorendone una "costruttiva partecipazione sociale": dall'altra la ricerca teatrale scopre nella scena reclusa uno straordinario potenziale di linguaggi, storie, attitudini e risorse personali. Firenze: gruppo detenuti Sollicciano nella basilica di San Lorenzo per Messa con Betori Ansa, 5 gennaio 2015 C'era anche un gruppo di detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano ieri mattina alla messa celebrata dall'arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, nella basilica di San Lorenzo. Una celebrazione accompagnata dall'esecuzione della Messa in Re maggiore di Wolfgang Amadeus Morzat grazie all'associazione La Pasqua di Bach presieduta dal maestro Mario Ruffini, ai Solisti di San Lorenzo, all'Ensemble Vocale Capriccio Armonico, all'Orchestra da Camera Benedetto Marcello, al direttore della Galleria degli Uffizi Antonio Natali e all'Opera Medicea Laurenziana. Al termine della celebrazione, l'arcivescovo ha voluto ringraziare tutti per la collaborazione: "un appuntamento che vorrebbe lodevolmente riproporsi in forma stabile, per iniziare l'anno con una Celebrazione eucaristica in cui l'antica musica liturgica viene ricollocata nel suo contesto proprio, quello dell'azione sacra" ha detto ricordando che lo scorso anno venne eseguito la Messa in Si minore di Johann Sebastian Bach. Durante l'omelia, riprendendo le parole del Vangelo di Giovanni, il cardinale Betori aveva sottolineato come "altri si propongono a noi per fare luce sull'esistenza umana, ma occorre saper discernere tra vera luce e false luci. È un compito decisivo, soprattutto in un'epoca come la nostra - ha concluso - in cui il relativismo dominante lascia ampio spazio a ideologie e comprensioni del mondo e della vita che possono trarre vantaggio dal consenso raccolto nella società". Augusta (Sr): musica alla Casa di reclusione, con il concerto della "Brucoli swing band" di Agnese Siliato La Sicilia, 5 gennaio 2015 Nella casa di reclusione di Augusta l'anno si è concluso con il secondo concerto natalizio del coro dei detenuti, la Brucoli swing, diretta da Maria Grazia Morello. Lo spettacolo è stato l'ultimo degli appuntamenti del 2014 che hanno visto l'apertura del penitenziario al pubblico esterno, per eventi, spettacoli teatrali, musicali, dibattiti con studenti anche giovanissimi che hanno potuto visitare il cuore del carcere, ossia le sezioni detentive. Al concerto finale hanno assistito quasi duecento persone, che sono state accompagnate alla sala teatro attraverso il lungo corridoio tappezzato di murales (realizzati da A. B. ergastolano) che hanno preso il posto delle pareti grigie e hanno potuto ammirare il presepe portato nel carcere dal soprintendente ai beni culturali, Rizzuto. Il concerto è iniziato con un omaggio a Mango, recentemente scomparso. Sono stati poi eseguiti brani di Gianni Morandi, Gianna Nannini, Paolo Conte, Cocciante e un Oh Happy day natalizio finale cantato da tutto il pubblico. Durante lo spettacolo sono stati consegnati gli attestati del corso di fotografia tenuto dalla associazione Augusta free lance, da parte del presidente Romolo Maddaleni, del vice presidente Felice Cucinotta e degli altri soci. Il direttore della casa di reclusione, Antonio Gelardi, ha ringraziato l'Inner Wheel, partner nelle più recenti iniziative e ha ricordato gli eventi del 2014 che hanno visto il momento clou fuori dal carcere, con un concerto al castello svevo di Augusta che sono stati anche l'occasione per raccolte di fondi a scopo benefico, quasi seimila euro in totale, e le quasi duecento persone presenti in sala, che si sono aggiunte alle duemila che hanno visitato il carcere nell'anno appena trascorso per assistere a spettacoli e partecipare a dibattiti, cene. Torino: quei bravi ragazzi che frequentano il bar del "carcere duro" di Paolo Coccorese La Stampa, 5 gennaio 2015 L'Associazione "Libera" critica la moda dei locali con insegne "mafiose". Il bar di via Lanzo 1 ha assunto il nome dell'articolo del codice di procedura penale che disciplina in "carcere duro". Le insegne evocano la Mafia e quel mondo scuro e terribile delle organizzazioni criminali. Riferimenti che, a seconda dei negozi, possono essere subdoli, ispirati alle rappresentazioni del cinema e quasi inaspettati anche per i proprietari. Poi, c'è quella del nuovo bar-panetteria aperto in via Lanzo, zona Madonna di Campagna. Per l'eleganza del servizio non sfigurerebbe nelle vie dello struscio, ma sulle vetrine si legge "41 bis", scritta che lascia ben poco all'immaginazione. Nome che non ricalca il numero civico, ma l'articolo più severo del regolamento penitenziario. Il "carcere duro", il regime di reclusione dei boss più spietati e pericolosi come Riina e Provenzano. La scorsa estate, aveva fatto scalpore la rosticceria "Don Panino" aperta a Vienna che, scimmiottando i film dei gangster italo-americani, offriva un menù di sandwich con wurstel e pollo grigliato chiamati "Falcone" o "Impastato". La stessa insegna, da cinque anni si trova in via Maria Vittoria dove lavora una delle sempre più numerose attività commerciali che sfoggiano un nome che evoca l'universo della Piovra, di Cosa Nostra e di tutte le altre organizzazioni mafiose. "Dopo quelle polemiche, decidemmo di affiggere un comunicato alla porta del negozio per fare chiarezza e prendere le distanze - dicono dal risto-pub che unisce la qualità dei prodotti alla passione per lo sport. Con loro non abbiamo alcun contatto e siamo contro chi vuole infangare la memoria dei nostri eroi. Il nome è stato scelto perché suonava bene e, se un cliente si fosse lamentato, lo avremmo già cambiato". All'intero di "Don Panino", sfogliando il menù e controllando le pareti, non si scovano riferimenti alla Mafia. Come in un'altra paninoteca di corso Regina Margherita, che ha un'insegna che richiama graficamente il logo del film di Francis Ford Coppola, "Il padrino": con un ritocco grafico è diventato "Il Panino". "Ho scelto questa insegna perché mi sembrava simpatica e perché mi piace il film, ma il negozio non ha nulla a che fare con i boss", dice il proprietario, Dario Conti. All'interno, sul menù, l'unica particolarità è la specialità della casa, lo sfilatino alla cotoletta lungo venti centimetri. "Nessun cliente si è mai lamentato - dicono -, Anzi molti ragazzi si fermano a fotografarlo e ci fanno i complimenti". L'insegna di corso Regina, non è passata inosservata a Libera, l'associazione di Don Ciotti che da anni combatte il diffondersi della cultura delle organizzazioni mafiose. "Non è una bell'idea - dice il referente regionale, Maria Josè Fava. Tutto quello che parla della Mafia in termini positivi e ne crea un mito, deve essere criticato". Dai telefilm come "Romanzo Criminale" o "Gomorra", alle magliette che andavano di moda qualche anno fa tra i ragazzi, il rischio, secondo quelli di Libera, è sdoganare una rappresentazione lontana dalla realtà di Cosa Nostra. A maggior ragione, se il negozio sotto casa, ha scelto di scrivere sulle vetrine "41 bis". "Il nostro è un brand nato nel 2009 che riproponiamo in tutti i negozi che decidiamo di lanciare - dice il proprietario del bar di via Lanzo 1, Luca Dino -. In quel periodo, i telegiornali parlavano molto del 41 bis, così ho pensato che potesse diventare il nostro marchio. Non abbiamo nulla a che vedere con la Mafia ma, essendo aperti ogni giorno fino a sera, il bar può diventare un carcere per i miei dipendenti. In più, è un nome che attira la curiosità". In passato, i bar-panetterie "41 bis" sono state aperti anche in altri quartieri come in via dei Mercanti, in via di Nanni, in via Livio Bianco e anche a Ivrea, dove il nome attirò le critiche del Comune. "Chi si lamenta dell'insegna è gente stupida", si difende il signor Dino. Di ben altro parere, il presidente di Libera, Fava: "Non ci sono leggi che vietano ai negozianti di scegliere questi nomi, devono essere gli stessi clienti a ribellarsi e non entrare in un bar che si chiama 41 bis". Libri: "Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere", di S. Ronconi e G. Zuffa recensione di Francesca de Carolis www.laltrariva.net, 5 gennaio 2015 Carcere. È nome che istintivamente evoca un universo maschile. Maschia è l'eco di voci e di volti che rimanda e a cui normalmente pensiamo. E poi ci sono le donne... Sono "talmente poche" rispetto al numero totale delle persone in carcere... il 4% dicono le statistiche. Appena qualche migliaio... A pensarci bene, nella percezione esterna al carcere sembrano quasi scomparire, se non, forse, quando le pensiamo madri, e quando pensiamo ai loro figli. È accaduto anche a me, che da qualche anno di carcere mi occupo, e me ne sono resa conto solo quando qualcuno mi ha chiesto se, nel mio interessarmi a prigioni e detenuti, avessi incontrato anche donne. E ho pensato, un po' vergognandomene, alla conoscenza minima e quasi esclusivamente "letteraria" a cui mi sono fermata... che pure ricorda quanto complessa, e molteplice e altra, è l'altra "metà" dell'universo carcere. "Recluse", un interessante e densissimo libro appena uscito con l'editore Ediesse, è qui ora a ricordarcelo. Curato da Susanna Ronconi e Grazia Zuffa (molto riassumendo, formatrice la prima, psicologa la seconda), prende spunto da una ricerca condotta nel 2013 nelle carceri di Firenze Sollicciano, Pisa ed Empoli, con interviste alle donne detenute, alle agenti di polizia penitenziaria, al personale educativo. Obiettivo dichiarato: contenimento della sofferenza, prevenzione dell'autolesionismo e del suicidio (che è atto estremo di sofferenza ma anche di insubordinazione, si sottolinea), promozione della salute. E lo sguardo si allarga... passa attraverso la narrazione di vite, che non è solo narrazione di quello che è nel carcere, ma ricorda e si riporta anche al fuori, passato e futuro. Anche quando quest'ultimo a volte ha la luce instabile del miraggio. Un lavoro complesso e che tocca mille aspetti della vita delle donne detenute, ricordandoci lo sguardo della differenza femminile. E un grande merito va riconosciuto: l'aver dato la parola a persone in genere più "rappresentate" che ascoltate, o sollecitate a "raccontarsi". E la differenza è enorme. Perché in un luogo come la galera, dove sei senza voce e subito diventi nulla, riprendersi la parola, è la prima cosa da fare per riprendersi il resto. Le voci sono tante, si intrecciano in racconti e sussulti. Tutte anonime, naturalmente, ma dietro le sigle e le parole è facile immaginare i volti che quelle parole suggeriscono... tutte insieme compongono l'istantanea di quella "danza immobile" che è il carcere. Ma nello sguardo della differenza femminile, le autrici del libro offrono gli elementi per individuare le linee di forza, le enormi potenzialità che possono far salva la vita. "Adesso sono diventata un mostro, l'assistente sociale ha chiesto l'affidamento... non sono innocente, ma i miei bambini li ho sempre curati. Sono sempre la persona che li accudiva..." "Mi volevano dare delle gocce per mettermi a dormire quando ho sbroccato, solo che grazie a dio ho avuto il potere di dire no...(...) Io un giocattolino nelle vostre mani non lo divento, perché la vita è ancora mia...". "Io, venendo qui, tutto quello che vedevo nero, ho tirato fuori un arcobaleno...". Donne... Fra tanti pensieri, che il libro provoca, una piccola annotazione. Nella miseria della vita carceraria (perché il carcere è miseria, e violenza e negazione), la relazione fra donne emerge come "possibile motivo di stress, ma anche come eventuale fattore di protezione". Una riflessione, questa, che riporta alla mente una frase del racconto dal carcere di Goliarda Sapienza ( ricordate? finì dentro, a Rebibbia, per un furto) che, narrando della sua breve esperienza in un mondo pur spietato ed estremo, dice: "Lì non hai l'obbligo di vestirti, se non ti va non parli, non devi correre a prendere l'autobus. Quelle che ti conoscono sanno esattamente cosa vuoi. Quando sono uscita ho avuto la nettissima impressione di aver lasciato qualcosa di caldo, di sicuro". Che riporto non certo per dire che "meglio il carcere". Più ne conosco le storie, più mi convinco della sua atroce inutilità, ma come riconoscimento di quello sguardo della differenza come punto di partenza per costruire vie d'uscita. Che siano definitive. Un libro, questo "Recluse" , che indica dunque "strategie di tenuta" della differenza femminile, nel solco di un impegno contro la sofferenza gratuita e aggiuntiva che nel carcere nasce dalla costante violazione dei diritti umani. Per la cronaca, Recluse è uno dei volumi, il quinto, nato dalla collaborazione fra Ediesse e la Società della Ragione, che porta avanti un ammirevole impegno sul tema della giustizia, dei diritti e delle pene, "nell'orizzonte di un diritto penale minimo, proprio di una democrazia laica, alternativa allo Stato etico". E, scusate se suona come ossimoro, Dio solo sa quanto, dei valori di democrazia laica, ci sia bisogno. Libri: "L'anima e il muro", di Sante Notarnicola recensione di Alessandra Cecchi e Daniele Orlandi www.carmillaonline.com, 5 gennaio 2015 "Se vi dovesse succedere di finire in carcere, guardate cosa c'è nelle celle. Sappiate che per ogni cosa che vedete, il fornelletto, il libro, la penna, è stato pagato un prezzo". Nel prezzo, le vite di Gerhard Coser, Marcello Mereu, Enrico Delli Carri, bruciati vivi a vent'anni in una cella, durante una protesta del luglio 1970 a San Vittore. Chi li ricorda è Sante Notarnicola, durante una delle numerose presentazioni del suo "L'anima e il muro", edito l'anno scorso dalla Odradek. L'anima e il muro è una raccolta di poesie scritte prevalentemente in prigionia dal 1955 al 2012, impreziosita dai disegni di Marco Perroni. La lunga introduzione e le note di Daniele Orlandi la rendono però anche un libro di storia. È la storia dei "Dannati della terra", di quell'intensa stagione di lotte che riuscì, in pochi anni, a rivoluzionare il carcere, qualche volta a distruggerlo. Una storia di segrete medioevali, come quella di Volterra, costruita dai Medici nel 1334, o Castel San Giacomo di Favignana, ex colonia penale borbonica, la cui prima pietra posero i Normanni nel 1074 (entrambe, peraltro, ancora pienamente in funzione). Celle dalle finestre murate, tombe per i vivi, al cui interno il fatto di esistere era già di per se un reato perseguibile. Inferni strutturati per piegare, annichilire, così descritti in una lettera del 1970: "mancanza di servizi igienici, topi che salgono dalle fogne e passeggiano per le celle, scarafaggi, cimici che disegnano coreografie sulle pareti e sulle lenzuola, mancanza di spazio vitale, ossigeno insufficiente d'estate, freddo e umidità d'inverno, celle che sembrano bare per cadaveri viventi, degradazione fisica e psichica, trattamento terroristico, pestaggi, letti di contenzione, insufficienza sanitaria, privilegi, discriminazioni di ogni tipo, assenteismo e noncuranza per migliaia di uomini che raggiungono il completo sfacelo della propria personalità". Clandestina era la carta e il mozzicone di matita, così come l'aiuto al compagno analfabeta, perché insegnargli a leggere e a scrivere poteva costarti le celle di rigore. In queste carceri siffatte, alla fine degli anni 60, le mille insubordinazioni individuali - tragiche, sempre sconfitte - cominciarono ad unirsi in un'unica grande, ribellione collettiva. Una trasformazione, che per quanto lui si schermisca, avvenne anche grazie all'autore di questo libro. Notarnicola portò fra quelle mura, prima di altri, la sua esperienza di organizzatore politico e combattente sociale, quella capacità cresciuta al suono dei racconti partigiani, e maturata poi nel lavoro di base nei quartieri operai di Torino, negli anni durissimi di Scelba e di Valletta. Non fu da solo: "Io ebbi la fortuna di essere arrestato nel momento giusto, di trovare i ragazzi giusti". Nel ‘67, l'anno in cui venne preso, la composizione sociale del carcere non differiva in maniera sostanziale da quella della fabbrica. L'umanità su cui lavorare era la stessa, e proveniva da contesti familiari e sociali non estranei all'organizzazione collettiva del conflitto. Bisognava smuoverla, trovare le parole adatte per farla riconoscere in una comunità solidale, tanto più unita quanto più era assoluto l'arbitrio e la violenza a cui veniva sottoposta. Notarnicola queste parole seppe trovarle. E furono le prime fermate all'aria, i mattoni divelti da sbattere, in centinaia, sulle sbarre, contro il regolamento penitenziario di epoca fascista. Nei processi, trasformati in occasioni di pubblica denuncia, era il sistema penitenziario a salire sul banco degli imputati. Fuori da quelle mura nel frattempo tutto veniva messo in discussione: la fabbrica, la scuola, l'intera società. Le prigioni non potevano rimanerne immuni. Presto in quelle celle arrivarono gli anarchici, vittime dell'infame montatura che seguì la strage di Piazza Fontana, e cominciarono ad entrare in massa anche i ragazzi del movimento studentesco, per gli arresti che seguivano, puntuali, ogni manifestazione. Vennero accolti dalla solidarietà galeotta, sempre pronta a medicargli le ferite, a fargli coraggio. E loro ricambiarono, all'uscita, portando il carcere fuori dai cancelli, sui loro giornali, negli slogan dei cortei, nelle priorità delle organizzazioni di appartenenza. Ruppero l'isolamento, e questo fu di vitale importanza, perché le rivolte dentro quelle mura non fossero soffocate nel silenzio. A pieno titolo esse divennero parte integrante di un movimento generale. Con una variante: là dentro lo scontro non aveva vie di fuga, il prezzo da pagare era molto più alto. Costava sangue conquistare il tetto, arrivare in alto, dove da fuori potevano vederti. Lunga la strada dal cortile alle celle, dove i reparti speciali ti ricacciavano colpendoti senza pietà. E poi i trasferimenti continui, improvvisi, i pestaggi, nudi, nel cortile di Volterra, e mesi di isolamento, le celle distrutte dalle perquisizioni, lettere e foto strappate. Nuovi anni di galera da scontare. Eppure non riuscirono a fermarli. Con le rivolte vennero anche i primi risultati: prima la penna, poi i libri, i giornali non più ridotti in coriandoli dai tagli della censura, il fornello, la stampa politica, ma soprattutto sempre maggiori spazi di libertà … fino a quella vera: nel 1974 evasero 221 detenuti dalle carceri italiane, nel 75 furono 300, nel 76, 443. Nel 1975 la Riforma penitenziaria sostituì definitivamente il regolamento del ‘31, passando (nella teoria) da una concezione unicamente punitiva ad un'altra imperniata sulla rieducazione e reinserimento sociale del detenuto. Poteva sembrare una vittoria, ma durò poco. Due anni dopo venne affidata a Dalla Chiesa una ricognizione delle peggiori carceri italiane, da riservare principalmente alla detenzione politica. Con decreto interministeriale, si istituirono le carceri speciali. "L'anima e il muro" ripercorre questa storia, ma anche gli aspetti più intimi del vissuto in prigionia. Canta Notarnicola, l'amore ai tempi delle sbarre: la separazione, l'attesa, l'assenza riempita di sogni. Canta frammenti di vita, frammenti di cielo sottratti a una grata di ferro, frammenti di luce nel sorriso di lei, dietro un vetro divisorio. Canta le umiliazioni inflitte ai familiari, l'orizzonte negato, il sottile sadismo e le risa sguaiate dei guardiani. Canta del pianto di Antonio Salerno, il più piccolo prigioniero di Badu e Carros, rinchiuso assieme a sua madre. Antonio che fu accudito dalla comunità delinquente, il giorno che tacquero i televisori, e i litigi e le urla della galera, perché il bambino stava male e nessuno mandava un soccorso. E si fece silenzio, spaventoso silenzio, fino a quando un dottore dovette arrivare di corsa per evitare che il carcere esplodesse di odio. Canta degli antifascisti, passati un tempo in quelle stesse celle, dei compagni perduti lungo la strada. Delle ferite più profonde, quelle che non guariscono. Libri: "La guerra è finita. L'Italia e l'uscita dal terrorismo 1980-1987", di Monica Galfré recensione di Corrado Stajano Corriere della Sera, 5 gennaio 2015 Il terrorismo? Sembra lontana secoli quella stagione di sangue. Non se ne parla o quasi. Anche se i problemi che furono discussi non superficialmente in quegli anni - la giustizia, le carceri, la funzione della pena, il rispetto della Costituzione e delle leggi, la dignità del cittadino - seguitano a essere di quotidiana attualità. Vengono invece dimenticati, sottovalutati, cancellati, lasciati ai margini del modesto dibattito politico di oggi. Monica Galfré, che insegna Storia dell'Italia repubblicana all'Università di Firenze, ha ripercorso, in controtendenza culturale, il tragico cammino di quegli anni: il suo saggio, pubblicato da Laterza, "La guerra è finita. L'Italia e l'uscita dal terrorismo 1980-1987" rappresenta un contributo importante, anche per il nostro presente, naturalmente. La studiosa dimostra che quella storia di violenza e di morte non è separata, come si vuol far credere, dalla storia della Repubblica alla quale è invece profondamente intrecciata. Nella sua ricerca si serve di nuove fonti, gli archivi privati, non usa le testimonianze orali, registra con estrema attenzione le cronache e i commenti dei quotidiani, trascura purtroppo la tv. Pare che il saggio abbia due "anime" che si compongono. Nella prima, Monica Galfré affronta (volutamente senza completezza) certi fatti del terrorismo di sinistra e della manchevole risposta giudiziaria, istituzionale, politica, soprattutto agli inizi, degli apparati repressivi. I magistrati erano dotati di poveri strumenti. Il Pci si muoveva tra l'incapacità e il rifiuto di capire che le Br nascevano a sinistra. L'album di famiglia. Il libro non parla delle ambiguità e delle complicità dei servizi segreti e neppure delle non ancora chiarite infiltrazioni e presenze internazionali. Anche la funzione della P2 è lasciata da parte. (Fu importante anche perché l'affiliazione alla Loggia segreta di un gran numero di generali a capo dei servizi, di ministri, di politici e di giornalisti di rango avvenne agli inizi del 1977, l'anno dopo il grande successo elettorale del Pci, anche se la Democrazia cristiana, nonostante gli scandali e il degrado, aveva tenuto. Per i 55 giorni del sequestro Moro, il ministro degli Interni Cossiga ebbe intorno a sé come consiglieri gli uomini della P2). Il saggio di Monica Galfré documenta come la lotta dello Stato contro il terrorismo non abbia rispettato, come vien detto, le garanzie costituzionali. Ne fanno prova, tra i non pochi esempi, il caso del sanguinoso blitz di via Fracchia a Genova, nel 1980, dove furono uccisi senza ragione quattro terroristi; il caso di Marco, il figlio terrorista del vicesegretario della Dc, più volte ministro, Carlo Donat Cattin di cui i carabinieri sapevano e tacquero; il caso della tortura inflitta ai brigatisti sequestratori del generale Dozier, comandante della Nato nel Sud Europa. (Ancora oggi la Repubblica democratica attende una legge contro la tortura). Fu un'atroce guerra. Duecento i morti, migliaia i feriti e innumerevoli gli attentati del terrorismo di sinistra, "che danno l'idea di un caso imparagonabile al resto d'Europa", scrive Monica Galfré. Se si pensa poi alle stragi, prerogativa dell'estremismo di destra, e alle altre innumerevoli vittime dei gruppi neofascisti, si ha la percezione del clima cupo che in quegli anni gravò sulla comunità. Gli episodi furono barbari, non soltanto gli assassinii degli uomini illustri come Aldo Moro e di tanti onesti servitori dello Stato. Il giornale radio delle 8 dava ogni mattina notizia di una nuova esecuzione, dirigenti industriali, capireparto, guardie carcerarie, agenti di polizia, carabinieri, brigatisti pentiti, giornalisti. Viene ripetuto ancora oggi che il terrorismo ebbe il merito di sollecitare un rinnovamento politico e sociale. Come mai, si può replicare, le vittime sono state spesso uomini di sentire democratico, Emilio Alessandrini, Guido Galli, Walter Tobagi, tra gli altri? Dopo la strage di piazza Fontana ci fu nella società italiana un risveglio che si manifestò nella volontà riformatrice alle elezioni del 1975 e del 1976. I terroristi, con la loro violenza cieca, seppero invece far regredire quel desiderio di mutare rotta, di dir no alla corruzione e al cattivo governo. L'assassinio del fratello del pentito Patrizio Peci, nel 1981, che rammenta i metodi nazisti, fece capire come i terroristi non potessero avere un consenso di massa. La seconda "anima" del saggio ricostruisce con minuzia e inediti particolari i processi legislativi, essenziali forse più dei pentiti, a sconfiggere il terrorismo. Il percorso fu arduo, alla ricerca di una soluzione politica o semplicemente umana: dalla prima legge sui pentiti, del 1980, a quella, del 1982, che mettevano a rischio l'essenza stessa dello Stato di diritto. Come si poteva chiedere "sincerità" e "spontaneità del ravvedimento"? Soltanto la legge sulla dissociazione, approvata nel 1987, riuscì a porre fine al terrorismo. Andò in porto dopo un vero travaglio, una cruda lotta tra gli uomini di buona volontà, senza interessi di parte, e coloro che legavano la decisione ai meschini interessi di partito, tra i socialisti di Craxi all'avventura, i comunisti sulla difensiva, i democristiani sempre con gli occhi puntati ai doppi e tripli forni del potere, i cattolici democratici e gli intellettuali laici che ebbero, invece, con i radicali, una funzione propositiva. "Cercare di capire le ragioni degli uni e degli altri, reali o presunte che fossero - conclude Monica Galfré il suo libro utile e coraggioso - mi è parsa l'unica strada percorribile per restituire, in tutta la sua complessità, il quadro determinante dalla sconfitta del terrorismo e dalla difficile uscita dall'emergenza: e, attraverso questo capire cosa esso abbia significato per la storia e la coscienza del Paese. (...) Una storia di cui è ancora difficile parlare". Israele: leader Anp dovranno rispondere alla Corte Penale Internazionale Adnkronos, 5 gennaio 2015 Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha assicurato oggi che intende contrastare qualunque sforzo da parte palestinese volto a trascinare "soldati ed ufficiali delle forze di Difesa israeliane davanti alla Corte penale all'Aja". In apertura della riunione settimanale del governo a Gerusalemme, il capo del governo israeliano ha accusato l'Autorità palestinese di aver scelto "la via del confronto con lo stato di Israele" ed ha assicurato che non intende stare con le braccia conserte". "Chi dovrà rispondere davanti ad una corte internazionale sono i capi dell'Autorità palestinese, che hanno stretto un'alleanza con i criminali di guerra di Hamas", ha affermato il premier citato dal Jerusalem Post. "I soldati delle forze di difesa continueranno a difendere lo Stato di Israele con determinazione e forza", ha avvertito. "E come loro difendono noi, noi li proteggeremo con la stessa determinazione e la stessa forza". Ieri, a seguito della richiesta di adesione alla Corte presentata dai palestinesi, Israele aveva risposto annunciando il congelamento dei trasferimenti di oltre cento milioni di Euro di tasse raccolte per conto dell'Anp. Grecia: catturato Christodoulos Xiros, il terrorista evaso dalle carceri di Korydallos Ansa, 5 gennaio 2015 L'uomo era latitante dal 7 gennaio 2014. È stato arrestato dagli uomini della Squadra Antiterrorismo della polizia greca. Xiros stava scontando una condanna pari a sei ergastoli e ulteriori 25 anni di prigione nel penitenziario di Korydallos, alla periferia di Atene, per appartenenza all'organizzazione terroristica "17 Novembre" e complicità in 6 omicidi, attentati dinamitardi e rapine. Terrorista arrestato preparava grande attacco Il terrorista greco Christodoulos Xiros, arrestato dalla Squadra Antiterrorismo della polizia greca tre giorni fa, stava preparando un grande attacco contro le carceri di Korydallos, per far evadere i detenuti dell'organizzazione terroristica "Cospirazione dei Nuclei di Fuoco". Lo ha detto il ministro per la Protezione del Cittadino, Vassilis Kikilias in una conferenza stampa dopo l'arresto del ricercato numero uno in Grecia. Nella casa dove si nascondeva Xiros ad Anavissos, una località a 50 chilometri dalla Capitale, la polizia ha trovato un vero e proprio arsenale, tra cui nove fucili d'assalto K-47 Kalashnikov, tre granate a propulsione a razzo (Rpg), due bombe a mano, tre pistole, molte pallottole, e un barile con cento chilogrammi di materiale esplosivo, pronto per essere usato nell'attentato contro il penitenziario, programmato secondo il ministro per questi giorni, in piena campagna elettorale. Xiros stava scontando una condanna a sei ergastoli e ulteriori 25 anni di prigione nel penitenziario di Korydallos, alla periferia di Atene, per appartenenza all'organizzazione terroristica rossa "17 Novembre" e complicità in sei omicidi, attentati dinamitardi e rapine. Dopo aver ottenuto una licenza di nove giorni il primo gennaio del 2014 non si era più ripresentato. Oggi Xiros, sarà interrogato dal giudice istruttore, mentre la polizia greca sta dando la caccia a suoi eventuali complici. Siria: giornalista rimasto sei mesi in carcere accusa marocchini Stato islamico di torture Nova, 5 gennaio 2015 Il giornalista siriano Abdel Lui Abdel Jawad, che ha trascorso sei mesi nelle carceri dello Stato islamico, ha accusato i membri marocchini del gruppo terrorista di essere "quelli specializzati nelle torture ai carcerati". Il giornalista è stato scarcerato di recente nell'ambito di uno scambio di prigionieri tra l'Esercito siriano libero e lo Stato islamico. In un suo articolo ha rivelato che "i marocchini del gruppo erano i miei carcerieri ed erano le guardie del carcere insieme ad altri stranieri. Questo compito veniva affidato in particolare ai combattenti provenienti da Marocco e Francia". Iraq: Stato islamico trasferisce detenuti da Kirkuk a Mosul, per avanzata dei peshmerga Nova, 5 gennaio 2015 Le milizie jihadiste dello Stato islamico hanno iniziato a svuotare le carceri nella città di Kirkuk trasferendo i detenuti a Mosul. Il provvedimento segue l'avanzata dei peshmerga, che negli ultimi giorni sono riusciti a riprendere sotto il loro controllo il 70 per cento del territorio espugnato dagli uomini del Califfato nero nel giugno scorso. Lo ha annunciato ieri la polizia di Kirkuk. In una dichiarazione al sito web del Partito democratico curdo (Pdk), il generale di polizia Sarhad Qader, ha detto che "i terroristi dell'Isis hanno iniziato a trasferire i detenuti dal carcere di al Hueijah (55 chilometri a sud ovest di Kirkuk) alle loro prigioni a Mosul nel timore di un attacco da parte dei peshmerga".