Giustizia: nel 2015 un Piano del Governo per la lotta contro la povertà? di Cristiano Gori Il Sole 24 Ore, 4 gennaio 2015 Renzi vorrà essere il primo premier nella storia italiana a dare rappresentanza alle richieste di sostegni per fronteggiare il disagio, ben radicate nella nostra società ma regolarmente dimenticate nel momento di compiere delle scelte politiche. L'esplosione della povertà in Italia. Nel 2007 nel nostro paese sperimentavano la povertà assoluta 2,4 milioni di persone - pari al 4,1% della popolazione - che nel 2013 erano salite a 6 milioni, il 9,9%. L'indigenza ha rotto i confini che tradizionalmente ne delimitavano la presenza nella società italiana. Fino a pochi anni fa, si concentrava al Sud, tra gli anziani, tra le famiglie con molti figli e laddove manca il lavoro. Nella fase recente, non solo ha confermato il suo radicamento tra questi segmenti della popolazione ma si è anche diffusa notevolmente in altri, prima ritenuti poco vulnerabili: il centro-nord, le giovani famiglie, i nuclei con almeno 2 figli e quelli con componenti occupati. Quella assoluta è la povertà vera e propria. La sperimenta, infatti, chi non può sostenere le spese necessarie ad acquisire i beni e i servizi essenziali, nel contesto italiano, per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile (alimentarsi adeguatamente, vivere in un'abitazione di dimensioni consone, con acqua calda ed energia, vestirsi decentemente, riuscire a spostarsi sul territorio e così via). Le risposte del welfare. L'Italia è, insieme alla Grecia, l'unico Paese europeo privo di una misura nazionale contro la povertà. I tratti principali di queste prestazioni sono ovunque gli stessi: ogni famiglia indigente riceve un contributo economico, pari alla differenza tra il proprio reddito e la soglia di povertà. Gli interessati fruiscono, inoltre, dei servizi - sociali, educativi, per l'impiego - utili a costruire nuove competenze e/o ad organizzare diversamente la propria esistenza, forniti da Comuni, Terzo Settore e altri soggetti del territorio. S'introduce così un diritto nazionale e gli si dà sostanza attraverso il forte coinvolgimento delle comunità locali. Parallelamente, vengono coniugati i diritti di cittadinanza (usufruire della misura) e i doveri verso la collettività (gli utenti devono impegnarsi per perseguire la propria inclusione sociale e/o lavorativa). L'assenza di adeguate politiche si riflette nella dimensione della spesa pubblica contro l'esclusione sociale, che in Italia è inferiore dell'80% alla media europea (0,1% del Pil rispetto a 0,5%). Durante la crisi, mentre la povertà galoppava le già esili risposte pubbliche venivano ulteriormente indebolite. L'unico contributo economico attivato è stata, nel 2008, la Social Card - 40 € mensili rivolti a nuclei indigenti con un bambino entro i 3 anni o un anziano con più di 65 -che ha avuto un impatto del tutto marginale, per l'esiguità dell'importo e le poche persone raggiunte. In assenza di altre risposte, i soli presidi pubblici rimasti ad affrontare l'accresciuta domanda di aiuti sono stati i Comuni, ai quali durante la recessione lo Stato ha nettamente diminuito i già limitati stanziamenti. L'azione del Governo Renzi. Una misura nazionale contro la povertà avrebbe dovuto essere introdotta negli scorsi vent'anni, in un quadro di finanza pubblica più favorevole. Ciò non è avvenuto perché la battaglia contro questo flagello non è mai diventata una priorità di nessuno dei principali schieramenti. Qui, ma non è certo l'unico caso, Renzi è chiamato oggi a fare le cose giuste nel momento sbagliato. Nel 2014, però, l'attuale Esecutivo non ha collocato la lotta alla povertà tra i propri obiettivi. Nonostante i fondi sociali per i Comuni siano stati leggermente incrementati, l'aumento è destinato a persone con disabilità, anziani non autosufficienti e nidi, non ai poveri assoluti. Anche il bonus di 80 euro mensili è rivolto ai redditi medio-bassi ma non a loro. Intanto si sta svolgendo la sperimentazione di una nuova misura, la "Nuova Social Card", predisposta dal Governo Letta ed ereditata, insieme ai relativi finanziamenti, dall'attuale Esecutivo. È stata avviata lo scorso anno nei 12 Comuni più grandi e nei prossimi mesi sarà estesa alle Regioni meridionali. Raggiunge, però, assai pochi poveri: alcune famiglie in condizione di disagio lavorativo e con almeno un figlio minorenne e - come detto - solo in alcune aree del paese. Inoltre, i fondi stanziati basteranno al massimo per pochi anni. Se questo percorso - che richiede l'investimento congiunto degli operatori e degli utenti coinvolti- non sarà collocato in una complessiva strategia di sviluppo della lotta all'esclusione, la sua rapida conclusione avrà l'unico esito di provocare frustrazione in tutti. Un Piano nazionale contro la povertà. La sperimentazione, invece, dovrebbe confluire in un ben più ampio Piano, che introduca gradualmente - ad esempio in 4 anni - una misura nazionale indirizzata a tutte le famiglie in povertà assoluta, valorizzando gli interventi contro il disagio già oggi presenti, grazie a Terzo Settore ed enti locali, nei vari territori del paese. Bisognerebbe cominciare dai più poveri tra i poveri - agendo così subito sulle situazioni di maggiore gravità - e ampliare progressivamente l'utenza affinché a partire dal quarto, e ultimo, anno del Piano la misura, a regime, raggiunga tutte le famiglie in povertà assoluta. Sin dall'avvio il Governo dovrebbe assumere precisi impegni riguardanti il punto di arrivo e le tappe intermedie, in modo da costruire un quadro di riferimento certo che permetta a tutti soggetti in campo di operare al meglio verso un comune obiettivo. Lo stanziamento necessario crescerebbe gradualmente sino a giungere, a regime, a circa 7 miliardi di euro, cifra che porterebbe la spesa contro l'esclusione in Italia sostanzialmente al livello della media europea. Il Piano è proposto dall'Alleanza contro la Povertà in Italia, sorta nel 2013 (chi scrive ne è coordinatore scientifico) per sensibilizzare il Governo sulla necessità di interventi e composta da numerose associazioni (Acli, Caritas, Forum Terzo Settore, Action Aid, Banco Alimentare, Save the Children e molte altre), dalle rappresentanze di Comuni e Regioni, e dai sindacati. È la prima volta che un numero così vasto di attori sociali e istituzionali dà vita a un simile sodalizio: la sua nascita è un tentativo di affrontare le difficoltà nella rappresentanza politica dei poveri segnalate da Ricolfi. Giustizia: Ferri; più misure alternative con la delega al Governo per la riforma dell'O.P. Adnkronos, 4 gennaio 2015 "La delega al Governo per la riforma dell'ordinamento penitenziario contiene un principio importante, che è doveroso sottolineare: le carceri non devono essere considerate come dei luoghi punitivi tout court, dove i detenuti sono abbandonati al loro destino". Lo scrive, in una nota, il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri "Non è in questo modo che il carcere può svolgere una funzione educativa e riabilitativa per chi ha sbagliato. Con la delega si cambia prospettiva: basti pensare alla revisione dei presupposti di accesso alle misure alternative per facilitare il ricorso alle stesse misure o alla maggiore valorizzazione del lavoro come strumento di reinserimento sociale. Non si mette in discussione - conclude Ferri - la certezza della pena, tutt'altro: al giusto rigore che deve essere applicato nei confronti di chi ha violato la legge si unisce un'utilità". Sistema fiscale più certo in materia di abuso del diritto "L'incertezza in campo fiscale è dannosa per le scelte di investimento e quindi per la crescita economica: stabilità e certezza nell'ordinamento fiscale, compresa l'interpretazione delle norme e l'attività giurisdizionale e l'esito dell'eventuale contenzioso, sono fattori importanti per la crescita economica e lo sviluppo di attività imprenditoriali". È quanto sottolinea il sottosegretario al ministero della Giustizia Cosimo Ferri. Per l'esponente del governo, "è giusto intervenire con maggiore stabilità e certezza sul sistema fiscale, dando una nuova definizione dell'abuso del diritto, unificata a quella dell'elusione, estesa a tutti i tributi, non limitata a fattispecie particolari e corredata dalla previsione di adeguate garanzie procedimentali. L'introduzione della norma sull'abuso di diritto rappresenta il punto d'arrivo di un'evoluzione normativa e giurisprudenziale del nostro ordinamento iniziata negli anni 70 ed ora approdata a questo testo". Con questa norma, spiega Ferri, "si codifica un principio di lealtà sostanziale nel rapporto tra fisco e contribuente, un principio di prevalenza della sostanza sulla forma, per cui il profilo formale resterà in secondo piano e si dovrà valutare la sostanza economica delle operazioni per verificare se i connessi vantaggi fiscali siano indebiti. L'abuso del diritto sussisterà allorquando si pongano in essere operazioni prive di qualsiasi giustificazione sul piano economico o imprenditoriale ed il cui unico risultato sia rappresentato dal determinare dei vantaggi fiscali". Sottolinea Cosimo Ferri: "Sono tre i presupposti per l'esistenza dell'abuso: l'assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate, la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito e la circostanza che il vantaggio è l'effetto essenziale dell'operazione. Attraverso questa nuova previsione, i rapporti tra fisco e contribuente potranno essere impostati su di un principio di lealtà". Infatti, spiega il sottosegretario alla Giustizia, "da un lato, il contribuente non potrà inventare marchingegni il cui unico risultato sia quello del vantaggio fiscale; dall'altro, la tipizzazione della fattispecie dell'abuso del diritto, ora descritta dal legislatore in maniera chiara e precisa, consentirà tendenzialmente di superare le oscillazioni della giurisprudenza e dell'amministrazione fiscale, assicurando certezza del diritto e possibilità per il contribuente di programmare le proprie scelte contando sulla prevedibilità delle decisioni dell'amministrazione e dei giudici". Ferri si dice "convinto che questa sia la strada giusta, ovvero quella, come più volte sottolineato anche dai vertici dell'Agenzia delle Entrate, di favorire un rapporto tra fisco e contribuente, improntato alla collaborazione e che dunque, all'interno di un quadro normativo semplificato e chiaro, consenta di scindere la posizione di quanti intendono strumentalizzare gli istituti giuridici a fini indebiti, e quanti, invece, rispettano le regole ed in quest'ottica vanno sostenuti e guidati". Il decreto, ricorda Ferri, "provvede anche a precisare che non si considerano abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa ovvero dell'attività professionale del contribuente". Inoltre, "si conferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale". Per il sottosegretario alla Giustizia, "nell'ottica della certezza del diritto e della uniformità dei principi applicabili alla materia fiscale in modo da evitare irragionevoli disparità di trattamento, estremamente importante è l'aver introdotto una nozione che unifica i concetti di abuso del diritto e di elusione e che gli attribuisce una portata generalizzata riguardante sia le imposte armonizzate che quelle non armonizzate". Giustizia: riforma reato evasione fiscale, scoppia il caso 3% "può applicarsi a Berlusconi" di Silvia Barocci e Andrea Bassi Il Messaggero, 4 gennaio 2015 Nel decreto sulla certezza del diritto approvato dal governo spunta una norma che prevede la non punibilità penale per chi evade tasse inferiori al 3% del reddito. E scoppia il caso. Secondo alcune interpretazioni, questa franchigia potrebbe essere applicata anche alla sentenza Mediaset che ha portato alla condanna dell'ex premier Silvio Berlusconi, annullandola. L'ira di Matteo Renzi: il presidente del Consiglio impone ai suoi di cambiare la norma in Parlamento. La norma, appena venuta alla luce, è già senza padri. Chi ha lavorato al dossier, al Tesoro, non ne avrebbe avuto conoscenza fino all'ultimo. A Palazzo Chigi quelcomma19-bis spuntato in zona Cesarini nel decreto ribattezzato da Matteo Renzi "certezza del diritto" appena pubblicato sul sito della Presidenza, avrebbe fatto infuriare lo stesso premier. Un articolo di sole quattro righe che rende immune da conseguenze penali chiunque evada le tasse per un ammontare non superiore al 3 per cento dei redditi dichiarati. E questo anche, è la novità, nel caso delle frodi fiscali e delle false fatturazioni. Una dicitura che ha fatto scattare un campanello d'allarme anche all'Agenzia delle Entrate, da sempre contraria a sconti per chi evade le tasse attraverso metodi fraudolenti. Scritta in questo modo, del resto, la norma potrebbe chiudere numerosi conti dei contribuenti con il Fisco. Non solo. Potenzialmente potrebbe avere effetti anche politici. Secondo alcune interpretazioni, la franchigia del 3 per cento sulle frodi fiscali, potrebbe essere applicata anche alla sentenza Mediaset che ha portato alla condanna a quattro anni (di cui tre condonati) di Silvio Berlusconi. Nel processo che si è chiuso in Cassazione nell'estate del 2013, l'ex Presidente del Consiglio è stato condannato per una frode fiscale di 7,3 milioni per gli anni 2002 e 2003. Siccome l'ammontare complessivo delle tasse versate in quello stesso periodo da Mediaset è stato di 381,5 milioni, la percentuale di evasione sarebbe dell'1,9 per cento, inferiore al 3 per cento previsto dalla nuova franchigia del decreto. Se questa interpretazione fosse corretta, Berlusconi potrebbe chiedere un incidente di esecuzione e la cancellazione della condanna. Ma Renzi è pronto a bloccare tutto. "Non ne sapevo niente", avrebbe detto ai suoi collaboratori, "ma se è così pronto a bloccare tutto". Anche i legali del Cavaliere hanno dubbi. Niccolò Ghedini dà, per esempio, un'interpretazione restrittiva, sostenendo che il comma inserito dal governo "non riguarderebbe le frodi fiscali ma solo l'infedele dichiarazione". Il sottosegretario all'Economia, Enrico Zanetti, uno dei maggiori esperti di questioni tributarie, spiega invece che, a suo avviso, "sarà necessario cambiare in Parlamento la norma prevedendo esplicitamente l'esclusione delle frodi fiscali dalla franchigia del 3 per cento". Più esplicito David Ermini, responsabile giustizia del Pd: "nel passaggio in Commissione escluderemo i reati di frode fiscale dalla norma". In realtà il decreto del governo inserisce molte altre regole con l'obiettivo di dare maggiore certezza alle imprese nei rapporti con il Fisco, limitando l'intervento dei giudici solo ai casi più gravi. Per esempio, per chi salda i debiti con le Entrate prima che il giudizio penale entri nella fase del dibattimento, il provvedimento prevede comunque l'estinzione del reato penale. Una norma che se fosse stata in vigore avrebbe chiuso sul nascere molti casi di imprese finite nelle maglie del Fisco e in quelle delle procure. Così come nel testo è stata introdotta una precisa definizione dell'abuso del diritto, la principale fattispecie di elusione. I contribuenti saranno liberi di scegliere tra più regimi fiscali, quello per loro più conveniente e, in ogni caso, l'elusione non sarà più considerata un reato penale. "Con questa norma", spiega il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri, "si codifica un principio di lealtà sostanziale nel rapporto tra fisco e contribuente, un principio di prevalenza della sostanza sulla forma". Ghedini smentisce: le misure non si applicano al leader FI L'interpretazione del diritto già di per sé è una strada che non conosce certezze granitiche e, anzi, molte deviazioni. Figuriamoci se l'interpretazione riguarda una norma non ancora definitiva - perché mancano i pareri delle commissioni parlamentari competenti - e che sarebbe stata inserita in extremis al decreto legislativo sulla "certezza del diritto" approvato a Palazzo Chigi la vigilia di Natale. Arrivati a metà del testo, in molti si sono chiesti se di quella norma possa beneficiare o meno Silvio Berlusconi, che sta scontando una condanna definitiva a quattro anni (di cui tre coperti da indulto) per frode fiscale nel processo Mediaset. A questi vanno aggiunti i due anni di interdizione dai pubblici uffici come pena accessoria e i sei anni di incandidabilità previsti dalla cosiddetta legge Severino. La norma sospettata, introducendo l'art.19 bis al decreto legislativo del 2000 in materia di reati tributari, prevede una specifica causa di esclusione di punibilità: "Per i reati previsti dal presente decreto, la causa è comunque esclusa quando l'importo delle imposte sui redditi evase non è superiore al tre per cento dell'imponibile dichiarato o l'importo del valore aggiunto evasa non è superiore al tre per cento dell'imposta sul valore aggiunto dichiarata". Cosa significa? Può riguardare o no la frode fiscale per cui l'ex premier è stato condannato? "Assolutamente no, non riguarda Berlusconi - dice il suo avvocato Niccolò Ghedini. Questo articolo si riferisce solo all'infedele dichiarazione". Ma per molti esperti di diritto la norma, così scritta, si applicherebbe anche alle false fatturazioni e alla frode fiscale. Che nel caso specifico di Berlusconi sarebbe al di sotto della prevista soglia del 3%. Anche se la condanna di Berlusconi è già passata in giudicato, l'ex Cavaliere può beneficarne comunque? La risposta è sì. Grazie all'incidente di esecuzione, un istituto che già nel 2003 ha consentito a Cesare Romiti di vedere revocata la sentenza di condanna a 11 mesi che la Cassazione gli aveva inflitto nel 2000: nel frattempo, infatti, era stato depenalizzato il reato di falso in bilancio e dunque la Corte di Appello di Torino non aveva potuto far altro che revocare la condanna in quanto il fatto sulla base del quale era stata emessa la sentenza non era più previsto dalla legge come reato. Le strade che si aprirebbero a Berlusconi - sempre che la norma sia interpretabile a suo favore o che non venga cambiata - sono molte. I benefici sarebbero pressoché irrilevanti sulla pena da scontare: il periodo di affidamento ai servizi sociali dell'ex premier presso l'istituto Sacra famiglia di Cesano Boscone scadrà infatti a breve, il prossimo febbraio. La più grande vittoria sarebbe un'altra, tutta politica. Perché oltre alla pena principale verrebbe cancellata anche quella accessoria (i due anni di interdizione dai pubblici uffici) assieme agli effetti penali della condanna. Questi ultimi altro non sono che i sei anni di incandidabilità previsti dall'art. 13 della cosiddetta legge Severino che già gli aveva fatto perdere il titolo di senatore. E così l'ex Cavaliere tornerebbe in sella. Giustizia: le lacrime in aula non convincono, resta in carcere la mamma di Loris di Alessandra Ziniti La Repubblica, 4 gennaio 2015 I giudici non hanno creduto alle lacrime di Veronica, non si sono lasciati condizionare dal suo malore davanti alle foto del viso cianotico di Loris, quel figlio che la accusano di aver strangolato né dalla sua appassionata professione di innocenza. I suoi silenzi davanti alle contestazioni, le sue bugie e l'ostinata negazione di quella che, secondo i giudici, è l'evidenza, hanno ancora una volta messo all'angolo Veronica che ieri se ne è tornata delusa e angosciata nella sua cella del carcere di Agrigento. Perché il tribunale del riesame di Catania, dopo due udienze-fiume a cavallo di Capodanno e una camera di consiglio di quasi 24 ore, ha respinto l'istanza di scarcerazione presentata dalla difesa e confermare l'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Ragusa nei confronti di Veronica Panarello sposando la tesi dell'accusa, secondo cui è stata questa giovanissima mamma, con un disagio psicologico che ha radici lontane, a strangolare suo figlio Loris, 8 anni, e a gettarne il corpo in un canalone fuori dal suo paese, Santa Croce Camerina. "Allora non mi credono", è stato l'angosciato grido con cui Veronica ha accolto la notizia del dispositivo del tribunale del riesame che si è riservato di depositare le motivazioni entro 30 giorni. Solo il primo step di un braccio di ferro tra accusa e difesa che, quasi certamente, si riproporrà in Cassazione. Ci credeva Veronica che, a quasi un mese dal suo arresto, sarebbe tornata da quel marito dilaniato dai dubbi sulla sua colpevolezza che non è andato mai a trovarla in carcere, e da quel bimbo piccolo che in un sol colpo ha perso il fratello maggiore e la mamma e adesso vive con il papà a casa della nonna materna. Nel Natale più brutto della sua vita, trascorso in assoluta solitudine nel carcere di Agrigento ("trattata peggio che al 41 bis", come dice suo padre Francesco Panarello, l'unico familiare che le sta accanto), aveva detto: "Riuscirò a dimostrare la mia innocenza ai giudici, uscirò presto da qui, devo tornare a casa da mio marito e da mio figlio". Ma non è andata così. L'avvocato Francesco Villardita aveva provato a smontare i due capisaldi dell'accusa: l'affidabilità delle tante telecamere che dimostrano che Loris quella mattina del 29 novembre non è mai arrivato a scuola come invece sostiene Veronica e che riprendono la Polo nera della madre vicino al luogo del ritrovamento del cadavere in un orario compatibile con la morte e la stessa autopsia spostando l'ora del delitto in avanti quando Veronica era presente ad un corso di cucina. Tentativo fallito ma, dice: "Resto convinto dell'innocenza della mia assistita, questo è solo un passo in via cautelare, ma la strada è lunga". Il procuratore di Ragusa incassa un altro punto a favore dell'impianto accusatorio e si limita a dire: "Le indagini continuano, sia a carico della signora Panarello che sullo scenario nel quale è maturato il delitto". Giustizia: Veronica deve restare in cella… lo vuole il popolo di Vincenzo Vitale Il Garantista, 4 gennaio 2015 Perché? Perché gli indizi sono forti. Ma il Codice prevede criteri diversi per la carcerazione preventiva. Veronica, accusata d'aver ucciso il piccolo figlioletto Lorys, resta in carcere. Il Tribunale del Riesame di Catania, dopo una udienza particolarmente lunga ed una altrettanto durevole camera di consiglio, ha intatti rigettato la istanza di scarcerazione. C'era da aspettarselo. Perché esiste un costume in forza del quale la tendenza a mantenere lo stato di detenzione è abbastanza intensa e tale comunque da prevalere su altre possibili interpretazioni delle norme vigenti. C'era da aspettarselo: Veronica, la giovane madre accusata d'aver ucciso il piccolo figlioletto Lorys, resta in stato di detenzione in carcere. Il Tribunale del Riesame di Catania, dopo una udienza particolarmente lunga ed una altrettanto durevole camera di consiglio, ha infatti rigettato la istanza di scarcerazione avanzata dal suo difensore. Ora, perché aspettarselo? Perché c'era da mettere in conto una sorta di costume, presente e diffuso all'interno della giurisdizione italiana, in forza del quale la tendenza a mantenere lo stato di detenzione rispetto a quello della piena libertà o - addirittura - della detenzione domiciliare è abbastanza intensa e tale comunque da prevalere su altro possibili interpretazioni dello norme vigenti, Ammettiamo puro che la rimessione in libertà di Veronica possa comportare un pericolo per le indagini che - come è stato ancor oggi affermato - sono in corso: cosa si sarebbe opposto a disporre la misura certo meno afflittiva della custodia cautelare domiciliare? Certo, non si conoscono ancora le motivazioni della ordinanza appena depositata in cancelleria, ma non si riesce a comprendere - in base al buon senso - a quale presupposto si possa appellare il rigetto della istanza di liberazione. Eccettuando il potenziale inquinamento delle prove - di quello ovviamente ancora da raccogliere - quale altro presupposto di legge non sarebbe stato soddisfatto, liberando Veronica? Forse la reiterazione del reato? Sarebbe assurdo solo pensarlo, visto che si tratta di delitto a suo modo irripetibile. Forse il pericolo di fuga? Anche questo rischio, ammesso che possa considerarsi seriamente, sarebbe stato ampiamente evitato attraverso una misura mono afflittiva, quale la detenzione domiciliare, E allora? Come si concilierebbe il rigetto della istanza di scarcerazione con il principio del nostro codice di procedura penale che esige che lo stato di detenzione in carcere sia disposto soltanto quando ogni altra misura - meno afflittiva - risulta impraticabile? In attesa della possibilità di conoscere le motivazioni del provvedimento del Tribunale di Catania, si vorrebbe qui esorcizzare un esito che sarebbe oggettivamente sbagliato, quello cioè secondo il quale il rigetto potrebbe essere stato disposto semplicemente per la presenza di gravi indizi di colpevolezza. Non voglio credere che così possa essere, perché - se fosse così - dovremmo dedurne che il Tribunale sia caduto in una sorta di pericoloso trabocchetto intellettuale in forza del quale si tiene una persomi in carcere per una motivazione sostanzialmente scorretta, in quanto non voluta dalla legge: perché lo si ritiene già colpevole. Questo non può essere, per il semplice motivo che se un imputato - qualunque sia il delitto di cui possa essere accusato - debba essere considerato colpevole, lo si saprà alla fine del procedimento, e non all'inizio. Proprio per tale ragione, la presenza di gravi indizi di colpevolezza altro non ò - secondo la legge - che la cornice generale all'interno della quale poi vanno ritrovati i singoli presupposti che possano legittimare lo stato di custodia carceraria. Occorre, insomma, che nell'ambito dei gravi indizi di colpevolezza sia rappresentabile seriamente il concreto pericolo di fuga o di inquinamento delle prove o di commissione di altro delitto. Se nessuno di questi presupposti sarà rintracciabile, allora l'imputato dovrà essere scarcerato o, quanto meno, posto agli arresti domiciliari. Per conoscere e capire cosa si trovi a supporto del provvedimento del Tribunale bisognerà dunque attendere, ma i dubbi e le preoccupazioni qui manifestati possono esserlo da subito. In proposito, non si ribadirà mai abbastanza come anche la recentissima riforma - salutata come la panacea della custodia cautelare - sia null'altro che l'ennesimo intervento senza né capo né coda. Ci si limita infatti a sostituire un aggettivo ad un altro ( pencolo di fuga attualo invoco che concreto), come bastasse cambiare aggettivazione per riportare il nostro sistema penale all'interno della cornice dello Stato di diritto, cosa che palesemente non ò. Infatti, mai potrà dirsi esistente davvero lo Stato di diritto dove -come accade in Italia- oltre un terzo della popolazione detenuta è in attesa di giudizio. Giustizia. Marco Pannella si ricovera per continuare lo sciopero della fame per le carceri Notizie Radicali, 4 gennaio 2015 Ricovero per motivi di "prudenza" in una struttura sanitaria a Roma per Marco Pannella. Il leader dei Radicali ha accettato le condizioni postegli dai medici pur di continuare lo sciopero totale della fame e della sete a sostegno delle condizioni dei detenuti nelle prigioni italiane. Pannella, 85 anni il prossimo 2 maggio, ha annunciato che proseguirà la propria "azione nonviolenta", iniziata lo scorso 30 dicembre, "per difendere il messaggio alle Camere di Napolitano (sulle carceri, ndr) dai comportamenti opposti assunti dal presidente del consiglio Renzi". Un messaggio - spiega - "trattato in modo indecente dal Parlamento italiano" che non si sarebbe subito attivato per trovare una soluzione all'emergenza carceri in Italia. Il nuovo sciopero della fame e della sete, l'ennesimo, deciso da Panella crea molta preoccupazione . L'ultima volta che Pannella si è privato di liquidi e di cibo risale all'aprile del 2014, ancora una volta per chiedere il miglioramento delle condizioni dei detenuti nelle prigioni italiane: in quell'occasione il leader radicale fu stato ricoverato per una operazione chirurgica all'aorta addominale. Soltanto una telefonata di Papa Francesco, che voleva informarsi sulle sue condizioni di salute, scoraggiò il leader radicale dal riprendere immediatamente lo sciopero. Nonostante le condizioni di salute non ottimale, Pannella ha ripreso la protesta nel corso dell'estate, interrotta a seguito di un nuovo intervento chirurgico e di alcuni cicli di radioterapia per curare due tumori ai polmoni e al fegato. La sua battaglia per l'amnistia continua ora nella stanza della clinica romana dove è entrato questa mattina. Giustizia: intervista all'ex capo del Dap Giovanni Tinebra "Il Protocollo farfalla? Che è?" di Tony Zermo La Sicilia, 4 gennaio 2015 È andato in pensione da procuratore generale di Catania, ma è anche stato a lungo al centro delle più grandi inchieste di mafia che la storia giudiziaria italiana ricordi. Giovanni "Gianni" Tinebra, 73 anni, non ha mai amato le interviste, ma si concede al vostro cronista che trascorse vicino a lui gli anni delle indagini per la strage Falcone e per la strage Borsellino. Lui venne nominato procuratore capo di Caltanissetta nel giugno del ‘92, a cavallo tra i due "attentatuni" di Palermo. Ha avuto una grande carriera, Tinebra, perché poi è stato anche per cinque anni direttore del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria. Che gli è rimasto alla fine? "Ho guardato dentro di me uomo più che magistrato e ho detto di sentirmi a posto con la coscienza per avere fatto fino in fondo il mio dovere". Tinebra fuma ancora, anche se limitatamente. Anni addietro mi aveva detto: "Devi smettere di fumare, fai come me, ogni giorno dal pacchetto metti via una sigaretta e così nemmeno te ne accorgi". Si vede che ci ha ripensato. È nato a Enna, ma la sua famiglia è di Caltanissetta. Il primo incarico lo ebbe come sostituto alla Procura di Nicosia prima di diventarne il capo. Poi, quando Salvatore Celesti lasciò la Procura di Caltanissetta per andare a Palermo, il Csm lo designò a reggere la piccola Procura di Caltanissetta. "C'erano due magistrati e mezzo - ricorda - e ho dovuto inventare una Procura che praticamente non esisteva. Poi il Csm mi mise a disposizione in applicazione temporanea i migliori magistrati d'Italia che accorsero a Caltanissetta con entusiasmo. Parlo della Boccassini, di Fausto Cardella, di Paolo Giordano e tanti altri, un elenco lungo di magistrati eccellenti. Anche Ilda Boccassini che alcuni giudicano piantagrane lavorava moltissimo. Ora a carriera finita posso dire di avere avuto al mio fianco dei magistrati uno più brillante dell'altro. Di quel primo periodo ricordo una cosa: tutti guardavano a me, come dire la patata bollente è tua e te la devi sbrigare tu. Come se ci fosse scetticismo sul risultato delle indagini, soprattutto perché dopo meno di due mesi dall'agguato a Falcone sterminarono Borsellino e la sua scorta. A quel tempo era normale lo scetticismo nei confronti della lotta alla mafia. Questo però, lungi dallo scoraggiarmi, mi fece da pungolo, perché io sono così, reagisco alle sfide. Oltre ai magistrati impegnati nelle indagini c'è stata anche la task force guidata dal questore di Palermo Arnaldo La Barbera che è stata utilissima". Che rapporti avevi con Borsellino? "Con Paolo eravamo vecchi amici, eravamo in confidenza. Mi disse: senti, vieni presto, ho delle cose da dirti, però non ti seccare, parliamo quando tu sarai investito ufficialmente. Lui era molto rispettoso delle regole. Quella settimana accaddero tante cose: giorno 15 luglio presi possesso della Procura, lui mi disse che l'appuntamento del venerdì doveva saltare perché lui doveva ancora rientrare dalla Germania e stabilimmo che ci saremmo visti il lunedì. La domenica doveva andare a salutare sua madre e quel giorno ci fu la strage in via D'Amelio. In pratica non abbiamo avuto tempo per parlare di niente. Quindi m'è rimasto il dubbio su che cosa mi voleva dire". Ma almeno ti aveva fatto capire che pista stava seguendo per la strage di Capaci? "L'idea, l'idea, è quella dell'alta mafia, di altissima mafia, quella delle menti raffinatissime di cui parlava Falcone dopo l'attentato dell'Addaura". Cosa possiamo intendere per altissima mafia? Anche quella legata ai gruppi industriali del Nord? "Non posso dire, perché non ci sono prove". Ma Paolo che ti diceva? Aveva una pista? La pista degli appalti ad esempio? "Lui diceva di sì, o comunque si occupava anche degli appalti. D'altra parte la pista era quella: o mafia e appalti, o mafia e politica, o mafia e imprenditoria. O mafia e basta, perché c'è anche questa ipotesi, perché la mafia aveva tale e tanta forza da poter contare sui contatti che voleva, sulle consulenze che le servivano". Adesso però è diverso. La morte di quegli uomini non è stata inutile. "Sì, adesso è diverso, il sacrificio di Giovanni e di Paolo e di tanti amici non è stato inutile. Altrimenti non saremmo qui a parlarne, non ci sarei stato nemmeno io. Hanno cambiato la Sicilia, hanno costretto la mafia a rintanarsi. Il fatto incredibile e per certi versi misterioso è che ci sia stato così poco tempo tra Capaci e via D'Amelio, due stragi dirompenti". C'è stato anche qualche sbaglio nelle indagini, tipo le rivelazioni del falso pentito Scarantino. "Non ho mai voluto parlare di questo, né voglio parlarne adesso. Dico solo che sbagli non ne abbiamo fatto, perché ci siamo limitati a prendere atto di quello che dicevano i pentiti e di quello che era stato riscontrato. Le cose senza riscontri finivano nel cestino". Quanto sei rimasto a Caltanissetta? "Nove anni, in cui ho fatto le seguenti cose: ho messo in galera circa 5000 mila mafiosi, ho celebrato processi per le stragi Falcone e Borsellino, e per l'uccisione di Livatino, Saetta, Chinnici, Ciaccio Montalto, attentato dell'Addaura e qualche altra cosa che dimentico. Tutti definiti con sentenza passata in giudicato. Tutti siamo andati fino in fondo". Da direttore del Dap hai mai saputo del cosiddetto "protocollo farfalla", cioè di ufficiali dei servizi che entravano nelle carceri per interrogare i boss? "Per la verità non ho mai saputo di questo protocollo. Posso solo dire che sono venuti da me dei capi delle strutture investigative, come ad esempio il generale Mori, che mi hanno chiesto un appoggio. E io ho sempre risposto di sì nell'ambito delle regole. Tieni poi presente che la struttura è così complessa che si gestisce delegando: 45 mila poliziotti, diecimila dipendenti, 60.000 detenuti, 208 carceri". Come ti sei trovato negli ultimi anni da Pg? Com'era il clima attorno a te? E con il procuratore Salvi che tipo di rapporti avevi? "Sono stato in buoni rapporti con tutti. All'inizio possono avere avuto qualche diffidenza, ma poi conoscendomi sono nate stima e amicizia. Il procuratore Salvi? Brillante, serio, capace, assolutamente disinteressato". Livorno: "Sos Gorgona", il carcere sull'isola felice che il governo vuole affondare di Damiano Aliprandi Il Garantista, 4 gennaio 2015 È un penitenziario dove si lavora la terra e si allevano gli animali: la recidiva è solo del 20%. Il carcere di Gorgona è l'ultima isola-penitenziario italiana, la più piccola dell'Arcipelago toscano, tra le più verdi: pini, lecci, macchia mediterranea e pure una varietà autoctona di olivo. Un carcere dove le celle sono aperte e i detenuti - attualmente circa 70- lavorano la terra e soprattutto allevano gli animali. Ma rischia di ritornare ad essere una colonia penale perché il Governo - a causa della famigerata "spending review"- vuole vendere i 165 animali da allevamento. Per questo motivo l'amministrazione comunale di Livorno ha inviato il 3 dicembre, una lettera indirizzata ai ministri Orlando e Galletti, e per conoscenza al presidente del Consiglio Renzi, nella quale si chiedeva di bloccare da subito il procedimento di vendita degli animali legati al progetto per la rieducazione dei 70 detenuti del carcere dell'isola di Gorgona. "Spero che il governo receda da questa scelta", commenta il sindaco Filippo Nogarin. "Tale procedimento inevitabilmente condurrebbe alla fine del progetto e con esso questo carcere modello, molto apprezzato dal ministero degli Interni, rischia seriamente la chiusura. Va da sé che la vendita di questi animali, che hanno consentito ai carcerati d'intraprendere un percorso virtuoso, porterà inevitabilmente alla soppressione degli stessi. Tutto questo in nome di una spending review nella quale non si tiene affatto conto che per i detenuti che hanno preso parte a progetti di questo tipo, una volta scontata la pena, la percentuale di recidiva è di un quarto rispetto alla media nazionale di chi esce da case circondariali che non prevedono tali percorsi lavorativi". Nella lettera veniva inoltre richiesta la convocazione di un tavolo di confronto tra amministrazione carceraria ed enti locali, allargato alle Onlus che si battono per i diritti degli animali. Ma ad oggi il Comune non ha ancora avuto nessuna risposta. Eppure gli animali sono considerati i primi educatori per i detenuti che - come ha ricordato un'assistente capo della polizia penitenziaria - arrivano su richiesta dopo aver scontato più della metà della pena. Hanno la possibilità, oltre a vivere in un contesto di libertà, di imparare un mestiere. Se le statistiche parlano di una recidiva stimata intorno all'80% tra i detenuti che non lavorano, a Gorgona si attesta sul 20%. Tanto sono le iniziative sviluppate dagli anni 90 - come l'impianto di una vigna che ora, con l'accordo firmato dal precedente direttore Giampiccolo, vede coinvolta l'azienda Frescobaldi e produce il bianco Gorgona - che hanno fatto della colonia penale una sorta di laboratorio verde. L'isola oggi mostra i segni del tempo, i fondi hanno subito una fortissima riduzione ma si cerca di rilanciare progetti, con la collaborazione del mondo di fuori sempre con lo scopo di formare e fare assumere i reclusi. Dopo il vino potrebbe accadere ad esempio con attività legate all'accoglienza sull'isola, dove si potrebbero "riportare le scolaresche come in passato", anche se il grande scoglio rimangono i collegamenti con la terraferma. Tre intanto sono stati assunti dalla General appalti che sta sostituendo il vecchio generatore elettrico e ripristinando il fotovoltaico. "L'obiettivo - ha spiegato Carlo Mazzerbo, l'attuale dirigente dell'isola - è fare di Gorgona un'isola dei diritti, dello Stato, dei detenuti e anche degli animali", che, al pari degli uomini - aggiunge Marco Verdone, dal 1990 veterinario a Gorgona dove ha introdotto l'omeopatia - "devono avere una vita e una fine degna". Per questo si punta a eliminare la macellazione, ai fini anche del percorso rieducativo dal punto di vista animalista. Intanto la ‘grazià l'hanno avuta Valentina, mucca di 13 anni, e Bruna, scrofa salva grazie ai bimbi di una scuola. Il modello Gorgona è esportabile? Mazzerbo osserva che "a parte aprire le celle, come ha imposto l'Europa, si vuole dare un contenuto alle giornate detentive". Ovvero "cambiare la prospettiva" di chi è dentro: non più subire il carcere, ma diventare parte attiva di un progetto, responsabilizzando i detenuti. Tra loro a Gorgona c'è Yang, cinese di Wenzou, che con l'aiuto dell'agronomo di Gorgona Francesco Presti, cura l'orto certificato biologico: ha spiegato che da piccolo accompagnava il padre nelle risaie, ma è la prima volta che "lavora la terra, mi piace". "Il giorno vola, altra cosa stare tra quattro mura, è sempre un carcere ma è un'oasi", aggiunge Santo, italiano, ancora 6 anni da scontare, addetto alla vigna di cui non ha mai assaggiato il vino: gli alcolici sono vietati. Samir, Jorge e Yassine, nati in Bangladesh, Spagna e Marocco, stanno al caseificio e hanno imparato a fare i formaggi. Riccarda e Roberto curano gli animali, Benedetto lavora in cantina, si occupa delle api, realizza sculture: in carcere è da 26 anni, ne deve scontare altri 4: "Qui si riassapora la vita". A Umberto, dentro dal 1996, mancano 18 mesi: lavora in vigna ma non sa cosa farà una volta fuori. Del suo vecchio carcere ricorda le urla e la tv sempre accese. L'isola è "altro" ed è contento quando ci sono visitatori, come in occasione della presentazione della nuova vendemmia del vino Gorgona: "Il mondo si accorge di noi, aspettiamo queste giornate per far vedere il carcere in modo diverso, che le persone si possono anche riscattare". Ma tutto questo rischia di tramontare se il Governo non ritira il provvedimento di vendita degli animali che metterebbe a serio rischio il successo dell'intero progetto di rieducazione che, piuttosto, andrebbe incentivato, valorizzato e diffuso all'intero sistema penitenziario nazionale. Bologna: alla Dozza corsi per l'integrazione, detenuti islamici a scuola di diritto Il Garantista, 4 gennaio 2015 Detenuti islamici a lezione di diritto per evitare ogni forma di radicalismo religioso. Tutti i mercoledì, fino a maggio, i cancelli del carcere bolognese della Dozza si apriranno per accogliere insegnanti, professori universitari, mediatori, imam ed esperti di cultura islamica. Si parlerà di primavera araba, del ruolo della famiglia e della donna nel mondo musulmano, di Sharia e in generale delle costituzioni arabo-islamiche. Sarà lo scopo del corso "Diritti, doveri, solidarietà. La Costituzione italiana in dialogo con il patrimonio culturale arabo-islamico", un percorso di sette mesi e ventiquattro lezioni nato da un'idea di frate Ignazio De Francesco, islamologo e volontario dell'Avoc (associazione volontari carcere), con la collaborazione dell'Ufficio del garante regionale delle persone private della libertà e del Centro per l'istruzione per gli adulti di Bologna, che ormai da anni si occupa dei corsi scolastici all'interno del carcere. "Si tratta di detenuti che già frequentano la scuola della Dozza - spiega la garante regionale Desi Bruno - e che studieranno il rapporto tra la nostra Costituzione e il diritto islamico. Un'iniziativa molto importante che si propone di facilitare il loro inserimento ed evitare qualsiasi forma di integralismo. Un modello che cercheremo di esportare anche in altri istituti delia Regione". A seguire i detenuti in questi 7 mesi ci saranno, oltre alle diverse figure previste, i docenti del Cpia. Quest'ultimi, oltre alle lezioni sui temi del progetto, si occupano ormai da anni della scuola per adulti all'interno della Dozza. "Sono circa 200 i detenuti iscritti al nuovo anno scolastico - dice Filomena Colio, insegnante da 23 anni nel carcere bolognese. Ma le iscrizioni sono aperte sempre proprio perché c'è un flusso continuo tra chi entra e chi esce". Un lavoro, quello di dare la possibilità di studiare ai detenuti, che riguarda tutte le carceri italiane e che ha lo scopo di dare una mano a chi sceglie di ricominciare con una nuova vita partendo dai libri e da un banco di scuola. "Il sapere e la cultura aiutano a essere più liberi - dice Giovanni Schiavone, dirigente provinciale dell'Ufficio scolastico di Bologna - e questi progetti permettono di realizzare questi obiettivi". Nel frattempo il carcere della Dozza risulta meno sovraffollato rispetto agli scorsi anni. Solo tre anni fa erano in 1.200 a dividersi il poco spazio a disposizione, oggi sono in 622 rispetto però alla capienza massima di 482 persone. Sassari: detenuto morto, ripristinati i filmati per cercare la verità su fine di Saverio Russo di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 4 gennaio 2015 Consulenti tecnici della famiglia di Saverio Russo al lavoro Esperti lettori del labiale stanno ricostruendo i dialoghi. Non si è fermata neppure durante le feste l'attività del team di esperti incaricati dai familiari di Saverio Russo - il detenuto trovato morto in carcere a Bancali il 6 settembre del 2014 - per cercare di chiudere gli accertamenti utili per la ricerca della verità sul decesso del giovane algherese. L'attenzione dei consulenti di parte è rivolta, in particolare, alle immagini registrate dal sistema di videosorveglianza interno della struttura penitenziaria di Bancali. E finora, una serie di difficoltà avrebbero impedito di verificare con certezza i movimenti in entrata e in uscita (nel corso della giornata in cui è maturata la tragedia) nella cella occupata da Saverio Russo. Un Dvd, inizialmente malfunzionante, consegnato al consulente tecnico Mariano Pitzianti sarebbe stato in larga parte ripristinato con programmi sofisticati di recupero. Il filmato, quindi, sarebbe stato riparato e da quel momento sono cominciate le valutazioni tecniche (concorrono altri tre esperti della digital forensics) dalle quali sarebbe emerso che le interruzioni continue del Dvd deriverebbero da una masterizzazione non corretta su un supporto informatico danneggiato. Il filmato è sotto la lente di esperti lettori del labiale per la trascrizione dei dialoghi che permettono agli esperti di decifrare le frasi, visto che nelle immagini è assente l'audio. In attesa della copia dell'hard-disk (richiesta dai legali della famiglia di Saverio Russo su indicazione dei consulenti tecnici), il lavoro va avanti e presto potrebbe essere definita la relazione da trasmettere all'attenzione del pubblico ministero che coordina l'inchiesta sulla morte in carcere di Saverio Russo. Su quell'episodio ci sono, al momento, due posizioni contrastanti: quella del carcere e degli investigatori che hanno svolto la prima fase delle indagini che parla di suicidio. E quella della madre e degli altri familiari del detenuto che, invece, sostengono che il giovane algherese non si sarebbe mai ucciso "perché non ne aveva motivo" e, quindi, chiedono che vengano espletati tutti gli accertamenti per cancellare anche il minimo dubbio. Gran parte delle verifiche si gioca sull'esame dei filmati del carcere. Per questo legali e consulenti tecnici insistono molto, oltre che sulla copia del Dvd con le registrazioni di quella giornata, sulla copia forense dell'hard-disk che tiene in memoria tutto e consente una ricostruzione reale degli accadimenti. Nei giorni scorsi, nella cella sigillata di Bancali dove è morto Saverio Russo, c'era stata l'ispezione dei legali e dei consulenti della famiglia Russo, tra i quali anche la psicologa forense e criminologa Roberta Bruzzone, con avvocati, medico legale e altri tecnici. Un paio d'ore di foto, misurazioni, simulazioni, annotazioni di orari da collegare con possibili testimonianze. Saverio Russo, 34 anni, era stato trovato privo di vita nella sua cella la sera del 6 settembre 2014, inutili i tentativi dei soccorritori di rianimarlo. Venne formulata l'ipotesi di un gesto dimostrativo finito in tragedia. La famiglia chiede che venga accertata la verità. Prato: i Radicali visitano la Dogaia "sovraffollamento, celle fatiscenti e pochi educatori" di Alessadra Agrati Il Tirreno, 4 gennaio 2015 Visita al carcere di Prato di una delegazione di Radicali. I detenuti sono 589 e vivono in pochi metri quadrati. Vittorio Giugni: "Lunghe liste di attese anche solo per una visita". Nonostante la diminuzione della popolazione carceraria all' interno della Dogaia si registra ancora sovraffollamento, alcune celle sono fatiscenti, mancano gli educatori e gli psicologi. È la denuncia di una delegazione di radicali composta da Vittorio Giugni, Simone Lappano, Maurizio Buzzegoli e Rosanna Tasselli, in visita al carcere in concomitanza con lo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella. I carcerati sono cinquecento ottantanove di cui duecento novantacinque stranieri e i restanti duecento novantaquattro italiani, definitivi trecento quarantuno e ottantanove in attesa del primo giudizio. "Alcune celle - spiega Buzzegoli - sono fatiscenti, con il riscaldamento non funzionante e gli interruttori della luce rotti, ma quello che ci preoccupa di più sono le condizioni in cui vivono i detenuti: le celle sono di quattordici metri quadrati, in cui sono sistemati anche gli arredi. Quindi a conti fatti ogni detenuto dispone di tre metri quadri di spazio". La delegazione ha visitato la sezione alta e media sicurezza e tra le lamentele raccolte c'è anche quella della mancanza di educatori, psicologi e psichiatri. "In tutta la Dogaia - spiega Giugni - ci sono cinque educatori e tre psicologi, un numero insufficiente per i bisogni dei carcerati. Inoltre nonostante la presenza del personale infermieristico e la reperibilità di un medico h 24, le liste di attesa per una visita sono lunghe". Il personale a pieno regime dovrebbe essere di duecento sessantatré unità. Negli ultimi mesi sono arrivati sei ispettori, ma si registra ancora una carenza dell'organico. "È stata sperimentata, proprio per evitare il trasferimento da un carcere all' altro che implica l'utilizzo di personale - spiega Lappano - un servizio di videochiamata con i magistrati attraverso un circuito chiuso". Latina: domani delegazione Radicale in visita ai detenuti del carcere di via Aspromonte Corriere di Latina, 4 gennaio 2015 All'iniziativa "Satyagraha di Natale con Marco Pannella" prenderanno parte Giuseppe Rossodivita, Ilari Valbonesi e Alessio Fransoni. Saranno presenti anche il vice sindaco Enrico Tiero e lo scrittore Antonio Pennacchi. Il carcere di Latina di nuovo al centro dell'attenzione mediatica. Dopo la lettera inviata da Papa Francesco ai detenuti di via Aspromonte, la casa circondariale del capoluogo pontino sarà oggetto di visita dei Radicali. L'iniziativa rientra i quella a carattere nazionale "Satyagraha di Natale con Marco Pannella" che i dirigenti nazionali e militanti del Partito Radicale e di Radicali Italiani stanno portando avanti in questi giorni di festività negli istituti penitenziari italiani. In particolare il 24 dicembre scorso a far visita ai detenuti di Regina Coeli anche Marco Pannella e Rita Bernardini, il 25 dicembre a Rebibbia e il 31 dicembre a Firenze, nel carcere di Sollicciano, anche il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti. Lunedì 5 gennaio alle 11, la delegazione composta da Giuseppe Rossodivita (membro della direzione nazionale Radicali Italiani), Ilari Valbonesi (membro del Comitato nazionale Radicali Italiani) e Alessio Fransoni visiterà la Casa Circondariale di Latina, insieme al vicesindaco Enrico Tiero e allo scrittore Antonio Pennacchi. La delegazione sarà accompagnata dalla direttrice dell'Istituto Nadia Fontana e da don Nicola Cupaiolo, cappellano del carcere di via Apromonte. Al termine della visita, presso l'entrata casa circondariale, intorno alle 13.30, si terrà una conferenza stampa sulle risultanze della visita. Tra gli obiettivi dell'iniziativa nonviolenta radicale: la rimozione immediata delle cause strutturali che fanno delle nostre carceri luoghi di trattamenti inumani e degradanti, l'introduzione del reato di tortura nell'ordinamento penale italiano, l'abolizione dell'ergastolo, la nomina del Garante Nazionale dei Detenuti, il rafforzamento del diritto alle cure e alla salute, l'affermazione della legalità nell'amministrazione della giustizia penale e civile, a tutela delle regole fondamentali della democrazia. Al Satyagraha di Natale con Marco Pannella, hanno finora partecipato, con uno o più giorni di sciopero della fame, oltre 600 cittadini fra i quali 236 detenuti del carcere di Sollicciano assieme al Cappellano, Don Vincenzo Russo. Marco Pannella in sciopero totale della fame e della sete da oltre 90 ore da oggi prosegue la propria azione nonviolenta sotto controllo medico. Previsto per questa mattina il suo ricovero presso una struttura sanitaria di Roma dalla quale potrà eventualmente comunque allontanarsi per alcune ore. Il suo obiettivo è "difendere il messaggio alle Camere di Napolitano sulle carceri dai comportamenti opposti assunti dal presidente del Consiglio Renzi". Firenze: domani una delegazione dei Radicali visiterà l'Opg di Montelupo Fiorentino www.radicali.it, 4 gennaio 2015 La mattina di lunedì 5 gennaio 2015 una delegazione di radicali fiorentini dell'Associazione "Andrea Tamburi" composta da Massimo Lensi, Maurizio Buzzegoli, Emanuele Baciocchi e Michele Migliori, visiterà l'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino. L'iniziativa rientra nell'ambito della mobilitazione nazionale del "Satyagraha di Natale" che ha visto l'adesione di centinaia di cittadini e che in questi giorni vede impegnato in uno sciopero totale della fame e della sete il leader dei radicali, Marco Pannella. La visita servirà anche per valutare l'iter dell'eventuale chiusura della struttura. Al termine della visita, alle ore 12,00, è prevista una conferenza stampa all'esterno dell'Istituto, in viale Umberto I, n° 42. Per informazioni contattare Maurizio Buzzegoli (3382318159). Caltanissetta: carcere di Villalba, struttura seminuova lasciata nell'abbandono più totale di Roberto Mistretta La Sicilia, 4 gennaio 2015 L'ultimo appello in ordine di tempo per riaprire il carcere, fu lanciato invano nel febbraio del 2013. Ed infatti il carcere di Villalba continua a rimanere fuori dai circuiti di riconversione. Uno scandalo sotto gli occhi di tutti. Si tratta di una mega struttura che potrebbe creare economia e nuovi posti di lavoro, ed invece, nonostante già costruita e potrebbe anche ritornare a funzionare coi dovuti accorgimenti, il carcere di Villalba fu tagliato fuori ancora una volta dall'intesa firmata nel 2010 tra Palermo e Roma per fare sorgere in Sicilia quattro nuove carceri, senza tenere conto delle carceri già edificate e chiuse da tempo. Anni addietro, l'attuale presidente del Consiglio comunale Salvatore Bordenga, allora a capo di un comitato cittadino scrisse perfino al ministro della Giustizia chiedendo che venisse riaperta l'ex casa mandamentale. Quando la struttura funzionava tra il 1985 e il 1990, ospitava circa 70 detenuti. Dopo la chiusura lo stabile fu ceduto al Comune di Villalba che, nonostante i diversi tentativi di affidamento all'esterno, non è mai riuscito ad utilizzarla, considerata la tipologia esclusiva della struttura. Abbiamo documentato, mentre altrove le carceri scoppiano, che nella struttura abbandonata di Villalba vi pascolavano pecore e cavalli. I problemi del carcere iniziarono quando il ministero della Giustizia chiuse la casa mandamentale e l'immobile passò al Comune e il personale di sorveglianza fu trasferito ad altre mansioni. Il carcere di Villalba si compone di 32 celle a due posti, servizi igienici e docce annesse, la cucina per 250 pasti, la lavanderia, la mensa e spazi verdi per i detenuti, nonché padiglioni per gli uffici e gli alloggi del personale. Tutto disponibile, ma tutto chiuso. Nei magazzini sotterranei si trovano riserve idriche per 350 mila litri e una pompa per il cherosene (è stato anche realizzato l'impianto di metano). La zona lavanderia è ancora funzionante, l'attrezzatura della sala cucina è stata invece smontata e rimontata nell'asilo nido. Nel braccio dove sono ubicate le celle, sez. A e sez. B, si trovano 16 celle a due posti per ogni sezione, dotate di servizi igienici (bidet, gabinetto e armadietti), armadi e comodini a muro, letti a castello fissati al pavimento, impianto di riscaldamento e antenna tivù. Ogni cella misura circa 4 metri per 2.20 ed è chiusa da due porte ferrate: una a giorno e una per la notte, dotata di spioncino. Ogni sezione è dotata di docce. C'è anche una grande sala adibita a cappella. La zona per l'ora d'aria, si compone di circa 600 mq di spazi aperti delimitati da alte mura (circa 20 metri). Al piano superiore del carcere si trovano due appartamenti per il personale, ogni appartamento attrezzato di tutto punto misura circa 100 mq. Ma è tutto chiuso e abbandonato. La Spezia: Associazione Marsia, una Onlus per sostenere i detenuti e le loro famiglie di Fabio Lugarini www.cittadellaspezia.com, 4 gennaio 2015 L'associazione Marsia si pone l'obiettivo di sostenere i detenuti e le loro famiglie con avvocati, professionisti e psicologi. Davide Andreani, il segretario: "È un settore poco conosciuto dove pure la collaborazione dei cittadini sembra vacillare". Quello che noi facciamo è solo una goccia nell'oceano, ma se non lo facessimo l'oceano avrebbe una goccia in meno. Le parole di Madre Teresa di Calcutta sono il segno della speranza, quello che anima l'esistenza di migliaia di volontari d'Italia, impegnati in piccole e grandi imprese quotidiane di solidarietà concreta. È nata alla Spezia l'associazione Marsia onlus, un sodalizio senza fini di lucro, che si propone di abolire il carcere e dare aiuto e assistenza ai detenuti e alle loro famiglie nonché alla comunità in cui opera. L'idea è quella di svolgere attività di promozione di contatti e colloqui con i detenuti e le loro famiglie, durante e dopo la detenzione, progetti di accompagnamento e sostegno ai detenuti in permesso, nonché di messa alla prova con possibilità di inserimento lavorativo e di inclusione. Senza dimenticare la possibilità di organizzare laboratori ed attività culturali all'interno del carcere per favorire l'inserimento lavorativo. La campagna tesseramento, inizia ogni anno nel mese di gennaio: i membri dell'associazione e i volontari sono impegnati nella raccolta fondi attraverso il tesseramento e le donazioni. La campagna promuove due forme, ugualmente importanti, per poter sostenere le attività di Marsia: il tesseramento soci e la raccolta delle donazioni per il progetto "Sostieni Marsia onlus per l'abolizione del carcere e per i diritti dei detenuti" (Iban IT84E0359901899050188517024). Senza dimenticare le cene per i sostenitori, i progetti di crowfunding, i tornei sportivi, le campagne annuali, i gazebo. "La prima iniziativa - spiega Davide Andreani, segretario di Marsia onlus - è stata una serata dedicata alla presentazione del progetto con la collaborazione gratuita del gruppo musicale Visibì e Matteo Fiorino, in una serata al locale Portrait. Lo scopo era di dare visibilità a questa nuova realtà. Tutto nasce dalla volontà di due giovani avvocati, Gian Marco Benedetto che è il Presidente, ed Eva di Palma, la vice-Presidente. Io come terzo socio in ordine cronologico ne ho visto le potenzialità e sono rimasto entusiasmato dalla voglia di fare di questi due giovani e mi sono aggregato al loro lavoro". Perché il carcere? "Perché è un settore poco conosciuto dove pure la collaborazione dei cittadini sembra vacillare. È un tema delicato e ci stiamo lavorando sodo, attualmente con pochi esigui mezzi. Per questo al momento stiamo lavorando sulla visibilità della onlus. Abbiamo diversi progetti in cantiere, tra qui un blog virtuale (fatto di corrispondenza classica cartacea misto a internet, per il motivo che in carcere internet non può entrare). Un altro progetto è una serie di proiezioni cinematografiche al cinema Nuovo, in collaborazione con la Casa Circondariale della Spezia, per portare qualche gruppo di detenuti al cinema sempre con tematiche sociali". I vostri obiettivi primari? "Sensibilizzare e informare la popolazione sul tema del carcere, riconoscere il carcere come uno strumento inappropriato per redimere i mali della società, promuovere raccolte fondi per la ricerca, favorire un percorso formativo, sollecitare l'opinione pubblica a dare il proprio contributo nella battaglia per l'abolizione del carcere e per i diritti dei detenuti, produrre intenzionalmente, nell'ammontare più elevato possibile, esternalità sociali, che rappresentano uno dei più rilevanti fattori di accumulo di capitale sociale". L'idea è quella di trovare altri volontari. "Ci sono progetti che prevedono laboratori di artigianato e similari. Ci vorrà ancora un po' di tempo per avviare il tutto e sarà importante la partecipazione anche di più volontari. Per questo abbiamo un sito internet, una pagina Facebook dove puntualmente aggiorniamo gli amici delle novità e degli eventi. Tra l'altro siamo presenti con un nostro gazebo/stand in piazza del mercato le domeniche messe a disposizione dal comune per le associazioni di volontariato. Qui cerchiamo di raccogliere fondi per i nostri progetti. Attualmente il Presidente è assente in quanto all'estero per finire la scrittura di un libro da lui scritto e prodotto interamente con le sue forze. Il libro parla della situazione degli obiettori di coscienza al servizio militare in Turchia che al momento vengono arrestati o perseguitati in quanto non esiste l'obiezione di coscienza". Progetti ad hoc? Per i detenuti abbiamo pensato a corsi di lingua italiana e educazione civica (storia e assetto pubblico dello stato) con l'aiuto del Provveditorato e la direzione delle carceri di Spezia e Massa. Poi un laboratorio di arti e mestieri, mentre per i soggetti alla prova proponiamo un progetto di recupero e riqualificazione urbana su aree dismesse o la partecipazione ai corsi per detenuti in qualità di degradate, anche con l'aiuto del Comune e del Parco delle Cinque Terre". Il carcere insomma va superato e della cosa bisogna parlare. "Interrompere una catena di silenzio etico e di ignoranza scientifica. Il silenzio del detenuto e quello della comunità. Permettere a professionisti ed alla comunità di misurarsi con la necessità di costruire misure alternative alla detenzione". Teramo: carcere di Castrogno, detenuto tossicodipendente ferisce due agenti penitenziari www.abruzzo24ore.tv, 4 gennaio 2015 Detenuto aggredisce e ferisce due agenti penitenziari del carcere di Teramo. Un 34enne tossicodipendente, affetto da patologie psichiatriche e infettive, non nuovo a simili comportamenti aggressivi verso compagni e operatori penitenziari (era già accaduto nel carcere di Pescara dal quale era stato allontanato), dopo aver litigato con il compagno di cella per futili motivi si è avventato con uno sgabello contro un sovrintendente e un ispettore che erano intervenuti per dividerli, colpendoli ripetutamente su vari parti del corpo tanto che gli agenti hanno dovuto far ricorso alle cure mediche presso il pronto soccorso dell'ospedale civile di Teramo. Analoghi episodi d'aggressione nei confronti del personale penitenziario si sono verificati il 31 dicembre quando, una detenuta di nazionalità italiana di 20 anni, con seri problemi di tossicodipendenza e psichiatrici, ha aggredito con uno sgabello gli agenti che cercavano di riportarla alla calma, colpendo alla testa un ispettore. Nei giorni precedente al Natale un detenuto appartenente al circuito alta sicurezza è stato più volte trasportato presso il reparto psichiatria dell'ospedale civile di Teramo dopo aver tentato di aggredire il personale di servizio e distrutto gli arredi della cella e in una circostanza i sanitari hanno dovuto adottare il trattamento sanitario obbligatorio per riportarlo alla ragione. Il 4 dicembre, invece, un sovrintendente era stato colpito alla mano con un manico di scopa da un detenuto italiano, anch'egli affetto da gravi patologie psichiatriche e appartenente al circuito alta sicurezza, perché non voleva far rientro nella cella. Il Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, protesta. "Questi gravissimi episodi accaduti a distanza ravvicinata di tempo - commenta il segretario provinciale Giuseppe Pallini - altro non sono che la punta dell'iceberg di un problema, quello della gestione dei detenuti psichiatrici, mai risolto dall'amministrazione penitenziaria regionale. Solo per spot ha annunciato l'allestimento di idonee stanze e reparti dove sistemare detenuti patologici ma non sono stati mai costruiti, lasciando l'ingrato compito di sorvegliarli, curarli e contenerli senza alcuno strumento al personale della polizia penitenziaria. Sarebbe auspicabile, vista l'escalation di aggressioni nei penitenziari italiani nell'ultimo anno - prosegue Pallini - che il Parlamento approvasse al più presto la legge per dotare le forze dell'ordine e in particolar modo la polizia penitenziaria della pistola elettrica taser. Il carcere di Castrogno a Teramo - conclude il segretario provinciale del Sappe - è diventato ricettacolo regionale di detenuti ingestibili". Firenze: Tar; niente risarcimento agli agenti penitenziari per esposizione al fumo passivo www.studiocataldi.it, 4 gennaio 2015 Che il fumo faccia male si sa. Ma non sempre, purtroppo, viene riconosciuto il danno per l'esposizione al fumo passivo. Torna a far discutere, quindi, l'emblematico caso di un agente penitenziario esposto alle indesiderate inalazioni delle sigarette fumate dai detenuti nelle loro celle. L'esposizione al fumo e il danno non patrimoniale conseguente diventa, così, oggetto della recente sentenza della seconda sezione del Tribunale Amministrativo regionale per la Toscana nr. 2025 dell'11 dicembre 2014. La pronuncia trova coinvolto, suo malgrado, un agente penitenziario che aveva richiesto il risarcimento dei danni non patrimoniali per la sua esposizione al fumo delle sigarette dei detenuti. Dopo un'attenta analisi documentale ed istruttoria, il Tar Firenze si è espresso non riconoscendo alcun danno non patrimoniale all'agente penitenziario ricorrente causato dall'inalazione del fumo delle sigarette che i detenuti fumavano in cella quotidianamente. La motivazione della sentenza si è basata essenzialmente su due punti. A parere del tribunale fiorentino adito, l'esposizione al fumo passivo, per dare origine ad un'eventuale responsabilità patrimoniale risarcitoria in favore dell'agente penitenziario, non doveva limitarsi alla sua sporadica ed occasionale presenza nei corridoi della prigione. Inoltre, risultando a norma la dotazione degli impianti antifumo delle carceri, il Tar ha ritenuto di poter ragionevolmente escludere la sussistenza di ogni tipo di danno non patrimoniale all'agente ricorrente. Monza: il tour "Evasione Totale" con il dj Mitch fa tappa in carcere Adnkronos, 4 gennaio 2015 L'immagine e la voce ufficiale del progetto dedicato a polizia penitenziaria e detenuti è quella del cantante Hervè Olivetti, un ex modello, che destinerà i proventi del suo singolo "Diavolo di un Angelo" ai vari istituti di pena che prendono parte all'iniziativa. Dj Mitch e il cantautore Hervè Olivetti lunedì prossimo porteranno "Evasione Totale" all'interno del Carcere di Monza con uno spettacolo dedicato alla Polizia Penitenziaria, con l'intento di offrire un aiuto morale rispetto alle difficili condizioni nelle quali gli addetti lavorano. Un'occasione nella quale non mancheranno doni per i figli dei poliziotti in vista della Befana. I proventi delle vendite del brano "Diavolo di un Angelo" di Hervè Olivetti, attualmente in radio e disponibile sugli store digitali, saranno poi raccolti e destinati alle varie Carceri che ospitano il tour di "Evasione Totale" a sostegno della formazione e del reintegro dei detenuti. Per raggiungere questo obiettivo è stata appunto scelta la musica, linguaggio universale e strumento capace di favorire la comunicazione, l'aggregazione e l'integrazione fra tutti gli addetti ai lavori che ruotano attorno ai penitenziari italiani: associazioni, volontari, agenti di polizia penitenziaria ed educatori. A capo dell'iniziativa ci sono il Presidente dell'associazione ‘L'Arte di Apoxiomenò nonché l'Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, Orazio Anania, un uomo da sempre sensibile all'impegno sociale, e l'Associazione Les (associazione no profit che si occupa di tutte le problematiche relative alla sicurezza). Il Presidente dell'associazione "Apoxiomeno" ha costruito una squadra che si avvale di una serie di professionisti, cantanti, musicisti, animatori, che da sempre sono vicini al lavoro delle forze dell'ordine e che con la musica vogliono offrire una opportunità di svago e socializzazione per i detenuti con lo scopo di sensibilizzare la pubblica opinione su una particolare tematica sociale e umana quale è quella dei diritti dei detenuti. Il dj Mitch, speaker, musicista e produttore, ex appartenente alle forze dell'ordine, ha subito sposato il progetto dell'associazione Apoxiomeno e, vista la difficoltà nel riuscire a lavorare con lingue, culture e religioni differenti - problema che emerge negli Istituti penitenziari a causa delle diverse etnie presenti - ha inserito nel progetto un suo artista internazionale, il cantante e ballerino cubano Leo Diaz. L'immagine e la voce ufficiale del progetto è invece affidata al cantante Hervè Olivetti: "È importante - dice - far capire alla società che la persona vale di più di qualsiasi reato commesso e che, offrendo al tempo opportunità e fiducia, è possibile aiutare anche chi dovrà rifarsi la vita e i sogni". Libri: "Dormono sulla collina", una "Spoon River" italiana, di Giacomo Di Girolamo intervista a cura di Stefano Vaccara Notizie Radicali, 4 gennaio 2015 Quella che segue è un'intervista, curata dal direttore de la Voce di New York Stefano Vaccara al giornalista-scrittore siciliano autore del recente "Dormono sulla collina", una "Spoon River" italiana, che ridà la parola ai morti della Repubblica tra gli anni di Piazza Fontana fino ad oggi. Un libro "folle" di oltre mille pagine, che racconta una (in)edita storia d'Italia. Per mestiere si deve leggere di tutto, spesso anche certi libri che poi ti accorgi che non ne avresti mai sentito la mancanza. Ma tanto si dovrebbe leggere, che non si ha mai il tempo di finire neanche i bei libri. Così quando Giacomo Di Girolamo, il giornalista marsalese titolare sulla Voce della column "Cosa Grigia" (che è il titolo del suo precedente libro sulla nuova mafia) e autore nel 2010 di una biografia sul boss della mafia ancora latitante Matteo Messina Denaro, ci ha annunciato che avrebbe presto pubblicato per il Saggiatore Dormono sulla Collina, ci preparavamo a leggerlo con tanta curiosità e un po' d'apprensione per come trovare il tempo per farlo. Di Girolamo, direttore di Marsala.it e vincitore quest'anno del Premiolino, il più prestigioso dei riconoscimenti giornalistici italiani, da tempo sospettiamo sia il più promettente dei giornalisti-scrittori italiani della nuova generazione. Ma appena saputo del numero delle pagine (oltre mille) del suo libro, siamo stati presi dal panico: come potere affrontarne la lettura con tutti gli impegni accavallati negli ultimi mesi? Il volume di Di Girolamo è una sfida colossale: l'autore prova ad immaginare una storia d'Italia degli ultimi quarantacinque anni facendo parlare direttamente i morti della Repubblica, e come scrive Giacomo "coloro che in alcuni casi l'hanno fatta, la storia, in molti casi subita, sicuramente vissuta". Di Girolamo per questa "folle" avventura, sceglie una data di partenza, il 12 Dicembre 1969, quella della strage di Piazza Fontana, a Milano, il luogo che lui chiama "il nostro Ground Zero". E da quella data, si arriva fino ad oggi, ricostruendo come un effetto domino, gli eventi che sono accaduti in Italia negli ultimi quarantacinque anni raccontati dalla voce di chi li ha vissuti e li racconta dall'aldilà. Quando abbiamo iniziato a leggere i morti scelti da Di Girolamo che parlano invece di continuare a dormire sulla collina, non ci siamo fermati più. Il libro "folle", è inspirato dall'americano Spoon River Anthology, la raccolta di poemi di Edgar Lee Masters, scritto nel 1915 e in cui l'autore raccontava vite e pensieri dei morti di una cittadina di provincia dell'Illinois attraverso i loro epitaffi (il libro ebbe grande successo in Italia grazie alla traduzione di Fernanda Pivano e per l'album di Fabrizio De André Non al denaro non all'amore né al cielo del 1971). Un avvertimento: leggendo Dormono sulla collina, un cittadino italiano che ha vissuto anche solo parte degli ultimi 45 anni in Italia, cambierà sentimenti sulla storia del proprio paese. Leggere questo libro è come ascoltare l'Italia assistendo al suo racconto mentre lei, "la Repubblica", sta distesa su un lettino di un analista. Per spiegare questo incredibile libro, abbiamo pensato che la formula migliore per i nostri lettori fosse quella di intervistare direttamente l'autore. Ma preparatevi: per le domande a Di Girolamo non ci siamo posti limiti, perché Dormono sulla collina è senza limiti. Quindi, se non avete tempo, non leggete l'intervista. Ma quando lo troverete quel tempo, pensiamo che ne varrà proprio la pena. Scrivi che il tuo libro è anche letteratura. Finalmente. Perché, scrivi, libri veramente libri non se ne fanno più e poi figuriamoci di letteratura… Spiega meglio e soprattutto con chi ce l'hai? Dormono sulla collina è un libro. E basta. Questa verità, così semplice, oggi è quasi rivoluzionaria. In tempi in cui i libri li fanno un po' tutti, i comici, i calciatori, gli attori, oppure vengono pubblicati libri per fare i film o le fiction o per una passerella da qualche parte, Dormono sulla collina è un libro folle, di oltre 1000 pagine. oltre ogni immaginazione, come devono essere davvero i libri, perché raccoglie una sfida ai limiti dell'impossibile: provare a raccontare una storia d'Italia, dal 1969 ad oggi, raccontata dalla voce dei morti, di coloro che la storia l'hanno vissuta, subita, fatta, attraversata. Già, la letteratura, che appunto scrivi che deve essere destabilizzante…. E tu con questo libro cosa vorresti "destabilizzare"? Quale tra questi "morti che parlano", alla fine dice la verità più "destabilizzante"? È destabilizzante l'idea stessa alla base del libro. Perché i morti, nel loro raccontare la storia d'Italia dai loro mille punti di vista, ci dicono che la storia non esiste più, e non può che essere raccontata oggi affidandosi alle loro voci. Non esiste più sia perché l'Italia è una Paese senza verità (Piazza Fontana, Ustica, la strage di Via D'Amelio…), sia perché oggi non esiste più l'attenzione, e senza attenzione non c'è memoria. Dici che ci raccontano una storia, la nostra storia, ma una storia che non esiste più…. Non esiste più la storia degli italiani? La storia non esiste, non possiamo raccontarla, perché non abbiamo verità oggettive sui cui poggiarla, circa i grandi fatti del nostro Paese, e perché non c'è un'opinione pubblica in grado di "gestirla", cioè di accoglierla, farla propria. Il primo episodio che apre Dormono sulla Collina è la strage di Piazza Fontana. Ancora oggi, 45 anni dopo quel 12 Dicembre 1969, non sappiamo chi ha messo quella bomba a Milano, perché, e soprattutto per ordini di chi. Nella mia immaginazione, allora, l'unica voce che può raccontare la strage di Piazza Fontana è la bomba stessa, che io chiamo la "sorella maggiore d'Italia", perché fu l'inizio della strategia della tensione. Indro Montanelli disse che gli italiani continueranno ad avere una storia, ma non l'avrà più l'Italia. Per lui gli italiani nel vivere la contemporaneità, non conoscono e non tengono conto della loro storia e quindi il loro paese finirà. Un libro come il tuo serve a far conoscere questa storia prima che sia troppo tardi? Per essere tardi, è troppo tardi, se no non avrei avuto l'idea di fare questo libro. Ma quando penso ai personaggi di Dormono sulla collina penso a dei razzi di segnalazione lanciati nel nero della notte italiana. Ci illuminano per qualche attimo, con la speranza che qualcosa rimanga, che la loro posizione venga individuata, raccolta da qualcuno… Nella tua collina, ci sono oggetti con punti di vista. Parlano pure le bombe… Per prima quella di Piazza Fontana, che apre proprio il libro. Fai parlare le cose per poter dare il "tuo" punto di vista a certi eventi, invece che dover immaginare quale sarebbe quello dei morti? Faccio parlare le cose perché la collina del Paese che chiamiamo Italia non può non essere popolata anche di cose. Ci sono oggetti, luoghi, spettacoli, che sono entrati nel nostro quotidiano per un periodo, poi sono scomparsi, e anche loro devono stare in questo racconto, sia perché alcune sono icone pop, sia perché, come dicevo nel caso di Piazza Fontana, paradossalmente, il punto di vista delle cose - inedito - diventa un racconto che supera il limite della verità che non c'è e produce una specie di corto circuito. Morti che parlano e che raccontano il romanzo storico degli italiani dal 1969 ad oggi. Ma un morto che parla, dice sempre la verità? No. Assolutamente. I morti, qui, parlano di tutto. Alcuni raccontano verità inattese, altri raccontano la loro vita, altri continuano a prenderci in giro come hanno fatto in vita. Anche per questo il mio non è un libro sulla storia, ma sulla fine della storia. Quale morto hai dimenticato e per il quale ora ti senti in colpa per non averlo fatto parlare? E cosa avrebbe potuto dire? "Mi sento in colpa per tutti coloro che, per ragioni di spazio, abbiamo dovuto tagliare. Soprattutto per alcune vittime minori della mafia e del terrorismo che non sono riuscito a salvare.... Quale personaggio non hai affatto dimenticato, ma non c'è nel libro semplicemente perché non lo hai voluto: ecco perché quel morto non lo hai fatto parlare? No, ho fatto parlare tutti quelli che potevo, senza preferenze, cercando di capire, per ognuno, che tipo di riverbero potevano darmi, quale era la loro corda. Non ero alla ricerca di una morale, ero alla ricerca di storie, lampi, voci. Esiste in Italia oggi qualche "vivo" che di questi tempi parla in un modo che potrebbe essere come quello dei tuoi morti sulla collina? I morti, nella mia collina, hanno tutti gli occhi aperti. E parlano, sembrano vivi. Si confondono, anzi, con i vivi. Se prendiamo per buono quella teoria della fisica che sostiene che tutto l'universo è una rappresentazione, anche la vita potrebbe essere una rappresentazione della morte…. Come abbiamo detto la prima voce sulla collina non è una persona, non è un morto, ma appunto una bomba, quella di Piazza Fontana…. Scrivi: "E io sono, in tutti i sensi, la sorella maggiore. L'inizio di una strategia. Il peso di una verità negata che lo Stato italiano ancora oggi porta dentro di sé". Verità negata da chi? Secondo te, uno come Renzi che diventa presidente del Consiglio a 39 anni e senza vincere una elezione politica, verrà a sapere la verità? Chi va al potere diventa automaticamente custode e insabbiatore? Insomma ci spieghi come si tiene ancora nascosta la verità su Piazza Fontana e le sue "sorelle"? Noi siamo arrivati in un punto, in Italia, in cui è impossibile su alcuni fatti, come Piazza Fontana, accertare la verità, ad di là della volontà di insabbiare o meno. Perché troppo tempo è passato, e troppe cose sono successe. Tra l'altro in Dormono sulla collina, ad un certo punto compare proprio la "verità", che muore il 1° Agosto del 1985. Ecco cosa dice: Si, lo so, sono morta tante volte. Ma se devo scegliere una data, un anniversario, scelgo il giorno in cui la Corte d'assise d'appello di Bari assolve dal reato di strage Freda, Ventura, Valpreda e Merlino per insufficienza di prove. Di quale strage stiamo parlando? Piazza Fontana, naturalmente: 12 Dicembre 1969. Il mio de profundis lo ha fatto un protagonista della vita politica italiana, sempre ben informato: Rino Formica. Ha detto: "C'è un metodo assai collaudato quando vengono consumate stragi e delitti: immediatamente si alimenta quella che è una giusta esigenza, sapere la verità, indicando le mille possibili verità. Poi inizia il depistaggio scientifico. E così si guadagna il primo tempo, prezioso, che serve ad eliminare le impronte digitali. Poi si guadagna altro tempo, con l'aiuto di un'opinione pubblica nauseata dal bombardamento di verità contraddittorie. E in questa fase vengono soppresse le prove e qualche volta, è successo, i testimoni. Poi, dopo un certo numero di anni, la questione si ripropone, perché qualcuno pensa di poter offrire una verità accettabile. Ma nel frattempo sono state fatte sparire le tracce e ci si avvita nuovamente. Il caso emblematico è Piazza Fontana: dopo aver indicato piste di ogni colore, la Corte d'appello di Bari ha assolto tutti. L'unica cosa che non hanno potuto cancellare è la strage. E se piazza Fontana è "la sorella maggiore", una strage come quella di Portella della Ginestra, in Sicilia, che nel tuo libro non c'è perché avviene 22 anni prima del ‘69, come la chiameresti, la nonna di tutte le stragi? E la strage di Ciaculli, allora? Non è l'inizio dell'ascesa dei Corleonesi? Purtroppo era necessario mettere un inizio, in quest'opera mastodontica, e l'inizio è Piazza Fontana. Ma forse hai ragione tu, se i proiettili di Portella potessero parlare racconterebbero, con un accento un po' siculo, un po' americano, che è stato un colpo di tosse in una dialogo - che altri chiamano "trattativa" - sempre presente tra mafia e apparati dello Stato che della mafia si sono serviti. A proposito di Portella della Ginestra e i misteri d'Italia: Gregorio De Maria, l'"avvocaticchio" di Castelvetrano che ospitava Salvatore Giuliano durante l'ultimo periodo della latitanza prima di essere ucciso proprio a casa sua, muore novantenne nel 2010 e proprio nel suo paese natale. Coincidenza vuole che Castelvetrano sia anche il paese dell'attuale capo Mafia, Matteo Messina Denaro, il latitante che tu conosci, hai fatto conoscere e che ti conosce bene…Eppure l'"avvocaticchio" nel tuo libro non c'è! Chissà che avrebbe potuto dire, su Giuliano, su Matteo…. Si, è uno di quelli che avrei voluto mettere e che non ho messo per non caratterizzare in maniera troppo "siciliana" un lavoro che invece vuole raccontare il Paese. Credo che comunque l'avvocaticchio sarebbe stato di poche parole.... Ennio Flaiano, muore il 20 novembre 1972, e come leggiamo nel tuo libro, ci dice che sul Corriere della Sera aveva scritto pochi giorni prima: "Appartengo alla minoranza silenziosa. Sono di quei pochi che non hanno più nulla da dire e aspettano. Che cosa? Che tutto si chiarisca? È improbabile. L'età mi ha portato la certezza che niente si può chiarire: in questo Paese che amo non esiste semplicemente la verità". Ma esiste la verità di cui parla Flaiano, e cosa è? No, non esiste. E tra l'altro questa citazione di Flaiano è una delle poche pagine del libro che ho scelto di leggere in pubblico, proprio perché ne condivido la forza dirompente, la civile disperazione che l'attraversa. Pier Paolo Pasolini ci dice: "Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole e ciò che vuole il potere è completamente arbitrario, o dettato dalle sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune". L'anarchia del potere rende irraggiungibile la verità? "Rende quasi impossibile seguire le trame, gli intrecci, cercare una logica, un senso alle cose. L'ultimo personaggio a parlare, in Dormono sulla collina, è la collina stessa. Che ad un certo punto dice, mettendo i rassegna i morti assassinati: "….Chi è stato ucciso, per un motivo valido: ma sono pochi. Molti sono stati uccisi inutilmente, assolutamente per nulla. Si va sempre in cerca di un significato, per giustificare la loro morte. E si dice: l'ideologia, l'odio, la vendetta, la famiglia, la reazione ad un torto, il pane. Ma non ci sono significati. Non c'è senso alla storia, qui, sulla collina. Non c'è verità. Non c'è decenza. Tra tutti i personaggi in cui ti sei immerso dentro il loro pensiero, chi è quello che ti somiglia di più? Che non hai dovuto cercare di sforzarti di pensare come lui avrebbe pensato perché, hai capito, che bastava pensare come avresti fatto tu. In realtà non ho fatto un lavoro di immedesimazione. È stato un procedimento diverso, un po' più laterale, e che mi è venuto più immediato, per ragioni legate al mio lavoro quotidiano, con i personaggi legati alle storie di mafia. Ho lavorato sui margini, sulle sfumature. Anche se, devo ammettere, Falcone e Borsellino sono stati tra i personaggi più difficili da scrivere. E a loro ho affidato forse uno dei messaggi più disperati rispetto a tutta la retorica del movimento antimafia. Ci sono nomi di gente che nessuno riconosce: come li hai scelti? Come li hai trovati? Ho studiato tanto, un anno, leggendo non solo libri di storia, mai i giornali dal ‘69 ad oggi, i settimanali, segnando le cose che mi avevano colpito. Poi, quando ho finito, ho cominciato a dimenticare. Quando tutto era dimenticato, quello che restava erano le storie, e i personaggi che mi erano rimasti impressi erano quelli che sarebbero finiti nel libro. La memoria è quello che rimane quando cominci a dimenticare. Adolfo Parmaliana, 2 ottobre 2008. Nome sconosciuto agli italiani. Perché lo svegli con gli altri nella collina della storia d'Italia? Perché è una di quelle persone che non puoi non dimenticare. Professore universitario, militante del Pd, Parmaliana aveva denunciato le malefatte degli amministratori di Terme Vigliatore e di altri comuni del Messinese. Le sue denunce erano cadute nel vuoto ed era stato chiamato in giudizio per calunnia per suoi attacchi ai politici della zona. Si suicida gettandosi da un ponte, facendo in modo che il luogo sia vicino la sede di un altro Tribunale, Patti, per lanciare un ultimo disperato appello. I fatti gli daranno ragione. Solo che in vita Parmaliana, come accade spesso in Sicilia, era stato preso per pazzo. I figli non si giudicano dai padri: ma i padri si possono giudicare da come hanno trattato i figli? Hai fatto parlare Aldo Togliatti, 16 luglio 2011…. Aldo Togliatti è il figlio "pazzo" e segreto di Togliatti, morto nel 2011 nella clinica dove aveva sempre vissuto. Mi ha suscitato sempre curiosità vedere come i potenti, in questo caso, Togliatti, abbiano nelle loro vite, a volte pieghe mostruose, scarti di senso, perché il potere prevale anche sugli affetti e sulla logica. Il figlio di Togliatti dice, rivolto ai genitori: "Forse mi sono ammalato perché non mi avete mai amato. Era la ragion di partito che ve lo imponeva: si ama il popolo, compagno Togliatti, con certo i figli!". Aldo Moro dice: "Con me muore ignominiosamente la Repubblica". Cioè dal 1978 abbiamo vissuto sotto dittatura? La sua morte è stato un colpo di stato? Spiegaci meglio cosa volesse dirci Moro. "Muore ignominiosamente la Repubblica" è la citazione di una delle più belle poesie civili del ‘900, scritta da Mario Luzi. Moro sa che su di lui c'è "un patto del silenzio, della reticenza e dell'oblio, tra le autorità governative italiane, le gerarchie vaticane, il fronte brigatista. Un patto che dura ancora oggi. Agnese Borsellino dice che la verità è la fine del mondo… E Giulio Andreotti, che muore il giorno dopo Agnese Borsellino, il 6 maggio 2013, lo fai rispondere con le parole pronunciate nel film Il Divo di Paolo Sorrentino: "Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta e invece è la fine del mondo! E noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta! Abbiamo un mandato noi, un mandato divino! Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch'io." Ma la verità, in Italia, sarebbe proprio la fine de mondo? E poi, solo in Italia o sarebbe così ovunque? Per esempio, uno potrebbe dire che la verità sulla morte dei Kennedy, sarebbe la fine del mondo per l'America. Sì, la verità, per chi è al potere è la fine del mondo. Di ogni mondo. Da giovane ho frequentato per alcuni anni le stanze del Partito Democratico della Sinistra, la formazione erede del Pci e all'origine del Pd. Facevo politica, a sinistra, a Marsala, la mia città. Avevo vent'anni. È durata pochissimo. Ogni volta che ci imbattevamo in qualche caso che volevamo denunciare (un politico colluso, un'azienda di mafia che vinceva un appalto, parenti di mafiosi dentro cooperative "rosse") ci dicevano sempre di stare muti, perché anche quel mondo, anche quelle piccole miserie, erano rette da un equilibrio basato sull'occultamento della verità, e ci spiegavano che era necessario subire e non parlare e non fare domande, in nome di un "interesse superiore", che non ho mai capito in verità quale fosse se non il fatto di non dover disturbare il manovratore.... È vero che per la Repubblica d'Italia esiste prima e dopo Giulio? Questo libro doveva finire, nel progetto iniziale, con Giulio Andreotti, un personaggio chiave nella storia d'Italia. Andreotti è morto invece quando Dormono sulla collina era in piena lavorazione, ma mi è sembrato divertente, forte, mettere comunque la parola "FINE" dopo la sua pagina, e fare parlare "un'era", che è il tempo di Andreotti, perché secondo me non esiste una prima o una seconda Repubblica, ma solo un prima e un dopo Andreotti, per i segreti che porta con se e per il tipo di politica (nei riti, nei tempi, nella comunicazione) che comunque rappresentava. Facendo parlare Carlo Alberto Dalla Chiesa, ricordi cosa disse Andreotti per giustificare la sua assenza al funerale del generale-prefetto ucciso dalla mafia a Palermo nel settembre del 1982: "Andreotti non c'era al mio funerale. "Preferisco andare ai battesimi" rispose al giornalista che chiedeva conto della sua assenza". Pensi che Andreotti abbia fatto uccidere Dalla Chiesa? Non lo so. Dormono sulla collina non è un libro di certezze, ma di riverberi. Per me era importante fare dire a Dalla Chiesa un'altra cosa: e cioè che lui tra la vita e lo Stato, ha scelto lo Stato, fino in fondo. Francesco Cossiga lo fai parlare con queste frasi: "Sono stato dalla parte dello Stato. E sono stato un suggeritore dell'Antistato. L'Italia è stata una democrazia incompiuta, ma era l'unico tipo di democrazia possibile per rimanere in Occidente." Pensi che avesse ragione lui? Cossiga dice una sua verità, che mi sembra di poter condividere. Rispetto ad altri politici italiani Cossiga, forse per questa tara di "eccentricità" del personaggio, non nascondeva nulla dei doppifondi della storia d'Italia, anzi, sembrava quasi divertirsi nel mostrarli a mondo e nel giustificarli a modo suo. Bettino Craxi dice che l'Italia e gli italiani sono sempre in cerca di un padrone. Chi vuol stare sotto un padrone, che interesse dovrebbe avere alla verità? Gli italiani sono sempre in cerca di un padrone. E infatti il giudizio che i suoi avversari dell'epoca davano di Craxi e che riporto nel libro ("Vanitoso. Incapace di autocritica. Con una concezione di sé troppo alta. Prepotente. Umorale. Impulsivo. Rancoroso. Vendicativo"), sembrano tarati su misura per Matteo Renzi, oggi. Quando nel 1976 Craxi, a 42 anni, prese il potere nel Psi si parlò di "golpe generazionale". Oggi invece si è usato il termine di "rottamazione". Sotto, da Craxi a Berlusconi a Renzi, c'è sempre la stessa massa di italiani che hanno bisogno di qualcuno che li comandi. Un popolo così non ha interesse alla verità, ovvio, ha interesse solo che a padrone succeda padrone. E soprattutto, ha a cuore non la verità delle cose, ma la popolarità. A noi italiani, credo, non piace stare dalla parte giusta, ci piace stare dalla parte affollata, perché - in fondo - pensiamo che sia quella giusta, e, comunque, c'è una gran compagnia...". Fai parlare l'ultimo governo Berlusconi. Che si spegne come una tv... Cioè sembra di capire che Silvio Berlusconi se ne sia andato per scelta, per aver capito da showman quando uscire di scena prima che dagli applausi si passi agli ortaggi e peggio. No. Il berlusconismo si spegne per stanchezza, come accade anche ai migliori programmi televisivi. Dopo anni di successo il pubblico, semplicemente, cambia gusto, e si sposta su un altro canale. È sempre quel concetto di popolarità che dicevo poco fa.... "La Repubblica dei mafiosi" fu il titolo dell'ultimo articolo di Mario Francese, giornalista, ucciso il 26 gennaio 1979. Pensi che avesse capito la "trattativa continua" tra Stato e mafia? O c'era dell'altro? Aveva capito molto, Francese, giornalista del Giornale di Sicilia, sull'ascesa dei corleonesi in Cosa nostra. Leggere oggi il suo ultimo rapporto (era un maniaco di nomi, date, circostanze) è impressionante. Tutto quello che doveva accadere in Cosa nostra e in Sicilia Francese lo aveva previsto. Una grande lezione di giornalismo, pagata con la vita. Vito Guarrasi: un avvocato importante, ma nessuno, fuori dalla Sicilia, sarebbe in grado di riconoscerne il nome. Eppure è stato probabilmente la cinghia di trasmissione tra la mafia e la politica… Tu lo fai parlare. Ma chi è stato veramente Guarrasi? Ci sono una serie di persone, come Guarrasi, o Vito Miceli, Eugenio Henke, "che rappresentano il doppio livello" che ha caratterizzato la storia breve della nostra Repubblica, quell'"anello" che ha messo insieme criminalità, servizi segreti, politici, intermediari di ogni tipo, per decidere davvero le sorti del Paese (anche, lì, in nome di interessi superiori ci hanno detto, per la stabilità politica dell'Italia negli anni della guerra fredda, ma in realtà si ha la sensazione che tutto, da Piazza Fontana in poi, con il tributo di sangue che ha comportato, sia servito solamente a garantire il monolitico governo del Paese e ad impedire ogni forma di alternativa politica che avrebbe comportato anche un totale ricambio della classe dirigente). Comunque, nel libro Guarrasi si racconta in maniera efficace: "Anch'io ero siciliano, ma senza gesti e senza crisi di nervi. Più potente di Enrico Cuccia, più influente di Giovanni Agnelli, più astuto di Giulio Andreotti, più segreto del segreto di Fatima. Mi chiamavano "il ragno". Tra le mie mani è passato di tutto: lo sbarco degli americani in Sicilia, la morte di Enrico Mattei, la scomparsa di Mauro De Mauro, il golpe Borghese, la morte di Roberto Calvi, i cugini Salvo, i rapporti tra la Dc e la mafia. Ma il mio nome non si poteva nemmeno pronunciare. Mai un processo, una denuncia. Mai un esposto, e mai esposto. Si diceva nei bar di Palermo: "Se il Palermo vince, in schedina scrivi uno. Se perde scrivi due. Se pareggia scrivi Guarrasi". C'è Michele Sindona che simula, avvelenandosi, l'omicidio in carcere per prendersi gioco di tutti. Spiegaci meglio. Michele Sindona, il banchiere di mafia e Vaticano, era un'esteta della simulazione. Il suo suicidio, inscenato come un omicidio, bevendo un caffè avvelenato, è l'ultimo spettacolo, il suo capolavoro, quasi un gioco di prestigio. Tanto che ancora oggi c'è chi sostiene che sia stato avvelenato affinché non parlasse. Ma in realtà ci sono pochi dubbi sul suicidio di Sindona, così come sulla sua personalità assolutamente contorta (aveva inscenato anche un finto rapimento, pur di sfuggire alla giustizia). Falcone e Borsellino, li fai parlare tra loro: dove abbiamo sbagliato, Giovanni? Dove abbiamo sbagliato, Paolo? E poi concludono entrambi con le stesse considerazioni, e adesso si palleggia… nell'ennesimo serial tv… Sono morti per nulla? Eroi sprecati nella storia di un paese che non li meritava? Più che altro, hanno l'amarezza di essere oggetto di molte cerimonie retoriche e di tante intitolazioni, e poco reale impegno per cambiare le cose. C'è tutto un apparato antimafia che vive di ricorrenze, ma che ha poca preparazione e poca cultura. Ai due magistrati è stato intitolato di tutto, ma in pochissimi ne seguono davvero l'impegno. La foto celebre di Falcone e Borsellino, loro due che parlano e sorridono complici, ormai la vedo appesa dappertutto. Nelle stanze di sindaci condannati per mafia, negli ingressi degli ospedali dove si muore di malasanità, nelle segreterie di politici collusi, nella aule di scuole che cadono a pezzi perché progettate male. E poi, quante intitolazioni. Ormai in Sicilia più un'opera pubblica è una porcata più si cerca il paravento dell'antimafia. Ecco perché Falcone e Borsellino oggi concludono amaramente il loro dialogo dicendo che più che eroi d'Italia oggi sono eroi di Tuttocittà. Leggendolo il tuo libro, mi ha dato questa impressione: quei morti che parlano sputtanano mezzo secolo d'Italia. Sembra che nessuno dei suoi potenti si salvi: politici, magistrati, imprenditori… Tutti hanno qualcosa da farsi perdonare, anche per quei morti "sconosciuti" sulla collina. Tranne Falcone e Borsellino (e qualche altra eccezione) il potere in Italia ha solo creato mostri? I libri sono di chi li legge. Accolgo questa osservazione, ma, in sincerità, non ho avuto scopi nella stesura del libro se non quello di fare la Spoon River d'Italia, senza indulgere in retorica o compassione. Tutti abbiamo qualcosa da farci perdonare, certo, ed è vero anche, che il potere genera purtroppo solo mostri…". Il monumento ai Mille di Garibaldi a Marsala, mai completato, scrivi: "Sono la perfetta sintesi dell'Italia: megalomania, approssimazione, litigiosità, ottusità burocratica, contrapposizione di poteri, indifferenza per i tempi, disprezzo per il buonsenso…" Una sintesi del genere come fa a creare un paese comunque ammirato nel mondo? Come si spiega la "grande bellezza" dell'Italia? La grande bellezza dell'Italia non esiste. È solo il titolo di un film, che genera un immaginario, che genera un Paese. Perché la società è quella che la narrazione che ne facciamo di essa crea. Da sempre. Il giorno in cui l'Italia vince l'Oscar con la Grande Bellezza, tra l'altro, cade l'ennesimo pezzo di Pompei, a ricordare che in fondo la bellezza che l'Italia racconta al mondo sta tutta, da sempre, nel mostrare al mondo stesso le sue rovine. Non è grande la bellezza, sono grandi le rovine che la raccontano, in secola secolorum. Dopo questo libro, ti consideri più un filosofo, uno scrittore, un romanziere, o un giornalista? Io ho vissuto Dormono sulla collina come un'inchiesta nella storia recente d'Italia, un'inchiesta da fermo, fatta entrando nelle viscere del Paese, mettendo in relazioni storie e nomi. Mi considero un palombaro, uno che si immerge nella profondità delle cose. Ti dico allora io cosa penso di te, Giacomo. Tu per me sei lo scrittore, un po' giornalista un po' romanziere-storico, e qualche volta anche filosofo, che ha preso il testimone di Sciascia, che scriveva dalla e di Sicilia per spiegare l'Italia. Tu sei qua, adesso con questo libro destabilizzante, che esce proprio a 25 anni dalla morte di Leonardo Sciascia, perché così torna anche lui. Anzi, lui in effetti, come gli scrittori immortali, non se ne era mai andato. Nel tuo libro, alla voce Leonardo Sciascia, 20 novembre 1989, si legge: "(….) Avevo già scritto tutto: della mafia e dell'antimafia, del potere malato in Italia, delle verità che non arrivano mai. E tante cose ho scritto che ancora magari non avete letto bene. Il personaggio di un racconto quando muore non ha bisogno di una lapide, perché non è mai esistito. Ma come disse il commissario Cattani, quello della Piovra, prima di essere ucciso: sono qua. Sono qua, ci sono ancora. Un modello irrinunciabile. Sono qua, ci sono ancora. Uno dei pochi con cui vale la pena anche non essere d'accordo". Cosa hai riletto di Sciascia, che magari non avevi letto bene o che magari non eri d'accordo, ma che poi ti ha aiutato a finire questo libro? Tutto. Leggo e rileggo Sciascia in continuazione. E ho pensato molto ad un suo romanzo del 1971, "Il contesto". Tra l'altro "Il contesto" è uno dei tipici gialli di Sciascia in cui la soluzione è evidente nelle prime pagine, ma viene resa impossibile la scoperta della verità da questioni di "opportunità", trame dei poteri, complotti. Ecco, se vogliamo dare un valore politico a Dormono sulla collina e trarne un paio di tweet, oltre a quella sfida tra popolarità e verità, miseramente persa dalla seconda, un altri messaggio potrebbe essere questo: l'Italia è un "contesto". Dopo aver letto i tuoi morti che parlano sulla collina, ecco penso che quello che mi ha commosso di più, sia stata Eluana Englaro. Come hai ricostruito quello che le fai dire? Eluana Englaro donna, 9 febbraio 2009: "Morire subito, fulminati, come quel ragazzo, Gatì: il destino opposto al mio. Ho iniziato a morire il 18 gennaio del 1992, anche se il mio certificato di morte porta la data del 9 febbraio 2009. Nel mezzo, la battaglia di mio padre, Beppino, perché avesse fine la mia agonia incosciente. Ha fatto della mia lunga storia di morte la sua ragione di vita. Aveva trent'anni quando sono nata. Ne aveva 51 quanto tutto si è fermato. Per l'Italia ero l'ossessione di quell'unica foto e di un corpo immobile da mantenere a galla nel silenzio della clinica. E mi volevano viva perché mi sapevano morta. E credevano nel mio risveglio impossibile perché ancora meno avevano fiducia nel loro dio poco credibile. Solo tu, contro tutti, hai voluto che morissi, per ricordarmi, e amarmi, da viva. E adesso sono davvero piena di vita, papà". "Mi volevano viva perché mi sapevano morta". È questa la verità di Eluana Englaro, secondo me. Sono partito da questa frase, per ricostruire tutto il resto, con rispetto nei suoi confronti e del padre Beppino, che ha dovuto fare una scelta dolorosissima. Fuori dall'ideologia, dalla propaganda, da chi ha usato quel corpo in maniera oscena per le proprie battaglie, quello che resta è la vita". Immigrazione: per l'ennesima volta l'Europa dichiara guerra ai trafficanti di Carlo Lania Il Manifesto, 4 gennaio 2015 L'annuncio del commissario Avramopoulos. Ma fino a oggi a essere colpiti sono stati i profughi. Sui nuovi drammi dell'immigrazione adesso si sveglia l'Europa. Come al solito sempre dopo che le cose sono accadute e come al solito facendo promesse che non può e forse neanche vuole mantenere. Come quelle annunciate ieri dal commissario europeo per l'Immigrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, che parlando dei mercantili carichi di disperati arrivati in questi giorni in Puglia e Calabria, ha di nuovo dichiarato guerra alle organizzazioni criminali e annunciato un piano di Bruxelles per un "approccio globale alle migrazioni". "I trafficanti stanno trovando nuove strade in Europa e stanno impiegando nuovi metodi per sfruttare i disperati che cercano di scappare da guerre e conflitti", ha detto Avramopoulos garantendo che l'impegno nel contrastarli rappresenta una "priorità" nei piani dell'Ue. "Dobbiamo agire contro i trafficanti. Non possiamo permettere loro di porre a rischio vite su navi abbandonate in condizioni meteo pericolose", ha aggiunto facendo riferimento alla circostanza - ancora non dimostrata dalle indagini e anzi da molti considerata improbabile - che gli scafisti abbandonerebbero navi e migranti al loro destino una volta giunti nelle acque territoriali italiane. Di fronte a tanta determinazione, c'è da aver paura. Ovviamente non per le organizzazioni criminali, che hanno più volte dimostrato di saper aggirare qualunque ostacolo messo in atto dalla politiche repressive dei vari Stati continuando a svolgere senza problemi i loro traffici illeciti. No, c'è da aver paura per i migranti. Fino a oggi infatti ogni volta che Bruxelles ha annunciato di voler contrastare i mercanti di uomini, a farne le spese sono state proprio le centinaia di migliaia di disperati che ne sono vittime. Gli esempi non mancano. Subito dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, dove persero la vita 366 profughi tra uomini, donne e bambini, un vertice Ue si impegnò a "evitare che i migranti intraprendano viaggi pericolosi", e questo per "ridurre il rischio" di nuove tragedie. Parole naufragate ben presto nel niente. Per fortuna l'Italia per una volta non è restata a guardare e ha dato avvio all'operazione Mare nostrum che in 14 mesi ha salvato poco meno di 170 mila profughi. Missione definitivamente chiusa quattro giorni fa dal ministro degli Interni Alfano e dal governo Renzi. Nel frattempo, però, l'Europa ha continuato a far finta di contrastare i trafficanti. Un altro buon esempio è Mos Maiorum, operazione che ha coinvolto le polizie europee messa a punto dall'13 al 26 ottobre scorsi dall'Italia durante il semestre di presidenza dell'Ue e coordinata dalla Direzione centrale per l'immigrazione e la polizia di frontiera. Due gli scopi dichiarati: indebolire le capacità delle organizzazioni criminali, ovviamente, ma anche raccogliere informazioni sui migranti: nazionalità, genere, età, luogo e data di ingresso nell'Ue, ecc. In pratica una schedatura. La missione aveva contorni un po' misteriosi, tanto che alcuni europarlamentari hanno provato a chiedere spiegazioni e sia il Consiglio Ue che Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere, ne hanno preso le distanze. Difficile dire quali risultati Mos Maiorum abbia raggiunto, soprattutto nello scoraggiare i trafficanti, visto che un rapporto conclusivo dell'operazione, annunciato per lo scorso 11 dicembre, non sembra sia stato mai presentato. C'è poi Triton, la missione europea che ha preso il posto di Mare nostrum senza però sostituirla. I mezzi di Triton sono attestati sulle 30 miglia dalle coste italiane, molto più arretrati rispetto alle navi della Marina militare italiana e hanno soprattutto il compito di sorvegliare il confine europeo. Da quando è cominciata, il 1 novembre scorso, hanno comunque tratto in salvo migliaia di migranti, ma il direttore di Frontex, da cui la missione dipende, si è già lamentato per i troppi salvataggi "fuori area" eseguiti. In realtà se davvero Bruxelles volesse salvare la vita dei migranti, ormai quasi tutti profughi in fuga dalle guerre, potrebbe farlo senza problemi andando a prenderli lì dove si trovano. Operazione possibile allestendo uffici dell'Ue e dell'Unhcr, l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati, nei paesi di transito dei migranti. Su questo punto, però, finora poco o niente è stato fatto. A dicembre è stata varato il processo di Khartoum, accordo tra Ue e alcuni paesi africani per l'apertura di campi dove raccogliere i profughi in attesa di esaminare le richieste di asilo. Il piano, per ora solo annunciato, potrebbe essere un modo per togliere davvero i migranti dalle mani dei trafficanti. A meno che i campi in questione non diventino un comodo contenitore per tenere i profughi lontani dall'Europa. Belgio: detenuto chiede e ottiene l'eutanasia, dopo di lui altri 15 lo seguono di Luigi Offeddu Corriere della Sera, 4 gennaio 2015 Frank Van Den Bleeken, 52 anni e da 30 in galera: "In carcere soffro troppo". L'esecuzione domenica prossima, ma le famiglie delle vittime protestano. Ogni notte, i detenuti dalle celle vicine gli gridano o sussurrano nel buio: "Frank, ammazzati! Ammazzati!". Certi, ha rivelato qualche guardiano, prendono un doppio caffè pur di dare il turno agli altri e non lasciare che per quell'uomo trascorra un solo minuto di pace. Così accade da sempre in molte prigioni del mondo, a chi ha compiuto certi atti. Ma lui, Frank Van Den Bleeken, 52 anni e da 30 in galera, detenuto belga condannato per omicidio e stupri seriali, assassino e torturatore di una diciannovenne la cui madre morì più tardi di crepacuore, lui non si è mai ammazzato e la morte l'ha chiesta allo Stato: anzi, la "dolce morte", l'eutanasia, per sfuggire alle "insopportabili sofferenze psicologiche" che afferma di provare. Le famiglie delle vittime: "Chiede una morte con dignità, quella che non ha concesso ad altri" Un anno fa, Frank si è accordato con i giudici. E così, venerdì prossimo, sarà trasferito in un ospedale segreto dove potrà stare in pace con i suoi familiari per due giorni. Poi, domenica 11 gennaio, arriverà anche un sacerdote. E infine un medico statale, con un'iniezione pagata dallo Stato, cancellerà la condanna all'ergastolo che quello stesso Stato ha comminato un giorno a quest'uomo. "È una grazia, un premio, una liberazione che risparmierà la pena intera a chi l'ha meritata - dicono indignati alle tv i familiari delle vittime. Lui chiede una morte con dignità, quella che non ha concesso ad altri. Ma non esiste anche la libertà di suicidarsi? E poi, lui stesso dice che ha sempre quelle fantasie atroci, che se tornasse libero rifarebbe tutto...". Le sorelle di Christiane Remacle, la diciannovenne seviziata e strangolata con le sue calze nel 1989, nei boschi vicini ad Anversa, si sono opposte fino all'ultimo alla "grazia": "Lui deve marcire in galera e basta. Per sempre". Non è così, rispondono altri - giuristi, politici e sacerdoti - questo sarà un atto di giustizia e di pietà civile, gli psichiatri hanno certificato i disturbi di Frank e in fondo l'ergastolo non è che una morte legalizzata, una scelta che non ricompensa le vittime e non migliora o recupera i colpevoli. Altri 15 detenuti ora hanno già chiesto la "dolce morte" Ma il vero problema, da domenica in poi, andrà ben oltre la sorte individuale di Frank e già fa tremare i polsi a molti. Sarà un enigma giuridico, etico, sociale, politico, religioso, con 5 risvolti diversi e ugualmente angoscianti. Primo: altri 15 detenuti in varie prigioni hanno già chiesto la "dolce morte" come Frank, adducendo malattie fisiche o gravi depressioni e nessuno sa che risposta darà loro lo Stato. Secondo: in Belgio, dal 2002, il codice consente sì la stessa eutanasia ora in continuo aumento (oltre 1.800 casi nel 2013) ma solo a pazienti terminali, ciò che Frank non è, oppure a persone in preda a "insopportabili sofferenze fisiche o psicologiche" (dal febbraio 2014, primo caso nel mondo, la norma vale anche su bambini e ragazzi senza limiti d'età, purché vi sia il consenso dei genitori). Terzo: lo stesso codice, invece, non prevede la pena di morte per nessun reato. Quarto: la Costituzione belga sancisce che "tous les belges sont ègaux devant la loi", tutti i belgi sono uguali davanti alla legge, proprio come garantito ai cittadini di tutti i Paesi d'Europa. In questo caso l'obiezione sarebbe: perché solo questa condanna, seppure definitiva, può essere modificata? Quinto e ultimo punto, il Belgio è anche il Paese dove vive un altro ergastolano, Marc Dutroux, il pedofilo e assassino seriale che faceva morire le sue giovanissime prede anche di fame e che potrebbe tornare in libertà condizionata fra un anno o poco più. Alcuni genitori delle vittime attendono da anni quest'uomo alla porta del carcere, certo non per abbracciarlo e oggi promettono a Dutroux che una "dolce morte" non l'avrà mai, se anche dovesse chiederla e se anche lo Stato dovesse concedergliela come ha fatto con Frank. Quanto a lui, il "graziato", si è appena confidato con una televisione: "Sono un pericolo per la società, lo so. Ma sono anche un essere umano, e qualunque cosa abbia fatto resto un essere umano. Perciò sì, concedetemi l'eutanasia". Stati Uniti: Cheney, Bush, Obama, guerra in Irak… tra Ragione di Stato e Stato di diritto di Valter Vecellio Il Garantista, 4 gennaio 2015 Tu chiamala, se vuoi, ragione di stato. A metà dicembre l'ex vice-presidente degli Stati Uniti durante l'amministrazione di George W. Bush, viene intervistato dall'emittente televisiva Fox News a proposito del rapporto della Commissione intelligence del Senato sulle torture praticate dalla Cia nei confronti di terroristi o presunti tali. Cheney è un repubblicano rude e spiccio del Nebraska, lo stato "where the West begins". Non porta pistola e cinturone, ma è come se fosse. Gli chiedono se il presidente Bush era al corrente di quanto accadeva; risponde: "His man knew what we were doing… He authorized it. He approved it". Poi, certo: sostiene che quel rapporto fortissimamente voluto dalla senatrice democratica Diane Feinstein che parla di disonestà e brutalità" da parte della Cia, è pieno di fesserie (il termine usato è più forte e volgare). L'ex vice presidente repubblicano poi attacca il rapporto definendolo "completamente sbagliato", "pieno di fesserie". Non è assolutamente vero, sostiene, che la Cia abbia ingannato l'amministrazione sul programma: "L'idea che la commissione sta cercando di far passare che la Cia fosse in qualche modo agendo fuori dalle regole e che noi non fossimo informati, che il presidente non fosse informato, è semplicemente una bugia". Per Cheney Bush "era informato di tutto… sapeva tutto quello che doveva e voleva sapere, conosceva le tecniche, e non c'è stato alcun tentativo da parte mia di tenerlo all'oscuro". Tutti erano informati, e quello che si faceva non era fuori dalle "regole"; questa la verità di Cheney. Non solo: quelle che i legali dell'amministrazione Bush definiscono eufemisticamente "tecniche di interrogatorio" si sono rivelate efficaci, contrariamente a quel che si sostiene nel rapporto, sono servite a sventare attentati. Se Parigi vale una messa, sventare attentati vale un waterboarding. A muso duro Cheney domanda: "Che cosa siete preparati a fare per ottenere la verità su possibili futuri attacchi contro gli Stati Uniti?". Il fatto è che la Feinstein si è trovata per le mani materiale (o parte di materiale) relativo a persone arrestate e interrogate per il loro possibile, o probabile, o sicuro coinvolgimento in organizzazioni terroristiche di matrice islamica e attentati. Certamente quel rapporto frutto del suo caparbio lavoro (e sicuramente anche da imbeccate venute dagli stessi ambienti che quegli episodi hanno prodotto, e per ragioni che si possono benissimo intuire) molti avrebbero voluto non vedesse mai la luce; nella "logica" alla Cheney rendere pubblico il comportamento di importanti istituzioni americane con compiti chiave per la sicurezza mentre è ancora in corso la guerra al terrorismo, è qualcosa di assai simile al tradimento; viene in mente l'iroso monologo del colonnello Nathan Jessep interpretato da uno strepitoso Jack Nicholson, nel film Codice d'onore: "Voi vi permettete il lusso di non sapere quello che so io: che la morte di Santiago, nella sua tragicità, probabilmente ha salvato delle vite. Voi non volete la verità, perché nei vostri desideri più profondi, che in verità non si nominano, voi mi volete su quel muro! Io vi servo in cima a quel muro! ... Io non ho né il tempo né la voglia di venire qui a spiegare me stesso a un uomo che passa la sua vita a dormire sotto la coperta di quella libertà he io gli fornisco. E poi contesta il modo in cui gliela fornisco! Preferirei che mi dicesse: la ringrazio… e se ne andasse per la sua strada. Altrimenti gli suggerirei di prendere un fucile e di mettersi di sentinella. In un modo o nell'altro io me ne sbatto altamente di quelli che lei ritiene siano suoi diritti…". Per quel che ci riguarda è, però, la tentazione di un attimo: da inguaribili don Chisciotte si continua a credere che per quanto ottimo possa essere un "diritto" dello stato (e una sua ragione), sia comunque preferibile un mediocre Stato di diritto. La domanda cui conviene cercare di rispondere è: l'integrità morale di un paese conta più o meno persino della vulnerabilità fisica dei luoghi e delle persone? Cheney (e Bush), come il colonnello Jessep dicono che l'integrità morale può e deve essere calpestata, se l'emergenza lo richiede. Il presidente in carica, Barack Obama, al contrario dice che "i duri metodi utilizzati dalla Cia sono contrari e incompatibili con i valori del nostro Paese, che le tecniche utilizzate dalla Cia hanno danneggiato significativamente l'immagine dell'America e la sua posizione nel mondo e hanno reso più difficile perseguire i nostri interessi con alleati e partner". Continuerà, promette, ad usare la sua autorità "di presidente per assicurare che non faremo mai più ricorso a questi metodi". Peccato che Obama non abbia mosso un solo dito per fare luce sulle ragioni che hanno spinto l'amministrazione Bush a scatenare la seconda guerra in Irak anche quando il "nodo" Saddam, come ci ricorda instancabile Marco Pannella, poteva essere risolto con il suo esilio; invece di questa soluzione pacifica, si è preferita una guerra: pressioni del complesso militare-industriale? Peccato che Obama abbia sostanzialmente "coperto" tutti coloro che hanno mentito adducendo ragioni che si sono rivelate false, basate su prove che non erano tali, per poter condurre questa guerra; peccato che Obama nei fatti abbia "perdonato i Bush e i Cheney, i Donald Rumsfeld e i Colin Powell; e peccato infine che tuttora appaia intenzionato a non aprire casi giudiziari, né a puntare il dito contro l'amministrazione che lo ha preceduto o il direttore della Cia John Brennan, al quale ha rinnovato la sua fiducia. L'8 gennaio prossimo il rapporto della Commissione Intelligence del Senato americano sulle torture della Cia verrà pubblicato come libro. Gli esperti legali dell'Onu sostengono che gli Stati Uniti hanno l'obbligo derivante dal diritto internazionale, di mettere sotto processo i sospettati di aver praticato le torture, e che i responsabili potrebbero/dovrebbero finire in stato d'accusa all'estero. Al di là delle nobili, infiammate, parole anche per Obama l'integrità di un paese può essere sacrificata, come dicono (e hanno fatto) Bush e Cheney: meglio, insomma, l'"ottima" ragione di stato, che il "mediocre" stato di diritto. Iran: appello per salvare 32 prigionieri condannati a morte www.ncr-iran.org, 4 gennaio 2015 Negli ultimi giorni 32 detenuti condannati a morte sono stati trasferiti dalla prigione di Ghezel Hessar a quella di Tehran-e Bozorg (la Grande Tehran) ad Hassan Abad, Tehran. I detenuti trasferiti provengono dalla sezione 2 e sono tra quelli che nelle scorse settimane avevano iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le esecuzioni collettive. Per terrorizzare questi prigionieri due aguzzini del carcere, Rajabzadeh e Norouzi, li hanno brutalmente picchiati e torturati appena arrivati alla loro nuova destinazione. Del gruppo fa parte anche Javad Jahani, uno studente di 25 anni, crudelmente frustato e ferito. Javad Jahani è stato arrestato arbitrariamente insieme a suo fratello Abedin Jahani quattro anni e mezzo fa. La Resistenza Iraniana chiede all'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e a tutti gli organismi in difesa dei diritti umani di adottare misure immediate ed efficaci per salvare le vite di questi prigionieri e per impedire che vengano minacciati, torturati e giustiziati. Stati Uniti: detenuto suicida nel carcere di Rikers Island, scoppiano nuove polemiche Ansa, 4 gennaio 2015 Un detenuto del carcere di Rikers Island è stato trovato morto nonostante fosse sotto osservazione per il rischio di suicidio. Il caso riapre le polemiche sul carcere di New York, finito nel mirino del Dipartimento di Giustizia, che ha denunciato lo città per abusi sui detenuti. Il sindaco Bill De Biasio ha proposto una serie di cambiamenti, incluse telecamere di sorveglianza, programmi terapeutici per i detenuti e formazione per gli agenti carcerari. Il sistema carcerario Usa è al centro della polemica anche dopo le accuse rivolte da Ahmed al-Ragye, figlio di Abu Anas al-Libi, morto ieri sempre a New York: "Riteniamo gli Usa responsabili della morte di mio padre. Ha sviluppato un cancro mentre era detenuto in America" ha detto all'agenzia Reuters Ahmed al-Ragye. Ragye ricorda che il padre, ritenuto responsabile degli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998, è stato sottoposto a "un intervento chirurgico in un ospedale e rimandato in prigione nonostante le sue condizioni non fossero stabili". Stati Uniti: a San Quintino i detenuti studiano per la Silicon Valley di Davide Illarietti Corriere della Sera, 4 gennaio 2015 San Quintino, come Alcatraz, non è famosa per il comfort. Al contrario. Per essere una delle prigioni più dure d'America - di sicuro la più tristemente celebrata da Hollywood, per il suo famoso "braccio della morte" - è anche un buon trampolino di lancio. O almeno potrebbe esserlo, per i diciotto detenuti selezionati dal programma "Code 7370". L'iniziativa ha fatto scalpore oltre Atlantico: all'interno del carcere-simbolo della sedia elettrica, l'anticamera della morte più grande degli Stati Uniti, una classe di detenuti studia informatica e programmazione a livelli da Silicon Valley. "Alcuni dei detenuti di lungo corso non hanno mai usato un computer. Non hanno mai posseduto uno smart phone" spiegano gli ideatori del programma. "Il reinserimento nel mondo del lavoro può essere estremamente difficile". Dietro le sbarre il tempo si ferma. E dopo due anni come dieci niente è più lo stesso, là fuori, nell'era di internet. Per questo l'associazione no-profit "Last Mile" ha lanciato il corso-pilota di quattro giorni su sette, otto ore al giorno, in cui i detenuti fanno programmazione intensiva con due docenti volontari di Hack Rock, un campus di San Francisco dove tre mesi di lezioni, di norma, costano non meno di 17 mila dollari. "In teoria, una volta fuori di prigione questi detenuti potrebbero guadagnare stipendi a sei cifre nella Silicon Valley" scrive ottimisticamente Ariel Schwartz su Co.Exist. Egitto: la repressione e il carcere, fra reporter di Al Jazeera e detenuti dimenticati www.pane-rose.it, 4 gennaio 2015 Se usciranno, ma non è affatto scontato, sarà per la decisione dell'emittente televisiva qatarina di voler chiudere Mubasher Masr Channel più che per un gesto di clemenza. Quel canale di Al Jazeera è un coltello nel fianco della casta militare del Cairo e risulta indigesto anche a poliziotti e magistrati. Per i servizi trasmessi i giornalisti australiano Peter Greste, egitto-canadese Mohamed Fahmy ed egiziano Baher Mohamed sono stati condannati chi a sette, chi a dieci anni, inanellando finora 371 giorni di galera. Motivi: concorso in terrorismo, attentato alla sicurezza nazionale e diffusione d'informazioni false, accuse respinte dai tre che sostengono d'aver solo svolto il proprio lavoro. Fra cui interviste a taluni leader della Fratellanza Musulmana poi arrestati (Mohammed Badie) che non rappresentavano certo un'adesione alla politica della Confraternita come sostengono i pm. Eppure da oltre un anno l'aria di restaurazione, che aveva rovesciato il presidente Mursi e represso le proteste islamiche, non va per il sottile. Dopo i militanti della Brotherhood sono finiti dentro giornalisti, blogger, agitatori di Tahrir, oppositori di varie sponde. Rispetto alla massa degli attivisti incarcerati con numeri che oscillano fino alle 12.000 unità (il governo rigetta queste cifre ma non ne fornisce altre, tanto che da tempo si parla di cittadini desaparecidos), per i tre cronisti il tam-tam di sostegno è stato battente. Da quello della potente tivù di Doha, a interventi di Amnesty International, interrogazioni di parlamentari europei e canadesi, però la situazione generale è rimasta ostile. La rinuncia a "mettere il naso negli affari egiziani per ordire complotti", che è l'accusa rivolta ai reportages di Al Jazeera, può distendere i rapporti fra Egitto e Qatar e ora i giudici hanno prospettato una revisione del processo. Anche per casi politici alla ricerca della piena legittimazione internazionale, come quello del presidente-generale Al Sisi, il corto circuito che si crea coi lavoratori della comunicazione e della documentazione è crescente. Un decreto emanato in novembre che può applicarsi alla situazione dei tre, ovviamente se un nuovo processo ridimensionerà le accuse, può prevedere l'allontanamento di cittadini stranieri che verrebbero espulsi. Non se ne avvantaggerebbe il cronista egiziano Mohamed. Negli sviluppi aperti la direzione di Al Jazeera ha dichiarato che le autorità del Cairo "Possono scegliere di continuare a mostrare al mondo il proprio volto peggiore o liberare rapidamente i tre". Una stoccata che non risulterà gradita all'orgoglio del presidente, ma con cui lo staff televisivo qatarino cerca di giustificare la sostanziale rinuncia al principio dell'informazione su cui ha costruito il proprio successo. La partita sui tre è aperta e per nulla scontata. Comunque c'è chi sta molto peggio: per i free lance senza tutele e gli attivisti dell'opposizione islamica e laica la chiave delle celle è stata gettata.