Giustizia: Presidente, e la politica dov'è? Se Napolitano si affida a Pignatone e al Papa di Astolfo Di Amato Il Garantista, 3 gennaio 2015 L'unico riferimento ideale, nel discorso di fine anno di Napolitano, è quello al Papa. Le correnti filosofiche, politiche, ideali, che pure sono presenti nel vissuto di Napolitano, sono scomparse per far posto al messaggio di pace del Papa. In una semplificazione concettuale sorprendente. In definitiva, le citazioni del Presidente hanno riguardato le eccellenze della società civile, la Procura della Repubblica di Roma ed il Papa. La politica è stata margina-lizzata. Ma la normalità costituzionale non sta nel primato della politica? La parte introduttiva del discorso di Napolitano è stato segnato da una reiterata sottolineatura della rilevanza della Costituzione, come suprema legge della Repubblica. Già nell'annunciare le dimissioni ha insistito sulla circostanza che si tratta di una ipotesi espressamente contemplata dalla Costituzione. In realtà, la Costituzione non disciplina le dimissioni, ma si limita ad elencare le possibili cause di cessazione dalla carica, al pari della morte. In questo senso la sottolineatura è singolare. Potrebbe essere letta come se si dicesse che un Presidente può morire perché lo prevede la Costituzione. In realtà, la sottolineatura della conformità alla Costituzione delle dimissioni sembra destinata a proporre il messaggio che l'attività di Napolitano è sempre stata ispirata al rispetto della Costituzione. Del resto, nell'altro passaggio del discorso di fine d'anno nel quale si richiama la Costituzione, e cioè quello nel quale invoca il ritorno alla normalità costituzionale, il riferimento è alla incapacità delle forze politiche, in occasione della seconda elezione, di rispettare le cadenze temporali implicite nel dettato costituzionale e quindi di eleggere un nuovo Presidente, invece che prolungare provvisoriamente il precedente settennato. La normalità costituzionale, di cui è stato auspicato il ritorno, riguarda, perciò, la capacità delle forze politiche di rispettare le cadenze temporali implicitamente previste dalla nostra carta fondamentale. Sono queste ultime a porsi al di fuori della legalità costituzionale. Ed ad aver costretto il Presidente ad assumere le decisioni occorrenti per impedire una fine prematura della legislatura. Decisione resa necessaria dalla esigenza di preservare il ruolo internazionale dell'Italia, compromesso agli occhi degli osservatori stranieri dalla sua instabilità politica. È lo stesso Presidente, dunque, ad aver riconosciuto di aver fatto una scelta squisitamente politica, sulla cui compatibilità costituzionale non si è soffermato, di non consentire il ritorno alle urne in una situazione di instabilità politica. Tuttavia, se si guarda anche al resto del discorso presidenziale, sembra trasparire non tanto una preoccupazione per la instabilità politica, quanto piuttosto una profonda disistima per la politica stessa. Sembra essere stato quest'ultimo il retroterra più importante delle scelte di Napolitano, piuttosto che il dato della instabilità. I segnali in questa direzione sono stati, nel messaggio di fine d'anno, numerosi e convergenti. Innanzitutto, è stata ribadita più volte l'esigenza di far rinascere la politica. Nel quale concetto è, evidentemente, implicito un giudizio assolutamente negativo della attuale dimensione della politica. In secondo luogo, così come avviene comunemente nelle sedi dell'antipolitica, gli italiani che costituiscono un esempio positivo sono stati individuati nella cd. società civile: la scienziata, l'astronauta, il medico, etc. La politica è stata citata per richiamare il marchio della corruzione ed il marcio che sta portando alla luce la Procura di Roma. La sudditanza della politica al potere giudiziario appare un dato scontato e sul quale non vi è nulla da discutere. Ma vi è molto di più. L'unico riferimento ideale, presente nel discorso del Presidente, è quello a Papa Francesco. Le correnti filosofiche, politiche, ideali, che pure sono presenti nel vissuto di Napolitano, sono scomparse per far posto al messaggio di pace del Papa. In una semplificazione concettuale sorprendente. In definitiva, le citazioni del Presidente hanno riguardato le eccellenze della società civile, la Procura della Repubblica di Roma ed il Papa. La politica è stata marginalizzata. Ma la normalità costituzionale non sta nel primato della politica? Giustizia: l'anticorruzione solo a parole di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 gennaio 2015 Spinta perduta nonostante gli appelli e i recenti scandali a più di vent'anni da Mani pulite la svolta annunciata è ancora ai primi passi. Ma la politica non può rinunciare a promuovere leggi per far emergere i traffici illeciti. Se nell'ultimo "messaggio augurale" agli italiani Giorgio Napolitano ha voluto annoverare tra "le più gravi patologie" del Paese "una corruzione capace di insinuarsi in ogni piega della realtà sociale e istituzionale", è per indicare un cammino da compiere. Una strada che sarebbe finalmente ora di imboccare, a più di vent'anni dalle inchieste di Mani pulite sull'onda delle quali nacque la cosiddetta Seconda Repubblica. Che gran parte del percorso sia ancora da compiere non è certo un buon bilancio, ma questo non può diventare l'alibi per non guardare avanti e procedere con quel che c'è da fare. Negli stessi giorni in cui gli inquirenti romani citati dal presidente della Repubblica (che ancora ieri ha invocato un "deciso sforzo nella lotta alla criminalità nelle sue svariate forme", compresa quella che passa per tangenti e mazzette, nel suo messaggio a papa Francesco) svelavano un malaffare a cui hanno attribuito i connotati del "metodo mafioso", l'associazione Transparency International rendeva noto l'ultimo rapporto sull'indice di percezione della corruzione che vede l'Italia al 69° posto della classifica mondiale, ultimo Paese in Europa insieme a Romania, Grecia e Bulgaria. Un dato poco rassicurante, che si aggiunge all'allarme lanciato dall'Unione Europea nel febbraio scorso, ricordato ieri da Il Sole 24 Ore. Matteo Renzi ha appena promesso una svolta e annunciato un nuovo disegno di legge per introdurre aggiustamenti che, oltre a soddisfare gli slogan lanciati dal premier, possono contribuire a meglio reprimere il fenomeno e in certa misura - si spera, attraverso qualche forma di deterrenza - a prevenirlo. Ma siamo ai primi passi. E resta l'incognita del dibattito parlamentare, che non si annuncia agevole per una maggioranza di centro-destra-sinistra che in tema di giustizia s'è sempre mostrata tutt'altro che compatta. Tuttavia sarebbe il caso di arrivare a un'approvazione rapida della riforma annunciata, se possibile migliorandola, attraverso l'impegno concreto dei partiti e magari una corsia preferenziale. I magistrati hanno manifestato le loro perplessità, e suggerito soluzioni alternative o aggiunte per meglio poter svolgere il proprio lavoro di indagine e di giudizio. Archiviarle con l'invito alle toghe di fare meno interviste e più sentenze serve a poco; spesso anche le interviste (soprattutto degli addetti ai lavori) aiutano a comprendere la sostanza dei problemi e affrontarli nel merito, oltre che nei titoli dei giornali. La proposta di prevedere sconti di pena per i "pentiti" della corruzione, ad esempio, non viene solo da pubblici ministeri e giudici, ma anche da esponenti del Pd (e della stessa corrente di Renzi): spezzare il legame di omertà tra chi indebitamente paga e chi viene indebitamente pagato è un modo per raggiungere più facilmente la prova del patto occulto, e per rendere più conveniente la denuncia. Ed è un appello costantemente ripetuto dal presidente dell'Autorità anticorruzione Raffele Cantone, magistrato della cui nomina il capo del governo fa continuo sfoggio per dimostrare la determinazione dell'esecutivo su questo terreno. Ma allora perché non dare seguito ai suoi consigli? Il meccanismo "premiale" era contenuto nei disegni di legge entrati al Consiglio dei ministri di metà dicembre, ma poi è scomparso. Evidentemente per contrasti tra i partiti della maggioranza, che sarebbe bene superare durante la discussione per trasformare la proposta in legge. Vedremo se, almeno stavolta, alle parole seguiranno i fatti. Lo Stato, attraverso il potere giudiziario, ha il compito di scovare e punire la criminalità economica; la società civile dovrebbe trovare lo stimolo e l'energia per considerare la corruzione un disvalore, anziché un'occasione per rimuovere gli ostacoli; alle forze politiche spetta di facilitare questo percorso promuovendo leggi che aiutino a far emergere i traffici illeciti consumati sottotraccia. Sono le tre componenti chiamate in causa da Napolitano, affinché lavorino "insieme, senza eccezione alcuna" per sradicare la malapianta e risalire la china. La speranza è che almeno ci provino seriamente, caricandosi ciascuno delle proprie responsabilità. Altrimenti saremmo di fronte ai soliti richiami caduti nel vuoto e all'ennesima occasione persa. Giustizia: così il governo cancella i reati per l'evasione e la frode fiscale di Carlo Di Foggia Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2015 Il Sottosegretario all'Economia Zanetti: "norma scritta male, sana anche le furberie più gravi". La guerra intestina al Tesoro ha partorito un pasticcio che aiuta grandi evasori fiscali. "Sì, per com'è scritta quella norma ha un impatto pesante, salva tutti i reati e non va bene", spiega il sottosegretario all'Economia Enrico Zanetti (Sc). La conferma arriva dopo che il Fatto ha raccontato l'incredibile genesi di una norma contenuta nel decreto attuativo della delega fiscale approvato lo scorso 24 dicembre dal governo, e ora al vaglio delle Commissioni Parlamentari. Un testo già contestato da molti per le soglie di punibilità triplicate - che di fatto cancellano il penale tributario - ma che all'ultimo giro di boa, a Palazzo Chigi, si è anche arricchito di un articolo che il Mef aveva scartato: una "soglia parametrata" al reddito sotto la quale chi evade le tasse non rischia più il carcere, e che - stando al testo - premia anche chi froda il Fisco. L'articolo 19-bis, infatti, stabilisce chiaramente che non si viene più puniti se Iva o imposte sui redditi evase "non sono superiori al 3% rispettivamente dell'imposta sul valore aggiunto o dell'imponibile dichiarato". In pratica non c'è nessun limite, ma solo una proporzione, sotto la quale il reato penale scompare. Una combinazione che secondo l'ex ministro delle Finanze, Vincenzo Visco è "un enorme regalo ai grandi evasori": più è alto il reddito più si può evadere, pagando solo le multe. Non solo. Senza la supervisione della Commissione tecnica del Tesoro incaricata di stilare il testo, la modifica infilata all'ultimo si è trasformata in una sanatoria per tutti i reati. "Partiamo da una premessa - spiega al Fatto Zanetti - personalmente non condivido la definizione di Visco: la soglia del 3% evita di penalizzare tutti allo stesso modo, e cancella solo il penale. Quello che non è ammissibile, però, è che il testo parli genericamente di tutte le fattispecie di reato: cioè sana sia l'evasione che la frode fiscale, che è una cosa gravissima. Così sono preoccupato anch'io: auspico che il Parlamento cambi questa misura". Per dare l'idea, su un utile netto di un miliardo, una grande azienda potrà evadere (o frodare) il fisco fino a 30 milioni, pagando solo una sanzione amministrativa. E la norma avrà effetto anche sui processi in corso per effetto del favor rei, per cui le disposizioni penali favorevoli valgono anche per il passato. Zanetti conferma anche che la modifica non era presente nella bozza uscita dal Tesoro: "È indubbio che il Mef non l'abbia messa: in molti non erano d'accordo. Evidentemente in seno al Consiglio dei ministri si è deciso di modificarla all'ultimo". Una modifica che, però, ufficialmente, è orfana. Da Palazzo Chigi preferiscono non commentare, idem dal Tesoro. Chi ha seguito l'iter, però, parla di una guerra interna al ministero. Da un lato gli uomini vicini a Visco e alla neo direttrice dell'Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi - allieva di Visco - dall'altra diversi dirigenti ministeriali, alcuni vicini all'ex ministro Giulio Tremonti, che per oltre dieci anni ha governato gli uffici di via XX Settembre. Lo scontro avrebbe segnato una vittoria a favore dei primi, poi vanificata da un intervento in extremis. Chi l'ha deciso? Fonti di governo puntano il dito sull'entourage del premier. Nessuno dei consiglieri economici portati a Palazzo Chigi da Matteo Renzi (per arginare il Tesoro) però, ha competenze specifiche in materia tributaria. Tutti, peraltro smentiscono un interessamento diretto nella vicenda: alcuni si dicono stupiti, e auspicano una "modifica in Parlamento". Modifica che però potrà arrivare solo dal governo, visto che le commissioni hanno il potere di esprimere solo un parere non vincolante. Tra i consiglieri economici del premier c'è anche chi ricorda un dettaglio importante: alle riunioni a Palazzo Chigi prima dei Consigli dei ministri partecipano sempre uomini del Tesoro. La modifica è stata inserita nel passaggio al dipartimento affari giuridici, governato da Antonella Manzione, vero braccio destro di Renzi ed ex capo della polizia locale a Firenze quando Renzi era sindaco. Al di là della misura contestata, con le nuove norme rischierà il carcere solo chi evade oltre 150 mila euro (ora sono 50 mila) e le fatture false saranno reato solo sopra i mille euro. In pratica, chi fattura un milione di euro, può evadere fino a 30 mila euro - per effetto del 3% - e fino a 150 mila grazie alle altre norme. "Quest'ultima parte è sensata - prosegue Zanetti - introdurre delle soglie evita di ingolfare le Procure (per il Sole 24 Ore salterà un processo su tre, ndr), considerando che spesso il contenzioso nasce da errori di calcolo, e che molti procedimenti vengono vinti dal contribuente". Giustizia: dunque è normale dire che una bambina è mafiosa? di Piero Sansonetti Il Garantista, 3 gennaio 2015 Francamente speravo di ricevere una secca smentita. Mi auguravo che qualcuno, stamattina, rispondesse indignato alle accuse, pesantissime, che ieri abbiamo lanciato dalla prima pagina del nostro giornale. Noi abbiamo sostenuto che la magistratura di Reggio avrebbe incriminato una ragazzina, contestandole il 416 bis (cioè il reato di associazione mafiosa) sebbene questa bambina, all'epoca di fatti, avesse meno di 14 anni. E abbiamo sostenuto - sfidando l'assurdo - che la magistratura calabrese abbia accusato questa ragazzina (che oggi è sulla soglia dei 17 anni) di aver svolto, o forse di svolgere ancora, la funzione di capoclan. Cioè di essere una dei più importanti capi della cosca dei Gallico. Avevamo controllato tutte le carte, e per la verità non c'erano molti dubbi. La data di nascita è quella: 1998. E il primo fermo, che è avvenuto con un posto di blocco, dopo una serie di intercettazioni, risale al 2012, qualche mese prima che la ragazzina compisse i 14 anni e che dunque, per la legge - ma non molto per il buonsenso - fosse incriminabile e punibile. E tuttavia immaginavamo che potesse esserci un errore, che la data fosse stata sbagliata o chissà che. Possibile - ci chiedevamo - che davvero un magistrato abbia deciso che per battere la mafia bisogna dar la caccia ai bambini? Può darsi che la smentita arriverà, magari oggi, o domani, o tra un mese: chissà, in effetti i tempi della magistratura sono sempre stati un po' lenti. Magari la data di nascita è stata trascritta male, forse era il 1988 o il 1978. Se invece non dovesse arrivare, se cioè fosse confermata l'incriminazione per associazione mafiosa di una bambina di 13 anni e mezzo, davvero ci sarebbe da preoccuparsi parecchio. Soprattutto se questa notizia, non smentita, non dovesse sollevare una vera e propria rivolta, non solo nella società civile, ma soprattutto all'interno della magistratura. Come possono tanti magistrati, che sono impegnati molto seriamente nello svolgimento del loro lavoro, e che questo lavoro lo interpretano con serietà, e rispettando i confini della legge, e la Costituzione, e il buonsenso, non sentirsi infanganti dalla persecuzione della magistratura, alla quale appartengono, contro una ragazzina? Come possono non capire che l'uso a vanvera del 416 bis è il modo migliore per sputtanare definitivamente questo articolo del codice penale italiano, che non esiste in nessun altro codice al mondo, e che - soprattutto se usato in questo modo avventato, quasi paradossale - rischia di trasformare la nostra giurisprudenza in qualcosa di lontanissimo dalla modernità e dalla civiltà giuridica? Quel che preoccupa è che, al momento, nessuno reagisce. Il fatto che accusino una bambina di essere più o meno come Riina non stupisce nessuno. Sarà pure che è Capodanno, d'accordo, ma i fatti sono fatti, e qualche esponente delle autorità potrebbe anche preoccuparsi di confermare o smentire un fatto così clamoroso, o di giudicarlo, di commentarlo, o di esecrarlo. Se una cosa del genere fosse avvenuta in un Paese arabo, state sicuri che già si sarebbe sollevata - giustamente - un' iradiddio, e ci avrebbero spiegato tutti che finché nel mondo arabo la giustizia resta così medievale, non c'è niente da fare per quella parte del mondo. Ora la ragazzina dovrà subire un processo, se nessuno interviene per fermare questa mostruosità, rifiutando il rinvio a giudizio - che ancora non c'è stato - e rischia una pena che, a seconda delle aggravanti, può andare dai 4 anni ai 22 e mezzo. Non solo non si sono sollevate voci di censura per l'incriminazione della bambina, ma addirittura sui social network, che comunque sono sempre i più rapidi a innescare le discussioni, è iniziato una specie di effetto-paradosso. Cioè, non ci si stupisce per la stravagante iniziativa dei giudici, ma al contrario per il fatto, dato per assodato, che un clan mafioso fosse alle dipendenza di una bambina di 13 anni. Qual è il problema? In assenza di una società "politica", e di un sistema dell'informazione, in grado di dare dei punti di riferimento all'opinione pubblica, è chiaro che l'opinione pubblica si lascia condizionare e guidare dalle uniche istituzioni ancora funzionanti. E dunque - specie in Calabria - dalla magistratura. E ciò che dice la magistratura è vangelo, è la verità, non si discute. Il danno di questo sbandamento del senso comune è enorme, e può compromettere le fondamenta della nostra civiltà. Giustizia: le velleità giudiziarie dell'Italia contro i responsabili della "Operación Cóndor" di Luca Mastrantonio Corriere della Sera, 3 gennaio 2015 La giustizia italiana, attraverso la Procura di Roma e con l'avallo del ministro della Giustizia Orlando, ambisce a mettere la propria firma sulla Storia recente del Sudamerica. Il 12 febbraio è fissata la prima udienza nell'aula bunker di Rebibbia di un maxiprocesso a carico dei militari sudamericani responsabili della "Operación Cóndor" (Piano Condor): un'organizzazione nata negli Anni 70 tra golpisti al potere per eliminare oppositori esuli in Cile, Argentina, Bolivia, Uruguay, Paraguay e Brasile. I loro crimini sono una delle pagine politicamente più buie della Storia recente del Continente (e degli Usa, per le ingerenze). Ma se da un lato si può ammirare la tenacia di chi crede di poter dare, ora, un risarcimento alle famiglie delle vittime di allora, dall'altro colpisce il protagonismo della giustizia italiana: ha palesi problemi di risorse e risultati nella gestione ordinaria nazionale (come nel caso Eternit) e si mette a fare gli straordinari a livello storico-internazionale; campo dove, per altro, i governi passati e presenti incontrano spesso difficoltà di natura politico-giudiziaria: l'ultimo esecutivo guidato da Berlusconi non ottenne dal Brasile la consegna di Cesare Battisti, giudicato terrorista in patria ma considerato un rifugiato politico dal Brasile; oggi il governo Renzi ha ereditato il caso dei marò accusati in India di aver ucciso due pescatori: per il ministro della Difesa Pinotti è "inaccettabile" che un altro Paese processi militari in servizio per lo Stato italiano. Quello ai golpisti sudamericani sarà un processo di forte impatto mediatico e, forse, dallo spirito velleitario. Ci sono alcuni dubbi, logistici e non solo: son passati circa 40 anni, prove e testimoni, se ci sono, devono attraversare l'oceano, gli imputati sono morti, vecchi (troppo magari per il carcere) e in alcuni casi già condannati nei loro Paesi - il nostro codice non prevede di bissare processi, l'approvazione del Guardasigilli serviva per questo motivo. E anche nel caso di eventuali condanne, una vittoria della Grande Giustizia Italiana Mondiale difficilmente bilancerà le piccole e grandi sconfitte, quotidiane, sul piano nazionale. Giustizia: Pannella in ospedale per proseguire sciopero di fame e sete per le carceri Adnkronos, 3 gennaio 2015 Questa mattina Marco Pannella, in sciopero totale della fame e della sete da oltre 90 ore "per difendere il messaggio alle Camere di Napolitano" sulle carceri "dai comportamenti opposti assunti dal presidente del consiglio Renzi", si ricovererà per prudenza in una struttura sanitaria a Roma per proseguire la propria azione nonviolenta sotto controllo medico. Pannella potrà comunque eventualmente allontanarsi per alcune ore dalla struttura sanitaria nel corso della giornata. Giustizia: caso Loris; oggi la decisione del Tribunale del Riesame sull'arresto di Veronica Ansa, 3 gennaio 2015 Camera di consiglio immediata e decisione attesa entro le 14 di oggi. Resta riunito per deliberare, dopo due udienze fiume, la prima di 12 ore il 31 dicembre e la seconda di quasi sei ore oggi, il Tribunale del riesame di Catania che deve decidere sulla richiesta di scarcerazione presentata dal legale di Veronica Panarello, la 26enne accusata di avere ucciso, il 29 novembre scorso a Santa Croce Camerina, il figlio Loris di 8 anni. Lo scontro in aula tra accusa e difesa è stato intenso e lungo. La Procura di Ragusa ha confermato la sua ricostruzione basata anche sui filmati delle 41 telecamere di sistemi di sorveglianza presenti nel paese del Ragusano che, hanno ribadito i pm, "dimostrano senza dubbio che quel giorno la mamma non ha accompagnato il figlio a scuola", che "non ha seguito lo stesso percorso dei giorni precedenti" e per "due volte passa velocemente davanti alla strada del Mulino Vecchio, dove sei ore dopo è trovato il corpo del bambino, dicendo che lo fa per gettare la spazzatura, con tanti cassonetti vicino casa". Lei ha sempre negato, anche davanti ai video, sia al Gip di Ragusa, che ne ha ordinato l'arresto, che ai giudici del Tribunale del riesame di Catania. Presente in aula, Veronica Panarello ha ribadito la sua innocenza. E anche oggi ha avuto un cedimento davanti alle immagini proiettate in aula del figlio morto: si è messa a piangere. I giudici hanno sospeso per circa un quarto d'ora l'udienza, che è poi ripresa regolarmente. Ed è ripresa con uno scontro tra le due tesi antitetiche. La difesa, con l'avvocato Francesco Villardita, ha "contestato tutti i punti dell'ordinanza con memorie e consulenze" perché, ha spiegato il legale, ci sono "diverse criticità". E tra queste, ha sostenuto, "il protocollo per stabilire l'orario della morte di Loris e la relazione preliminare dell'autopsia". Secondo una perizia di un consulente del penalista, infatti, il decesso del bambino sarebbe avvenuto non tra le 9 e le 10 del mattino, come sostiene l'accusa, ma diverse ore dopo, scagionando quindi la mamma che era a Donnafugata a seguire un corso e poi a scuola a prendere Loris. Una tesi che è stata contestata con fermezza dalla Procura, che sostiene le perizie eseguite da due medici legali, uno dei quali un esperto del settore della polizia scientifica di Roma. Per il procuratore di Ragusa, Carmelo Petralia, e il sostituto Marco Rota, "tutti gli indizi sono univoci e portano a Veronica Panarello". Comprese le fascette di plastica con le quali sarebbe stato strangolato Loris, compatibili con quelle che la donna ha consegnato due giorni dopo l'uccisione a due maestre del piccolo che erano andate a trovarla a casa. Ma il legale ha ribattuto che "ci sono testimoni le cui dichiarazioni sono state analizzate approfonditamente rilevando incongruità rispetto alla tesi dell'accusa". L'avvocato Villardita ha spiegato che "non ci sono indagini della difesa", ma la "rilettura di alcune dichiarazioni" già agli atti dell'inchiesta e valutate dalla Procura. Tra queste quelle di una donna che subito dopo la scomparsa disse di avere visto Loris e di averci parlato, intorno alle 9.30, vicino a una fontana del paese. Ma risentita dagli investigatori successivamente avrebbe precisato di non essere certa del giorno. Come ha fatto l'agente di polizia municipale, una donna, che aveva detto di avere visto Loris dirigersi a scuola. A conclusione dell'udienza le posizioni di accusa e difesa sono rimaste "ferme e opposte" tra loro, come ha confermato l'avvocato Villardita. Distanti restano ancora i contatti tra Veronica e la sua famiglia. Il marito non è andato a trovarla, come lei aveva sperato e chiesto. Vicino le sono rimasti la zia materna, Antonella Stival, che chiede "l'esame del Dna di tutti quelli che conoscevano Loris" per scagionarla, e suo padre Francesco Panarello, che ha ricevuto una mail di minacce e offese per lui e la figlia, annunciando la presentazione di una denuncia alla polizia postale di Catania. Giustizia: figli strappati per 16 anni a una coppia accusata di pedofilia e poi assolta di Stefano Zurlo Il Giornale, 3 gennaio 2015 Accusata di pedofilia, la coppia era fuggita in Francia per evitare che gli venisse tolto anche l'ultimogenito. Ora è stata assolta ma nel frattempo il padre è morto. C'è una mamma che ha perso quattro figli, quattro bambini, la mattina del 12 novembre 1998. Oggi che potrebbe riaverli è ormai tardi. Troppo tardi. Il disastro giudiziario e umano è compiuto. Lorena Morselli era innocente: ieri sera la Cassazione chiude definitivamente una vicenda terribile andata avanti per sedici, lunghissimi anni. Sedici anni in cui ai quattro ragazzini era stato spiegato che i genitori, Lorena e il marito Delfino, morto d'infarto nell'estate del 2013, erano una coppia di pedofili. Due mostri, o qualcosa del genere, da inserire nella turpe storia di abusi portata a galla dalla procura di Modena nella Bassa Modenese. I bambini col tempo avevano puntato il dito contro mamma e papà, aggravando, se possibile, le accuse. Non era servita la mobilitazione di mezzo paese a favore di quei due genitori miti e premurosi: gran lavoratore lui, impegnata nel sociale e in chiesa lei. Non erano bastati gli attestati di stima del parroco, degli amici, della gente che voleva loro bene e trovava semplicemente lunari quei capi d'imputazione. Purtroppo è andata com'è andata. Con un andamento che si potrebbe definire scandaloso se l'aggettivo non fosse ormai logoro e inutilizzabile: in primo grado, nel 2002 su Lorena e Delfino cala una condanna pesantissima. Dodici anni a testa. Loro chiedono giustizia, vogliono essere processati al più presto ma l'appello non arriva mai. Intanto si sono trasferiti, per paura di nuove incursioni della magistratura, in Provenza. Qui nasce Stefano, il quinto figlio che non ha mai conosciuto i fratelli. La storia della pedofilia nella Bassa si ridimensiona e anzi in parte si sgonfia: don Giorgio Govoni, il prete travolto dall'inchiesta, muore nello studio del suo avvocato alla vigilia della sentenza che gli restituirà, postumo, l'onore. Delle fantomatiche messe nere non c'è traccia come pure dei bambini che sarebbero morti nel corso di spaventose cerimonie e tenebrosi sacrifici nel segno di Satana. Lorena si dispera e piange, arrivando a dire parole durissime. Di pietra: "I genitori che perdono un figlio hanno almeno una tomba su cui piangerlo. Io nemmeno quella. Non so dove siano, se mando una lettera mi torna indietro, se spedisco un regalo per il compleanno o il Natale me lo restituiscono. E ci poi tormentano con queste contestazioni devastanti". L'assoluzione arriva, finalmente, il 24 settembre 2010. Dopo dodici anni. Paradosso di una storia inguardabile, Lorena e Delfino non hanno fatto un giorno di galera. La giustizia ha tolto loro i figli e li ha sigillati nel dolore e nella sventura ma non è andata oltre. I quattro bambini sono diventati o stanno diventando uomini e donne. Ormai sono quasi tutti maggiorenni. E il legame con la famiglia d'origine non esiste più. È stato cancellato dai verbali, dagli interrogatori, dal clima avvelenato e dall' assoluta estraneità che si è creata ed è stata mantenuta nel tempo. Come davanti a un'epidemia e al rischio di contagio. Col divieto assoluto di comunicare fra i genitori accusati e i figli accusatori. E l'affettività sprangata nel modo più assoluto. Senza spiragli. Così sino alla fine. Fino a ieri quando la Cassazione, dopo un secondo giro in appello, fa calare il sipario. "Apprezzo il verdetto - dice Lorena Morselli al Giornale - ma alla mia infelicità di madre non c'è più alcun rimedio. Sarà felice Delfino che ormai è in cielo e poi c'è Stefano che vorrebbe incontrare i fratelli. Io ci ho provato ma loro non mi vogliono vedere. Li ho visti una volta sola in un'aula di tribunale e si sono girati dall'altra parte. È una situazione che non si può descrivere. Perché io sono rimasta a quella mattina di novembre: la colazione, i biscotti, le cartelle da preparare prima di andare a scuola". L'avvocato Cristina Tassi, che ha sempre difeso i coniugi, ora pensa al passo successivo: "Il danno esistenziale subito dalla signora Morselli è quasi incalcolabile. Presto faremo causa allo Stato". Catanzaro: muffa e ghiaccio, il detenuto balla nelle celle frigo di Sabatino Bavaglio Il Garantista, 3 gennaio 2015 È freddo il carcere di Catanzaro, non solo per il clima polare di questi giorni. È freddo non solo per i riscaldamenti che vengono accessi un'ora e mezza al mattino e un'ora e mezza alla sera. È freddo non solo per il tempo che scorre lento, con i detenuti che vorrebbero lavorare e come in tutte le altre carceri italiane lo possono fare solo in pochi, e quelli scelti sono quasi tutti coloro per i quali si avvicina il "fine pena". È freddo non solo per l'acqua che sgorga dai rubinetti di quelle cabine interne alle celle che sono al contempo bagno e cucina e che, almeno in alcuni reparti, scende fredda anche dalle docce comuni. Il freddo rigido è in quei gabbioni in cui i reclusi scorrono la loro "ora d'aria" camminando in fila per quattro, come una ronda, per riscaldare i muscoli e riattivare la circolazione. O talvolta in due coppie distinte, seguendo diagonali diversi, forse per un'empatia che manca tra le due coppie di detenuti. Ore d'aria trascorse all'interno di tre pareti alte, in cemento armato, e di una quarta la cui soluzione di continuità è rotta solo dal cancello di ferro da cui si entra e si esce in quei gabbioni venti metri per dieci. Ora d'aria a cui spesso i detenuti di Siano rinunciano preferendo restare all'interno delle loro celle. È freddo anche per gli operatori che sotto le divise di ordinanza indossano maglioni e sciarpe e che un tiepido sole del primo pomeriggio riscalda solo all'uscita, alla fine del turno. È freddo il rapporto tra quei numeri delle prestazioni sanitarie snocciolati da medici e dagli infermieri e quello dei mesi di attesa per un esame diagnostico o una visita denunciato dai detenuti. E c'è il freddo di chi deve dormire vestito, nelle celle umide, anche se imbiancate, quando stucco e vernici sono disponibili, dagli stessi detenuti per coprire le incrostazioni delle infiltrazioni d'acqua ed il verde delle muffe. I freddi numeri dicono che ci sono "solo" 547 ospitati a fronte di 545 posti, ma il dato della capienza utile alle statistiche del Ministero comprende anche i 72 posti dell'ultimo piano del nuovo padiglione, ancora non utilizzati. Non riscaldano gli spazi ristretti, nelle celle doppie o triple, in cui i "tre metri quadrati calpestabili" sono un'utopia. Scaldano poco gli animi le presunte "battiture" denunciate da un detenuto, che sarebbero opera di qualche agente di polizia giudiziaria, séguito di una agitata discussione con la moglie durante un colloquio. Qualche cenno di tepore è dato da qualche ergastolano che cerca ancora di dare un senso alla propria vita. Come un ritratto di Pasolini con una citazione sul pensare e l'agire appeso col nastro adesivo ad un'umida parete, che ricorda più un tazebao che non un post su facebook. E soprattutto come chi in modo artigianale, quasi casalingo, all'interno di una cella non più utilizzata, messa a disposizione dalla direzione, sta sperimentando un piccolo laboratorio di pasticceria. Piccoli segni dell'essere speranza più che avere speranza: lo spes contra spem ribadito, con frequenza di recente, da Marco Pannella. Parma: "Seguici, maleducato", poi lo picchiano… ecco le prove di Damiano Aliprandi Il Garantista, 3 gennaio 2015 Rachid Assarag ha registrato tutto: "mi avete picchiato, non potete negarlo". e gli agenti: "tanto comandiamo noi". È stato portato in isolamento, picchiato e lasciato senza cure. È l'ennesima denuncia shock che noi de Il Garantista riportiamo dopo aver contattato la moglie del detenuto che avrebbe subito il pestaggio. Ha avuto un contrasto con un agente penitenziario che lo avrebbe dovuto portare in infermeria. Mentre gli apriva il blindo gli avrebbe detto: "Andiamo maleducato". Il detenuto ha chiesto il perché di quell'insulto e ottenendo per risposta che se non ci fossero state le telecamere, "gliele avrebbe date". Poi sarebbero arrivati altri agenti, lo avrebbero portato in isolamento e lì lo avrebbero percosso. Questo è ciò che il detenuto ha denunciato alla moglie durante il colloquio telefonico durato dieci minuti. Le ha anche detto che non riesce a vedere bene da un occhio e che non lo vogliono portare in ospedale. Questo episodio sarebbe accaduto prima di capodanno all'interno del carcere di Sollicciano. Si tratta di Rachid Assarag, marito di Emanuela D'Arcangeli, che aveva registrato le voci di medici e agenti che avevano ammesso le violenze all'interno del carcere di Parma. Nella registrazione la guardia carceraria si lascia andare: "Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c'eri anche tu". Il medico del penitenziario è ancora più esplicito: "Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero. Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto le ha aggredite e l'agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusata i medici di omicidio e le guardie no. Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte. Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi". Rachid - durante la registrazione che aveva fatto di nascosto - non si fa problemi a parlare delle violenze che avrebbe subito e spiega sempre al medico penitenziario: "Io ho subito, mi hai visto che io ho subito la violenza". E il dottore risponde: "Certo, ho visto... quello che voglio dire, è che lei deve imparare a... a... abituare... sì, perché non può cambiare lei, come non lo posso cambiare io!". Ma Rachid non molla. Insiste. Vuole risposte per capire come muoversi, a chi far presente cosa non funziona. Il medico parla anche delle "protezioni" da parte della magistratura di cui godrebbero gli agenti. E cita il caso di Stefano Cucchi, il giovane arrestato per droga e morto in custodia cautelare una settimana dopo, vicenda finita con L'assoluzione al processo d'appello. "Ah, il magistrato è dalla parte di loro?", chiede Assarag. "Certo... in un caso di morte, in un caso di morte come quello di Cucchi, sono riusciti a salvare gli agenti e hanno inchiappettato i medici". Grazie a queste registrazioni - in seguito rese pubbliche - è partita un'ispezione interna da parte dell'Amministrazione penitenziaria e un'inchiesta è stata aperta dalla Procura. Per quiesto motivo Assarag è stato trasferito al carcere di Sollicciano. La moglie aveva inviato una lettera alla direttrice del carcere affinché gli garantisse protezione da eventuali ritorsioni. Emanuela D'Arcangeli tramite il suo blog "Carcere e Verità" sta intraprendendo una battaglia per combattere la situazione infernale del sistema penitenziario. Con una lettera pubblicata dal Garantista, aveva lanciato un invito a intraprendere una lotta che non tra detenuti e guardie "cattive", ma un fronte comune composto da familiari di detenuti, operatori e le stesse guardie penitenziarie che credono nel loro lavoro. In altre registrazioni, sempre messe a disposizione sul canale You Tube del blog "Carcere e Verità", ci sono colloqui con altre guardie carcerarie che ammettono di essere supini a uno spirito corporativo: non testimonieranno mai contro i loro colleghi. Quello che avviene in carcere resta chiuso tra quattro mura; una sola parola vige tra gli operatori penitenziari: omertà. L'invito di Emanuela è quello di combatterla. Ma a quanta pare non è bastato, e Rachid sarebbe stato picchiato, ancora. Ha deciso, quindi, di inviare una lettera - che noi pubblichiamo integralmente - alla dottoressa Maria Grazia Giampiccolo affinché si accerti della violenza che ha subito per prendere immediatamente provvedimenti. Lettera della moglie di Rachid al direttore del carcere di Sollicciano Cortese dottoressa Maria Grazia Giampiccolo, il mio nome è Emanuela D'Arcangeli e sono io moglie di Rachid Assarag, detenuto presso il carcere di Firenze Sollicciano, dal maggio di quest'anno. Le scrivo affinché lei porti la mia riconoscenza agli agenti che lunedì 29 dicembre non hanno accompagnato Rachid al pronto soccorso, dopo avergli procurato un ginocchio dolorante e un occhio pesto, da cui non riesce più a vedere. Lasciandolo poi in isolamento, dove non ha potuto parlare con le volontarie. C'è un gioco che si fa, quando si avvicina il Capodanno: ci si interroga su come sia andato un anno e su cosa ci si aspetta dall'altro, È un gioco infantile a cui mi ero prestata proprio dieci minuti prima di ricevere quella telefonata, in cui Rachid mi raccontava la sua mattinata di lunedì. Questo è stato un anno ricco di avvenimenti, alcuni gioiosi e altri spiacevoli, ma nel complesso mi era sembrato un "anno di semina". E per il 2015 ipotizzavo che quei semi gettati, potessero trasformarsi nel "raccolto" tanto atteso, se il tempo ci avesse dimostrato di aver seminato bene, Quella telefonata è arrivata a due giorni dalla fine dell'anno, giusto in tempo per essere l'ultimo seme del 2014, piantato nello stesso terreno degli altri. Aprile 2014: la faccia coperta di sangue di Rachid e le versioni discordanti fornite dal carcere di Prato, per trovare una spiegazione qualunque, che sollevasse il carcere stesso, da eventuali responsabilità. Giugno 2014: il suicidio di un ragazzo marocchino, proprio nel carcere di Sollicciano, Una morte che si sarebbe potuta evitare, se alle regole e alle rigide procedure, si fosse anteposta l'umanità. Settembre 2014: l'articolo su l'Espresso, con la notizia delle registrazioni audio raccolte da Rachid nel carcere di Parma. Violenza, omelia e abuso di psicofarmaci. Un inferno dove Rachid ha trascorso un anno e dove altre persone ancora patiscono lo stesso trattamento. Ottobre 2014: udienza del processo di Parma. I documenti audio vengono assunti come prova a favore di Rachid, accusato di resistenza a pubblico ufficiale, dallo stesso "gruppetto" di guardie, protagonista delle registrazioni. Dicembre 2014: l'ultimo seme. Quello piantato dagli agenti di Sollicciano, lunedì 29. Prima che lo dica chiunque altro, lo dico io: Rachid è ribelle, polemico e arrogante. "Non sei l'avvocato di nessuno!" Quindi se vedi un "male", taci. Questa era la lezione che aveva il dovere di imparare. Ma di fronte al "male", lui non solo ha parlato, ma ha agito. Questo ha fatto di lui un ribelle. Giorni trascorsi in ozio; assistenza medica minima; assistenza psicologica quasi inesistente; anticostituzionalità complessiva del sistema carcere. Parlare sempre di queste cose, ha fatto di lui una persona polemica. Pretendere rispetto dalle guardie, lo stesso che le guardie pretendono dai detenuti, ha permesso agli altri, di farlo apparire arrogante, se non violento. Tutto questo può scusare la violenza e le lesioni che ha subito? Sì. Se il carcere dovesse formare ubbidienti soldati, fedeli e sottomessi alla gerarchia militare. O se fosse solo un contenitore dove costringere le persone cattive, a passare inutilmente una parte più o meno sostanziosa della loro vita, aggiungendo alla pena, altre pene accessorie non previste dalla legge. Ma la verità è che la violenza è illegale e come tale, va denunciata, Sono riconoscente a quegli agenti, come può esserlo una completa idiota, perché hanno fatto quello che ci aspettavamo, ancora una volta. Ma a che prezzo Rachid pagherà il suo stare dalla parte della ragione, non lo so, perché non è stato nemmeno portato in ospedale! Dico queste cose a lei, come responsabile dell'istituto in cui si è consumata questa ennesima violenza, fiduciosa che vorrà saperne di più. Le porgo i miei più cordiali saluti, ringraziandola fin da ora per il suo interessamento. Roma: visita del capo Dap al carcere Regina Coeli. Fsn-Cisl: segnale di cambiamento www.romatoday.it, 3 gennaio 2015 Santi Consolo in qualità di nuovo dirigente del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria in vista all'istituto penitenziario di via della Lungara. "Un segnale di cambiamento". Così il segretario territoriale della Fns Cisl Lazio ha definito la prima visita del Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria effettuata al carcere di Regina Coeli in occasione del capodanno da Santi Consoli. "Un segnale importante - scrive il sindacato dei baschi azzurri - che dimostra un senso di sensibilità da parte del Capo Dap alle varie problematiche esistenti non solo nel carcere romano di Regina Colei ma anche negli altri istituti penitenziari laziali e non solo ma anche a quelle riferite al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria". Pochi giorni fa il neo Capo Dap aveva voluto rivolgere al personale il seguente saluto "Ho ritrovato una Amministrazione che vuole essere protagonista del cambiamento, di impegnarsi per conseguire importanti obiettivi. Voi tutti volete garantire una detenzione dignitosa, socialmente utile e sicura. Confido nell'alta professionalità della Polizia Penitenziaria della quale ho piena considerazione per i sacrifici, i rischi ed il senso di umanità che profonde nell'alleviare i disagi delle persone ristrette. Voi assicurate, nell'interesse dell'intero paese, il rispetto dei diritti umani non disgiunto da imprescindibili esigenze di sicurezza". Per la Fns Cisl Lazio detta visita appunto "rappresenta un cambiamento - scrive in una nota stampa il segretario territoriale Luigi Alfieri - che con la sua la professionalità, la preparazione e la grande serietà del magistrato siciliano che siamo sicuri può dare molto all'Amministrazione Penitenziaria". Palermo: denuncia Radicali "al carcere dell'Ucciardone freddo e poco cibo per i detenuti" di Sandra Figliuolo Giornale di Sicilia, 3 gennaio 2015 Da ieri il carcere non è più Casa circondariale: potrà ospitare solo condannati con pene definitive superiori a cinque anni. Da ieri l'Ucciardone non è più una casa circondariale, ma un istituto di reclusione e potrà dunque ospitare soltanto condannati con pene definitive superiori ai cinque anni. Ma nella vecchia struttura borbonica, accanto a piccoli e difficili tentativi di miglioramento (come la possibilità per i parenti dei detenuti di prenotare con una mail le loro visite o quella per i carcerati di stare fuori dalle loro celle dalle 8 alle 17) permarrebbero i problemi di sempre (come l'assenza di acqua calda e di riscaldamento) e se ne sarebbero aggiunti anche di nuovi, come quello legato alla quantità di cibo destinata ad ogni detenuto. Il quadro emerge dalla visita compiuta il 31 dicembre, nell'ambito del "Satyagraha di Natale con Marco Pannella", compiuta dai Radicali Donatella Corleo, Gaetana Gallina e Giannandrea Dagnino, assieme alla deputata nazionale del Pd Gea Schirò. "L'Ucciardone andrebbe chiuso come carcere - dice Corleo - e preservato invece come monumento: anche con tutto l'impegno della direttrice e del personale della polizia penitenziaria che vi lavora, la struttura non potrà mai essere davvero migliorata. Il problema - spiega ancora - non è tanto il sovraffollamento, quanto le condizioni strutturali del carcere. Nella quarta sezione, quella dei "definitivi", e nella nona, quella dei "protetti", che abbiamo visitato mancavano del tutto il riscaldamento e l'acqua calda. Ciò che più ci ha colpiti, però, è la scarsa quantità di cibo somministrata ai detenuti: per 21 persone appena un vassoio di medie dimensioni di sofficini. Alcuni reclusi, infatti, ci hanno detto apertamente: "Qui facciamo la fame". Infine, resta irrisolto anche il problema della pensilina esterna per consentire a chi viene a far visita ai detenuti di ripararsi dalla pioggia durante l'attesa". La direttrice dell'Ucciardone, Rita Barbera, non nasconde affatto i problemi atavici della struttura, ma - a differenza di Corleo - crede invece che il carcere possa essere, anche se con grandi difficoltà, migliorato. "In realtà - spiega la direttrice - i riscaldamenti sono presenti in una sezione e in un'altra sono in fase di completamento: al momento non vengono accesi anche dove potrebbero funzionare per non creare disparità tra i detenuti. Per quanto riguarda l'alimentazione, invece, vengono rispettate le tabelle del fabbisogno calorico definite dal ministero. La verità è un'altra: con questa crisi, la povertà che davvero dilaga, oggi i parenti dei detenuti spesso non hanno la possibilità di fornire loro cibo in più. Nel caso degli stranieri, poi, spesso non c'è nessuno all'esterno che possa aiutarli. Installare la pensilina all'esterno del carcere dipende invece dal Comune che, mi pare, ha già dato il via libera qualche mese fa". Non solo ombre, però: "Per ridurre al massimo le attese - aggiunge Barbera - abbiamo di recente avviato un sistema di prenotazione delle visite tramite mail e siamo stati uno dei primi istituti penitenziari a farlo". Inoltre, in seguito alla sentenza di condanna emessa nei confronti dell'Italia dalla Corte di Strasburgo per il sovraffollamento carcerario, i detenuti hanno la possibilità di passare la loro giornata, dalle 8 alle 17, fuori dalle loro celle. "Un modo per garantire spazi vitali più vasti", rimarca la direttrice. Al momento, comunque, all'Ucciardone non sono previsti ulteriori lavori di ristrutturazione. Nella serata di ieri, Corleo e Schirò hanno anche fatto una visita al Pagliarelli, dove avrebbero trovato una situazione "apparentemente più tranquilla - sottolinea ancora Corleo - ma dove sarebbe necessario potenziare il centro medico, visto che sono oltre mille i detenuti nella struttura". Genova: Rossi (Sel); il Reparto per i detenuti dell'Ospedale San Martino è un inferno La Repubblica, 3 gennaio 2015 Vita in gabbia, vita da detenuti. Alessandra Ballerini, avvocato da sempre in prima fila per i diritti dei migranti, e Matteo Rossi, consigliere regionale di Sel, visitano il reparto malati, il così detto "repartino", dell'ospedale San Martino ed escono con una fotografia desolante. "I detenuti, sette, rimangono a letto 24 ore al giorno. Al buio, perché la luce può accendersi solo da fuori e loro fuori dalla stanza non possono mai uscire, neanche per sgranchirsi le gambe", denuncia Alessandra Ballerini. L'aria nelle stanze è irrespirabile perché le finestre ci sono, ma possono essere aperte solo dalla polizia penitenziaria. "L'aria è così insana che lascia un gusto acre nella bocca". Un ragazzo giovane è disteso in mezzo a due detenuti più anziani e malati psichici. "Altri due hanno l'Hiv, sono più vicini alla morte che alla vita. Assolutamente incapaci di nuocere a nessuno, abbandonati lì da mesi, senza familiari, avvocati ne magistrati, che si prendano cura di loro - continua Alessandra Ballerini: sono persone che dovrebbero essere curate e invece giacciono qui attendendo la morte o la fine della pena". Le loro condizioni di salute non sono compatibili con la detenzione. "Se fossero benestanti, se avessero una famiglia che ci cura di loro, se avessero una casa, non starebbero qui, ma in una dimora, in una comunità o in altri reparti. La sensazione - conclude - è che questo sia l'ultimo girone: la discarica nella discarica. Per contenere gli ultimi degli ultimi". Alessandra Ballerini e Matteo Rossi non sono gli unici a denunciare le condizioni in cui vivono i detenuti. Al carcere di Marassi c'è stata l'ispezione di una delegazione composta da radicali e socialisti. "Patologie come Hiv o epatite C di cui sono affetti buona parte dei detenuti tossicodipendenti, sono totalmente incompatibili con il regime carcerario". La visita ha permesso di verificare che il sovraffollamento ha raggiunto picchi inaccettabili. "La media per ogni cella è di 89 detenuti, che dormono in letti a castello di due-tre piani. In ogni cella c'è un solo bagno per tutti, mentre le docce sono ancora in comune, cinque per ogni piano". La delegazione, accompagnata dall'onorevole Mario Tullo e dal senatore Claudio Gustavino, era composta da Michele De Lucia, tesoriere dei Radicali Italiani, da Deborah Cianfanelli, membro di direzione di radicali Italia, Marta Palazzi, segretaria dell'associazione Radicali Genova, da Angela Burlando del Partito Socialista Italiano di Genova, ha potuto anche vedere dei dati positivi. "Per esempio - scrivono - è stato organizzato un corso odontotecnico con laboratorio frequentato da 23 persone e un corso di grafica pubblicitaria frequentato da 20 persone". Il carcere dispone anche di una falegnameria, purtroppo inutilizzata per gran parte del tempo per mancanza di appalti, e di una panetteria, in cui lavorano solo 4 addetti. All'interno di Marassi viene svolto un laboratorio teatrale ed è in corso la costruzione di un teatro vero e proprio. Roma: Radicali; a Regina Coeli celle sovraffollate e un'assistenza sanitaria insufficiente www.romareport.it, 3 gennaio 2015 La provocazione del segretario di Radicali Roma: la politica si assuma la responsabilità di formalizzare ciò che viene tollerato tutti i giorni "Dopo le visite effettuate da me e da altri compagni di Radicali Roma a Rebibbia il primo dell'anno e a Regina Coeli, insieme a Marco Pannella e a Rita Bernardini, la vigilia di Natale, mi sento di poter affermare che la detenzione, ormai, è la più lieve delle pene cui vengono sottoposti i detenuti italiani: la vera sanzione che viene loro comminata per i reati che hanno commesso, infatti, è la tortura". Lo ha detto Alessandro Capriccioli, segretario di Radicali Roma, in merito alla situazione carceraria della Capitale. "La tortura delle vergognose condizioni igieniche cui sono costretti - ha continuato Capriccioli - dell'assistenza sanitaria insufficiente e lentissima, del sovraffollamento, della permanenza in carcere di persone gravemente malate che dovrebbero essere ricoverate in luoghi ben diversi, della mancanza di riscaldamento e di acqua calda, delle desolate e disperanti condizioni di vita nelle quali i detenuti di Rebibbia, così come altre migliaia di detenuti in tutto il paese, sono costretti a vivere. Una tortura che non è prevista dal codice penale e che tuttavia i reclusi italiani debbono subire quotidianamente e sistematicamente, nonostante l'impegno del personale penitenziario, nell'indifferenza generale, senza che alcuna voce si levi a denunciarla: tranne quella dei Radicali, che durante le festività si sono recati in carcere non soltanto a Roma, ma in tutta Italia, nell'ambito del Satyagraha di Natale". "Se così dev'essere, se la politica non intende porre fine a questo scempio con l'urgenza che merita, il Parlamento - ha concluso Capriccioli - si assuma la responsabilità di formalizzare ciò che viene impunemente tollerato tutti i giorni, e stabilisca per legge che in Italia chi commette un reato, per quanto lieve, è passibile di tortura. Sarebbe, perlomeno, un atto di verità. Salerno: segretario dei Radicali in sciopero fame per morte del detenuto Carmine Tedesco www.salernonotizie.it, 3 gennaio 2015 Il segretario di Radicali Salerno Ass. "Maurizio Provenza" Donato Salzano in sciopero della fame a sostegno del grande Satyagraha di Natale, condotto da Marco Pannella per "lo Stato di Diritto contro la ragion di stato, amnistia e indulto". Ma anche per chiedere il processo per il caso di Carmine Tedesco, detenuto deceduto nel novembre 2012 alla sezione detentiva dell'ospedale S. Leonardo, in circostanze ancora tutte da chiarire. La nuova velocissima richiesta di archiviazione del sostituto procuratore Roberto Penna, dopo la recente ordinanza della Giudice per le indagini preliminari Renata Sessa, che ne ordina appunto l'integrazione d'indagini. Queste ultime brevissimamente concluse, senza sentire ne testimoni, ne la parte lesa, con soltanto la solita perizia commissionata al perito della Procura il Dr Zotti. Le ragioni della lotta nonviolenta e gandhiana per lo Stato di Diritto e l'obbligatorietà dell'azione penale, contenute in una nuova opposizione all'archiviazione per la mancata ottemperanza alla richiesta d'indagini nell'ordinanza del Gip. Da qui la richiesta d'incontro al Procuratore della Repubblica di Salerno Corrado Lembo, affinché possa avocare a se il fascicolo, vista la chiara volontà del pm d'insabbiare e liquidare frettolosamente il caso scottante, così da assolvere finalmente alla richiesta espressa per iscritto dal Giudice. Ed ancora un incontro con Sua Eccellenza l'Arcivescovo di Salerno Mons. Luigi Moretti e con il Sindaco di Salerno On. Vincenzo De Luca, con il primo per dialogare di quali interventi urgentissimi possa programmare la Caritas Diocesana per alimenti, farmaci e indumenti in carcere, lì dove si trova la Chiesa di Papa Francesco, quella povera e per i poveri. Diversamente con il secondo nel suo ruolo di più alta autorità sanitaria in città, che possa convocare da subito il comitato che lui presiede, chiedere conto al direttore generale dell'Asl e quello dell'Ospedale San Leonardo, di quali Livelli Essenziali d'Assistenza (Lea) garantiti ai detenuti In fine richiesta analoga alla Presidente Maria Antonia Vertaldi del Tribunale di Sorveglianza di Salerno, inutile continuare ad aggiungere pena alla pena negando perfino i giorni di premialità del fine detenzione e senza rispondere alle richieste di risarcimento per i trattamenti inumani e degradanti Dichiarazione di Salzano: "il caso Tedesco come i casi Cucchi e del nostro compagno Mastrogiovanni, emblematici per la violazione dei trattamenti inumani e degradanti, ma se per i primi si è riusciti ad ottenere un processo, per il caso del ladro di biciclette di Montecorvino, la volontà del magistrato è quella di chiuderlo in istruttoria, forse perché la vita di un detenuto vale molto meno del tempo e della convenienza da dedicargli per un'indagine o addirittura di scomodare le cosiddette persone perbene. Pensare che l'ipotesi di reato è l'omicidio colposo, grazie e soltanto perché questo Parlamento d'irresponsabili non ha ancora deciso di approvare colpevolmente una legge che colpisca "la tortura", in violazione di ogni trattato internazionale. Il dialogo nonviolento per chiedere Stato di Diritto ed effettiva pratica dell'obbligatorietà dell'azione penale, per vestire gli ignudi e dare da mangiare gli affamanti, perché beati sono coloro che perseguitati a causa della giustizia, proprio di essi è il regno dei cieli. Ancora garantire i livelli essenziali d'assistenza sanitaria agli ultimi così da garantirli a tutti. Il male è banale quando non si garantiscono neanche più i giorni di premialità di fine pena e i risarcimenti per la tortura resa da questo Stato, come invece senso di umanità vuole, costituzione e trattati internazionali sanciscono. La fame di Diritto, di Verità e Giustizia di Marco Pannella, di oltre seicento tra compagni Radicali, detenuti e i loro familiari, nel dare forza a costoro che violano le leggi che loro stessi si sono dati, e la stessa di Anna Sammartino la vedova del sig. Tedesco, quando dice: "Mio marito era in custodia dello Stato e me l'hanno restituito morto". La speranza per lo Stato di Diritto è nei tanti magistrati onesti, rispettosi della divisione dei poteri, per fortuna ve ne sono ancora tanti, una di questi è sicuramente la nostra Renata Sessa, un Giudice a Berlino, Spes contra Spem!" Prato: oggi una delegazione dei Radicali visiterà l'Istituto penitenziario "La Dogaia" www.ilsitodifirenze.it, 3 gennaio 2015 Oggi, sabato 3 gennaio 2015, una delegazione radicale visiterà l'Istituto penitenziario "La Dogaia" di Prato: l'iniziativa rientra nella mobilitazione nazionale promossa dal Partito Radicale del "Satyagraha di Natale" che ha impegnato centinaia di cittadini in uno sciopero della fame per chiedere i provvedimenti di amnistia e indulto così come auspicati dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Alla manifestazione davanti al carcere in Via la montagnola 76 a Prato, parteciperanno anche Rosanna Tasselli, presidente dell'Associazione radicale "Liberamente Prato", Maurizio Buzzegoli, membro della Direzione nazionale di Radicali Italiani, e Vittorio Giugni, storico militante radicale pratese. Caserta: intervista a Domenico Letizia, anarco-pannelliano che lotta contro malagiustizia di Gianni Rubagotti www.clandestinoweb.com, 3 gennaio 2015 Queste vacanze di Natale molti radicali le hanno trascorse a modo loro, cioè andando a visitare le carceri italiane per lottare per lo stato di diritto nel nostro paese. Tra di loro anche lo scrittore (è autore di "Storia della Lega Italiana per il Divorzio") Domenico Letizia, segretario dell'Associazione Radicale Legalità e Trasparenza di Caserta ma con una interpretazione originale del pensiero di Pannella. Ti definisci "anarchico liberale libertario e liberoscambista", cosa significa? La mia formazione filosofico-politica è di matrice anarchica. Sono per l'abolizione di tutte le forme di coercizioni esistenti a partire dalle istituzioni statuali. Il grande paradosso dell'anarchismo, più di quello europeo che americano, ritengo sia quello di definirsi "comunista", poiché il pensiero anarchico dovrebbe a priori definirsi "liberale", ovvero, aperto a tutte le visioni della società che non arrecano violenza e "liberoscambista" poiché lo spontaneismo sia del vivere sociale sia dello scambio appartiene all'individuo senza alcun bisogno di "legge" che impone il come muoversi nel contesto sociale. Le istituzioni pretendono di essere obbedite. Ma perché si deve obbedire al potente? Questa è la domanda che si pone il libertario. Come mai avendo queste convinzioni militi nei radicali e sei impegnato nell' Associazione "Legalità e Trasparenza", Radicali Caserta di cui sei segretario? Ritengo validissima la formulazione teorica dell'avvocato (nonché mio "maestro") Fabio Massimo Nicosia che guarda al radicalismo come linea di percorso che dal liberalismo conduce all'anarchismo. Il vero obiettivo, oggi, per i libertari è riuscire ad applicare concretamente le analisi che Nico Berti ha riportato in un suo magnifico libro, intitolato: "Libertà senza Rivoluzione", ovvero, riuscire con il metodo nonviolento ad andare oltre la democrazia, non contro, e oltre il capitalismo, non contro. Il radicalismo con la sua enorme portata intensamente libertaria, di sovranità individuale e di tutela dei diritti umani e quindi diritti individuali è il percorso da intraprendere per l'affermazione della sovranità dell'individuo contro tutti i dogmi e le imposizioni sociali. La vita stessa di Marco Pannella è un percorso di libertà concreta lontana dai poteri costituiti. Cos'è il Satyagraha dei radicali sulla giustizia? Come mai usare questa parola straniera? "Noi siamo diventati radicali perché ritenevamo di avere delle insuperabili solitudini e diversità rispetto alla gente, e quindi una sete alternativa profonda, più dura, più "radicale" di altri. Noi non "facciamo i politici", i deputati, i leader … lottiamo, per quel che dobbiamo e per quel che crediamo. E questa è la differenza che prima o poi, speriamo non troppo tardi, si dovrà comprendere". Il Satyagraha è il percorso di conoscenza e azione che conduce alla verità, alla luce della verità, il metodo gandhiano e quindi nonviolento e per questo estremamente incisivo in un contesto sociale animato da violenza diretta e indiretta. Il Satyagraha sulla giustizia è il metodo d'azione per l'affermazione dei diritti umani e civili di tutta la comunità penitenziaria, la proposta del diritto come priorità di una sana democrazia contro la forza della ragion di stato e del potere imposto. La problematica della giustizia, anche in un territorio particolarmente problematico come il casertano è una necessità da affrontare e risolvere. Perché come Radicali Caserta avete passato queste vacanze occupandovi delle condizioni dei detenuti nella vostra zona? Perché siamo davvero di "estrema sinistra", quella sinistra libertaria che ha a cuore gli ultimi del sistema sociale, quelli in fondo alla gerarchia sociale, abbandonati da tutti e rinnegati poiché colpevoli di "abuso" nella società. La funzione di un sistema sociale dovrebbe essere quella di riuscire a reinserire nel contesto sociale, preservando la libertà, ogni individuo, anche se ha sbagliato. Una volta capiti e compresi i propri errori, ritornare a vivere per la libertà propria e altrui. L'attuale sistema è la perpetuazione della violenza e la violenza genera violenza. Ci sono altre forze politiche che vi hanno aiutato? Qualcuno ci segue sia nel campo del centrodestra che tra le fila del Partito Socialista Italiano. In genere, mancano alle nostre iniziative i militanti e i dirigenti del Partito Democratico. Che situazione avete trovato negli istituti che avete visitato? La situazione degradante per la dignità umana che da tempo denunciamo. Ogni istituto ha delle specifiche problematiche legate al sovraffollamento, alla burocrazia, alla mancanza di sanità in carcere e alla non presenza del magistrato di sorveglianza che dovrebbe seguire il detenuto nelle sue richieste. Ritengo necessaria l'istituzione del Garante provinciale dei detenuti di Caserta. Una battaglia che speriamo possa condurre a qualche risultato. Cosa rispondi a chi è contrario alla proposta radicale di Amnistia dicendo che così si liberano i delinquenti e non si ha la certezza della pena? Semplicemente di contattarci e venir con noi a visitare un istituto penitenziario, partecipare ad un sit-in con i parenti dei detenuti e dopo possiamo discutere dell'Amnistia, penso però che dopo il percorso si sia cambiata idea. Come anarchico consideri l'istituzione carceraria necessaria oppure sei aperto a una discussione sul suo superamento? Il sistema penitenziario attuale ha fallito. Le carceri vanno abolite. Il suo superamento è una priorità non rinviabile. Non condivido la proposta "libertarian" di voler istituire carceri private poiché non è nient'altro che affidare ai privati il sistema istituzionale della giustizia dello stato. Oggetto di serio dibattito dovrebbe essere il superamento delle carceri con strutture simili di più alle "case famiglia", rieducare, comprendere e far comprendere, non distruggere e reprimere. Tutto qui. Conosci il film di Ambrogio Crespi su Tortora? Sì, un documentario degno di essere compreso, visto e rivisto su uno dei casi più scandalosi della storia contemporanea italiana. Inserirei la discussione e l'analisi di tale docufilm come esame in ogni facoltà di giurisprudenza in Italia. Milano: i ragazzi dell'Ipm Beccaria imparano a produrre e a vendere il loro pane di Zita Dazzi La Repubblica, 3 gennaio 2015 Nel negozio di piazza Bettini lavoreranno a turno i detenuti del carcere. Fino a oggi il laboratorio sfornava prodotti che si consumavano in istituto. Il promotore del progetto: "Così i giovani si rimettono in gioco". Ripartire dalle cose semplici, dalla fatica fisica, dall'emozione di fare una cosa buona con le proprie mani e vedere che questa cosa diventa anche un lavoro. Onesto. È questa la sfida che stanno affrontando i ragazzi del carcere minorile Beccaria che da gennaio produrranno pane fresco e lo venderanno in un negozio vero, esterno alla struttura dove scontano la loro pena, un panificio che aprirà in piazza Bettini 5, in zona Bisceglie, a pochi passi dall'istituto penale di via Calchi Taeggi. In due alla volta, la mattina usciranno dalla cella per mettersi addosso un grembiule da panificatori ed andare al forno. Poi si metteranno dietro al bancone a servire i clienti. Una bella prova di concretezza ed umiltà, per cominciare a vivere su basi diverse, sfruttando le cose imparate dentro al Beccaria, dove da anni si tiene un laboratorio di panetteria. È il progetto "Buoni dentro" voluto dalla direttrice del carcere Olimpia Monda e da Claudio Nizzetto, della fondazione Eris. Un intervento di formazione partito grazie al supporto di Enaip (l'ente di formazione professionale delle Acli) e dell'Associazione Panificatori di Milano. La novità è che da gennaio, i pani, le pizze e i dolci non verranno più solo consumati direttamente dentro al carcere, ma anche venduti al pubblico sia presso la cooperativa Coafra della Cascina Nibai di Cernusco sul Naviglio, sia nel nuovo negozio di piazza Bettini. L'intervento è stato lodato anche dal presidente del Tribunale dei minori Mario Zevola che ha parlato di "concrete possibilità di integrazione e opportunità per sviluppare le capacità personali" come "occasioni di recupero reale dei giovani detenuti". Nel negozio saranno impiegati due ragazzi per turno, mentre il laboratorio interno al Beccaria ne forma altri due, per un periodo di circa sei mesi, cercando a rotazione di coinvolgere il maggiore numero di ospiti alla volta. "Il lavoro artigianale, presso un maestro di bottega, diventa un motivo di cambiamento, in un contesto di vita vera. I ragazzi si mettono in gioco in un ambiente pulito dove si dà loro fiducia, ruolo, obiettivi - spiega Nizzetto. Il solo percorso formativo tradizionale non riesce ad accendere la curiosità e la voglia di rimettersi in gioco. Il lavoro è la chiave della rinascita". Ed è chiaro che la sfida è mettere i giovani che facevano le spaccate alle vetrine a maneggiare soldi e scontrini, in un'ottica nuova. Per chi è finito dentro per furto o spaccio "ricevere gli incarichi dal "mastro di bottega", gestire gli ordini dei clienti e la cassa in modo onesto, è un'esperienza di vita vera, la prova che si può vivere in un altro modo", aggiunge don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria. Il progetto punta sulla fiducia e sulla relazione, sull'apprendimento pratico. Nizzetto parla dell'"autostima" che dopo la fase della "trasgressione e dell'illegalità dimostra a chi è finito in cella che si può essere anche altro: dalla rilettura del proprio passato c'è un'ipotesi di futuro costruita nel presente con relazione con un "maestro". L'esperimento coinvolgerà sia ragazzi del Beccaria, sia giovani adulti, reclusi a San Vittore perché hanno compiuto altri reati o superato la maggiore età, ma devono ancora finire di scontare la pena. Fra questi anche John, che ha frequentato il laboratorio: "Molti di noi sono i recidivi, ma un cambiamento è possibile quando ti accorgi di essere ancora valorizzato. Se si ricreano relazioni di fiducia e la speranza di qualcosa di bello per il futuro, diventa una nuova opportunità. E non ce la lasciamo scappare". Parma: Mattiello (Pd); il sistema di videosorveglianza del carcere è a rischio di black-out Ansa, 3 gennaio 2015 Un appello al ministro della Giustizia Andrea Orlando perché disponga al più presto un intervento al supercarcere di Parma dove il sistema di videosorveglianza e videoregistrazione è costantemente a rischio black-out, è arrivato dal deputato Pd Davide Mattiello, componente delle Commissioni Giustizia e Antimafia. Mattiello, il 30 dicembre scorso, aveva incontrato nel carcere di Parma, dove sono detenuti mafiosi di calibro, il presunto capo del sodalizio Roma Capitale Massimo Carminati detenuto in regime di 41/bis, il carcere duro. In quell'occasione era emerso come il sistema elettrico del carcere non sia adeguato a reggere il carico di tensione del sistema. "La direzione del carcere - spiega oggi Mattiello - ha fatto richiesta per avere otto gruppi di continuità che garantiscano il funzionamento del sistema ma non ha ricevuto risposta. Sono passati tre giorni e non è successo nulla. Questa condizione rende ancora più stressante il lavoro degli operatori di polizia penitenziaria: il sistema può andare in tilt da un momento all'altro ma non si sa mai quando e per quanto tempo. Quando il sistema va in black-out - conclude il parlamentare - l'unica modalità per garantire la sicurezza è il controllo a vista da parte degli agenti e in particolare del Gom per quanto riguarda il 41bis". Di qui l'appello al ministro Orlando perché disponga al più presto l'intervento. "Da parte mia continuerò a seguire la situazione", assicura l'esponente del Pd Tempio Pausania: "prima" di successo teatro in carcere, reciteranno anche detenuti-attori di Giuseppe Pulina La Nuova Sardegna, 3 gennaio 2015 È parte integrante del carcere, ma sarà uno spazio dedicato all'interattività e al dialogo. È questa la mission che dovrà compiere il Teatro dello Scambio, la nuova, capiente e ospitale struttura che è stata realizzata all'interno della casa circondariale di Nuchis. Un progetto impegnativo, che deve molto alla lungimiranza della direttrice dell'istituto, Carla Ciavarella, e che il territorio sembra avere compreso e deciso di condividere. Ecco perché l'inaugurazione del teatro del carcere ha fatto registrare una grande partecipazione di pubblico. Il tutto esaurito, si direbbe in questi casi, come a propiziare un crescendo di successi per un progetto che, nato all'interno della struttura carceraria, ne proietterà oltre i muri l'immagine. Un po' come ha sostenuto il vescovo, monsignor Sebastiano Sanguinetti, che, benedicendo il teatro, ha definito questo "un luogo d'incontro e di crescita umana, sociale e culturale". Un luogo che, come ha riconosciuto anche il sindaco Romeo Frediani, catalizza l'impegno di tante persone, tra le quali Alessandro Achenza, fondatore e direttore della Compagnia Stabile del Teatro dello Scambio e presidente di Trait d'Union, l'associazione che, grazie anche all'importante contributo del Comune di Golfo Aranci, ha portato a termine la realizzazione della struttura. "La Compagnia e il teatro - ha dichiarato la direttrice Carla Ciavarella - sono sogni che si avverano grazie alla donazione di Golfo Aranci e del suo sindaco, Giuseppe Fasolino, e di Alessandro Achenza, che io, un anno e mezzo fa, ho forzatamente reclutato". E proprio Achenza ha spiegato il perché del nome dato alla struttura: "Lo abbiamo voluto chiamare Teatro dello Scambio perché, come diceva Balzac, bisogna imparare ad arricchirsi delle reciproche differenze e capire che ognuno di noi può fare tesoro dell'esperienza di vita di tutti, anche di chi ha commesso degli errori". Uno scambio vero e proprio è poi quello che si è materializzato sul palco, dove tre bravi e promettenti attori della compagnia del carcere hanno dato vita, insieme ad altri attori del "Contenitore delle arti", alla più autentica magia del teatro: quella che porta lo spettatore ad immedesimarsi nelle vicende rappresentate, perché il teatro che racconta la vita, quando è ben fatto, non si separa mai del tutto da questa. E, allora, bravi tutti: da Achenza, regista e attore, sempre attento a dettare i tempi giusti e a imbeccare la battuta mordace, a Elena Frau, Lina Sias, Licia Azara e Fausto Pischedda. All'altezza del compito e a loro agio in ruoli che per loro erano del tutto nuovi si sono dimostrati anche Giuseppe Bottone, Carmelo Guidotto e Vincenzo Fasano. Ma dietro le quinte sono stati in tanti a dare una mano come Antonio Padovano e Mirko e Mauro nella cabina di regia. Il 3 gennaio si replicherà ancora una volta con l'ingresso libero per tutti. Nuovi "scambi" potranno consumarsi e, come auspica Carla Ciavarella, il teatro del carcere potrà diventare sempre più uno degli spazi culturali della città e della Gallura, come un ponte da attraversare sempre più frequentemente. Milano: teatro e carcere, la realtà vista attraverso gli occhi di un clown www.quartaparetepress.it, 3 gennaio 2015 Proseguono le interviste di QuartaParete nell'ambito dell'inchiesta finalizzata a conoscere meglio gli operatori culturali che svolgono attività all'interno delle istituzioni carcerarie. È la volta di Bano Ferrari. Clown, docente universitario, scrittore, regista ed esperto in attività pedagogiche, nonché vincitore di diversi premi internazionali tra i quali l'Unicef 2001 come "Esperto qualificato nel recupero dei minori in difficoltà", Bano Ferrari, nel 1978, fonda il gruppo dei Barabbàs clown grazie all'incontro con i ragazzi del Centro salesiano di Arese, ex sede distaccata del penitenziario minorile Beccaria, rilevato dai salesiani negli anni Cinquanta e trasformato da centro detentivo in centro educativo per la valorizzazione della personalità e lo sviluppo della formazione dei minori a rischio. Ecco cosa ci ha raccontato della sua esperienza ultraventennale. Cosa significa per Lei essere un clown? Essere un clown e non fare il clown. Il clown è sì una tecnica ma, per me, è una condizione dello spirito, è un modo di guardare la realtà riservandosi sempre la possibilità di spostare il punto di osservazione, dando così la possibilità di scoprire l'inaspettato. Il clown ha il suo habitat nel circo. Cosa accade quando viene trasportato in altri contesti? Il clown nasce nel circo, anche se è presente, sotto altre forme, in tutta la storia del teatro. Nel circo ha trovato la sua collocazione naturale, lì è maturato, è cresciuto e ciascun interprete ha saputo trovare una strada originale che lo rendesse unico nell'eterno gioco tra "bianco" e "augusto". L'emigrazione, graduale del clown dal contesto circense al teatro e poi, di conseguenza, anche fuori dal teatro in contesti di "sofferenza" inizia negli anni ‘70. È importante sottolineare che, uscendo dal circo, il clown perde la connotazione iconografica tipica, ma non perde assolutamente lo spirito, la sua capacità di inciampare nella realtà, di mostrare i limiti dell'essere umano, di sorprendersi e stupirsi: capacità di apertura e di ascolto e relazione con l'altro. Nell'ambito dell'istituzione carceraria la sua attività può aiutare i detenuti a guardare il mondo con occhi diversi? Credo che questa capacità sia sotto gli occhi di tutti: il clown ti offre la chiave per poter aprire questa porta, per rendere più leggera e sopportabile la vita in un luogo di sofferenza come può essere un carcere, senza però perdere tutta la drammaticità della situazione. Come nasce la compagnia Barrabàs clown e perché questo nome? Il nome "Barabbàs" deriva dal fatto che in dialetto milanese i giovani delinquenti erano chiamati "barabitt" cioè piccoli Barabba, questo riferimento ci era piaciuto molto perché riusciva a mettere insieme due segni opposti e inaspettati : la vita ai margini della società quindi la sofferenza e il riso. La compagnia nasce al termine del mio servizio civile, come obiettore di coscienza, svolto dal 1977 al 1979 presso l'Istituto Salesiano di Arese che ospitava minori in difficoltà. L'incontro tra la figura del clown e questi giovani è stato sorprendente. L'"augusto" era ed è (l'esperienza continua tuttora) il loro eroe. Si identificano con questa figura di clown che è "out" fuori dalle regole, non accetta il potere, inciampa e si rialza, viene bastonato, deriso ma continua a mostrarci tutte le debolezze umane con candore, suscitando magari non la risata ma il sorriso. Lei ha lavorato in alcuni istituti penitenziari. Come viene percepita l'attività di clownerie? Quali sono le difficoltà iniziale con cui deve scontrarsi? Portare il clown dentro gli istituti di pena si scontra molto spesso con l'idea sbagliata e superficiale che il clown sia qualcosa adatto ai bambini, uno sciocco un pasticcione ma allo stesso tempo la bellezza sta nel fare scoprire che il clown è questo incredibile equilibrista del disequilibrio che può raccontare cose terribili con leggerezza, magari non suscitando il fragore di una risata ma il sussurro di un sorriso e una stretta allo stomaco. Ha mai realizzato spettacoli in cui erano coinvolti detenuti? Ho realizzato due spettacoli con i detenuti : il primo nel 1996 con i detenuti del carcere di S. Vittore, percorso che è durato sei mesi di incontri e allestimento dello spettacolo, l'altro nel 2011 con i detenuti del carcere di Opera dopo un mese di laboratorio sul clown. Mi viene spontaneo parlare dell'esperienza più lontana perché più lunga articolata e complessa. Entrato in carcere con un progetto sponsorizzato dalla Regione Lombardia e curato dall'Università Cattolica e dal Crt mi sono trovato subito immerso in una serie di richieste pressanti, da parte dei detenuti, sulla necessità di raccontare, attraverso lo spettacolo, tutta l'assurda e disumana vita carceraria che li schiacciava inesorabilmente. All'inizio sembrava loro assurdo che io fossi un clown e che intendevo lavorare con loro utilizzando il modo di pensare ed agire tipico di questo personaggio. Per i detenuti appariva talmente lontano questo linguaggio che non intravedevano possibilità alcuna di centrare il loro obiettivo. Per raccontare una tragedia è necessario mettere in scena la tragedia stessa con un linguaggio e con le tinte necessari classicamente ad esprimerla. Lentamente ma inesorabilmente sono rimasti colpiti ed hanno scoperto quanto può essere "tragico" un clown e quanta efficacia abbia la "leggerezza" che ferisce, denuncia ed urla. Così è nato Aria, spettacolo d'evasione dove raccontavamo una giornata tipo nel carcere e denunciavamo, facendo sorridere, il sovraffollamento, l'affettività negata, i tentativi di suicidio i rapporti umani distorti dall'assenza stessa dell'umanità. Alla fine dello spettacolo veniva lasciata in scena la copia manichino di ogni attore che se ne andava canticchiando tra il pubblico. Nel 2007 ha ricevuto il premio Unicef come "Esperto qualificato nel recupero dei minori in difficoltà". Secondo Lei quanto può essere utile l'attività teatrale per le persone cosiddette "difficili" e, in particolare, per i detenuti? Oltre alle particolarità del lavoro del clown che ho già sottolineato in precedenza, vale la pena di riflettere su altri elementi messi in atto da questa esperienza. Innanzitutto il clown porta ad una profonda conoscenza di sé, a "volerti bene" a conoscerti anche negli aspetti meno piacevoli della tua personalità, ad imparare la pazienza, l'apertura verso l'altro, l'ascolto, la collaborazione, impari a non dare nulla per scontato, tieni sveglia l'attenzione e l'immaginazione, perdi tempo e scopri la bellezza dell'essere inutile, cadi, inciampi ma sempre pronto a rialzarti per ricominciare. Inoltre, utilizzi linguaggi a volte dimenticati come quelli del corpo. Catanzaro: "L'ora d'aria", i detenuti-attori rappresentano una commedia di Mario Sei www.infooggi.it, 3 gennaio 2015 In scena questo pomeriggio presso la Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro i detenuti-attori con la commedia, scritta apposta per loro, dal titolo "L'ora d'aria", ideata e diretta da Mario Sei, autore e regista di diverse commedie teatrali nonché assistente volontario presso il carcere di Catanzaro (Siano). Bravi, disinvolti e molto professionali i detenuti che hanno divertito ma soprattutto regalato tanti momenti di riflessione ai compagni presenti, ai loro familiari e ai tanti ospiti, tra cui tutti gli attori della compagnia nota come Teatro 6 "piccola fucina teatrale". Simpatica e divertente questa commedia che riserva nel finale, momenti struggenti, grazie alla lettera di uno dei quattro figli della coppia (protagonista di questa commedia) che si ritrova in carcere Questo figlio scrive ai genitori una lettera intensa in cui racconta la sua vita dentro il carcere, la sua capacità e volontà di riprogettare la propria vita, l'incontro con altri detenuti, la possibilità di leggere tanto, di studiare, di conseguire il diploma. La possibilità per lui di comprendere il valore della vita. Scrive del valore della libertà, della bellezza di poter camminare a testa alta… tutto ciò che a lui è stato in qualche modo negato per colpa di scelte scellerate e sbagliate. Una commedia quindi bella ed intensa che ha permesso in questi 5 mesi ai detenuti di comprendere, oltre alle tecniche base, un nuovo modo di stare insieme, di portare avanti un vero e proprio gioco di squadra, ma anche a riflettere sul proprio stato di detenuto. Certamente il carcere è e deve restare un luogo di detenzione ma non sono (come si dice nella lettera che perviene ai due poliedrici genitori) dei vuoti a perdere, non devono essere oggetto di emarginazione o oggetto di pregiudizi sterili. Devono essere, per quanto possibile, si detenuti, ma ancor prima uomini, con le loro storie, fatte anche di umanità, di carità, di speranza. Non bisogna giudicare, l'unico giudice è Dio, dice il figlio nel testo della lunga lettera. Il teatro quindi in questo caso ha svolto anche un ruolo pedagogico, rieducativo e quindi non solo un momento ludico, un diversivo, ma molto di più e la dimostrazione è stato l'apprezzamento dei tanti presenti e la visibile commozione. Quello di oggi quindi ha riassunto un viaggio-percorso durato alcuni mesi, caratterizzato da momenti di determinazione, di entusiasmo, di passione, di impegno, ma anche di qualche momento naturale di scoraggiamento e di paura di non farcela. Oggi pomeriggio però hanno dimostrato di essere capaci di esprimere un'autenticità raramente rinvenibile in un professionista, una spontaneità e un'immediatezza che si fa evidente nei lapsus, negli scherzi, negli approcci e quindi di farcela. Hanno tirato fuori la stessa genuinità che possiede probabilmente qualunque uomo della strada, dal momento in cui si trasforma in "attore", in quanto, il detenuto anche se recita "dentro", è il frutto di un "fuori", che non può essere dissolto solo perché segregato e nascosto. La differenza diventa la forza e la magia del teatro in carcere, e si manifesta nel carico di "energie" che viene riversato sulla scena, un condensato di sofferenza e frustrazione, ma anche di desiderio di riprovarci. Recitare, incontrarsi, conoscerci, ha permesso loro il libero flusso di emozioni e sentimenti rimossi e repressi dalla contenzione carceraria e li ha spinti alla cooperazione, alla collaborazione, allo scambio con gli altri, al gioco di squadra. La sensazione che è stata colta e che appare più forte è stata che i detenuti hanno colto il messaggio di provare perlomeno a migliorare la loro dimensione in cui essi vivono, operando con modalità opposte dove è contenuta, collettive anziché individualizzatrici, coinvolgenti anziché segreganti, portatrici di arricchimento affettivo e artistico. Fare teatro può significare che l'uomo della pena riscatti temporaneamente il suo "involontario" isolamento, smettendo di mimetizzarsi, iniziando a narrare, a narrarsi. Come qualcuno ci ha lasciato detto " fare teatro in carcere riesce ad avere senso soltanto quando il teatro stesso se ne avvantaggia: non quando resta prigioniero". Molto bella la presenza di un ex-detenuto, uscito lo scorso mese di novembre e che comunque è venuto apposta, da uomo libero, a prendere parte alla rappresentazione, nel ruolo di vecchio e saggio nonno. Molto emozionante la presenza dei congiunti dei detenuti-attori che hanno potuto prendere parte a questa intensa giornata che resterà certamente nella mente dei detenuti, delle famiglie e degli ospiti. Consegnata dal regista una pergamena ad ogni singolo detenuto-attore , un attestato di attore provetto, sul retro una bella dedica, ispirata ad una nota poesia di Madre Teresa sulla speranza, quella speranza che non deve essere mai perduta. La direttrice della struttura Dr.ssa Angela Paravati che per prima ha creduto in questo progetto di Mario Sei ha espresso parole di grande soddisfazione, auspicando che all'interno della struttura possa nascere un teatro stabile ed ha espresso parole di apprezzamento nei confronti dei detenuti-attori che sono stati capaci di regalare divertimento e tanti momenti di riflessione. Consegnata al regista ed all'educatrice Dr.ssa Di Filippo una pergamena con una dedica dei detenuti attori sulla loro bella esperienza teatrale, ma ancor prima esperienza di vita. Belgio: detenuto da 30 anni chiede e ottiene l'eutanasia, sarà ucciso l'11 gennaio www.informazione.it, 3 gennaio 2015 Per la prima volta un detenuto in Belgio ha richiesto e ottenuto di essere ucciso sottoponendosi all’eutanasia. Frank Van Den Bleeken, internato in una prigione da quasi 30 anni per vari reati sessuali, sarà ucciso domenica 11 gennaio presso la prigione di Bruges. L'uomo di 51 anni stupratore seriale e assassino, recidivo e conscio di esserlo aveva chiesto al ministro della Giustizia belga di essere mandato in un centro di cure specializzato in Olanda o, in alternativa, di essere ucciso con l'eutanasia. Frank Van Den Bleeken è seguito da diversi anni da psichiatri, ed è rinchiuso in un carcere belga, in isolamento per 23 ore al giorno, senza ricevere, a suo dire, le cure che la sua malattia mentale richiede. Tutti gli esperti dicono che egli è malato di mente e soffre gravemente per la sua detenzione. È inoltre consapevole che senza adeguata terapia, egli rimane un pericolo per la società. È quindi arrivato anche il via libera dei sanitari all'eutanasia dell'uomo, soddisfacendo così tutti i criteri previsti dalla legge belga entrata in vigore nel 2002 e rivista quest'anno introducendo il diritto alla "dolce morte" anche per i bambini. Nell'arco di 12 anni, sono sempre di più i belgi che hanno fatto ricorso all'eutanasia, in grande maggioranza fiamminghi. Solo nel 2013, il numero di persone che ha deciso di porre un termine alle loro sofferenze è stato del 27% più alto rispetto al 2012, raggiungendo il record di 1.807 casi. Insomma, per Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, da quando il Belgio ha legalizzato l’eutanasia, nel 2002, la sua applicazione si è gradualmente estesa. con l’inclusione dei bambini fra le categorie che hanno “diritto” ad esigere un’iniezione che metta fine alla loro vita. Uno studio pubblicato dall’associazione dei medici canadesi ha evidenziato che un terzo dei casi di eutanasia nella regione fiamminga del Belgio sono stati portati a termine senza l’esplicita richiesta del paziente, poiché questi era inconscio o affetto da senilità tale da non poter dare il suo consenso. In quei casi a decidere la morte del paziente è stato il suo medico. Ancora più allarmanti sono i casi in cui è un infermiere ad amministrare l’iniezione letale. In quelle circostanze, in tutto il Belgio, la percentuale di morti senza esplicito consenso sale al 45%. È stato lo stesso studio a concludere che i dati confermano la presenza di "gruppi di pazienti vulnerabili a rischio di finire la loro vita prematuramente contro la loro volontà". Siria: cooperanti italiane rapite, un rischioso finale di partita di Renzo Guolo Il Centro, 3 gennaio 2015 Eccole, le ragazze italiane rapite nei dintorni di Aleppo in Siria lo scorso luglio. Compaiono in un video messo in Rete, avvolte nell'abaya, il lungo velo nero che copre testa e capo, diffuso originariamente nel Golfo e poi esportato dai gruppi islamisti nel resto del Medioriente sunnita. Nel breve, drammatico, messaggio, le due volontarie, provate in volto e nel corpo, si dicono in grave pericolo. Potremmo essere uccise, affermano facendo appello al governo italiano e ai suoi mediatori perché possano essere riportate a casa prima di Natale. Un video, ma ancor più, parole, seppure eterodirette, che confermano come sia in corso una trattativa, e che, come rivendica dopo la "scoperta" nel web del filmato la stessa organizzazione che le tiene in ostaggio, Greta e Vanessa non sono nelle mani dell'Is ma del fronte Al Nusra, al quale sarebbero state cedute dopo il sequestro da parte di predoni ribelli. Carcerieri non certo meno duri, ma che almeno sin qui, non hanno seguito le tremende pratiche "rituali" messe in atto da John il Boia e dagli altri membri del famigerato circuito penitenziario dello Stato islamico. Il gruppo guidato dallo sceicco siriano al Golani, non ha decapitato ritualmente ostaggi occidentali. Al Nusra aderisce a Al Qaeda e non all'Is. E la leadership qaedista, memore dell'isolamento in cui si era venuto a trovare in Iraq il gruppo di Zarkawi, con il suo stragismo, le sue brutali azioni nei confronti degli altri gruppi confessionali, le sue macabre esecuzioni rituali, ha imposto una linea che non si prestasse a reazioni di rigetto. Al di là delle differenze strategiche - i qaedisti prediligono il Nemico lontano, l'Is quello vicino -, questo atteggiamento è divenuto una discriminante tra i due gruppi. Una linea "nazionale", dovuta al fatto che Al Nusra è ormai composto prevalentemente da siriani, inevitabilmente più attenti alle dinamiche e alle relazioni locali. La necessità di garantire flussi di finanziamento, è divenuta per Al Nusra una priorità dopo che gli Usa hanno sollevato con forza la questione di individui e organizzazioni non governative del Kuwait che foraggiano il Fronte al-Nusra e altre organizzazioni estremiste in Siria. Monetizzare la presa di ostaggi, permette di colmare, almeno parzialmente, gli introiti mancanti. Anche perché l'espansione dei rivali dello Stato Islamico, verso il quale al Nusra, che pure è stato a lungo il gruppo militarmente più efficiente nella lotta a Assad tanto da svuotare le fila dell'Els, i ribelli non islamisti, ha subito a sua volta un'emorragia di combattenti stranieri nei confronti del gruppo di Al Baghdadi. Svolta che ha indebolito il ruolo di Al Nusra, divenuto meno importante anche agli occhi dei suoi più o meno occulti finanziatori. Alimentare le casse è così divenuta una priorità. E gli italiani, come del resto gli altri europei, ad eccezione dei britannici accomunati nella linea dura agli americani, pagano. Del resto i nostri servizi d'intelligence parlano di fase delicatissima, di momenti in cui tutto si può concluder. e positivamente o precipitare in un dramma. Il fatto che il video sia uscito solo ora, anche se il cartello tenuto da una delle ragazze indica, senza possibilità di riscontro la data del 17 dicembre, significa che la fase di massima pressione sulle autorità italiane è cominciata. Fare vedere i due ostaggi vivi, dopo che si era temuto a lungo per la loro sorte e mancavano immagini che confermassero il loro essere in vita, significa che siamo al finale di partita. Certo, non sarà una trattativa facile. Un esponente di Al Nusra ha sottolineato come l'Italia sia nel fronte ostile all'islam radicale e vada annoverata nel campo del Nemico, statuto che rende particolarmente complicata la situazione di Greta e Vanessa. Ma, in Siria come altrove, gli jihadisti hanno mostrato spesso una linea pragmatica, finalizzata innanzitutto al conseguimento di un risultato destinato a salvaguardare gli interessi dell'organizzazione. Potrebbe essere così anche questa volta. India: caso marò; Ministero indiano degli Interni "Girone è garanzia ritorno Latorre" Adnkronos, 3 gennaio 2015 Il ministero indiano degli Interni si è espresso contro la concessione di un permesso natalizio per Salvatore Girone perché considerava la sua permanenza in India l'unica garanzia per il ritorno di Massimiliano Latorre. Lo scrive oggi il quotidiano indiano "The Economic Times", mentre si avvicina la scadenza del 12 gennaio entro la quale dovrebbe rientrare il fuciliere di marina colpito da ictus. Tali considerazioni compaiono in istruzioni scritte inviate ai ministeri della Giustizia e degli Esteri, in vista dell'udienza della Corte Suprema che poi respinse la concessione di un permesso di ritorno in Italia per Natale a Girone e il prolungamento del soggiorno di Latorre. "Il ministero degli Interni ha scritto che la richiesta di Girone doveva essere fortemente contrastata di fronte alla Corte Suprema. Veniva detto che la presenza di Girone in India era l'unica garanzia del ritorno di Latorre in India", ha raccontato un alto funzionario, citato dal quotidiano. La stessa fonte ha spiegato che il ministero degli Interni aveva espresso la sua obiezione in forma scritta anche in settembre durante le consultazioni interministeriali per decidere la posizione del governo di Nuova Delhi sulla richiesta di Latorre di tornare in Italia per curarsi. Allora il dicastero aveva dichiarato che in India erano disponibili migliori cure per Latorre e che se era così malato non era certo opportuno un lungo viaggio. Ma le due obiezioni furono ignorate e il governo non si oppose alla richiesta di ritorno. La Corte Suprema diede così il via libera ad un permesso di ritorno per quattro mesi per cure mediche. Stati Uniti: i prigionieri di Guantánamo e la beffa del trasferimento in Kazakistan di Andrea Valdambrini Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2015 Cinque prigionieri saranno trasferiti dal carcere cubano, ma rischiano un trattamento peggiore. Il Pentagono ha annunciato che cinque prigionieri del carcere di Guantánamo Bay verranno trasferiti in Kazakistan. Si tratta di tre yemeniti e due tunisini catturati in Pakistan e accusati di essere militanti di Al Qaeda, che secondo le autorità americane non possono essere rispediti in patria a causa dell'instabilità politica dei loro rispettivi Paesi. Con i 5 nuovi congedi sale a 28 il numero dei liberati da Guantánamo nel 2014. Obama ha fretta di mantenere una delle sue promesse elettorali più impegnative, quella di chiudere per sempre il carcere che da oltre 10 anni è simbolo della lotta al terrorismo islamico, più nel male che nel bene, visto il recente rapporto del Senato Usa sulla tortura. Dalla Casa Bianca fanno sapere che in questo 2015 lo sforzo per trasferire i rimanenti 127 detenuti di Guantánamo sarà massimo. Ma su quale criterio alcuni di loro sono già stati ricollocati in Paesi dove gli standard carcerari non sono certo eccellenti (Algeria, Afghanistan, Arabia Saudita)? E soprattutto, come risolvere la questione dei diritti umani, spesso calpestati, in Kazakistan mentre Washington pretende di assicurare "trasferimenti in linea con misure umane di trattamento", come si legge in una documento del Pentagono? Nell'ex repubblica sovietica, il potere è concentrato nelle mani del presidente-satrapo Nursultan Nazarbayev, uomo di stampo staliniano ma al tempo stesso amico di molti leader occidentali, a partire da Silvio Berlusconi. Nazarbayev non fa sconti ai suoi oppositori, come è accaduto tra gli altri all'uomo d'affari e dissidente kazako Muxtar Ablyazov, accusato di frode fiscale e ricercato in tutta Europa per conto del Kazakistan. Come per sua moglie Alma Shalabayeva, prelevata dalla autorità italiane assieme alla figlia di sei anni nell'estate 2013 e rispedita a forza da Nazarbayev con una procedura che le Nazioni Unite hanno giudicato senza mezzi termini "illegale". Secondo il rapporto Human Rights Watch 2014, il rispetto dei diritti umani nel Paese ha visto negli ultimi anni un continuo deterioramento, mentre "la tortura rimane una pratica comune nei luoghi di detenzione". Come dire, gli ex detenuti di Guantánamo finiranno dalla padella alla brace. Kosovo: Procura chiede rientro in carcere di sei ex combattenti Uck rilasciati su cauzione Nova, 3 gennaio 2015 La magistratura kosovara ha chiesto il rientro in carcere di sei ex combattenti dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) rilasciati su cauzione nel processo che li vede imputati per crimini di guerra. Lo riferisce il quotidiano locale "Gazeta Express", affermando che secondo la procura esiste il rischio di intimidazione dei testimoni. La richiesta risale al 22 dicembre scorso, tre giorni dopo il rilascio degli ex combattenti del "Gruppo di Drenica", cellula dell'Esercito di liberazione attiva nel Kosovo centrale, accusati aver commesso abusi sui prigionieri nel centro di detenzione Likovc. Tra gli imputati figurano anche Sylejman Selimi, ambasciatore kosovaro a Tirana ed ex comandante delle Forze di sicurezza del Kosovo, e Sami Lushtaku, sindaco della città di Skenderaj-Srbice. La procura ha proposto come alternativa alla detenzione un aumento della cauzione per ciascun imputato. Secondo quanto riferito dagli avvocati difensori alla "Rete per il giornalismo investigativo per i Balcani" (Birn), Lushtaku ha pagato 50 mila euro di cauzione. Alcuni degli imputati erano in custodia cautelare da 19 mesi. Tutti si sono dichiarati non colpevoli di torture e maltrattamenti dei prigionieri civili detenuti nel centro di detenzione Likovc- Likovac dell'Uck nel 1998. Un ex prigioniero nel centro di detenzione Uck di Likovc (Kosovo centrale) ha accusato Selimi di averlo picchiato in diverse occasione nell'autunno del 2008 e di subire ancora oggi le conseguenze delle percosse. "Mi chiamava spia serba. Mi hanno ferito a una spalla, il mio occhio destro è stato danneggiato e ancora oggi non riesco a sentire bene dall'orecchio destro. Mi hanno rotto tre costole a sinistra e tre a destra", ha detto il testimone protetto in una deposizione da un luogo segreto attraverso un collegamento video. Secondo l'atto di accusa, nel settembre del 1998 Sylejman Selimi, in qualità di alto esponente dell'Uck e di responsabile del centro di detenzione di Likovc, in collaborazione con Sami Lushtaku (sindaco della municipalità di Skenderaj-Srbice), Avni Zabeli e Sahit Jashari, avrebbe "abusato del testimone A picchiandolo a mani nude e con bastoni di legno". Tra le altre persone coinvolte figurano anche il sindaco di Glogavac, Nehat Demaku, e suo fratello, il parlamentare Fadil Demaku, membro del Partito democratico del Kosovo (Pdk) del premier uscente Hashim Thaci. L'ex comandante è anche accusato di aver "ordinato al testimone B, un altro civile detenuto nel centro di Likovc, di colpire ripetutamente il testimone A una con un'asse di legno e di prenderlo per i genitali con uno strumento di ferro, trascinandolo a terra". Il testimone B ha riferito ieri di non essere più in grado di avere rapporti sessuali a causa delle violenze subite. Nel mese di maggio, Selimi è stato assolto dalle accuse di crimini di guerra in un procedimento separato in cui il diplomatico era accusato insieme ad altri tre ex combattenti dell'Uck di aver aggredito due donne albanesi detenute sempre a Likovc. La corte ha stabilito che non vi sono prove sufficienti a sostegno delle accuse presentate dai pubblici ministeri della missione europea Eulex. Un altro sospettato, Sahit Jashari, è indagato, tra le altre cose, per aver "violato ripetutamente l'integrità fisica di Ivan Bulatovic, un funzionario di polizia serbo tenuto prigioniero dall'Uck". Più precisamente, si legge nella bozza dell'atto di accusa pubblicata da "Birn", l'imputato ha portato in diverse occasioni Ivan Bulatovic nella piazza del mercato di Likovc-Likovac, annunciando pubblicamente che chiunque volesse colpire Bulatovic poteva farlo, lasciando la vittima alla mercè di un indeterminato numero di persone. Lo scorso aprile due persone sono state incriminate in Kosovo dalla missione europea Eulex per violazione delle norme sul segreto istruttorio nel processo Drenica. "Entrambi gli imputati sono accusati del reato di violazione del segreto istruttorio e uno degli imputati è stato anche accusato di tentata ostruzione delle prove o atti ufficiali", si legge in un comunicato pubblicato da Eulex. Secondo la stampa locale, i sospettati sono il giornalista kosovaro Milaim Zeka e l'imprenditore Rrustem Rukolli. Zeka era stato precedentemente interrogato dagli investigatori internazionali nel novembre dello scorso anno per aver intervistato nel suo show sull'emittente televisiva "Rtk" dei testimoni protetti nel caso Drenica. Svizzera: "esportazione" dei detenuti stranieri, i Cantoni chiedono chiarimenti www.ticinonews.ch, 3 gennaio 2015 Il problema è particolarmente sentito in Romandia, ma per tutti i cantoni la questione è importante, tant'è che si sono chiesti lumi a Berna. La Conferenza dei direttori cantonali di giustizia e polizia (Cddgp) ha chiesto chiarimenti alla Confederazione affinché i detenuti svizzeri possano espiare oltre confine la loro pena. Soprattutto nella Svizzera romanda si vuole approfittare delle prigioni mezze vuote nei Paesi circostanti per aggirare il problema del sovraffollamento carcerario. La Ccdgp ha deciso, con una maggioranza risicata, di affidare l'incarico all'Ufficio federale di giustizia (Ufg), affinché esamini gli aspetti legali necessari a un tale passo, ha detto all'Ats il segretario generale della Conferenza Roger Schneeberger, confermando un'informazione in tal senso che sarà diffusa stasera dalla trasmissione "10vor10" della televisione svizzero tedesca Srf. La decisione è stata presa lo scorso autunno, ha precisato Schneeberger. Durante la discussione, tra i Paesi che potrebbero essere presi in considerazione sono stati evocati la Germania e la Francia. Ma per il momento non è stata fatta alcuna domanda formale a Stati esteri, ha aggiunto Schneeberger. I direttori cantonali vogliono dapprima attendere le conclusioni dell'Ufg, al quale non è stata fissata alcuna scadenza. Nel marzo scorso, il ministro giurassiano di giustizia e polizia Charles Juillard aveva lanciato l'idea di esportare i detenuti in un'intervista al telegiornale della tv svizzero romanda Rts. Chiamato a commentare tale proposta, il consigliere di Stato ginevrino Pierre Maudet aveva indicato di trovarla "seducente". Il problema del sovraffollamento carcerario concerne in particolare la prigione di Champ-Dollon (Ge), dove si contano circa 850 detenuti per 376 posti. Egitto: Amal Clooney "rischiai l'arresto per critiche al sistema giudiziario" La Presse, 3 gennaio 2015 Amal Clooney ha rischiato il carcere in Egitto dopo aver provato a pubblicare un rapporto sul sistema giudiziario del Paese nordafricano. La moglie di George Clooney aveva stilato il rapporto per la International Bar Association (Associazione internazionale degli avvocati), prima di iniziare a difendere uno tre giornalisti di al-Jazeera in carcere poiché accusati di aver pubblicato notizie a favore dei Fratelli musulmani. "Quando volevo pubblicare il rapporto - ha spiegato la legale, intervistata dal Guardian - mi hanno vietato di farlo al Cairo. Chiesero: il rapporto critica l'esercito, il sistema giudiziario o il governo?. Abbiamo risposto: Sì. Quindi loro hanno detto: bene, allora state rischiando l'arresto". I tre giornalisti, Mohammed Fahmy, Peter Greste e Baher Mohammed, sono stati arrestati nel dicembre 2013, dopo il rovesciamento di Mohammed Morsi. Nei giorni scorsi un tribunale ha cancellato le condanne nei loro confronti (che andavano da sette a 10 anni di carcere) e ordinato un nuovo processo, anche se i reporter restano in prigione. Secondo Amal Clooney che difende Fahmy, però, questa decisione "non significa molto". I tre, ha aggiunto, sono vittime di un sistema in cui le autorità possono selezionare i giudici: "Abbiamo visto i risultati di ciò in questo caso, dove c'è un gruppo di giudici scelti, noti per aver emesso verdetti crudeli". Germania: l'ex presidente del Bayern Monaco Uli Hoeness ottiene la semilibertà Agi, 3 gennaio 2015 Uli Hoeness in regime di semilibertà. Ll'ex presidente del Bayern Monaco, condannato a tre anni e mezzo di carcere per evasione fiscale, continuerà a dormire in prigione, ma nel corso della giornata potrà uscire e riprendere a lavorare secondo quanto riferisce il sito del quotidiano tedesco "Bild" che riporta anche la conferma del ministero della Giustizia. Hoeness, che grazie a un permesso ha trascorso Natale e Capodanno in famiglia, è stato condannato nel marzo del 2014 a tre anni e mezzo con l'accusa di aver occultato circa 28,5 milioni di euro trasferiti su un conto in Svizzera e frutto di speculazioni in Borsa. L'ex presidente del Bayern ha cominciato a scontare la pena il 2 giugno scorso nella prigione di Landsberg. Il club campione di Germania non ha mai voltato le spalle a Hoeness, il quale mesi fa ha ricevuto la visita in carcere di Guardiola e Ribery. Lo scorso novembre l'attuale presidente dei bavaresi, Karl Hopfner, aveva annunciato il ritorno di Hoeness nel settore giovanile del club. Proprio questo incarico ha permesso all'ex presidente di godere di un regime di semilibertà. La legge tedesca, infatti, prevede questa possibilità per i detenuti che possono svolgere un lavoro e per i quali non esiste il rischio di tornare a delinquere. Hoeness ha giocato nel Bayern dal 1970 al 1978, per poi diventarne il direttore generale e, dal 2009 al marzo 2014, il presidente.