Garanti dei detenuti: "Gli stati generali? Si facciano nel carcere di Padova" Redattore Sociale, 30 gennaio 2015 Sedici Garanti sostengono la proposta della Redazione di Ristretti Orizzonti: "Aprire il confronto sui temi della pena". Lettera aperta al ministro Orlando: "Bisogna portare gli addetti ai lavori a confrontarsi con le persone detenute". Organizzare gli Stati generali sul carcere presso la casa di reclusione di Padova. In una nota i Garanti dei diritti dei detenuti sostengono la proposta della redazione di Ristretti orizzonti. "Interveniamo per sostenere la proposta di Ristretti orizzonti - sottolineano - di ospitare l'iniziativa meritoria del ministro Orlando per aprire un confronto sui temi della pena e del carcere. E spieghiamo le ragioni di sostanza". Secondo i garanti con la riduzione del numero delle persone detenute "si può aprire una fase nuova per affrontare i temi irrisolti del nostro universo carcerario, dall'affettività al lavoro, agli spazi, al senso della pena, alla sperimentazione di un diverso confronto tra le persone coinvolte a vario titolo dalla commissione di un reato". La redazione di "Ristretti Orizzonti è il luogo, forse unico, dove si pratica davvero la volontà di un cambiamento delle persone - continua la nota - dove un'informazione rigorosa e rispettosa di tutte le posizioni è riuscita a creare momenti di approfondimento e di incontro (penso quello tra vittime e autori di reati anche gravi) e soprattutto di ascolto degli altri, chiunque essi siano. Abbiamo sempre colto elementi di riflessione nuovi e profondi". Secondo i garanti, dunque, la redazione del giornale "il cui lavoro è riconosciuto da tutte le componenti penitenziarie per la serietà e completezza della informazione, ha l'esperienza per organizzare gli Stati generali nel carcere di Padova, garantendo la partecipazione anche dei diretti interessati. È un'occasione da non perdere". A firmare l'appello per ora sono 16 Garanti dei detenuti: Desi Bruno (Regione Emilia-Romagna); Sergio Steffenoni (garante del Comune di Venezia); Armando Michelizza (Comune di Ivrea); Francesco Racchetti (Comune di Sondrio); Alberto Gromi (Comune di Piacenza); Margherita Forestan (Comune di Verona); Fabio Nieddu (Comune di Pescara); Ione Toccafondi (Comune di Prato); Carlo Mele (Provincia di Avellino); Angiolo Marroni (Regione Lazio); Roberto Cavalieri (Comune di Parma); Davide Grassi (Comune di Rimini); Piero Rossi (Regione Puglia); Aurea Dissegna (Regione Veneto); Marcello Marighelli (Provincia e Comune di Ferrara); Alessandra Gaetani (Comune di Lecco); Eros Cruccolini (Comune di Firenze); Antonio Sammartino (Garante Pistoia); Matteo Civico (Consigliere Provinciale di Trento, ha promosso l'istituzione del Garante provinciale). Per chiedere l'organizzazione dell'evento, la redazione di Ristretti Orizzonti, ha inviato una lettera "aperta" al Ministro Orlando. "Vorremmo avanzarle una proposta molto concreta: quella di organizzare gli Stati Generali sulle pene e sul carcere qui, in questa Casa di reclusione. Lei forse sa che ogni anno noi organizziamo un Convegno, a cui partecipano circa seicento persone dall'esterno, e 150 persone detenute. Non pensa che portare gli "addetti ai lavori" a confrontarsi con le persone detenute sul senso che dovrebbero avere le pene avrebbe un valore davvero fortemente educativo per tutti, per chi deve essere protagonista di un percorso di rientro nella società, e per chi deve aiutare a costruire quel percorso? - si legge nella lettera. Ci sono tante buone ragioni per cui riterremmo utile fare qui nella Casa di reclusione di Padova gli Stati Generali sulle pene e sul carcere, prima fra tutte che in tal modo si eviterebbe di trasformarli in un lungo elenco di interventi di "esperti" senza nessun confronto con chi le pene e il carcere li vive direttamente come parte della sua vita. Abbiamo cercato di immaginare per un attimo una cosa inimmaginabile: di essere noi il ministro della Giustizia in questo difficilissimo periodo per le carceri, con l'Europa che ci sta addosso perché il nostro Paese sta gestendo il sistema della Giustizia in modo ancora pesantemente illegale. La prima cosa che faremmo allora è di provare ad aprire un dialogo con i diretti interessati, quelli che hanno sì commesso reati, ma a loro volta ora subiscono ogni giorno l'illegalità del sistema". Secondo la redazione gli Stati Generali sarebbero l'occasione per confrontarsi non con il singolo detenuto che porta la sua testimonianza sulla sua condizione personale, né esclusivamente con operatori ed esperti, perché il confronto avverrebbe con una redazione di detenuti che da anni lavora per cambiare le condizioni di vita in carcere, ma anche per ridare un senso alle pene. "Forse è paradossale che a fare questo siano i detenuti stessi, ma in fondo non è neppure così assurdo, perché proprio vivendo pene insensate tante volte le persone hanno accumulato altri anni di carcere e hanno ulteriormente rovinato la loro vita e non vogliono più farlo; gli addetti ai lavori potrebbero sentir raccontare nei particolari più crudi anche quello che patiscono le famiglie da un sistema, che dimostra spesso scarsissima attenzione nei confronti dei famigliari dei detenuti". Giustizia: Maricica e Vanessa; vittime, colpevoli e pene… due pesi e due misure di Antonio Pennacchi* Corriere della Sera, 30 gennaio 2015 Pochi anni fa - era l'8 ottobre del 2010 - nella stazione della metro Anagnina a Roma vengono a diverbio, per questioni di fila, un ragazzo italiano di vent'anni e una donna romena di trentadue, di professione infermiera, sposata e con un figlio. Pare che poi - andandosene - il ragazzo le abbia detto: "Ma non te lo insegnano al Paese tuo a stare in fila?". Lei allora gli corre dietro fin fuori la stazione, inveendo e sputandogli addosso. Lui si volta, le sferra un pugno - non so se al volto o in testa - lei cade e resta a terra. Lui se ne va. Lo insegue però e lo blocca un militare di passaggio della Capitaneria di porto, che lo consegna ai vigili quando arrivano. Lei è sempre a terra. Chiamano il 118. Otto giorni di coma e muore. Si chiamava Maricica Hahaianu. È dell'altro giorno la notizia invece (26.1.2015) che il ragazzo condannato in appello nel 2012 a otto anni - per omicidio preterintenzionale e concessione delle attenuanti - è stato scarcerato, per essere affidato ai servizi sociali. Dopo complessivi quattro anni di carcere e arresti domiciliari, torna quindi in libertà, pure se relativa: "Potrà uscire di casa per andare al lavoro e in palestra, purché rientri nella sua abitazione entro le otto di sera". Stop. Solo tre anni prima però - 26 aprile 2007 - era accaduta un'altra tragedia dai contorni assai simili. Sempre a Roma e sempre sulla metro, ma in un'altra stazione - Termini - vengono a diverbio due ragazze romene e una italiana. Le romene - rispettivamente di 17 e 21 anni - secondo la polizia sono prostitute. L'italiana di 23 anni è invece anche lei - come la Maricica Hahaianu dell'Anagnina - infermiera laureata. Non è chiaro se il litigio sia cominciato sul treno - sedute a fianco, ci sarebbe già stato un alterco - ma è all'uscita a Termini, in mezzo alla calca, che il conflitto deflagra: "Che te spigni, str…", dice la ragazza italiana alla romena più grande. E la rincorre, la schiaffeggia, le si avventa addosso. La romena aveva un ombrello in mano. Pioveva, forse, quel giorno. E nel tentativo di divincolarsi, dice lei - o nella foga d'una maldestra e nella convulsa velocità di queste cose - l'ombrello diventa un'arma. La sua punta trafora l'orbita oculare, penetra e recide un'arteria. La ragazza italiana cade. Le due romene scappano. La ragazza muore. Le romene verranno arrestate due giorni dopo nelle Marche. A Tolentino. La vittima si chiamava Vanessa Russo. Alla sua assassina - Donina Matei, 21 anni all'epoca dei fatti, due figli piccoli in Romania - la Cassazione ha confermato nel gennaio 2010 la condanna emessa dalla Corte d'assise d'appello a 16 anni, per omicidio preterintenzionale aggravato dai futili motivi. Sta ancora in carcere. A Sollicciano, credo. È pentita e non cerca giustificazioni: "Senza sapere nemmeno io come e perché, una ragazza della mia età è morta a causa mia. Non lo volevo questo, non era mia intenzione. Ma è successo e devo pagare, tra queste mura, con un rimorso che non mi abbandonerà mai". Lo dice in un racconto - La ragazza con l'ombrello - premiato da un concorso letterario e pubblicato nel 2011 dalla piccola biblioteca Oscar Mondadori nella raccolta: Volete sapere chi sono io? Racconti dal carcere, a cura di Antonella Bolelli Ferrera. Non si aspetta niente Donina. Consapevole che è giusto che chi sbaglia paghi, aspetta solo che passino questi altri otto anni per poter tornare dai suoi figli e andare pure, dice lei: "A pregare sulla tomba di Vanessa". Io adesso però - ferma restando la pietas per tutte le vittime e i loro familiari - vorrei sapere perché, se domani per caso ammazzo un romeno, prendo di sicuro molti meno anni di quanti ne prenderebbe lui se ammazzasse me. Meno d'un quarto, quasi. Ma che è, giustizia, questa? O è razzista pure la giustizia in Italia? Sempre che la differenza non la faccia - sulla metro - l'ammazzare a Termini piuttosto che all'Anagnina. *Scrittore, autore di "Canale Mussolini", premio Strega 2010 Giustizia: "legge dura senza paura", sarà processato il ladro di cioccolatini da 8 euro di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2015 È incensurato. Il caso a Genova: il procuratore voleva l'archiviazione per non ingolfare il lavoro, ma la parte civile si è opposta. Ha rubato una scatola di cioccolatini al supermercato del valore di soli 8 euro ma sarà processato. È successo a Genova dove un giovane di 28 anni, pure incensurato, ha subito una imputazione coatta dalla giudice per le indagini preliminari Silvia Carpanini nonostante il procuratore aggiunto di Genova, Nicola Piacente avesse chiesto l'archiviazione. Il magistrato l'aveva motivata per l'entità lieve del furto e per non ingolfare con un processo così irrilevante le cancellerie che già scoppiano di lavoro. Ma gli avvocati del supermercato hanno presentato opposizione all'archiviazione e il gip ha accolto la loro richiesta. Quello di Genova è solo uno dei tanti casi paradossali della giustizia italiana dove la prescrizione è in aumento, come ha scritto il presidente della Cassazione Giorgio Santacroce nella relazione in occasione del nuovo anno giudiziario, e i criminali economici nella maggior parte dei casi restano impuniti. Ha fatto nascere un gruppo di solidarietà su Facebook, la storia di Filippo P, 34 anni, romano, disoccupato dal 2010, arrestato l'anno scorso in un supermercato per aver rubato generi alimentari per sfamare la sua famiglia: la moglie casalinga e un figlio di quattro anni. Filippo, preso dalla disperazione, ha rubato del pane, del latte e del prosciutto. È stato arrestato, processato e condannato a 5 mesi con la pena condizionale e l'obbligo di firma. Due settimane dopo, però, sempre per fame, Filippo è tornato a rubare al supermercato: un pezzo di formaggio , un arrosto sottovuoto e una bottiglia di olio. Valore complessivo della refurtiva, poche decine di euro. Stavolta è finito in carcere, condannato a 6 mesi per furto aggravato dalla recidiva. È stata applicata la legge ex Cirielli quella che Silvio Berlusconi si è fatto approvare dalla sua maggioranza in Parlamento per dimezzare la prescrizione dei reati che gli interessavano personalmente e per gli amici incensurati. La difesa di Filippo P., condannato l'anno scorso, era rappresentata dall'avvocato Gianluca Arrighi: "Ho assunto gratuitamente la difesa - aveva dichiarato alla fine del processo - perché ritengo che vi siano dei casi umani che noi penalisti non possiamo esimerci dall'accettare. Purtroppo negli ultimi anni i casi di persone che commettono furti di generi alimentari è aumentato in modo esponenziale. È ovvio che nulla giustifica la commissione di reati ma una cosa è rubare per arricchirsi e una cosa è rubare per mangiare". A Viterbo, nel 2012, vengono arrestati due uomini che hanno rubato in un centro commerciale cibo, vestiti e scarpe. Un ragazzo minorenne che era con loro è stato affidato a un centro di prima accoglienza. Uno dei due arrestati, un giovane di 20 anni, ha detto al processo di aver rubato per fame: "Non mangiavo da alcuni giorni". L'altro imputato, 48 anni, ha raccontato che non può sopravvivere: "Prendo una pensione di 280 euro al mese e non ce la faccio ad andare avanti". A Trento per un pezzo di formaggio rubato al supermercato, per di più restituito, sarà processato un ragazzo marocchino. Secondo la polizia, aveva pagato alcuni generi alimentari ma non il formaggio, nascosto in una tasca interna della giacca. Una volta scoperto lo aveva restituito. Ma è stato denunciato lo stesso e finirà davanti al giudice. Il prossimo 5 marzo sarà processato P.A.R., 58 anni, accusato di furto aggravato per aver rubato in un supermercato di Ponte nelle Alpi, nel 2012, due bistecche e un po' di insalata, prese da confezioni e messe in tasca, inoltre un cappello e un paio di guanti per bambino. Forse processi di questo genere potranno diminuire. Nella primavera del 2014 il Parlamento ha approvato la legge delega che ha conferito al governo il potere di regolare reati " lievi". Il decreto legislativo prevede di "escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell'offesa". Ma chi ha commesso il reato non deve essere recidivo. In ogni caso la parte offesa ha 10 giorni di tempo per opporsi alla richiesta di archiviazione del pm e l'ultima parola in quel caso spetta al giudice. La parte offesa può anche rivalersi in sede civile. Giustizia: non punibilità di reati per "particolare tenuità del fatto" verso il via libera di Simona D'Alessio Italia Oggi, 30 gennaio 2015 Non punibilità di reati per "particolare tenuità del fatto" verso il via libera, in commissione giustizia, alla Camera. È stata presentata dal relatore David Ermini (Pd) la proposta di parere sul decreto legislativo 130/2014, varato dall'esecutivo a dicembre, che recepisce proposte elaborate dalla commissione ministeriale (presieduta dal professor Francesco Palazzo) con l'obiettivo di rivedere il sistema sanzionatorio e dare attuazione alla legge 67/2014 sulle pene detentive non carcerarie. Il provvedimento, che sarà votato la prossima settimana, stabilisce che reati "per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo", l'offesa è di particolare tenuità e "il comportamento risulta non abituale" senza, però, pregiudizio per l'esercizio dell'azione civile finalizzata al risarcimento del danno. In un colloquio con Italia-Oggi, Ermini riferisce come dalle audizioni parlamentari effettuate sul testo sia emerso "univocamente" come i contenuti non costituiscano, "neanche indirettamente, una forma di depenalizzazione e che il limite massimo della pena individuato dal legislatore è finalizzato unicamente alla determinazione in astratto del perimetro di applicazione del nuovo istituto" nell'ambito del quale, sottolinea, "il giudice dovrà, caso per caso, verificare se il fatto" sia, appunto, così lieve da rientrare nell'ambito di applicazione della norma; al contrario, prosegue, "è evidente" restino "estranee" tutte le fattispecie di reato che "abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate", così come "l'evento morte è incompatibile col concetto di tenuità dell'offesa". Precisazioni cui il deputato tiene, giacché "è stato fatto un gran cancan sulla norma" (il capogruppo della Lega nord in II commissione, Nicola Molteni, ha parlato di "depenalizzazione tout-court", sostenendo che processi per crimini di grave allarme sociale andranno "verso il proscioglimento o l'archiviazione") che eliminerà dibattimenti "inutili, che possono esser chiusi in altro modo. E senza bisogno", dice l'esponente del Pd, di "ingolfare le procure". Giustizia: Pagano (Dap); vogliamo valorizzare il lavoro delle cooperative in carcere di Daniele Biella Vita, 30 gennaio 2015 Le parole del Vicecapo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria all'indomani della chiusura del servizio mense carcerarie gestite dalla cooperazione sociale e del taglio del 34% dei fondi della Legge Smuraglia per il 2015. Luigi Pagano, vicedirettore del Dap, Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, è stato nominato dal nuovo capo Santi Consolo coordinatore dei rapporti con le cooperative sociali che danno lavoro ai detenuti delle carceri italiane. Una nomina delicata, alla luce del terremoto che ha riguardato le dieci coop che per dieci anni, fino al 15 gennaio 2015, hanno gestito le mense di altrettanti istituti di pena ma che ora, a causa dello stop ai fondi decisa dal Dap ("fondi che arrivavano da Cassa delle ammende e che non sono stati rinnovati perché dedicati a start up e non a progetti consolidati", la spiegazione principale) si trovano a fare i conti con tagli al personale detenuto dipendente e nella maggior parte dei casi una rivisitazione completa dei propri piani di impresa sociale, se non il rischio chiusura. Abbiamo chiesto a Pagano se e quali vie d'uscita ci possono in questa nuova fase. Lei ha incontrato di recente le cooperative coinvolte nel caso mense. Come vi siete lasciati? "Alla luce del fatto che l'esperienza dal vitto è terminata, abbiamo presentato loro la possibilità, che è anche un nostro auspicio, che le attività collaterali già in essere trovino continuità e ne possano partire delle nuove. In questo senso, ora le varie realtà potranno preparare progetti ad hoc su ciascuna iniziativa, che poi noi gireremo a Cassa ammende proprio in virtù del fatto che queste sono considerate start up, quindi esperienze che nel tempo diventino auto-sostenibili". Verrà fatto un bando e ci sarà un tetto massimo per cui fare richiesta? "No, nessun bando e nessun limite, è chiaro che poi ogni progetto avrà una risposta positiva o negativa a seconda della valutazione di Cassa ammende, in particolare della resa in termini quantitativi". L'amministrazione penitenziaria si rende conto della difficoltà della maggior parte delle coop all'indomani dell'estromissione dal servizio mensa? "Sì, certo. In questa nuova fase diamo la nostra massima disponibilità. Abbiamo detto loro che possono telefonarci per qualsiasi dubbio in merito ai nuovi passi da fare. Dal nostro punto di vista, provvederemo a rinnovare le attrezzature laddove non siano efficaci, metteremo in comodato gratuito i locali idonei. Per esempio, in alcuni istituti si dovranno separare le cucine, in quanto prima venivano usate sia per la mensa sia per altri servizi come catering e pasticcerie per l'esterno, ora questo non è più possibile". Chi può presentare i progetti? "Tutte le cooperative sociali che collaborano con il Dap, ma anche le aziende: puntiamo a far entrare sempre di più il lavoro in carcere. Ci rendiamo però conto che i tempi degli Istituti di pena sono ancora troppo lenti rispetto a quelli de mercato, in primis dal punto di vista strutturale e procedurale, per esempio per i permessi e gli spostamenti. Per questo la nostra priorità sarà conciliare il carcere con i tempi del mercato, per non perdere occasioni. Qualche iniziativa in tale direzione c'è già stata". Un esempio? "Al carcere di Bollate abbiamo avviato un progetto di smaltimento di rifiuti tecnologici da due milioni di euro in collaborazione con Amsa, Comuni limitrofi e Regione Lombardia: per rendere il lavoro efficiente, abbiamo abbattuto parte del muro esterno dell'edificio per far passare i camion addetti al trasporto dei materiali". Nelle stesse settimane del problema mense è stato annunciato anche un taglio del 34%, da 9 a 6,1 milioni di euro, dei fondi richiesti come credito d'imposta per il 2015 da cooperative, associazioni e aziende impegnate in carcere… "Quello che abbiamo cercato di fare è rendere tali diminuzioni di fondi proporzionali a ciascuna delle circa 200 imprese sociali e non coinvolte, per avere il minor impatto possibile sul numero di detenuti lavoratori assunti da realtà esterne al Dap, che a metà 2014 ammontavano a 2.364 persone". Giustizia: "custodire le relazioni familiari dei detenuti", giornata di formazione congiunta di Carla Chiappini (Direttore di "Sosta Forzata", giornale del carcere di Pacenza) Ristretti Orizzonti, 30 gennaio 2015 Giovedì 22 gennaio nella sede della provincia di Bologna si è svolta una giornata di formazione congiunta tra volontari impegnati in progetti di accoglienza ai familiari in attesa di colloqui, personale dell'area trattamentale e della sicurezza. Una cinquantina di persone hanno lavorato insieme sotto la guida di Laura Formenti docente di Pedagogia della Famiglia all'università Bicocca di Milano e Lia Sacerdote presidente dell'associazione "Bambini senza sbarre" di Milano che aderisce al circuito europeo di organizzazioni a tutela dei figli delle persone detenute COPE - Children Of Prisoners Europe. Dopo i saluti di Carla Brezzo dell'assessorato regionale al Welfare, è Paola Cigarini referente della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia dell'Emilia Romagna a introdurre l'iniziativa che si inserisce all'interno del progetto "Cittadini sempre" promosso, appunto, dalla Regione con la Provincia di Bologna. Propedeutica alla formazione, una ricerca - condotta dalla Conferenza - su come sul nostro territorio le organizzazioni di volontariato si impegnano a sostenere le relazioni familiari e, in particolare su come accolgono i familiari in visita alle persone detenute che è ormai in fase di conclusione. Proprio dalla parola accoglienza è partito il lavoro dell'aula suddivisa in piccoli gruppi di quattro - cinque persone di differenti culture, provenienze, ruoli e professioni. A questo proposito buon gioco ha fatto la disposizione del Provveditorato riguardo alla partecipazione del personale di polizia penitenziaria in abiti borghesi che ha permesso un primo spiazzamento degli sguardi, una semplificazione delle relazioni. Ed è stato così che è in pochi minuti ho scoperto che Luigi - impegnato nell'aerea colloqui del carcere di Bologna - ha quattro figli e che a casa sua non si guarda la televisione mentre si mangia perché a pranzo si deve poter parlare tutti insieme. Penso tra me e me che entro da quattordici anni in un carcere, saluto persone in divisa, in gran parte accoglienti e cortesi, ma non so nulla di loro. Qualche volta provo solo a indovinarne la provenienza dall'accento! Il lavoro dell'aula procede con la riflessione sulle tante esperienze che vengono condivise ed emergono alcuni punti chiave - in particolare focalizzati sui minori in visita a un genitore recluso - che potrebbero essere materia di ulteriore riflessione: Questi bimbi cosa sanno del carcere? Cosa bisogna o non bisogna dire loro? Come si gestisce la perquisizione? Oltre ad alcune domande che nascono proprio dalla sensibilità del personale di polizia: - Fino a che punto posso spingermi nell'accoglienza di questi bimbi senza tradire il mio ruolo? All'interno del gruppo c'è anche chi esprime dubbi e perplessità su questi papà che strumentalizzano i figli per ottenere benefici ma Lia Sacerdote ribalta il punto di vista e chiede di provare a guardare con gli occhi dei figli: - Abbiamo mai provato a chiedere a questi bambini cosa pensano? - magari scopriremmo che per loro è comunque importante vedere il papà anche se poi parla con la mamma, se è preoccupato per l'avvocato, se gioca troppo poco … Già, le relazioni capovolte, osservate dal basso verso l'alto, dal bimbo al genitore. In una buona formazione, nulla va perduto, nemmeno la pausa pranzo! Ed è così che ascoltiamo con attenzione Laura quando racconta che un piccolino che andava a trovare il papà in una comunità, a un operatore che gli chiedeva se fosse dispiaciuto che questo papà ogni tanto si assopisse, rispondeva: - No, a me piace tanto guardarlo mentre dorme!. Il saluto del pomeriggio tra i partecipanti alla giornata echeggia di un desiderio di ritrovarsi, di continuare a lavorare insieme. Giustizia: il Sappe denuncia "sempre più aggressioni agli agenti, basta con le celle aperte" Redattore Sociale, 30 gennaio 2015 La "vigilanza dinamica" prevede la libera circolazione per otto ore al giorno. Secondo il sindacato autonomo della polizia penitenziaria Sappe, "in un anno di sperimentazione le aggressioni sono aumentate del 100%". Contraria Antigone: "Non possiamo permetterci passi indietro". Sospendere l'apertura giornaliera delle celle nelle carceri italiane. È la richiesta del Sappe, il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria. "Ci sono aggressioni agli agenti ogni giorno, in un anno di sperimentazione sono aumentate del 100%", afferma il segretario generale del sindacato, Donato Capece. "Sono aumentati i soprusi tra detenuti, aumentano le risse e i casi di violenze, sequestriamo ogni giorno materiale che arriva in carcere. La situazione è ingestibile: è arrivato il momento di dire basta", dichiara Capece. Il progetto che prevede questo nuovo modello di carcere si chiama "vigilanza dinamica": prevede la libera circolazione nelle sezioni e l'apertura delle celle per otto ore al giorno, con gli agenti che non devono più restare di guardia ad ogni singola cella ma a zone di passaggio dei detenuti. Questo modello è già prassi nelle carceri europee: "Sono assolutamente contrario a che si torni indietro alla marcatura ad uomo del detenuto: è deresponsabilizzante - commenta il presidente dell'associazione Antigone Patrizio Gonnella. Non è un progetto che l'Italia s'inventa perché è un Paese particolarmente avanzato. Anzi, ci stiamo adeguando alle regole europee perché il nostro modello è retrogrado". Su un punto Sappe e Antigone convergono: l'apertura delle celle, di per sé, non basta. "Se i detenuti stanno ad oziare, il progetto è fallimentare", afferma Capece. "Bisogna riempire la vita dei detenuti di attività che siano utili per la loro formazione. Solo in questo modo si rende il carcere un luogo che assomiglia alla vita normale", aggiunge Gonnella. Uno dei problemi è legato ai fondi: la Commissione Smuraglia, che finanzia i progetti in carcere, il 30 dicembre 2014 ha subito un taglio del 34%. "Più in generale è necessario che sul tema del lavoro e delle attività in carcere ci sia una forte regia del Ministero della Giustizia", sostiene Gonnella. Sul modo di condurle, le posizioni tornano a divergere. Per Capece "devono essere chiuse le sezioni, le attività devono essere svolte all'esterno" e ci devono essere "meccanismi di premialità" che regolino la possibilità per i detenuti di uscire dalla cella. "Premialità che significa? - si chiede Gonnella - Se un detenuto ha maggiore libertà e aggredisce qualcuno avrà sicuramente sanzioni, in ogni caso". Secondo Gonnella "non può essere trasformato in beneficio da meritare, ciò che è un diritto", come la possibilità di stare fuori dalla cella. In più, per Gonnella, sul medio lungo periodo "la vigilanza dinamica darà anche più soddisfazioni agli agenti di polizia penitenziaria che non vedranno il loro lavoro ridursi ad aprire e chiudere le celle". Le esperienze di carceri come Bollate, dove le celle restano aperte già da anni, insegnano poi che il tasso delle aggressioni si riduce con il tempo. Capece ribadisce però la necessità di fermare dopo un anno la sperimentazione per puntare su altro. Come ad esempio misure per svuotare le carceri: ci sono 22 mila detenuti con una pena minima già definitiva che dovrebbero scontarla con misure alternative. "La vigilanza dinamica è stata introdotta solo per dire che rispettiamo la sentenza Torreggiani, ma è vero solo sulla carta", precisa Capece. Il Sappe annuncia per dare corpo alle sue richieste una manifestazione nazionale davanti al ministero di via Arenula per i prossimi giorni. Il garante non conferma. Alessandra Naldi, garante dei detenuti di Milano, non è d'accordo su quanto afferma il Sappe circa l'aumento delle aggressioni sugli agenti dall'inizio del progetto di vigilanza dinamica un anno fa. "A quanto mi risulta non sono aumentati i casi di aggressione agli agenti penitenziari", afferma. Giustizia: Garante dei detenuti di Milano "più aggressioni con le celle aperte? non risulta" Redattore Sociale, 30 gennaio 2015 Alessandra Naldi critica la ricostruzione fatta dal Sappe sull'aumento di casi di violenza dopo l'introduzione del progetto di vigilanza dinamica. E aggiunge: "Si deve pensare a creare un sistema dove la persona non sia deresponsabilizzata" "A quanto mi risulta non sono aumentati i casi di aggressione agli agenti penitenziari". Alessandra Naldi, garante dei detenuti di Milano, non è d'accordo su quanto afferma il Sappe circa l'aumento delle aggressioni sugli agenti dall'inizio del progetto di vigilanza dinamica un anno fa. Il progetto prevede la libera circolazione nelle sezioni e l'apertura delle celle per otto ore al giorno. A questo s'aggiunge un'applicazione solo parziale del progetto: "Non è solo muoversi con più libertà nelle sezioni. Si deve pensare a creare un sistema dove la persona non sia deresponsabilizzata". La sorveglianza dinamica "non va nemmeno concepita come mettere videocamere dappertutto, altrimenti non cambia nulla se non l'utilizzo di un mezzo diverso", prosegue la garante. Continuano a mancare gli investimenti sul lavoro in carcere e questo tarpa le ali alle possibili attività da svolgere nelle ore fuori dalla cella. A questo si aggiunge una scarsa apertura di certi istituti nei confronti anche del volontariato: "Basterebbe questo a riempire le giornate, ma nonostante i proclami il mondo del carcere fa ancora molta fatica ad aprirsi alla società civile", continua Naldi. Alla penuria di fondi si aggiungono le ombre gettate sul mondo delle cooperative carcerarie dall'inchiesta Mafia capitale, in cui erano coinvolte anche organizzazioni che lavorano con il carcere. "Serve un controllo continuo su chi ha in gestione gli appalti", aggiunge Naldi. "Sento spesso detenuti assunti che non percepiscono il salario - conclude Naldi. L'attività lavorativa in carcere deve essere un'occasione per costruire la vita all'uscita dal carcere". Giustizia: riforma della prescrizione, Orlando arruola il Procuratore antimafia Roberti di Alfredo Barbato Il Garantista, 30 gennaio 2015 Il ministro: "Riforma penale equilibrata, il Procuratore Roberti e con noi". L'Anm: "Governo timido". Ci sono due fronti, tra governo e magistratura. Il primo è quello più difficile, che tocca gli interessi delle toghe in modo diretto, e riguardale loro ferie. L'altro è più tecnico ed è relativo alla prescrizione. Nonostante le misure previste dal disegno di legge sul processo penale siano molte e tocchino diversi aspetti, il vero nodo è sulla prescrivibilità dei reati. E il motivo non è difficile da comprendere. I magistrati chiedono di non concedere agli imputati la possibilità di ricorrere a eventuali espedienti dilatori per far raggiungere al processo il tempo massimo di durata. L'obiettivo delle toghe è quello di poter avere in pugno la macchina della giustizia penale e di poter svolgere le indagini secondo tempi quanto più larghi possibile. È proprio questo l'aspetto che viene fatto rilevare dai penalisti. È successo anche ieri, in un'animata puntata di Radio anch'io, su Radio 1, in cui sono intervenute tutte le parti in causa, e tra queste anche il presidente dell'Unione Camere penali Beniamino Migliucci. Il quale ha ricordato come gran parte dei reati, circa due terzi, cada in prescrizione quando si è ancora nella fase delle indagini preliminari. Sono statistiche diffuse dal governo, e in particolare dal viceministro della Giustizia, Enrico Costa. Il nodo del contendere è chiaro: i pm chiedono di essere liberi di indagare quanto vogliono. E per questo, attraverso alcuni esponenti di punta della magistratura come Piercamillo Davigo, invocano una riforma che preveda di interrompere la prescrizione già dopo il rinvio a giudizio, in modo da sfruttare a fini investigativi tutto il tempo disponibile per quello specifico reato. Le Camere penali dicono il contrario, e Migliucci ricorda come "non serva allungare i processi, la cui durata va ragionevolmente ridotta". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha scelto una via intermedia. Interrompere il decorrere dei termini di prescrizione per due anni in caso di condanna in primo grado e per un altro anno per chi viene condannato in appello. Limitare l'interruzione ai soli condannati dovrebbe essere sufficiente a placare le preoccupazioni della magistratura sulla strumentalità delle impugnazioni. L'interruzione non si applica a chi viene giudicato innocente e subisce il ricorso in appello dell'accusa perché è evidente che in quel caso non c'è strumentalità alcuna nel comportamento processuale dell'imputato. A questo si aggiunge l'innalzamento delle pene per i reati di corruzione che il Guardasigilli ha proposto come emendamenti al ddl Grasso. Riguardo al percorso parlamentare, si dovrà dare però precedenza ai lavori della commissione Giustizia di Montecitorio, dove un disegno di legge sulla prescrizione in gran parte analogo agli intenti del ministro è già avviato. Sul quel testo il governo interverrà con degli emendamenti. In ogni caso l'impianto che dovrebbe uscire dalla Camera è difeso da Orlando a dispetto dei rimbrotti dell'Anni. E in diretta su Radio anch'io, il ministro non manca di opporre alle perplessità del presidente dell'Associazione magistrati, Rodolfo Sabelli, il parere favorevole espresso dal procuratore nazionale Antimafia: "Roberti ha parlato della proposta di intervento sulla prescrizione del governo come di un accettabile punto di equilibrio". Poi Orlando ammette: "Forse su questo non ci sono verità assolute. Tenere conto dei diversi interessi che vanno contemperati è un modo di legiferare saggio". In ogni caso il Guardasigilli si è detto disponibile "a discutere sulla norma, su come renderla più funzionale, non in astratto ma in funzione di quali sono le principali fonti che portano alla prescrizione". Sarà una discussione difficile. Sabelli lo lascia capire chiaramente: "Sembra che a volte il governo abbia paura del proprio coraggio. Tante volte le proposte o non vengono fatte con la determinazione necessaria oppure sono fatte ma poi è come se ci fosse una marcia indietro", dice il numero uno dell'Anni sempre in diretta sulle frequenze di Radio 1 Rai. La situazione resta tesa. Ma è facile prevedere che così sarà a meno che l'esecutivo non faccia un improbabile passo indietro sulle ferie, l'altro oggetto del contendere. Che forse pesa più della prescrizione. Giustizia: detenuti stranieri in Italia, il 3 febbraio l'Associazione Antigone presenta i dati Aise, 30 gennaio 2015 Verrà presentato il 3 febbraio prossimo a Roma il volume di Patrizio Gonnella "Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti". Durante l'incontro verranno illustrati i dati relativi alla presenza dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, suddivisi per nazionalità e per credo religioso, oltre che per età, legame famigliare e titolo di studio. Verrà inoltre riportato il dato relativo a quanti di questi detenuti siano in custodia cautelare, quanti appellanti e ricorrenti, quanti in esecuzione penale e in esecuzione penale esterna. Altro dato che sarà presentato è quello del tipo di reato per il quale vengono reclusi gli stranieri nel nostro paese. Sarà presentato inoltre il quadro normativo che, nel corso degli anni, ha fatto sì che il numero di stranieri nelle nostre carceri sia progressivamente aumentato. Il volume, realizzato grazie all'attività di ricerca dell'Associazione Antigone con il sostengo di "Open Society Foundation" ed edito dall'Editoriale Scientifica, è il primo lavoro di questo genere realizzato in Italia. La presentazione si terrà alla Libreria del Viaggiatore, via del Pellegrino 78, a partire dalle 11. Insieme all'autore interverranno Silvana Sergi (Direttrice del carcere di Regina Coeli), Marco Ruotolo (Ordinario di Diritto Costituzione, Università Roma Tre) e Abudl Matahar (Mediatore culturale Associazione Medea). La Libreria del Viaggiatore, è la redazione della Round Robin, casa editrice che da anni promuove iniziative letterarie nelle carceri. Con il progetto "un libro ti fa evadere" la Round Robin ha raccolto, grazie ai suoi lettori, decine di volumi poi inviati nelle carceri che ne hanno fatto richiesta. Contestualmente la giovane casa editrice ha promosso presentazioni di alcuni titoli in catalogo, proprio all'interno delle carceri incontrando i detenuti. Giustizia: così il Dap sostiene e promuove i progetti sportivi nelle carceri italiane Agenparl, 30 gennaio 2015 Il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria sostiene e promuove i progetti sportivi nelle carceri italiane ed è impegnato in un attento recupero degli impianti affinché in tutti gli istituti penitenziari lo sport possa diventare una pratica diffusa e occasione di una sempre maggiore partecipazione della società alla vita detentiva. Lo sport in carcere offre alle persone detenute la possibilità di contribuire al benessere psico-fisico e ad apprendere il rispetto per le regole e per l'avversario. Sport come attività individuale ma anche come gioco di squadra, rispetto delle regole e dell'avversario. Grazie al contributo di società e associazioni sportive, delle Federazioni e del Coni, nelle carceri italiane nel tempo si sono costituite vere e proprie squadre sportive, dal calcio, al volley al rugby, che partecipano a campionati "ufficiali" e che gareggiano con squadre esterne nelle strutture sportive degli istituti penitenziari. Il rugby è tra gli sport che negli ultimi anni ha maggiormente attirato attenzione e curiosità anche nella stampa sportiva; attualmente viene praticato in otto istituti. La prima partecipazione a un campionato ufficiale di una squadra composta da detenuti risale al 2011. Nata nella casa circondariale di Torino "Lorusso-Cutugno, "la Drola", questo il nome della squadra, è nata per volontà della direzione e dell'associazione "Ovale oltre Le sbarre", facendo da apripista alle altre esperienze attive presso le carceri di Bologna, Monza, Frosinone, Terni, Bollate, Firenze, Porto Azzurro. Al racconto di queste esperienze è dedicato il libro "Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre", di Antonio Falda, patrocinato dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, dalla Federazione Italiana Rugby e dal Club Italia Amatori Rugby, dal 28 gennaio in libreria, un viaggio fra le carceri italiane alla scoperta del rugby, che si fa strumento sociale e occasione di recupero. Una ricerca appassionante su come la pratica sportiva incida nell'animo delle persone. Storie di detenuti che nel rugby cercano il riscatto personale, di operatori che impegnano il proprio tempo libero per andare a insegnare il rugby in carcere. Di uomini della Polizia Penitenziaria che queste attività le hanno volute, permesse, promosse. L'autore si è recato nel carcere minorile di Nisida, e negli istituti detentivi di Terni, Torino, Monza, Frosinone, Porto Azzurro, Bollate e Firenze. Lì ha incontrato gli operatori esterni, gli educatori/allenatori, i direttori, i comandanti della polizia penitenziaria e naturalmente i detenuti, per vivere direttamente queste esperienze. Il Capo del Dipartimento Santi Consolo ha accolto con grande interesse i risultati positivi fin qui raggiunti dalla pratica del rugby negli istituti penitenziari ed ha già impartito direttive, affidando al responsabile del gruppo sportivo della Polizia Penitenziaria "Fiamme Azzurre" Marcello Tolu l'incarico di effettuare una ricognizione degli impianti sportivi esistenti; sarà così predisposto un piano di recupero di quelle strutture che necessitano di interventi di ristrutturazione al fine di estendere l'esperienza, in collaborazione con la federazione italiana Rugby. Direttive programmatiche sono state concordate con il responsabile delle Fiamme Azzurre per migliorare gli impianti sportivi dell'Amministrazione e renderli fruibili al personale di Polizia Penitenziaria e alle loro famiglie, con previsione di specifiche attività sportive, supportate dagli atleti delle Fiamme Azzurre; saranno previsti corsi di rugby, in collaborazione con la Federazione Italiana Rugby. Giustizia: Erri De Luca, processo assurdo contro un poeta di Vincenzo Vitale Il Garantista, 30 gennaio 2015 Oggi abbiamo tutti il dovere di stare dalla parte di Erri De Luca. Non perché sia particolarmente simpatico o perché sia un poeta particolarmente ispirato o perché capace di avere il coraggio delle proprie idee. No. Abbiamo questo dovere in quanto mi pare davvero assurdo che egli sia stato rinviato a giudizio - e venga ora giudicato - per aver detto pubblicamente che la Tav va "sabotata". Apriti cielo! Reo di aver toccato ciò che non lo può essere, De Luca è stato accusato di istigazione a delinquere e viene perciò processato, rischiando la pena della reclusione da uno a cinque anni. Ora, bisogna sapere che il reato di istigazione a delinquere non solo pone gravi problemi - da sempre - circa i limiti della condotta punibile, ma soprattutto rappresenta la tipica espressione della punizione di un pensiero espresso ad alta voce, con tutti i dilemmi giuridici che ciò comporta. Si può punire il pensiero, sia pure espresso a voce alta? In Italia, si può. So già cosa si potrebbe rispondere: molti direbbero che anche attraverso il pensiero espresso ad alta voce si possono commettere illeciti: si può, per esempio, ingiuriare, diffamare, calunniare. E si può appunto anche istigare altri a commettere un reato. Tuttavia, occorre che siano presenti alcune condizioni specifiche che, peraltro, la giurisprudenza ha elaborato in modo abbastanza preciso e concorde. È stata infatti la Corte di Cassazione a precisare che occorre innanzitutto che il pensiero espresso abbia in sé la capacità di indurre davvero alla commissione di un reato. Nel caso specifico, il termine sabotare può avere in lingua italiana diversi significati, non necessariamente legati ad atti di violenza materiale o personale. Si dà il caso, infatti, che esista anche il sabotaggio in senso politico, sotto forma di ostruzionismo parlamentare; in senso mediatico, sotto forma di silenzio-stampa; in senso intellettuale, sotto forma di opposizione ideale. E allora? Come si fa ad affermare con certezza che il sabotaggio di cui parlava De Luca volesse istigare alla violenza e solo alla violenza ? Non basta. È sempre la Cassazione a pretendere - ai fini della configurazione del reato di istigazione a delinquere - che l'espressione adoperata sia capace di innescare concretamente nei suoi destinatari il proposito effettivo di commettere un reato. Non è sufficiente una generica approvazione né una difesa di un eventuale illecito, ma è necessario che esista fra chi si esprime e i destinatari di quella espressione una relazione tale da far sorgere il proposito concreto di commettere quel determinato reato. Ebbene, non ci vuole molto a vedere come nel caso contestato a De Luca né la prima né la seconda condizione siano presenti, rendendo davvero incomprensibile lo svolgimento del processo. Ciascuno sa bene infatti che De Luca è un poeta e che - giustamente - vede il mondo con gli occhi del poeta, è un pensatore solitario ma socialmente solidale che dice ciò che pensa spesso in modo provocatorio e controcorrente. Ma davvero è possibile scorgere in lui, fonte delle espressioni incriminate, il bieco germinatore di orribili delitti? E che sia addirittura capace, in modo dopo tutto vigliacco, di spingere gli altri a commetterli, mentre lui se ne sta comodamente seduto davanti al caminetto? In realtà, a pensarci viene da ridere, per l'abnormità del ruolo che l'accusa vorrebbe cucirgli addosso come nulla fosse. Ed invece, da ridere c'è poco, pochissimo, perché si sta celebrando un vero processo penale. Dobbiamo aggiungere che se ci trovassimo in un sistema di "common law" - ove il pubblico ministero, prima di agire, deve preoccuparsi di come e quanto l'accusa saprà reggere alla prova di un dibattimento - questo processo non sarebbe neppure stato pensato, immaginato: infatti, il pubblico ministero avrebbe da temere non solo le reprimende pubbliche del giudice e il biasimo della compagine sociale, ma anche gli effetti negativi che di sicuro si determinerebbero sulla propria professione. Ma l'Italia è un Paese diverso. Qui è possibile imbastire, tranquillamente e sapendo di non aver nulla da temere, un processo sbagliato in partenza perché delle due l'una: o si concluderà con una assoluzione di De Luca, ed allora saranno tempo e risorse sprecate; oppure si concluderà con una condanna, ed allora si sarà posata una pietra tombale sulla libertà di pensare e di parlare. Capisco bene che a molti va bene così. Ma non a quelli che hanno a cuore le ragioni della giustizia, di questa dea negletta e misconosciuta, dalla quale tuttavia dipende la vita associata di tutti noi. Giustizia: il genetista Alessandro Meluzzi "il dna su Yara? non ha nulla di scientifico" di Enrico Novi Il Garantista, 30 gennaio 2015 Su una rivista specializzata non sarebbe mai uscito, ma è costato troppo e lo difenderanno con i denti, anche se è una bufala. C'è o non c'è? Sulla prova regina contro Giuseppe Bossetti si rischia di aprire un processo bis. Stavolta i ruoli dell'accusa e della difesa rischiano di assumerli direttamente i genetisti. Sul banco degli imputati ci finisce l'esame del dna effettuato dal Ris dei carabinieri. Secondo la perizia meno entusiasta, in quel test c'è più di un elemento poco chiaro. Almeno due anomalie, sostiene il dottor Carlo Previderé, genetista dell'università di Pavia incaricato, per giunta, dalla Procura. Secondo altri scienziati non cambia nulla: è questa per esempio l'opinione di Giuseppe Novelli, dell'università di Tor Vergata. Abbiamo intervistato il professor Alessandro Meluzzi, docente di genetica del comportamento, il quale dice: "Nel dna niente di scientifico, ma hanno speso troppo e non lo ammetteranno mai". L'avvocato di Bossetti, Claudio Salvagni, sostiene che la Procura non intende riconoscere contraddizioni più che evidenti. Il procuratore capo di Bergamo Giuseppe Dettori dichiara invece che "la prova del dna non è in discussione", in accordo dunque con quanto sostengono il professor Novelli e numerosi altri scienziati. Come finirà al processo vero? Impossibile stabilirlo a furia di perizie che sembrano affermare l'uno il contrario dell'altra. Si può provare con un giudice terzo. Un non genetista, possibilmente. Alessandro Meluzzi, psichiatra ed ex parlamentare di Forza Italia, è immune dal "vizio" di essere un vero e proprio tecnico della materia, condizione che come si è visto non aiuta a fare chiarezza. "Ma vorrei fare delle considerazioni generali, anche sulla base del fatto che oltre ad esercitare la professione di medico psichiatra ho insegnato Genetica del comportamento umano alla scuola di Psicologia clinica dell'università di Siena. La logica della materia non mi sfugge". Ecco, professore: chi ha ragione secondo lei? "Il fatto stesso che esistano delle anomalie dovrebbe spingerci a non considerare come assoluto il valore dell'esame del dna effettuato nelle indagini per la morte della povera Yara". Quindi non si può dire che quell'esame sia una prova contro Bossetti. "Direi di no. Se in un esperimento c'è un dato controverso, questa controversia si irradia su tutto il resto. Se fosse uno studio da pubblicare su una rivista scientifica, l'esame del dna effettuato dal Ris dei carabinieri sarebbe buttato via". Secondo lei non ha validità scientifica? "Hanno comparato il dna mitocondriale delle formazioni pilifere trovate sui leggins della bambina con quello di centinaia di donne, non con quello di Bossetti. In quei reperti non c'è nulla che rimandi all'indagato". E poi c'è la questione del dna nucleare di Bossetti trovato sugli slip di Yara che non è accompagnato dal dna mitocondriale. "È una discordanza significativa. Il dna mitocondriale è sicuramente di provenienza materna. Avremmo dovuto trovare un dna mitocondriale uguale a quello della madre di Bossetti. Alcuni studiosi tendono ad avvalorare comunque il test e dicono che possono essersi verificati eventi di vario tipo, a cominciare dalla degradazione biologica. Può esserci stata una contaminazione, ma anche un errore sperimentale. Un test del genere andrebbe ripetuto più volte Chi conosce la medicina sa che essa contiene l'errore". Quindi Bossetti verrà assolto? "Sono sicuro del contrario. C'è un quadro che tende a cristallizzarsi, ed è tutto a lui sfavorevole. Negli Stati Uniti sarebbe già stato scarcerato. Una prova come quella del dna, in America, non può portare alla condanna. Il motivo? Semplice: è una prova non ripetibile in dibattimento. Quando cioè possono verificarne la correttezza entrambe le parti". Torniamo all'esame, scusi: lei dice che non dà certezze assolute, a maggior ragione in questo caso. "Non bisogna trasformare la prova scientifica in un idolo. L'esame del dna non va ipostatizzato. È un elemento penetrante ma non esaurisce il processo. Andrebbe confrontato con gli altri dati. Nello specifico, il movente, la dinamica. Con il fatto per esempio che nel furgone di Bossetti non ci sono tracce riconducibili a Yara. E poi il testimone che parla 4 anni dopo". Cosa farebbe al posto degli avvocati? "Tenterei la strada dell'incidente probatorio. Farei rifare a Bossetti tutto quello che ha fatto quella sera". La famiglia Gambirasio ha avuto un comportamento esemplare. "Non metto in dubbio che si tratti di persone davvero corrette. Il che però non può far escludere un'altra cosa. E cioè che sospettino tutto un altro retroscena". A cosa si riferisce? "Il papà di Yara era presidente della commissione edilizia. Sovrintendeva a cantieri in cui lavoravano centinaia di immigrati, molti dei quali irregolari. Lui stesso potrebbe sospettare che all'origine di quel mostruoso delitto ci fosse la volontà di intimidirlo. Non sembra si tratti di uno stupro". Sulla base di cosa può dirlo? "Alcuni aspetti. Quei segni dietro la schiena, che ricordano certi segnali mafiosi. Lo scenario di cui dicevo un attimo fa, che finora l'inchiesta ha sottovalutato. Il fatto che dovremmo trovarci di fronte a un predatore sessuale che arriva alle soglie dei quant'anni senza accumulare un solo precedente specifico. Si innamora perdutamente di una bambina di 13 anni e poi la uccide in quel modo. È un quadro che non mi ha mai convinto, neanche un po'. L'unico dato che si presume granitico? Quello del Dna. Che però inizia a sgretolarsi". Non la pensano così molti genetisti. "Non parlano chiaro, non spiegano davvero cosa potrebbe essere successo. La loro è una sorta di esoterismo". A cui, dice lei, si associa il fideismo con cui gli inquirenti scommettono su questa prova. "Una cosa è la scienza, altra è lo scientismo. E qui ne vedo molto. Ha mai sentito parlare di un ospedale in cui non si commettono errori? Possibile che l'unico in cui non se ne verificano è il laboratorio dei carabinieri? Allora affidiamo a loro la ricerca sul cancro. Ho l'impressione che a questo punto si tratti anche di un problema di soldi". Cosa intende dire? "Il fatto che per questo esame del dna sono stati fatti investimenti ingentissimi. In laboratorio sono state eseguite 21mila prove. Se si scoprisse che non sono servite a nulla la cosa risulterebbe sconveniente. Eppure, ripeto, con le anomalie che la perizia del dottor Previderé ha fatto emergere, se si trattasse di un lavoro per una rivista scientifica chiederebbero agli autori dello studio se per caso hanno trovato la provetta in un gabinetto. Come si fa a costruirci sopra una condanna?". Giustizia: nessuno sconto, a Corona resta soltanto la richiesta di grazia a Capo dello Stato di Davide Milosa Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2015 Dopo il pronunciamento della Cassazione, il fotografo rischia di dover scontare 13 anni di carcere, l'ultima speranza è il nuovo Capo dello Stato. In carcere ci sta da due anni. Casa circondariale di Opera (Milano), struttura di massima sicurezza che accoglie ospiti di riguardo come Totò Riina. Certo Fabrizio Corona non è recluso al 41 bis. La situazione resta comunque grave. Vuoi perché l'ex re dei paparazzi soffre di problemi psichici, vuoi perché ora, dopo la sentenza della Cassazione che ha bocciato lo sconto di pena a nove anni disposto dal gip di Milano, Corona rischia di dover scontare un cumulo di tredici anni. Lo sconto era stato definito circa un anno fa. E, dunque, prima dell'ultima decisione dei supremi giudici, considerando il periodo già trascorso in carcere sommato alla detenzione preventiva scontata per "Vallettopoli" a Corona mancavano 6 anni e 8 mesi. Poi la doccia fredda da Roma. I legali del fotografo hanno fatto sapere che a breve invieranno al capo dello Stato una richiesta di grazia parziale. In sostanza non si chiede la liberazione, ma quantomeno gli arresti domiciliari se non addirittura i servizi sociali. Ad oggi, infatti, Corona non può accedere a pene alternative a causa della condanna a cinque anni per estorsione aggravata. Insomma, se la pubblica opinione ormai sembra aver perdonato i colpi di testa del fotografo, non paiono della stessa opinione i giudici che non fanno sconti. I guai per Corona iniziano nel 2006, quando da Potenza rimonta lo tsunami "Vallettopoli" che travolgerà buona parte dello star system milanese. Nella bufera giudiziaria finisce anche il fotografo. Guai e fama vanno di pari passo. Entrambi aumentano esponenzialmente. Il fascicolo riguarda ricatti legati a foto rubate. Corona finisce coinvolto. Nel corso delle varie istruttorie gli vengono attribuiti diversi tentativi di estorsione. Alla fine, l'unica che reggerà in Cassazione è quella all'ex calciatore della Juventus David Trezeguet, costretto a pagare 25mila euro per non far uscire alcuni scatti (baci, in fondo, innocui). Sul caso dell'estorsione indaga e ottiene la condanna la Procura di Torino. Il 18 gennaio 2013 la Cassazione conferma. Nello stesso momento Corona scappa. La sua latitanza dura una settimana. Finirà in Portogallo. Rientrato in Italia, il fotografo viene trasferito al carcere di Busto Arsizio. Da quel momento in poi, su Corona piovono diverse altre sentenze definitive. Il 10 aprile 2013 vien condannato a tre anni e dieci mesi per la bancarotta della sua agenzia fotografica Coronàs. Mentre il 4 giugno dello stesso anno va definitiva la condanna a un anno e due mesi per il caso delle foto fatte nel carcere di San Vittore. La vicenda risale al 2007 nel periodo in cui il fotografo era in regime di detenzione preventiva per "Vallettopoli". In quel frangente Corona corrompe un agente per farsi dare un cellulare. Quegli scatti, tempo dopo, finiscono su alcune riviste. Per tutte queste condanne, un anno fa il gip di Milano aveva ridotto il cumulo totale sostenendo la continuazione tra il reato di estorsione e altri compiuti da Corona. Ora la Cassazione ha annullato sostenendo che "l'ordinanza impugnata viene annullata limitatamente al riconoscimento della continuazione tra i reati di estorsione e i restanti reati oggetto delle sentenze dell'8 marzo 2010 del gip del tribunale di Milano e del 7 giugno 2012 della Corte d'Appello di Milano, e si rinvia per nuovo esame al gip del tribunale di Milano". Il 22 gennaio scorso, Corona si è recato in tribunale per chiedere l'affidamento ai servizi sociali. Ai giudici ha detto: "Sto male, vi chiedo di darmi un'opportunità". Lettere: come cambia la giustizia al tempo di Internet di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 30 gennaio 2015 "Obiezione vostro onore: l'accusa ha letto un messaggio dell'imputato ma senza l'emoticon che c'era alla fine". E il giudice accoglie il rilievo: quel faccino sorridente ha una sua rilevanza davanti alla giuria. Che, sballottata tra fatti reali e realtà virtuale fatica a seguire il percorso di un processo nel quale si parla di indirizzi IP, configurazioni, Bitcoin, Torrent e Codebase. Tanto che a un certo punto il giudice che presiede invita le parti a concordare un glossario da mettere a disposizione dei giurati. Telecamere stradali, intercettazioni telefoniche e ambientali, sorveglianza di Internet ed esami del Dna hanno cambiato il modo di indagare e di assicurare i criminali alla giustizia. Ma, oltre a innovare il lavoro delle polizie, le tecnologie digitali sono destinate anche a sconvolgere i processi per molti crimini, soprattutto quelli informatici. Il procedimento in corso a New York contro Ross Ulbricht, giovane genio informatico accusato di aver creato e gestito un sito di compravendite anonime, "Silk Road", diventato un hub clandestino per la compravendita di droga, è una finestra aperta su questo sorprendente mondo. Un universo nel quale i giurati si perdono in un gioco di specchi elettronici. In apparenza tutto è chiaro: un neolaureato che vorrebbe continuare gli studi ma poi smania per trasformare il suo genio in business model. Ma, a differenza dei leggendari "garage" della Silicon Valley dove sono nate Apple e Google, la start up di Ross va male. Lui ha bisogno di soldi e cambia rotta: inventa la sua creatura clandestina, ricorre per i pagamenti ai Bitcoin, la valuta virtuale non tracciabile che circola sul web, e si nasconde dietro lo pseudonimo Dread Pirate Roberts. Poi deposita, in un angolo del suo computer, un diario a futura memoria con la ricostruzione delle sue gesta fino al collaudo di "Silk Road" con la compravendita di funghi allucinogeni da lui coltivati. Ma nella realtà impalpabile del web, eccepisce la difesa, nulla è come sembra: Ross ha concepito sì il sistema di transazioni segrete, ma poi qualche hacker si è sostituito a lui vendendo droga al suo posto e creando false identità, compresa quella del pirata Roberts. Dissertazioni degli ingegneri dell'Fbi e difesa che non vuole che una chat venga equiparata a una telefonata: "Non c'è un timbro di voce che puoi riconoscere, al massimo puoi ricostruire uno stile di scrittura". E una giuria sempre più disorientata. Il futuro della giustizia è anche questo. Lazio: il Garante; nelle 14 carceri della Regione detenuti stabili a 5.600, ma sempre troppi Ansa, 30 gennaio 2015 "Restano stabili a quota 5.600 i detenuti presenti nelle 14 carceri del Lazio con un sovraffollamento che, seppur lontano dalle cifre del passato, segna sempre un +500 di presenze rispetto alla capienza regolamentare (fissata a quota 5.114)". Lo rende noto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando i dati del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (Dap). "Al 22 gennaio 2015, negli Istituti della Regione erano presenti 5.619 reclusi, 19 in più rispetto al 31 dicembre 2014, ma ben 1.200 in meno rispetto ad un anno fa (la rilevazione del 4 febbraio 2014 indicava 6.856 presenze). Rispetto allo stesso periodo del 2014, il Lazio perde una posizione nella graduatoria delle Regioni italiane con più detenuti, passando dal terzo al quarto posto (dietro Lombardia con 7.871 presenze, Campania con 7.238 e Sicilia con 5.969). Dai dati emergono ulteriori spunti di riflessione. Continua a scendere la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio definitivo: nel Lazio sono 2.101 (37,39% del totale), il 4,6% in meno rispetto a febbraio 2014: 988 sono quelli in attesa di giudizio di I grado, e 1.113 i condannati non definitivi. I condannati definitivi sono invece 3.503, il 62,34%, con un +3% rispetto allo scorso anno. Se da un lato è innegabile che ci sia un calo delle presenze che ci ha portato lontani dall'emergenza sovraffollamento degli anni scorsi - ha detto il Garante Marroni - dall'altro bisogna prendere atto che siamo ancora lontani dal garantire condizioni accettabili di vivibilità all'interno di gran parte delle carceri della Regione. Le aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria segnalate a Frosinone, la difficile realtà denunciata dai sindacati a Velletri e quella segnalata dalla delegazione dei radicali italiani a Latina, sono tutte spie di una tensione che, in troppe realtà, resta ancora troppo alta". Palermo: detenuto di 26 anni si impicca al carcere Pagliarelli, aveva iniziato a collaborare www.livesicilia.it, 30 gennaio 2015 Un detenuto di 26 anni, Ciro Carrello, napoletano, si è suicidato nel carcere palermitano di Pagliarelli. L'uomo, in cella con l'accusa di rapina, si è tolto la vita impiccandosi con in lenzuolo. Da una ventina di giorni si stava confidando con i magistrati della Procura di Palermo. Aveva ammesso di avere compiuto i reati che gli venivano contestati ed aveva iniziato a parlare di episodi che coinvolgevano altre persone. Si è impiccato con un lenzuolo mentre si trovava in infermeria. Una vicenda dai contorni misteriosi. Altri due detenuti dello steso penitenziario, considerati legati alla mafia, sono indagati perché lo avrebbero minacciato con dei bigliettini che qualcuno era riuscito a fargli recapitare in cella. Lo invitavano a stare "sereno" e a prendersi cura solo ed esclusivamente dei suoi familiari. Alla luce di quanto accaduto nella notte, intorno alle 3, ora del suicidio, quei messaggi vengono interpretati come dei veri e propri avvertimenti. Uno, in particolare, era giunto a destinazione quando l'uomo non aveva ancora iniziato a parlare con i magistrati. Anzi, probabilmente era stato proprio il messaggio a convincerlo dell'opportunità di collaborare visto che la sua decisione era maturata nelle ore successive alla lettura del biglietto. E così le celle dei due detenuti ora sono state perquisite. Gli agenti hanno sequestrato alcuni scritti che meritano un approfondimento investigativo. Fino a ieri sera, l'uomo era stato sentito dai pubblici ministeri di Palermo e non aveva mostrato segni di nervosismo che potessero fare presagire intenti suicidi. A breve il detenuto sarebbe stato trasferito in un altro carcere. Detenuto napoletano si impicca: stava collaborando con i magistrati (Il Mattino) Da poche settimane aveva cominciato a collaborare con i magistrati rivelando i nomi dei componenti di una sorta di gruppo di fuoco a cui Cosa nostra si rivolgerebbe da tempo per mettere a segno le rapine. Oggi gli agenti penitenziari del carcere Pagliarelli l'hanno trovato impiccato con un lenzuolo nella cella in cui era in isolamento. Una morte tutta da decifrare quella di Ciro Carrello, 26 anni, nato a Napoli ma residente a Bagheria, arrestato a novembre nell'ambito di una inchiesta sui favoreggiatori del boss Matteo Messina Denaro che coinvolse anche il marito della nipote del padrino latitante. I magistrati vogliono vederci chiaro e indagano per capire se si sia trattato di un suicidio o se qualcuno abbia voluto eliminare l'aspirante pentito. Per lui l'accusa era di rapina aggravata dall'avere favorito Cosa nostra: insieme a un gruppo di complici derubò un deposito della Tnt di Campobello di Mazara di proprietà di una ditta riconducibile a Cesare Lupo, uomo d'onore fedelissimo dei boss Graviano. Al pm Carlo Marzella, che lo ha arrestato a novembre, Carrello avrebbe cominciato a raccontare i particolari di una serie di colpi eseguiti da una banda che farebbe capo ai clan. Nipote del pentito Benito Morsicato, ex affiliato del clan di Bagheria, Carrello avrebbe lasciato in cella un bigliettino che ora è all'esame degli inquirenti. I magistrati disporranno l'autopsia sul corpo del detenuto. Cagliari: Sdr; familiari chiedono il ritorno a Uta dei parenti detenuti trasferiti a Sassari Ristretti Orizzonti, 30 gennaio 2015 "Difficoltà a raggiungere il carcere di Bancali per la distanza, soprattutto in presenza di bambini o quando i familiari hanno condizioni di salute precarie. Impossibilità di effettuare regolari colloqui per i costi dei viaggi che durano intere giornate. Con queste motivazioni alcuni parenti dei detenuti cagliaritani, trasferiti a Sassari-Bancali oltre due mesi fa per favorire lo spostamento in giornata dei reclusi dalla Casa Circondariale di Buoncammino a quella di Uta, chiedono che i parenti possano essere portati nel Villaggio Penitenziario dell'area industriale di Cagliari". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", facendosi interprete del disagio espresso dalle famiglie. "Non riusciamo a spiegarci - hanno riferito - perché i nostri familiari debbano restare a Sassari quando la nuova Casa Circondariale di Cagliari-Uta è ormai entrata a regime. Del resto quando i nostri parenti hanno cambiato sede è stato comunicato loro che si trattava di una misura temporanea adottata solo per semplificare il trasferimento. Abbiamo affrontato le difficoltà consapevoli che si trattava solo di un sacrificio transitorio, ma adesso non ce la facciamo più. Le istanze di trasferimento a Cagliari dei nostri congiunti restano senza risposta e stiamo rinunciando alle trasferte perché sono diventate molto pesanti ed esose". "La richiesta di poter riprendere regolari rapporti con i familiari privati della libertà - osserva Caligaris - è un'esigenza non solo condivisibile ma necessaria proprio per rendere più incisiva, come del resto recitano l'ordinamento penitenziario e le circolari ministeriali, l'azione rieducativa del carcere. È evidente che condizioni socio-economiche difficili condizionano negativamente la possibilità di svolgere regolari colloqui con i parenti generando nei reclusi instabilità emotiva". "È innegabile che l'avvio della nuova mega struttura di Cagliari-Uta richieda un periodo di assestamento, anche perché sono ancora in fase di allestimento alcuni locali perfino dell'amministrazione. L'auspicio è che, aldilà delle questioni organizzative, si provveda al più presto a garantire la territorialità della pena soprattutto in considerazione delle esigenze delle famiglie. Non si può infatti dimenticare - conclude la presidente di Sdr - che i detenuti hanno perso la libertà ma hanno diritto a mantenere i rapporti affettivi indispensabili per il loro reinserimento sociale". Genova: dai piccoli reati all'assistenza in Croce Rossa, per il reinserimento nella società di Riccardo Porcù Il Secolo XIX, 30 gennaio 2015 I nomi li ricordano a memoria. Alì, Vladimir, Vito, Francesco. Sono i loro ragazzi, i volontari della Croce. E poco importa che siano qui grazie ai progetti di detenzione esterna delle carceri genovesi, con la tuta arancione addosso non sono diversi dagli altri, parte della pubblica assistenza. I responsabili della Croce Azzurra di Fegino ripetono la storia e i nomi di tutti i giovani passati da qui e poi tornati al lavoro. Un esempio riuscito di progetto di reinserimento a cui da tempo la pubblica assistenza dedica il proprio impegno. Chi è arrivato non resta con le mani in mano, viene chiamato per le mansioni d'ufficio ma anche per accompagnare i membri con maggiore esperienza e specifiche abilità nel soccorso, negli aiuti agli anziani e alle persone in difficoltà. Poi, quando le chiamate iniziano a diminuire, c'è il tempo per fare una pausa. Due chiacchiere, un breve riposo, le risate e gli sfottò sulle partite di campionato. Anche questo è un modo per conoscersi e parlare per i tanti ragazzi che da mesi hanno sostituito le pene detentive in carcere o le multe per reati minori al volontariato nella sede della pubblica assistenza. Una normalità che in molti pensavano utopia. Invece ora nella sede della pubblica assistenza in via Castel Morrone i giovani si avvicinano alle ambulanze con sapienza, conoscono gli strumenti e hanno imparato le basi del primo soccorso. Alcuni non sono rimasti soltanto perché "obbligati", anzi, hanno deciso di restare anche nei giorni liberi, una volta scontata la pena, per partecipare ai corsi di urgenza. Per diventare in tutto e per tutto militi della Croce. "Sono arrivato qui a dicembre, mi avevano dato un Daspo per aver scavalcato senza biglietto all'esordio della Samp, nel giorno del ritorno in A - racconta Francesco Trimarchi, 23 anni, avvolto nella divisa con il simbolo azzurro a campeggiare sul braccio - Mi hanno fermato anche se avevo pagato per un posto nella Nord. Ad ogni modo, l'obbligo di restare lontano dallo stadio era scaduto ma mi è arrivata una multa da 1.800 euro, che però non posso pagare. Per questo mi hanno proposto, come pena alternativa, di iniziare a far parte della pubblica assistenza". Abbassa lo sguardo quasi a volersi giustificare per il reato sanzionato dal giudice. "Quando mi hanno dato questa possibilità ho subito accettato e, sinceramente, anche se qui diciamo che "non ci sono voluto venire" ma mi ci hanno mandato, mi trovo molto bene. Anzi, vorrei restare anche una volta finito questo periodo obbligatorio che è stato un po' un momento di prova. Ma, ripeto, è un'esperienza davvero importante". Come Francesco al momento sono sei i ragazzi dei progetti di reinserimento, calati perfettamente nella realtà del soccorso, insieme ai tredici dipendenti e ai cinquanta volontari della Croce Azzurra che copre un bacino di circa tremila persone, tra Borzoli, Trasta e la stessa Fegino. "Da noi i giovani vengono per quattro o cinque ore. Magari hanno commesso una semplice "bravata" e vogliono rimediare. Non so, un furto di cellulari o qualcosa di simile. Noi accogliamo tutti a braccia aperte, senza chiudere gli occhi. Sono in tutto e per tutto dei componenti della Croce, con obblighi e doveri. Non siamo accondiscendenti e nemmeno permissivi. Li trattiamo semplicemente come gli altri - spiega Silvano Mastroianni, il presidente della pubblica assistenza di Fegino. Ecco perché, per esempio, non possiamo prendere solo per un paio d'ore, sarebbe poco logico. Con noi si impegnano e lavorano. E, sinceramente, penso che questo sia una delle formule di reinserimento migliori che la giustizia italiana abbia varato". Un progetto che prosegue ormai da oltre tre anni qui a Fegino, con ottimi risultati per i quindici ragazzi transitati da via Castel Morrone. "Certo, anche noi abbiamo avuto dei momenti di difficoltà, alcuni giovani venivano sporadicamente, altri volevano fare i furbi e magari passare una volta ogni due - ribadisce Mastroianni - In tutti quei casi però la chiarezza è stata fondamentale, abbiamo spiegato quanto fosse importante l'occasione che gli era stata concessa e si sono messi quasi tutti in riga. Non solo per un'imposizione ma anche per una voglia di fare del bene agli altri". Caserta: Casa Circondariale di Arienzo, un carcere dove la rieducazione è possibile di Emanuela Belcuore Il Mattino, 30 gennaio 2015 Una capienza accettabile e progetti di ampio respiro. In ogni cella due detenuti. "Questo è un carcere che funziona benissimo anche grazie all'ausilio dei miei collaboratori", È sicura di sé la dottoressa Maria Rosaria Casaburo, direttrice da circa tre anni della Casa Circondariale di Arienzo. Non ci sono, come spesso succede in altre carceri, problemi legati al sovraffollamento, perché qui ogni cella è occupata da non più di due detenuti, per reati comuni, per una totalità di circa cento persone. Quasi tutti italiani; pochi, infatti, gli stranieri. Da poco tempo sono stati eseguiti lavori di ristrutturazione agli impianti termici, ai bagni e alla cucina. "All'interno della Casa Circondariale di Arienzo non si vivono "tempi passivi", paradossalmente abbiamo più attività che detenuti - continua la direttrice - attività, alle quali partecipano con entusiasmo". Infatti, si tengono corsi professionali per diventare cuoco, idraulico, saldatore, operatore edile e giardiniere, quasi tutti retribuiti dalla Regione Campania. Tutte le attività sono continuamente monitorate dagli agenti di polizia penitenziaria in sinergia con gli educatori e i volontari. Addirittura, al teatro Mercadante di Napoli, ha calcato la scena "Il carcere possibile", spettacolo teatrale ideato proprio da un detenuto. È stata anche organizzata la giornata della genitorialità, per facilitare l'incontro tra i detenuti e i propri figli, la manifestazione "L'artigianato in piazza" nella galleria Umberto Primo di Napoli. Alcuni detenuti, purtroppo, hanno famiglie che versano in condizioni economiche disagiate e di conseguenza non sono in possesso neanche di beni di prima necessità. Anche la Chiesa, attraverso Don Sergio Cristo, è a loro vicina: "Già Monsignor Rinaldi ha fatto tanto per i detenuti, in ogni cella c'è il servizio Mediaset Premium. Nel mese di novembre l'attuale Vescovo, invece, ha organizzato, con l'aiuto delle parrocchie della diocesi una raccolta di beni di prima necessità. "Questo - continua il cappellano del carcere - è un lavoro che amo, faccio mie le parole del Papa di uscire dalla Chiesa ed andare nelle periferie esistenziali dove si va a toccare la misericordia di Dio". Toccante anche una sua testimonianza: "Un giorno un detenuto mi disse di non essere un uomo buono, perché, quando 1' avevano arrestato, il padre aveva avuto, dal dispiacere, un arresto cardiaco e di conseguenza, voleva redimersi e cambiare vita". Salerno: la Polizia penitenziaria del carcere di Fuorni protesta per le carenze di organico di Gaetano de Stefano La Città di Salerno, 30 gennaio 2015 Sono sul piede di guerra gli agenti della Polizia penitenziaria del carcere di Fuorni. Carenza d'organico e gestione del personale sono tra i principali problemi, che assieme all'assenza della manutenzione completano il quadro a tinte fosche del penitenziario. Che, a fronte di una "capienza" di 270 persone, accoglie attualmente circa 450 detenuti. Il sovraffollamento non è coperto con il personale in dotazione, la pianta organica prevede 294 unità, ma ne sono in servizio solo 186. E, naturalmente, l'insufficienza di personale fa sì che gli stessi agenti siano sottoposti a turni massacranti. Perciò ieri mattina, per la prima volta, è stato convocato proprio all'interno dell'istituto di pena un incontro organizzato dal Sindacato autonomo polizia penitenziaria. "Il 26 febbraio - ha spiegato Emilio Fattoriello, della segreteria nazionale del Sappe - ci incontreremo con il nuovo direttore Stefano Martone per proporre il nostro programma e chiedere dei correttivi. Qui, infatti, ereditati dalla gestione precedente, esistono molti problemi. Non c'è una programmazione del servizio e ciò comporta l'incertezza dei turni. E dobbiamo denunciare una disparità di trattamento tra il personale. C'è, infatti, chi ottiene immediatamente un congedo e chi, invece, pur avendo gravi motivi, deve tribolare per averlo. Inoltre chiederemo anche la rotazione degli incarichi considerati usuranti". Anche la situazione strutturale del penitenziario non è delle più felici. La direzione, infatti, è transennata, causa pericolo caduta cornicioni, e diversi locali, benché non idonei, vengono utilizzati dal personale. In tutto questo marasma c'è, comunque, una buona notizia: finalmente sono stati reperiti i fondi per riparare il cancello d'ingresso, fuori uso e sempre aperto da circa un mese. Torino: "pure in carcere lo sanno fare"… le esperienze virtuose delle cooperative La Stampa, 30 gennaio 2015 La torrefazione di Pausa Caffè alla Casa circondariale Lorusso Cotugno nata 10 anni fa, laboratori di cucina fino ad arrivare alle cene con gli chef stellati realizzate con i detenuti, i cortometraggi e infine la stamperia artistica "Stampatingalera": sono solo alcuni dei progetti di Sapori Reclusi, associazione che da anni organizza e promuove esperienze (e prodotti) realizzati mettendo in comunicazione il carcere con il "fuori" e offrendo opportunità ai detenuti di acquisire una professionalità utile a reinserirsi nella società. A queste esperienze "virtuose" è dedicata la mostra "Pure ‘n carcere ‘o sanno fa" che inaugura lunedì 2 alle 17 all'Urp del Consiglio regionale del Piemonte. La mostra, aperta fino al 3 marzo, è stata promossa dall'Ufficio del Garante regionale dei detenuti che, con il suo responsabile, Bruno Mellano, ha preso posizione sulla decisione del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) di interrompere le esperienze realizzate con le cooperative negli ultimi 10 anni. All'inaugurazione partecipano il presidente del Consiglio regionale Mauro Laus, il fotografo dell'Associazione piemontese "Sapori reclusi" Davide Dutto, che ha realizzato gli scatti, il sindaco di Fossano Davide Sordella. Le foto sono state realizzate nelle carceri di Santa Caterina di Fossano e San Michele di Alessandria, nella Casa di reclusione Morandi di Saluzzo e nella Casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino. Non mancherà anche la proiezione dei video "La Squadra" e "Pausa caffè" e "Pausa sigaretta" di Davide Sordella e "Sapori reclusi story" di Davide Dutto. Orario mostra: dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13 e dalle 14 alle 16. Info: 800101011. Immigrazione: profughi, rotta ad alto rischio… cosa c'è dietro il racket di Guido Olimpio Corriere della Sera, 30 gennaio 2015 Passano gli anni, cambiano solo i "clienti", sempre più disperati e vittime. Il sistema invece resiste e si moltiplica. L'inchiesta del Corriere sull'agenzia viaggi che organizza gli spostamenti via Milano dei profughi siriani dimostra l'ampiezza del fenomeno e la sua sofisticazione. Una realtà che poggia su una serie di pilastri e sollecita, al tempo stesso, delle contromisure da parte delle autorità. Intanto c'è la storia. Milano è sempre stata una piazza importante per i trafficanti. E le informazioni pubblicate dal nostro giornale confermano come mantenga questo ruolo. In chiave locale e internazionale. È un centro dal quale si può ripartire verso mille direzioni e con molti mezzi. Le organizzazioni che sfruttano i fuggiaschi si sono solo alternate ed hanno resistito ai controlli. L'erba cattiva è stata rasata, non estirpata. Il secondo pilone è quello della "professionalità" dei gestori. Ricordano altri passatori, in altri parti del mondo dove il clandestino è un pollo da spennare. I trafficanti possono essere brutali, violenti ma tendono a mantenere in vita il mercato offrendo il servizio completo. Non certo per generosità, ma perché sanno bene che la voce si sparge e dunque possono attirare altri candidati al viaggio. C'è poi la questione della sicurezza. I disperati, inseguiti dalla guerra o dalla pulizia etnica, non hanno nulla da spartire con gli estremisti. Lo ripetono in tanti. Vero e sacrosanto. Però sarebbe da ingenui non considerare che l'esistenza di un racket ben oliato che può portarti molto lontano è una finestra di opportunità per chi ha in mente altro. I maggiori controlli adottati negli aeroporti complicano la vita agli aspiranti terroristi, ai militanti in spostamento perenne. Inevitabile che possano scegliere altre rotte, più lunghe, dove ci si può mimetizzare. Così come hanno bisogno di documenti nuovi. Non sono supposizioni ma valutazioni basate su quanto è avvenuto in passato. Indagini hanno dimostrato come elementi, pesantemente coinvolti in una filiera belga-siriana, avessero creato un corridoio che dal Nord Europa, passando per l'Italia, proseguiva in Grecia e Turchia, ultima tappa prima del salto in terre di Jihad. Tragitto che poteva essere percorso anche all'inverso. È solo uno di molti casi dove la falsificazione di documenti è contigua alla nebulosa radicale. Tutto questo richiede delle risposte. Non facili in tempi di risorse magre, ma irrinunciabili se si vuole mantenere la sicurezza. Indonesia: Forum Droghe; le 6 persone "giustiziate" simbolo fallimento politiche repressive 9Colonne, 30 gennaio 2015 "Il caso dell'esecuzione di 6 persone in Indonesia accusate di reati legati al traffico di stupefacenti è esemplare di come in moltissimi paesi del mondo i reati legati alla droga siano trattati con maggiore severità rispetto agli altri reati". Lo afferma Maria Stagnitta, presidente di Forum Droghe. "Sono molti gli Stati che prevedono la pena di morte per reati legati alla droga - continua Stagnitta. vedi gli articoli di Grazia Zuffa sulla nostra testata on line Fuoriluogo.it, e solo 5 mesi fa in Arabia Saudita 4 persone sono state giustiziate per traffico di droghe leggere. La lista di questi paesi è lunga e vede primeggiare nazioni come l'Iran nel quale si annovera uno dei più alti tassi di tossicodipendenti al mondo, dimostrando ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, quanto inutili siano pene di una così grave durezza nell'affrontare un tema delicato come quello legato alle politiche sulle droghe. Ma la pena di morte è solo la punta di un iceberg, ci sono paesi dove anche il solo sospetto di essere tossicodipendenti o il possesso di piccole quantità di droga sono puniti con anni o mesi di carcere o di rieducazione in campi di lavoro, frustate o pesanti discriminazioni". Sottolinea inoltre che "il fallimento delle politiche repressive è evidente ed innegabile ad ogni livello, tanto da aver spinto l'Onu a convocare una sessione speciale sull'argomento senza aspettare le scadenze naturali. Ungass questa la sigla per la sessione speciale dell'Onu si terrà a New York nel 2016 e in quel consesso ogni paese potrà esprimere la propria posizione sul tema droghe. Aspettiamo che l'Italia definisca la propria con un percorso partecipato da tutte le realtà che operano nel settore". Stati Uniti: la Corte suprema autorizza l'esecuzione di un handicappato mentale in Texas Askanews, 30 gennaio 2015 La Corte suprema ha autorizzato nuovamente l'esecuzione di un handicappato mentale, questa volta in Texas. Robert Ladd, un nero di 57 anni, dotato di un QI pari a 67, è stato giustiziato con un'iniezione letale alle 19.02 di ieri, ora locale, nella camera della morte del carcere di Huntsville. L'esecuzione è avvenuta poco dopo il secondo rifiuto della Corte di rivedere la sua condanna. Ladd era stato condannato a morte per lo stupro e l'omicidio di una ragazza nel settembre 1996, mentre si trovava in libertà condizionale dopo 16 anni di carcere per l'assassinio di una donna e dei suoi due bambini. Martedì la Corte Suprema aveva consentito l'esecuzione di un altro handicappato mentale in Georgia. Si tratta della sesta esecuzione dall'inizio dell'anno negli Stati Uniti, la seconda nel Texas, che da solo ha giustiziato 520 detenuti dal 1976. Eritrea: Usa; bene rilascio 6 giornalisti, ma 17 ancora detenuti, servono misure per tutti Askanews, 30 gennaio 2015 Gli Stati Uniti hanno accolto con favore la notizia del rilascio di sei giornalisti in Eritrea, diffusa nei giorni scorsi da Reporters senza frontiere, ricordando però che "il governo continua a detenere altri giornalisti, che dovrebbero essere 17". Il 23 gennaio scorso Reporters senza Frontiere ha riferito della liberazione di Bereket Misghina, Yirgalem Fisseha Mebrahtu e Basilios Zemo di Radio Bana, di Meles Negusse Kiflu, che lavorava per Radio Bana e Radio Zara, di Girmay Abraham di Radio Dimtsi Hafash e di Petros Teferi, arrestati durante una retata nel febbraio 2009. In una nota diffusa dal Dipartimento di Stato Usa, Washington "invita il governo ad adottare misure immediate per gli altri giornalisti detenuti, per tutte le persone incarcerate per il loro credo religioso, per i membri del G-15 (si tratta delle personalità che si opposero alla decisione del presidente Isaias Afewerki di rinviare le elezioni e non adottare la costituzione, di cui 11 vennero arrestate nel settembre 2001, ndr) e per tutti gli altri prigionieri politici". Nella nota, "gli Stati Uniti continuano a invitare il governo eritreo ad adottare misure per il rispetto dei diritti umani e di concedere ai propri cittadini le loro libertà fondamentali".