Giustizia: il prossimo Presidente della Repubblica? garantisca gli esclusi di Federico Pica Il Garantista, 2 gennaio 2015 Viene sollecitata e riconosciuta, nel dibattito corrente, la condizione che il Presidente della Repubblica che dovrà essere eletto in tempi brevi abbia un "ruolo di garanzia". A questo fine, si ritiene che debba esservi una intesa di tutte (o quasi) le forze politiche intesa, e che in particolare coinvolga le minoranze rappresentate in Parlamento, o talune di esse. Tutto ciò deve indurre, a mio avviso, a porre con forza la questione della anomalia che è in atto in Italia. La Corte costituzionale ha stabilito, con proposizione non contestata da alcuno, che il Parlamento in carica è stato espresso sulla base di una legge contraria ai principi della Carta costituzionale vigente. Ciò che è accaduto, per responsabilità delle maggiori forze politiche, è che il Parlamento non abbia legittimità democratica: i membri del Parlamento non rappresentano, perciò, "la Nazione", come vorrebbe l'art. 67 della nostra Costituzione. In via di fatto, più della metà dei cittadini d'Italia hanno ritenuto di non aver ragione di partecipare al "gioco", astenendosi in vario modo dall'esprimere, nel contesto delle norme nel concreto vigenti, le proprie preferenze politiche. Accade ora che si chieda un Presidente della Repubblica che "garantisca", che cioè assicuri, che mostri di voler assicurare, la perpetuazione degli attuali meccanismi di governo. I temi portati sono quelli della "governabilità" e della complementarietà di fatto, nei meccanismi politici, tra le due principali forze, "di destra" e "di sinistra". Il tentativo non è dunque quello di coinvolgere, attraverso più plausibili e più chiare impostazioni, i cittadini d'Italia, ma anzi quello di protrarre la situazione attuale di "non democrazia". Sono elusi, in tal modo, lo "spirito" della sentenza emanata dalla Corte costituzionale ed il precetto secondo il quale la sovranità appartiene al Popolo, precetto che apre la Costituzione della Repubblica. In queste condizioni, l'auspicio (in realtà, privo di speranza) potrebbe essere quello che il nuovo Presidente della Repubblica sia davvero un Presidente di garanzia. Dovrebbe trattarsi di una personalità che sia in grado, come la Costituzione prescrive, di rappresentare l'Unità nazionale. Benché sia del tutto impensabile che ciò possa avvenire in concreto - in quanto l'evento è in contrasto con gli interessi degli "eletti" e con la loro domanda di "garanzia" - il nuovo Presidente dovrebbe rappresentare soprattutto quella metà del popolo italiano che la qualità dell'offerta politica ed i meccanismi elettorali vigenti hanno escluso dal gioco. E davvero in questione l'Unità nazionale, che è stata rotta, nella sostanza anche se non nella forma, nell'ultimo ventennio: tentare di recuperarla dovrebbe essere obbiettivo prioritario di quanti davvero ritengono che la Repubblica italiana possa avere un futuro democratico. Giustizia: con la crisi economica la Corte europea ha smarrito i diritti di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 2 gennaio 2015 Dal 2007, l'anno d'inizio della crisi, un susseguirsi di sentenze hanno fatto emergere un chiaro orientamento regressivo, soprattutto in ambito economico e sociale. In nome dell'austerità, del risanamento, degli equilibri finanziari. La costruzione europea dei diritti si è venuta formando essenzialmente - se non esclusivamente - grazie ai giudici. Nel campo dei diritti fondamentali, almeno fino al Trattato di Maastricht, la tutela giurisdizionale è stata definita dalla Corte di Giustizia in sostanziale assenza di ogni appiglio testuale e in mancanza di ogni parametro di natura costituzionale. Ciò non ha impedito che una giurisprudenza più che ventennale riuscisse a definire un vero e proprio corpus di regole di diritto. Proprio quelle regole che, tradotte in principi, si sono poste alla base della successiva definizione dei testi politici di valore costituzionale: nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione in primo luogo. Eppure, proprio quando sembrava che finalmente tutti i diritti inscritti nella Carta avessero ottenuto il massimo del riconoscimento da parte degli Stati (e dunque della politica) grazie al Trattato di Lisbona, che ha assegnato ad essi il medesimo valore giuridico dei Trattati, ecco che è cominciata la rotta del diritto, che ha dovuto cedere il passo ai sacrifici imposti dalla congiuntura economica avversa. Con realismo, si deve ormai prendere atto dell'abbandono dei diritti (di quelli sociali in particolare) da parte delle istituzioni europee, preoccupate esclusivamente del risanamento dei bilanci e dimentichi di quel che pure è scritto nel Preambolo della Carta: "l'Unione pone la persona al centro della sua azione"; e poi ancora: essa "si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell'eguaglianza e della solidarietà". Principi e parole che è difficile scorgere tra le priorità imposte alle politiche europee, ma anche a quelle nazionali, negli ultimi anni; politiche semmai indirizzate a limitare la portata dei diritti, ovvero a subordinane l'estensione alle ragioni degli equilibri finanziari. Come hanno reagito i giudici - fautori del cambiamento di ieri - alla crisi economica, ma anche politica degli ultimi anni? È evidente che non si può generalizzare, né è opportuno sottovalutare le decisioni che ancora riescono ad assicurare ai diritti una garanzia a volte maggiore in Europa che non in ambito nazionale. Basta qui richiamare la recente decisione su Google, del 13 maggio, cha ha imposto il rispetto di diritti fondamentali previsti dalla Carta europea, i quali - ha scritto significativamente la Corte - "prevalgono sull'interesse economico degli operatori dei motori di ricerca". Per non dire della decisione del 26 novembre sulla contrarietà al diritto dell'Unione del rinnovo illimitato dei contratti a tempo determinato nella scuola. Un ruolo di garanzia dei diritti, dunque, la Corte di Giustizia riesce ancora a svolgerlo, tuttavia non può negarsi che la giurisprudenza europea sembra aver smarrito la sua forza propulsiva, mostrando sempre più vistose incertezze, arretrando in molti settori, soprattutto in ambito economico e sociale. Sul fronte più esposto, quello del lavoro, si vanno cumulando le decisioni che escludono l'applicabilità della Carta alle materie pur da essa disciplinate, facendo prevalere, al loro posto, gli altri "principi generali" del diritto comunitario - quello d'impresa, quello di stabilimento, quelli collegati al libero commercio, quelli legati ai meccanismi di stabilità - di cui la Corte si ritiene pure garante. Si moltiplicano i casi in cui quest'opera di bilanciamento (che è in qualche misura necessaria) si è risolta in una netta inversione delle priorità, facendo prevalere gli interessi e le libertà commerciali sui diritti garantiti dalla Carta. Dal 2007 - l'anno d'inizio della crisi - un susseguirsi di sentenze hanno fatto emergere un chiaro orientamento regressivo. All'inizio ci fu la sentenza Viking, la quale affermò che, sebbene il diritto di sciopero e di azioni collettive fosse previsto all'articolo 28 della Carta, cionondimeno dovesse prevalere il diritto di stabilimento previsto dall'articolo 43 del Tce (il Trattato che istituisce la Comunità Europea). A molti commentatori quella sentenza era apparsa un forte arretramento in materia di garanzie dei lavoratori e un colpo alla Carta. Qualcuno ritenne si trattasse di un abbaglio, di un momento di sbandamento che non avrebbe inficiato né il valore della Carta, né la sensibilità della Corte al tema dei diritti fondamentali. Ma non si fece neppure in tempo a smettere di scrivere e di auspicare un ritorno alla strategia dei diritti, che una serie continua di sentenze lasciò tutti senza fiato. Pochi mesi dopo la Viking, la Laval, l'anno successivo la Rüffert, poi la Commissione contro il Granducato di Lussemburgo, poi contro la Repubblica Federale di Germania, sino a giungere alla più recente sentenza Pringle. Tutti casi diversi s'intende, ma identica è stata la tecnica utilizzata per abbandonare una frontiera divenuta troppo esposta, quella frontiera che aveva in altri casi, in un diverso clima culturale, politico ed economico, portato la Corte a far prevalere le garanzie dei diritti fondamentali. Il meccanismo reiterato nelle decisioni richiamate - e altre se ne potrebbero indicare - appare significativo: non si nega il valore normativo delle pretese (infatti, pressoché tutte le decisioni in materia di diritti richiamano ormai la Carta ovvero i precedenti giurisprudenziali che hanno enucleato i vari diritti), ma queste vengono liberamente bilanciate - in base a un indeterminato principio di proporzionalità - con gli altri principi fondamentali della Comunità sanciti nelle tante norme dei Trattati. Tutte norme collocate sullo stesso piano. Nel gioco del libero bilanciamento dei giudici rientrano così, su un piano di parità formale, i diritti sociali, le libertà economiche, le misure restrittive di natura finanziaria e di risanamento. Non credo possa stupire più di tanto se - perduto il loro statuto privilegiato - siano i diritti fondamentali (quelli sociali in primo luogo) a cedere il passo di fronte agli altri interessi costituiti entro il sistema europeo in crisi. In quest'ultima fase la giurisprudenza appare dunque pericolosamente oscillante, alternandosi decisioni di segno diverso. Se si vuole andare però alla radice del problema non basta denunciare la crisi della tutela per via giudiziaria, né si può sperare che siano i giudici a trovare una via d'uscita. Per cercare una soluzione alla crisi occorre scrutare da un'altra parte, bisogna guardare alla politica. Qualora dovesse proseguire l'attuale politica economica, propensa al sacrificio delle persone in nome delle libertà di mercato, dominata dai meccanismi di equilibrio dei bilanci pubblici che la crisi economica e l'ideologia neoliberista dominante hanno imposto, ai diritti fondamentali sarà riservato un infelice destino d'oblio. Se non si vuole abbandonare l'idea di un Europa dei diritti la via da percorrere deve essere un'altra. Diventa necessario puntare su una diversa politica europea che, in nome della costituzione e del costituzionalismo moderno europeo, riaffermi la centralità della persona. La superiorità dei diritti sui poteri (anche economici) è un lascito del costituzionalismo moderno, che può rappresentare anche l'inizio di una nuova stagione per estendere all'ordinamento dell'Unione le conquiste di civiltà dei popoli europei. Certo per ottenere questo obiettivo bisognerebbe aver voglia di cambiare lo stato di cose presenti, mutare radicalmente le politiche economiche, combattere le ideologie oggi prevalenti. Si dovrebbero soprattutto trovare dei soggetti in grado di rappresentare una Europa diversa da quella esistente. La strada appare stretta, ma non rimane molto tempo se si vuole arrestare il declino dei diritti in Europa. Giustizia: Radicali; nel 2014 morti suicidi 10 agenti di polizia penitenziaria e 43 detenuti Ansa, 2 gennaio 2015 Nel 2014, nei penitenziari italiani, "ci sono stati 10 suicidi di agenti e 43 di detenuti. In 10 anni i detenuti suicidatisi sono saliti a 823, e oltre 100 sono stati i suicidi tra il personale di polizia penitenziaria". Lo hanno riferito stamani a Firenze i Radicali dopo una serie di iniziative, tra cui una visita ieri sera al carcere di Sollicciano per evidenziare numerose carenze del sistema carcerario nazionale. "Forse dovremmo mettere su un Osservatorio per i suicidi in carcere - ha polemizzato la segretaria dei Radicali, Rita Bernardini, in una conferenza stampa - e magari anche per i suicidi di piccoli imprenditori che avvengono nel Paese", mentre per quanto riguarda Sollicciano ha detto che "potremo fare un elenco delle illegalità" e bisognerebbe che "il ministro della Giustizia ci facesse un giro come abbiamo fatto noi". Alle iniziative, compresa la visita al penitenziario, ha partecipato anche Marco Pannella: "Sono qui - ha affermato il leader radicale - per le questioni della Giustizia, del diritto, del fatto che all'Italia viene imputato dalle giurisdizioni europee, anche dall'Onu di essere oggi concretamente erede non di regimi che avevano vinto nel 1945 in tutta Europa e in Italia, ma erede dei regimi che li avevano preceduti". "Dico questo - ha spiegato - perché la ragion di Stato contro lo stato di diritto e i diritti umani è esattamente quello che si rimprovera allo Stato nazista, allo Stato stalinista e allo Stato fascista". Giustizia: "quella bambina di 14 anni è un capomafia" di Francesco Altomonte Il Garantista, 2 gennaio 2015 Mancano sei mesi al compimento dei suoi 17 anni, ma leggendo i capi di imputazione riportati nell'avviso di conclusioni delle indagini preliminari sembra di avere a che fare con un boss di lunga data, di un criminale incallito che ha dedicato la sua vita a "mamma ‘ndrangheta". Lei (sì, stiamo parlando di una ragazzina), figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca Gallico di Palmi, nel Reggino, risulta ancora incensurata, benché la procura dei minorenni di Reggio Calabria l'accusi non solo di associazione mafiosa, ma anche di essere un capo promotore del clan (armato) di riferimento dei suoi genitori. Il primo pensiero che passa nella mente del cronista (o perlomeno dovrebbe passare) è: ma un ragazzina che all'epoca dei fatti non aveva compiuto 14 anni, è imputabile? La risposta è, anzi dovrebbe essere no, ma la data posta in calce al documento che decreta la fine delle indagini preliminari dissiperebbe i dubbi: "Accertato in Palmi e territori limitrofi in epoca successiva al 12.05.2011". Nel giugno di quell'anno (il 2011), infatti, la ragazzina avrebbe compiuto 14 anni, quindi poteva essere perseguita per il delitto associativo. Alcuni fatti che le vengono contestati, infatti, risulterebbero compiuti nei mesi successivi. Da qui, la possibilità da parte della procura dei minori di poterla accusare di associazione mafiosa. La ragazza, che dall'inizio del 2014 è ospite di una famiglia nel nord Italia, entra in una delle tante inchieste che hanno permesso di decapitare il clan Gallico, in particolare quella in cui viene colpita una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. Suo padre e sua madre sono in carcere, lei vive in casa con dei partenti. Gli uomini della squadra mobile di Reggio Calabria e del commissariato di Palmi, che stanno conducendo le indagini, hanno piazzato delle microspie in quella casa e a metà del 2011 intercettano una conversazione nella quale alcuni indagati parlano di soldi e di qualcosa nascosto all'interno di quella abitazione. Tra i partecipanti alla discussione c'è anche l'allora tredicenne. La ragazza dopo alcuni minuti lascia la casa insieme a una donna finita in carcere alla fine del 2011, Loredana Rao, salendo in auto con lei. Gli investigatori, per capire dove e cosa trasportassero nell'autovettura, piazzano un posto di blocco appena fuori la città. Le due donne pochi minuti dopo intravedono la volante della polizia, fermano la macchina e fanno marcia indietro. Quella è la prova per i poliziotti che qualcosa non quadra. Partono all'inseguimento e bloccano non solo la macchina nella quale viaggiavano la Rao e la ragazzina, ma anche un'altra autovettura con a bordo alcuni uomini della famiglia. La mossa conseguente è il trasferimento di tutti in commissariato per la perquisizione. Per evitare fughe o altri problemi, due poliziotti salgono a bordo delle due macchine. Un agente, si legge nell'informativa redatta dagli uomini della Mobile, durante il tragitto nota che la ragazzina cercava di sistemare qualcosa che aveva nascosto all'altezza dell'inguine. Appena giunti in commissariato chiedono se vogliono essere assistiti da un legale, soprattutto lei che ancora non ha compiuto 14 anni, ma tutti declinano l'invito. La ragazza, però, non si fa neanche perquisire perché spontaneamente consegna alla poliziotta un foglietto contenuto all'interno dello slip. Si scoprirà nel novembre 2011 di cosa si tratta, quando la procura antimafia di Reggio Calabria emette un decreto di fermo con il quale finisce in carcere l'intera rete di presunti estortori. Si trattava di un foglio di calendario sul quale erano state annotate date e cifre. Per gli inquirenti quei dati parlano chiaro: sono appunti per la riscossione del pizzo imposto dal clan Gallico agli imprenditori e commercianti della città. Alcuni di loro, per inciso, collaboreranno alle indagini confermando quanto ricostruito dalle forze dell'ordine. All'interno di un'altra informativa, la ragazzina viene intercettata con il fratello. Per gli inquirenti il parente le starebbe impartendo degli ordini per andare a ritirare delle estorsioni, o per intimarne in pagamento. Siamo nel 2012 e, quindi, per la legge italiana la 14enne è perseguibile e può essere incriminata. L'equazione sembrerebbe questa: siccome tutti i suoi parenti e membri del clan sono dietro le sbarre, dai mammasantissima fino ai fiancheggiatori, l'allora 14enne svolgerebbe il compito di "reggente" della cosca, anello di congiunzione con i detenuti e figura "visibile" della famiglia sul territorio. La ragazzina, intanto, dopo l'arresto di tutti i suoi parenti, compreso suo fratello ancora minorenne, viene data in affidamento a una famiglia del nord Italia dalla quale la giovane, secondo quanto appreso, fugge con regolarità per ritornare a casa. Con altrettanta regolarità viene ripresa e riportata indietro. Secondo quanto saputo nella giornata di ieri, pare che solo ad agosto scorso, il Tribunale dei minori le abbia concesso la possibilità di visitare suo padre in carcere. Giustizia: 14enne incriminata per mafia… la cultura degli sceriffi porta alla follia di Piero Sansonetti Il Garantista, 2 gennaio 2015 Se davvero c'è un magistrato che ha deciso di incriminare per mafia una bambina di 14 anni, è chiaro che quel magistrato sta male. Bisogna aiutarlo. Lo dico davvero, senza ironia. Una persona che pensa sia una cosa giusta accusare di mafia una bambina, sicuramente non è un malfattore, indiscutibilmente è in buona fede: è solo travolto da una passione fanatica, dovuta a tante cose, che lo spinge a credere che il suo dovere sia quello, essere inflessibile, punire, reprimere, scovare criminali ovunque, e pensa che questa sua inflessibilità sia la sostanza dell'eticità della sua professione e il bastione intorno al quale radunare un esercito in grado poi di affrontare il male, e la mafia, e di sgominarli. Il problemi ora sono due, uno pratico e l'altro teorico. Il problema pratico, immediato, è che intervenga una autorità superiore e cancelli l'incriminazione contro la ragazzina. Questo immaginiamo che avverrà già nella giornata di oggi. Supponiamo che la Procura prenderà posizione per evitare anche che l'azione avventata di un Pm produca un danno di credibilità molto forte alla magistratura calabrese. Il secondo problema sta nella seguente domanda: come può succedere che un Pm perda il senso della realtà fino al punto da mettere sotto accusa per mafia una ragazzina? Io penso che le ragioni siano due. La prima riguarda la difficoltà di battersi contro il fenomeno della mafia, specie in Calabria, specie nel reggino. I magistrati sono costretti a un lavoro quasi impossibile: la società - e soprattutto la Grande Compagnia Infallibile dell'Antimafia - ha affidato loro il compito di lottare, da soli, contro un fenomeno sociale, politico e criminale di dimensioni vastissime e che è avvinghiato con radici molto profonde alla storia e alla vita e all'economia di questa società. La magistratura, anche se ricorre allo sceriffismo più estremo, come quello di questo povero Pm che ha incriminato la ragazzina, non ha nessuna possibilità di venire a capo del problema. La magistratura ha il compito di punire il crimine e di scoprire la verità. Punto. E deve farlo rispettando le leggi e la Costituzione. Non ha il compito né di prevenire il crimine (guai se lo facesse) né tantomeno di affrontare problemi di carattere sociale, economico e di organizzazione del potere. La magistratura giustizialista - quella spinta dalla Compagnia Infallibile dei giustizialisti, che pensano che la lotta alla mafia si conduca facendo il tifo per gli sceriffi e spuntando addosso a chi prova a difendere il diritto e la Costituzione - è destinata ad essere sconfitta. Questo è un problema enorme. L'antimafia, in Italia, e in particolare in Calabria, sta facendo di tutto per mettere la ‘ndrangheta in posizione di forza. La Calabria ha bisogno di ricostruire l'antimafia, cioè di costruirla partendo da zero, mettendo insieme forze politiche, intellettuali, anche religiose, capaci di proporre un programma di riorganizzazione della società calabrese che tagli gli spazi alla mafia, che crei legalità e non che vada in giro con la faccia feroce e la rivoltella alla cinta. Oggi l'antimafia non esiste. È chiaro che in questo clima -giudici soli contro tutti e appoggiati solo da gruppetti di fanatici che saranno anche persone per bene ma hanno il cervello scollegato - un Pm che non abbia una gran cultura del diritto può sentirsi costretto a provvedimenti estremi. Come quello di colpire i bambini. La seconda ragione di questo "impazzimento" di un magistrato sta nel clima di "assedio" che una parte della magistratura, e più precisamente la dirigenza dell'Anm, ha creato in tutto il paese. Nel timore di una riforma della giustizia che "limi" il potere eccessivo accumulato in questi anni dalla magistratura - o più precisamente dai Pm - l'Anm ha lanciato una campagna anti-riformista che poggia sull'idea che sia in corso un tentativo di sottomissione della magistratura al potere politico. E questa campagna la svolge in modo massiccio grazie all'alleanza (se non vogliamo dire annessione) dei grandi giornali e delle grandi Tv. La campagna anti-riformista può persino inavvertitamente sfuggire di mano, e spingere ad azioni insensate e talebane come quella della quale stiamo parlando. Perché si ponga fine a questo talebanismo dei magistrati occorre che sia una parte della stessa magistratura a ribellarsi. Non può continuare ad assistere in silenzio alla crescita esponenziale dell'estremismo eversivo nella magistratura "vincente". Deve venir fuori, mettere un alt, accettare di pagare un prezzo e schierarsi in modo aperto e provocatorio per la riforma della giustizia. È l'unico modo per fermare l'imbarbarimento. Giustizia: corruzione, dieci mesi fa il richiamo Ue (inascoltato) di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2015 Il rapporto dell'Europa e le "specifiche raccomandazioni" all'Italia. Il semestre europeo di presidenza italiana doveva essere decisivo per "rafforzare il quadro giuridico di contrasto alla corruzione", almeno secondo l'Ue, che nel Rapporto sull'Italia del 3 febbraio 2013 ci aveva richiamato all'attuazione di "specifiche raccomandazioni" (in primis sulla prescrizione), dopo un'analisi sul "dilagare della corruzione" e sui rapporti tra questa e criminalità mafiosa. Ma solo con l'inchiesta Mafia-Capitale la politica sembra essersi accorta della realtà, ovvero dell'esistenza di una "corruzione capace di insinuarsi in ogni piega della realtà sociale e istituzionale, trovando sodali e complici in alto", per dirla con le parole del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Eppure, dieci mesi prima che quell'inchiesta deflagrasse, l'Ue segnalava che "in Italia, i legami tra politici, criminalità organizzata e imprese e lo scarso livello di integrità dei titolari di cariche elettive e di governo sono tra gli aspetti più preoccupanti, come testimonia l'elevato numero di indagini per casi di corruzione, tanto a livello nazionale che regionale". E citando uno studio a cura del Center for the Study of Democracy, aggiungeva: "Il caso italiano è tra i più esemplari per capire quanto stretti siano i legami tra criminalità organizzata e corruzione. È soprattutto la corruzione diffusa nella sfera sociale, economica e politica a attrarre i gruppi criminali organizzati e non già la criminalità organizzata a causare la corruzione". Il Rapporto è stato letto e archiviato troppo in fretta se è vero - com'è vero - che il governo, invece di varare subito misure anticorruzione, le ha via via annunciate, rinviate e annacquate. Tanto che, salvo auto-riciclaggio e voto di scambio, non solo nessuna è ancora legge ma alcune di quelle approvate dal Consiglio dei ministri sul filo di lana della scadenza del semestre) non sono neppure ancora arrivate alle Camere. Che per giunta, in attesa del governo, hanno dovuto rallentare l'iter sui testi di iniziativa parlamentare in materia di anticorruzione. Vale la pena rileggere il Rapporto sull'Italia - almeno nella parte sulla repressione penale - per cogliere lo scarto con le risposte del governo. Basti solo pensare che la Commissione, citando i rapporti del Gruppo di Stati del Consiglio d'Europa contro la corruzione (Greco) e dell'Ocse, ricorda che "le carenze esistenti contribuiscono alla percezione di un clima di quasi impunità e ostacolano l'efficacia dell'azione penale e l'accertamento nel merito dei casi di corruzione". Pur dando atto che la legge 190 sull'anticorruzione (la cosiddetta legge Severino) è stata "un importante passo avanti", la Commissione scrive che essa "lascia irrisolta una serie di problemi: non modifica la disciplina della prescrizione, la normativa penale sul falso in bilancio e sull'auto-riciclaggio e non introduce il reato di voto di scambio. Il nuovo testo frammenta inoltre le disposizioni di diritto penale sulla concussione e la corruzione" dando adito "ad ambiguità". Contiene norme "ancora insufficienti" sulla corruzione nel settore privato, poiché "restringe il campo di applicazione alle categorie di dirigenti cui il reato è imputabile"; reato perseguibile a querela di parte e non d'ufficio. Insufficienti anche le norme "sulla tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti". Più avanti il Rapporto aggiunge che la prescrizione "è un problema particolarmente serio" ai fini delle indagini e dei processi: i termini previsti, sommati alla lunghezza dei processi, alle regole e ai metodi di calcolo della prescrizione, alla mancanza di flessibilità delle cause di sospensione e di interruzione e all'esistenza di un termine assoluto che non può essere sospeso o interrotto, "hanno determinato e determinano l'estinzione di un gran numero di procedimenti". Nonostante i dati segnalino che in Italia l'incidenza della prescrizione sui processi è dieci volte quella della media europea e malgrado "le preoccupazioni ripetutamente espresse dal Greco e dall'Ocse, nulla è stato fatto. La legge Severino "ha lasciato invariata" la disciplina della prescrizione. Ha aumentato la pena massima di alcuni reati, prorogando di fatto la relativa prescrizione, ma ha previsto "sanzioni minori per nuovi reati, come la cd "concussione per induzione" (induzione indebita) ritenuta dagli operatori più frequente di quella classica, abbreviando così i termini di prescrizione". Ed essendo norme più favorevoli, "si applicano ai processi in corso". Peraltro, la Commissione scrive che "inasprire le sanzioni per determinati reati di corruzione non è di per sé una soluzione idonea" ai fini della prescrizione, che richiede "un piano con tempi e opzioni ben definiti", e comunque l'esclusione dell'appello dal computo dei termini e norme più flessibili su sospensioni e interruzioni. Fin qui il Rapporto. Dieci mesi dopo, sono diventati legge il reato di voto di scambio (provvedimento di iniziativa parlamentare) e di auto-riciclaggio (inserito nel rientro dei capitali dall'estero). Le misure annunciate dal governo per giugno sono slittate al 29 agosto ma finora in Parlamento è arrivato solo il falso in bilancio (a novembre) mentre forse solo oggi arriverà alla Camera il ddl che modifica la prescrizione (non come indicato dall'Ue) e che aumenta di 2 anni il minimo e il massimo della pena della "corruzione propria" per far fare "un po' di carcere" anche in caso di patteggiamento (previa restituzione del maltolto. Niente su concussione, induzione e altri reati, per i quali, invece, si potrà continuare a evitare il carcere. Giustizia: Papa Francesco "le vicende di corruzione richiedono seria conversione" Il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2015 Il Pontefice è tornato sui fatti di Mafia Capitale durante l'ultima omelia del 2014, invitando i protagonisti della vicenda a convertirsi. Poi ha citato Benigni: "Non abbiate paura di essere liberi". "Le gravi vicende di corruzione emerse di recente richiedono una seria e consapevole conversione, un rinnovato impegno per costruire una città più giusta e solidale". È questo il pensiero lanciato da Papa Francesco, dalla Basilica Vaticana, al termine del Te Deum, in riferimento allo scandalo di Mafia Capitale. La corruzione e gli intrighi emersi dalle indagini dei Ros dei Carabinieri di Roma hanno portato il Pontefice a invocare la necessità della conversione per i protagonisti della vicenda, alcuni dei quali sono detenuti in carcere in regime di 41 bis (quello usato per i mafiosi). Il Pontefice ha citato anche Roberto Benigni, che è andato in onda su Rai1 con una doppia serata in cui ha raccontato, alla sua maniera, i Dieci Comandamenti agli italiani. Uno spettacolo che è piaciuto al capo della Chiesa che, il giorno dopo, ha chiamato personalmente il comico toscano e si è complimentato per la capacità dimostrata nel rendere popolare un tema tanto "alto". "Diceva qualche giorno fa un grande artista italiano - ha detto Bergoglio durante la sua omelia - che per il Signore fu più facile togliere gli israeliti dall'Egitto che togliere l'Egitto dal cuore degli israeliti". La frase era stata pronunciata da Benigni per descrivere quanto sia difficile, per gli uomini, sentirsi liberi ed essere capaci di godere della propria libertà. "Abbiamo paura della libertà - ha continuato il Pontefice - e, paradossalmente, preferiamo più o meno inconsapevolmente la schiavitù. La libertà ci spaventa perché ci pone davanti al tempo e di fronte alla nostra responsabilità di viverlo bene. La schiavitù riduce il tempo a momento e così ci sentiamo più sicuri, cioè ci fa vivere momenti slegati dal loro passato e dal nostro futuro". Non è la prima volta che la Chiesa entra nel merito dei fatti di Mafia Capitale. L'11 dicembre, monsignor Giancarlo Maria Bregantini, arcivescovo di Campobasso e presidente della Commissione Cei per gli affari sociali e il lavoro, aveva risposto con fermezza alle parole pronunciate nei giorni precedenti dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. "La critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obiettività, senso della misura e capacità di distinguere è degenerata in anti-politica, cioè in patologia eversiva", aveva dichiarato l'inquilino del Quirinale. Pronta la risposta dei Vescovi che, dalla bocca di Bregantini, avevano ribattuto che "un politico corrotto è più eversivo" di chi fa anti-politica onestamente. Giustizia: Riccardo Rasman, pestato a morte per due petardi di Mario Di Vito (conduttore di Radio Città Aperta) Il Garantista, 2 gennaio 2015 I poliziotti lo ammanettarono, usarono filo di ferro per le caviglie e un bavaglio: dopo le botte i suoi polmoni si fermarono. Per la Cassazione si è trattato di un omicidio "pacificamente evitabile". Nel gergo grigio e gelido delle sentenze vuol dire che sarebbe bastato molto poco perché le cose andassero diversamente. Riccardo Rasman aveva 34 anni quando entrarono a prenderlo, la sera del 27 ottobre 2006, nel suo appartamento di via Grego 18, a Trieste. I vicini avevano chiamato il 113 perché lui stava ascoltando la musica a volume troppo alto e poi si era affacciato - completamente nudo - dal balcone per lanciare due petardi nella corte interna al condominio in cui viveva. Riccardo durante il servizio militare aveva subito diversi episodi di nonnismo che, successivamente, avrebbero portato a una diagnosi di schizofrenia paranoide. Quella sera era felice, molto felice, troppo felice, almeno per i suoi vicini di casa, ai quali non è mai piaciuto: il giorno successivo, comunque, Rasman avrebbe cominciato a lavorare come operatore ecologico. Alle 20:21 arrivò una pattuglia del 113 sotto casa sua, alle 20;34 ne arrivò un'altra di rinforzo, accompagnata dai vigili del fuoco. Rasman non voleva aprire: si era steso sul letto e aveva spento le luci. C'è da capirlo: nel 1999 Riccardo aveva già avuto a che fare con le forze dell'ordine, ne era uscito malconcio e lo denunciò, senza grosse conseguenze. Da allora, ogni volta che vedeva una divisa, aveva paura. Per questo si era rintanato e aveva spento tutte le luci e si era rintanato a letto quando aveva visto le luci blu delle volanti dalla sua finestra. Alla fine i poliziotti riuscirono a entrare a casa sua, ne nacque una colluttazione e Rasman venne ammanettato a terra, immobilizzato, con le manette strette intorno ai polsi, del filo di ferro a tenere ferme le caviglie, addirittura un bavaglio per non farlo urlare. Messo così, in posizione prona, cominciò a respirare in maniera sempre più affannosa, fino a che i suoi polmoni non si sono fermati; le perizie dicono che gli agenti esercitarono "sul tronco, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena, sia premendo con le ginocchia, un'eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie". Morte per arresto respiratorio avvenuta tra le 20:43 e le 21:04, si leggerà dopo nei referti. Sul tavolo c'era un biglietto, scritto proprio da lui, un attimo prima dell'arrivo della polizia: "Per favore, per cortesia, vi prego, non fatemi del male, non ho fatto niente di male". Sul muro c'erano macchie di sangue; Riccardo era stato pure picchiato, probabilmente con un manico d'ascia e con il piede di porco che i pompieri usarono per forzare la porta del suo appartamento. "Noi siamo entrati in quell'appartamento soltanto in marzo - racconta Giuliana Rasman, sua sorella, era un disastro: c'era sangue dappertutto e una chiazza di sangue verso la cucina. Poi dalle fotografie mi sono resa conto che l'hanno spostato con la testa verso l'entrata così da nascondere la chiazza di sangue che c'era lì. C'era una frattura, i capelli erano tutti pieni di sangue, c'era una frattura anche dietro il collo. C'era sangue sul tavolo, sui muri, sulle lenzuola, dietro il letto per terra, c'erano chiazze di sangue sul tappeto sotto il quale abbiamo trovato persino dei pezzi di carne nascosti, Riccardo era martoriato di botte sul viso, gli avevano rotto lo zigomo. Poi c'era il segno dell'imbavagliamento, sangue dalle orecchie, dal naso, dalla bocca, si vede proprio molto bene". Il pm triestino Pietro Montone aprì un'inchiesta su questi fatti e - incredibilmente ma fino a un certo punto, visto che è sempre così - affidò tutto agli stessi poliziotti che quella notte irruppero in casa di Riccardo. Nell'ottobre del 2007 Montone chiese l'archiviazione per gli agenti che, a suo giudizio, avevano solo fatto il suo dovere, anche se era certo anche a lui che Rasman fosse morto per "asfissia posturale" dovuta proprio all'intervento della forza di pubblica sicurezza. Il gip, però, non accolse la richiesta del magistrato che, dopo essere entrato a conoscenza delle indagini fatte dagli avvocati Giovanni Di Lullo e Fabio Anselmo, cambiò decisamente orientamento sul caso. Il fulcro del ragionamento è la prova provata del fatto che gli agenti Francesca Gatti, Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe Di Blasi erano perfettamente consapevoli dei problemi mentali di Riccardo e questo avrebbe - quantomeno - dovuto indurli a usare una maggiore cautela nell'intervento. Tra l'altro, fu posta anche una domanda fondamentale: che necessità c'era di sfondare la porta quando era palese che Rasman non stesse più causando pericoli, visto che era dentro il suo letto e non stava più lanciando petardi dal balcone? I quattro uomini in divisa vennero rinviati a giudizio per omicidio colposo. Il processo di primo grado fu celebrato con rito abbreviato e si concluse con la condanna a sei mesi di carcere (pena sospesa) per tre dei quattro agenti, più il pagamento di una provvisionale da 60mila euro e 20mila euro di risarcimento per danni morali alla famiglia. La quarta agente, Francesca Gatti, fu assolta con "formula dubitativa", ovvero: lei all'azione ha partecipato, e questo è certo, ma, mentre gli altri stavano legando Riccardo per terra, era in contatto via radio con la Questura. Era il 29 gennaio del 2009. Un anno e mezzo dopo la Corte d'Appello del Tribunale di Trieste avrebbe confermato tutte le sentenze del primo grado. Tutte le parti in causa - i poliziotti e la famiglia Rasman - presentarono ricorso alla Cassazione. La sentenza definitiva è arrivata il 14 dicembre del 2011: conferma della sentenza d'Appello e epitaffio: la morte di Rasman "era pacificamente evitabile qualora gli agenti avessero interrotto l'attività di violenta contestazione a terra, consentendogli di respirare". Quello stesso giorno, i familiari di Riccardo chiesero formalmente le scuse da parte del ministero degli Interni (mai arrivate) e annunciarono la propria intenzione di procedere anche in via civile contro i poliziotti e lo stesso Viminale. Da alcune foto, uscite fuori quando ormai era tardi per il processo" si vedano segni anche dagli angoli della bocca fino alle orecchie di Rasman: ci vorranno altre perizie per chiarire se è vero che l'asfissia non è arrivata solo per lo schiacciamento sotto il peso degli agenti, ma anche per il soffocamento dovuto al bavaglio. Sembra un dettaglio, ma la causa civile di risarcimento si gioca tutta qui. Del caso se ne tornerà a parlare presto: nell'aprile del 2013, infatti, la procura di Trieste ha nuovamente chiesto l'archiviazione del caso. L'avvocata Claudio De Filippi, che adesso segue la vicenda per conto della famiglia della vittima, ha detto che, a suo parere, tutto questo "si colloca tra il caso Sandri, per il quale lo Stato ha pagato tre milioni e mezzo, e il caso Aldrovandi, per il quale ha pagato due milioni di euro". Resta, in mezzo a quel complesso e lunghissimo caos di carte e di cavilli che è la giustizia civile, la storia di un ragazzo che è morto per poco, praticamente per niente. E che tutto voleva fuorché dare fastidio: "Riccardo non ha mai fatto un Tso - conclude la sorella Giuliana, non era violento né aggressivo, voleva farsi ben volere da tutti, anche per dimostrare questo abbiamo messo nel nostro dossier testimoni che descrivono come era Riccardo. In 3 anni che aveva quel monolocale non ci avrà dormito neanche cinque volte, anche il padre conferma che Riccardo andava lì qualche volta per farsi sentire e faceva andare la lavatrice, allora la vicina cominciava a battere la porta e Riccardo per farsi ben volere le portava la verdura della nostra campagna e le scrisse una lettera per favorire il buon vicinato". Veneto: "Satyagraha di Natale con Marco Pannella", Radicali italiani in visita alle carceri www.radicali.it, 2 gennaio 2015 Nell'ambito del "Satyagraha di Natale con Marco Pannella", che prevede numerose visite negli istituti penitenziari italiani, i militanti radicali veneti aderenti alle associazioni Nessuno tocchi Caino, Luca Coscioni e Veneto Radicale visitano tre carceri del Veneto: il Due Palazzi di Padova venerdì 2 gennaio h. 10,30; il San Pio X di Vicenza sabato 3 gennaio h. 9,30; il carcere di Montorio di Verona lunedì 5 gennaio h. 9,30. Tra gli obiettivi dell'iniziativa, l'affermazione della legalità nell'amministrazione della giustizia (da anni straziata insieme alla vita di milioni di persone a causa dell'irragionevole durata dei processi penali e civili) e la rimozione delle cause strutturali che fanno delle nostre carceri luoghi di trattamenti inumani e degradanti. Amnistia e l'indulto sono gli unici provvedimenti strutturalmente in grado, da subito, di riportare nella legalità costituzionale e sovranazionale il nostro Paese. In particolare, il digiuno nonviolento, al quale hanno aderito oltre 600 persone, riguarda la garanzia delle cure in carcere, l'abolizione dell'ergastolo, il regime del 41bis, la nomina del garante nazionale dei detenuti e l'introduzione del reato di tortura. Viterbo: il Tribunale; a Mammagialla non c'è detenzione "inumana e degradante" www.tusciaweb.eu, 2 gennaio 2015 Mammagialla carcere inumano? Decisamente no. Il tribunale di sorveglianza di Viterbo lo spiega a chiare lettere: parlare di sovraffollamento nel penitenziario viterbese, in base alla metratura delle celle, è fuori luogo. La fotografia di Mammagialla è nelle ordinanze del giudice di sorveglianza, in risposta ai reclami dei detenuti che si lamentano di tutto: dalla mancanza di acqua calda agli spazi troppo angusti da dividere con i compagni di cella. È il decreto carceri (dl 92/2014), diventato legge ad agosto (legge 11 agosto 2014, numero 117). Una conseguenza diretta della sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti umani, che sanzionava l'Italia per i detenuti stipati in una cella tripla da meno di quattro metri quadrati. Risultato? Risarcimento per danni morali da 100mila euro a detenuto e una legge che dà la possibilità di presentare il conto per trattamenti inumani o degradanti. Una valanga di reclami arriva ogni giorno sulla scrivania del giudice di sorveglianza. La buona notizia è che, per Mammagialla, tantissimi sono quelli respinti. Le pronunce del tribunale tracciano un quadro rassicurante, di un penitenziario a prova di Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che all'articolo 3 recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". "La direzione della casa circondariale di Viterbo ha comunicato che tutte le camere detentive dell'istituto hanno una superficie complessiva di 9,27 metri quadrati escluso il bagno", si legge su una delle tante pronunce del tribunale di sorveglianza che bocciano i ricorsi dei detenuti. In questo caso è un 29enne rinchiuso a Mammagialla dal 2012 a protestare per lo scarso spazio vitale della cella. La sentenza Torreggiani, scrive il giudice di sorveglianza Albertina Carpitella, "ha indicato in 3 metri quadrati pro capite la soglia minima al di sotto della quale vi è sicuro pregiudizio". Per pregiudizio si intende la detenzione in condizioni disumane. Ma "a Viterbo ogni detenuto ha a disposizione oltre 4 metri di spazio personale": dunque, il problema sovraffollamento delle celle, a Mammagialla, non si pone. Anche grazie all'organizzazione interna del carcere: "In alcuni reparti è in atto un regime a cosiddette celle aperte, che prevede la permanenza fuori della camera per circa otto ore al giorno, oltre al tempo impiegato per partecipare alle varie iniziative". Certo. Mammagialla non è mai stato un grand hotel. Né è opportuno che lo sia. Ma, per la dottoressa Carpitella, "non può sostenersi che la detenzione in tale istituto sottoponga i detenuti a una prova di intensità superiore all'inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che essi siano sottoposti a una detenzione inumana e degradante". Ricorso inammissibile, quindi. Non solo per la metratura (idonea) delle celle, ma anche per l'acqua calda, a disposizione dei detenuti sei giorni su sette, anche se non nel bagno privato. Catania: i Radicali in visita al carcere di Piazza Lanza "si può fare di più…" di Angelo Amante Giornale di Sicilia, 2 gennaio 2015 Nella struttura vivono 361 detenuti: 342 uomini e 19 donne. La capienza massima è di 239 unità. In 241 attendono il processo; 74 sono appellanti, 11 i ricorrenti in Cassazione e 35 condannati definitivi. Il 2014 catanese, segnato dall'emergenza umanitaria legata alla politica dell'immigrazione, si conclude con una giornata dedicata ad un'altra questione di attualità e scottante rilievo sociale: quella delle carceri, con in prima linea i Radicali di Marco Pannella. Per San Silvestro, una delegazione del gruppo territoriale del partito si è recata in visita alla Casa circondariale di "Catania Piazza Lanza", nell'ambito dell'iniziativa: Satyagraha di Natale con Marco Pannella, che prende il nome dal movimento di resistenza non violenta lanciato da Gandhi in India allo scopo di conquistare l'indipendenza dalla Gran Bretagna. Quella intrapresa dai Radicali e dal loro storico leader è una forma di lotta altrettanto pacifica che ha come obiettivo quello di migliorare le condizioni di vita nelle carceri italiane. Tra gli obiettivi della campagna figurano l'abolizione dell'ergastolo, una maggiore trasparenza nella gestione dei luoghi di detenzione, l'introduzione del reato di tortura nell'ordinamento giuridico italiano e l'ottenimento della nomina di un garante nazionale e di un garante regionale dei detenuti. "È innegabile - dice il segretario catanese del movimento, Luigi Recupero, subito dopo la visita al carcere etneo - che vi siano stati dei miglioramenti rispetto alla situazione riscontrata un anno fa in occasione della nostra ultima visita. Diversi locali sono stati sistemati e c'è un senso di minore affollamento negli ambienti interni, nonostante da ferragosto ad oggi il numero dei detenuti sia aumentato da 340 a 361 (di cui 342 uomini e 19 donne; 341 come risulta dal sito del ministero della Giustizia al 31 luglio 2014), in un carcere che allo stato attuale potrebbe accoglierne un massimo di 239. Di questi 241 in attesa di giudizio; 74 appellanti, 11 ricorrenti in Cassazione e 35 condannati in via definitiva". Terni: 63 grammi di hascisc nascosti nel formaggio destinato a un detenuto Giornale dell'Umbria, 2 gennaio 2015 Il personale del reparto di Polizia penitenziaria della Casa circondariale di Terni, diretto dal Commissario Fabio Gallo, ha rivenuto, in un pacco postale proveniente dall'esterno il cui destinatario era un detenuto ternano, due panetti di sostanza stupefacente del tipo "hashish" del peso complessivo di 63,38 grammi. La sostanza era abilmente occultata all'interno di due confezioni di formaggio a pasta molle, confezionate sottovuoto. Grazie all'intuito degli operatori di polizia penitenziaria addetti al controllo dei pacchi in arrivo, si è potuto rinvenire tale sostanza ben celata all'interno di generi vittuari. Tali attività di controllo sono state ulteriormente intensificate in questo periodo, in occasione delle Festività Natalizie, proprio al fine di prevenire l'introduzione di oggetti e/o sostanze non consentite all'interno dell'istituto penitenziario ternano Il personale del reparto di Polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Terni, diretto dal Commissario Fabio Gallo, ha rivenuto, in un pacco postale proveniente dall'esterno il cui destinatario era un detenuto ternano (L.J.), due panetti di sostanza stupefacente del tipo "hashish" del peso complessivo di 63,38. La sostanza era abilmente occultata all'interno di due confezioni di formaggio a pasta molle, confezionate sottovuoto. Grazie all'intuito degli operatori di polizia penitenziaria addetti al controllo dei pacchi in arrivo, si è potuto rinvenire tale sostanza ben celata all'interno di generi vittuari. Tali attività di controllo sono state ulteriormente intensificate nel periodo delle festività natalizie. Salerno: ritrovato telefonino nel bagno del carcere, la procura apre un'inchiesta di Viviana De Vita Il Mattino, 2 gennaio 2015 Un regalo di Capodanno speciale per un detenuto di Fuorni: un telefonino, munito di carica batterie, lasciato nel bagno adiacente la sala colloqui del penitenziario cittadino. A rinvenirlo sono stati gli agenti della polizia penitenziaria del carcere cittadino, insospettiti dall'anomalo atteggiamento di alcuni visitatori. L'episodio, sul quale sta ora indagando la Procura, si è verificato nel giorno di San Silvestro quando il personale preposto ai controlli, già in sottorganico a causa degli atavici problemi, è ridotto per via delle festività. Una circostanza che, con tutta probabilità, sperava di sfruttare qualche detenuto che ha così pensato di incaricare i propri familiari della speciale consegna. A denunciare l'episodio è il segretario provinciale della Uil penitenziaria Lorenzo Longobardi che evidenzia "gli enormi sforzi del personale che, nonostante le gravi carenze di organico, riesce comunque a mantenere i normali livelli di sicurezza". Parma: Lucia Annibali in visita al carcere "tanta solidarietà da parte dei detenuti" di Silvia Bia Il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2015 Ad ascoltare l'avvocatessa di Urbino sfigurata con l'acido dal suo ex fidanzato, una trentina di detenuti che tra qualche anno, dopo aver scontato la loro pena, potranno tornare a inserirsi nella società. "Un'esperienza interessante anche da un punto di vista personale". Lucia Annibali per la prima volta racconta la sua esperienza di donna vittima di violenza all'interno di un carcere. L'avvocatessa di Urbino che nel 2013 è stata sfigurata dall'acido su mandato dell'ex fidanzato che non voleva accettare la fine della loro storia, ha portato all'interno delle mura dell'istituto di massima sicurezza di Parma il suo vissuto dopo il tragico episodio che ha cambiato la sua vita. "Ho accettato l'invito perché ho ricevuto molta solidarietà da parte dei detenuti in questi mesi - ha raccontato la Annibali. Mi hanno scritto in tanti per esprimermi vicinanza ed il loro sdegno per quanto mi è stato fatto. Inoltre ho pensato da subito che potesse essere un'esperienza interessante anche da un punto di vista personale, una forma di apertura da parte mia verso una realtà in parte distante da me ed un modo per avere una prospettiva d'insieme e nuovi spunti di riflessione". Dopo oltre un anno di lotta, oggi Lucia si è rialzata ed è una donna nuova. Il carcere è un luogo dove anche i suoi aggressori e soprattutto il mandante, l'ex fidanzato Luca Varani, stanno scontando le pene per quanto le hanno fatto. Ma questo non la blocca, anzi. "Il fatto che i miei aggressori siano in carcere sicuramente mi infonde sicurezza per la mia incolumità e mi permette di vivere ogni giorno con maggiore serenità" spiega, ammettendo però che non per tutti esiste un percorso di rieducazione dai reati commessi. "Non so se per il mio aggressore sia possibile una rieducazione; fino ad ora non ha mostrato pentimento per quello che ha fatto, non ha mai assunto le sue responsabilità e continua a pensare che la sua attuale condizione sia un'ingiustizia che lui ha subito. In generale penso che una possibilità di rieducazione ci sia, per chi la desidera e la ricerca. Bisogna certo partire dalla consapevolezza di quello che si è fatto, decidere di mettersi in discussione ed imparare l'empatia". Ad ascoltare la donna nel carcere di Parma, una trentina di detenuti che tra qualche anno, dopo aver scontato la loro pena, potranno tornare a inserirsi nella società, in un percorso non facile di ritorno alla normalità e al mondo fatto anche di affetti lasciato fuori dalla cella. L'obiettivo dell'incontro, organizzato dalla cooperativa sociale Sirio, con un'esperienza di 30 anni nella rieducazione dei detenuti, insieme al Centro Antiviolenza e all'associazione ConVertere Aps, era proprio quello di far riflettere sul tema della violenza delle donne visto dagli occhi di chi la subisce. E l'esempio di Lucia, che nel giorno contro la violenza alle donne è stata nominata cavaliere della Repubblica da Giorgio Napolitano per il suo coraggio e la sua dignità, è ancora più importante, perché è quello di una vittima che non si è mai rassegnata a essere tale, così come ha cercato di esprimere con la sua testimonianza. "Posso provare a comunicare il dolore che prova chi subisce un atto così violento, quali sono le ripercussioni sulla sua vita, sulla sua famiglia, quali i segni che si porterà dentro per sempre, quanta fatica richieda risollevarsi da una violenza così profonda. Posso cercare di far mettere l'autore della violenza, per un momento, nei panni della vittima". Le cure al Centro grandi ustionati di Parma, il processo che ha visto la condanna a vent'anni per l'ex fidanzato e l'accettazione di un volto cambiato per sempre sono solo alcuni passi del calvario affrontato dalla Annibali per ritornare alla sua vita. "Ho raccontato prima di tutto la mia storia, cercando di spiegare l'origine dell'aggressione che ho subito, le sue conseguenze sul mio fisico e sulla vita mia e di tutte le persone che mi vogliono bene - ha continuato. Ho raccontato del mio lungo e doloroso percorso di guarigione ma anche delle risorse che ho trovato dentro di me, che mi hanno permesso di reagire, di sopportare e di guardare avanti, nonostante tutto". Gli spunti di riflessione e confronto durante l'incontro non sono mancati, non solo per l'avvocatessa di Urbino. Anche i detenuti e agenti della polizia penitenziaria hanno ascoltato con grande interesse la storia della donna, che non ha mai smesso di lottare e ha affrontato con forza esemplare le difficoltà, confrontandosi con lei ed esprimendole vicinanza. "Mi hanno colpito la loro vicinanza e la loro solidarietà - conclude - Mi hanno ringraziato per l'incontro e per avere condiviso la mia esperienza con loro; alcuni hanno raccontato qualcosa di sé, altri sono riusciti a fare delle battute scherzose per sdrammatizzare un po'. Penso che sia stata una bella esperienza per entrambe le parti; sicuramente per me è stato un incontro intenso che spero di poter ripetere". Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; carcere di Uta, inspiegabile assenza bandiera 4 mori Ristretti Orizzonti, 2 gennaio 2015 "È inspiegabile e inaccettabile l'assenza della bandiera dei Quattro Mori nel Villaggio Penitenziario di Cagliari-Uta. Mentre sono state issate fin dal primo momento il Tricolore e la bandiera dell'Europa, quella della Regione Sardegna, a 40 giorni dal trasferimento dei detenuti, non figura ancora nel pennone". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", facendo osservare che "non risulta alcuna norma nazionale che ne vieti l'esposizione, anzi". "L'utilizzo della bandiera sarda - ricorda - è regolata dall'apposita legge regionale che definisce le caratteristiche del vessillo, il protocollo e le sanzioni. ‘La bandiera della Regione - si legge - è esposta all'esterno degli edifici sedi della Regione, dei comuni e delle province, degli enti strumentali della Regione, degli enti soggetti a vigilanza o controllo della Regione, degli enti pubblici che ricevono in via ordinaria finanziamenti o contributi a carico del bilancio regionale, degli enti che esercitano funzioni delegate dalla Regione, nonché all'esterno degli altri edifici dei medesimi enti sui quali ordinariamente si espongono bandierè". "Nel Villaggio Penitenziario di Cagliari-Uta - evidenzia la presidente di Sdr - è presente un presidio medico, totalmente a carico della Regione. Dal 2012 infatti sono state approvate le linee guida che contenenti gli indirizzi per l'organizzazione dell'assistenza sanitaria dei cittadini privati della libertà e il trasferimento del personale dal Ministero della Giustizia alle Aziende Sanitarie Locali. Non c'è alcun dubbio quindi sul fatto che la bandiera debba essere esposta in tutte le strutture penitenziarie dell'isola e a maggior ragione a Uta dove è previsto anche un'area di degenza per i detenuti ammalati". Vicenza: impossibile dimostrare coercizione, archiviato caso sesso tra detenuto ed educatrice Il Giornale di Vicenza, 2 gennaio 2015 Educatrice del carcere avrebbe costretto un detenuto ad avere rapporti con lei e regalarle un costoso gioiello. Per il giudice, però, mancano le prove della costrizione. Il tribunale di Vicenza ha archiviato il caso della 57enne educatrice del carcere accusata di aver costretto un detenuto a fare sesso con lei, il rapporto d'amore tra i due sarebbe realmente accaduto, ma sarebbe impossibile dimostrare la coercizione. La denuncia era arrivata proprio dal detenuto, un marocchino di 30 anni che al momento del trasferimento dall'istituto penitenziario di Vicenza a quello di Verona aveva vuotato il sacco, in uno sfogo, con il compagno di cella. Come riportato da il Giornale di Vicenza, i giudici hanno vagliato le lettere d'amore che i due si sarebbero scambiati tra il 2011 e il 2013 senza però trovare alcuna prova delle violenze sessuali dell'operatrice nei confronti del detenuto. Secondo l'accusa, la donna avrebbe convinto il marocchino ha iniziare una relazione clandestina con la minaccia di rendere al detenuto la vita impossibile dietro le sbarre, convincendolo ad avere rapporti sessuali con lei. L'operatrice avrebbe preteso anche un dono: un anello in oro spedito dalla famiglia del detenuto alla donna, tutto per non peggiorare ancora di più le condizioni di vita dell'africano. Sebbene la storia tra i due possa essere dimostrata e sia da un punto di vista professionale e deontologico fuori dalla norma, le accuse di violenza sono state archiviate. Impossibile dimostrare l'atto coercitivo. Firenze: a Sollicciano concerto a sorpresa di Jovanotti per Capodanno Redattore Sociale, 2 gennaio 2015 È stato un evento a sorpresa il concerto del cantante toscano nel carcere fiorentino. Jovannotti si è esibito per un'ora accompagnato da una chitarra e dagli strumenti dei detenuti. È arrivato a sorpresa e ha cominciato a cantare, accompagnato soltanto da una chitarra. Così Lorenzo Jovanotti ha animato il Capodanno dei circa 700 detenuti del carcere di Sollicciano. Il cantante toscano è stato accompagnato dal consigliere regionale del Pd Enzo Brogi ed ha tenuto un piccolo concerto di un'ora davanti ai reclusi, cantando pezzi storici del suo repertorio grazie anche all'accompagnamento degli strumenti suonati da alcuni reclusi, alcuni dei quali si sono poi intrattenuti con Jovanotti raccontando la loro storia e i disagi vissuti in carcere. Insieme a Jovannotti, per brindare al nuovo anno sono arrivati anche il leader radicale Marco Pannella, la segretaria dei Radicale Rita Bernardini e il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti (Pd). Medio Oriente: la Palestina si rivolge alla Corte penale internazionale, l'ira di Israele di Francesco Battistini Corriere della Sera, 2 gennaio 2015 Ora lo Stato ebraico potrebbe essere chiamato a rispondere di crimini di guerra. Internazionalizzare. Alla fine Abu Mazen s'è convinto. E la parola d'ordine 2015, ora, la ripete in tutte le sedi: "Gli israeliani attaccano noi e la nostra terra - diceva ieri ai suoi fedelissimi - presso chi dobbiamo andare a protestare? Il Consiglio di sicurezza dell'Onu ci ha sbattuto la porta... Dove possiamo andare?". Bisogna internazionalizzare il conflitto israelopalestinese, "perché sono vent'anni che ci abbiamo provato in ogni modo e senza risultati". La mossa è arrivata a Capodanno. Venti firme, sotto le venti convenzioni internazionali che danno accesso al Tribunale dell'Aja. Una spallata, spesso minacciata e mai data: come osservatore dell'Assemblea delle Nazioni Unite, status acquisito nel 2012, ora Abu Mazen potrà chiedere che la Corte penale internazionale processi Israele per crimini di guerra. Il leader di Ramallah ha siglato anche lo Statuto di Roma, che concede ai firmatari questa prerogativa ed è difficile che vi rinunci: dopo anni di denunce mediatiche, l'Anp vuole chiedere un pronunciamento della giustizia sovranazionale su questioni come il proliferare delle colonie illegali o i morti delle ultime guerre di Gaza, a partire dall'operazione Bordo Protettivo del 2014. Magari, anche sull'occupazione dei Territori dopo il 1967. La scelta non è sorprendente e il momento non è casuale. Arriva dopo che negli ultimi mesi un governo (la Svezia) e diversi Parlamenti (Gran Bretagna, Francia, Irlanda) hanno detto sì a un riconoscimento pieno dello Stato palestinese. E arriva subito dopo che il Consiglio di sicurezza (su pressione degli Usa) ha bloccato la mozione giordana che imponeva il ritiro dai Territori a partire dal 2017: su Abu Mazen sono piombate molte critiche, per una mossa diplomatica che ai più era parsa suicida e incomprensibile. Con questo colpo di coda, l'ottantenne presidente dell'Anp riprende un po' di scena, incassa il plauso dei rivali-alleati di Hamas e porta scompiglio in Israele, a due mesi e mezzo dal voto. Il ministro israeliano Naftali Bennett ricorda che all'Aja pendono anche le denunce contro Hamas e l'uso di scudi umani, ma l'irritazione c'è: "Ci aspettiamo che la Corte respinga l'ipocrita richiesta palestinese - è la replica di Bibi Netanyahu. L'Anp non è uno Stato, ma l'alleata dei terroristi di Hamas. Difenderemo i nostri soldati come difendiamo noi stessi". Per Bibi, quello di Abu Mazen potrebbe anche essere un assist. Forse non aspettava altro, per portare la campagna elettorale sul tema che preferisce: la difesa d'Israele. Iran: sette detenuti impiccati in segreto nella prigione di Orumieh www.ncr-iran.org, 2 gennaio 2015 I boia del regime iraniano hanno impiccato un gruppo di sette detenuti lunedì nella prigione principale della città di Orumieh nell'Iran nord-occidentale. I prigionieri giustiziati provenivano da Kermanshah, Sanandaj e Shiraz. Non sono state fornite altre informazioni sulle vittime. Il regime teocratico in Iran si rifiuta di interrompere il suo ciclo di atrocità ed esecuzioni persino durante il Natale. Gli aguzzini del regime hanno impiccato almeno sette detenuti nella prigione di Adelabad a Shiraz all'alba del giorno di Natale. Il 14 e il 18 Dicembre altri dieci detenuti sono stati impiccati in segreto nella stessa prigione, nota per essere una delle strutture con le condizioni più vergognose. Intanto un funzionario della magistratura del regime iraniano ha respinto le critiche internazionali sull'alto tasso di esecuzioni del regime per reati legati alla droga dicendo: "Nessuna sentenza può sostituire una condanna a morte". Mohammadreza Habibi, capo della magistratura della provincia di Yazd (Iran centrale) ha detto sabato: "Provvedimenti duri ed esecuzioni ridurranno il traffico di droga ed intensificheranno il controllo nel paese. E coloro che introducono questi materiali (droghe) nel paese dovranno essere severamente puniti". Mohammadreza Habibi, ha ammesso che in secondo le stesse leggi del regime, tra cui la disumana "Legge del Taglione", la pena di morte non è necessaria per i crimini legati alla droga. Tuttavia ha detto che alcune condanne a morte devono essere applicate "in base alla situazione sociale e alle sentenze dello stato". Da quando Hassan Rouhani è divenuto presidente del regime teocratico in Iran almeno 1.200 persone sono state giustiziate e tra queste: prigionieri politici, donne e ragazzi minorenni all'epoca del delitto commesso. All'inizio di questo mese, molte organizzazioni in difesa dei diritti umani hanno chiesto all'Ufficio delle Nazioni Unite per le Droghe e il Crimine di smettere di fornire aiuti al regime di Terna fino a che non avrà abolito la pena di morte per i reati legati alla droga. Egitto: nuovo processo 3 reporter al Jazeera in carcere da 1 anno Adnkronos, 2 gennaio 2015 La Corte di Cassazione egiziana ha accolto la richiesta di appello di tre giornalisti di al Jazeera, in carcere da oltre un anno, e ordinato l'apertura di un nuovo processo. Lo hanno reso noto i legali degli imputati. I tre, che dovranno rimanere in carcere in attesa del nuovo processo, previsto fra circa un mese, sono stati condannati in giugno a sette anni di carcere con l'accusa di aver fornito appoggio materiale ai Fratelli Musulmani e di aver "prodotto false coperture di eventi in Egitto" a sostegno degli obiettivi del gruppo. Si tratta del capo dell'ufficio di al Jazeera, il canadese Al Mohammed Fahmy, dell'australiano Peter Greste e del producer egiziano Baher Mohammed. A quest'ultimo sono stati aggiunti altri tre anni di carcere per il possesso di munizioni. Chiesta espulsione giornalista australiano in arresto I legali del giornalista australiano di al Jazeera detenuto in Egitto assieme ad altri due colleghi ha chiesto alle autorità giudiziarie locali di procedere a un provvedimento di espulsione del reporter. Peter Greste, Mohamed Fadel Fahmy e Baher Mohamed sono stati condannati a una pena detentiva da sette a dieci anni per il loro presunto sostegno al movimento islamista dei Fratelli Musulmani. Un tribunale locale ha ordinato ieri un nuovo processo per i tre imputati. I fratelli di Greste, Andrew e Mike, hanno stimato che la decisione della Corte di Cassazione rappresenta "un passo positivo nel procedimento giudiziario, un passo supplementare perché sia fatta giustizia". I difensori di Greste hanno presentato una richiesta di espulsione dal Paese del loro assistito sulla base di un decreto promulgato a novembre scorso dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi che autorizza l'estradizione di cittadini stranieri condannati o in attesa di giudizio.