Giustizia: mi piacerebbe un Capo dello Stato come Luigi Manconi di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone) Il Manifesto, 29 gennaio 2015 Mi piacerebbe che fosse nominato un capo dello Stato che consideri le libertà civili l'asse portante della democrazia italiana nel terzo millennio. Che non le ritenga sacrificabili sull'altare della crisi economica e sociale devastante che stiamo vivendo. Che sia disposto a impegnarsi per garantire più diritti per i detenuti perché sa perfettamente che ciò non significa determinare meno diritti per tutti gli altri. Che ritenga la dignità umana indivisibile e universale ovvero che spetti a tutti nessuno escluso. Che non abbia paura a usare e esercitare la parola "grazia" perché la grazia serve a rendere più mite la giustizia. Che abbia chiaro che legge e giustizia seguono codici diversi e non sempre sovrapponibili. Che consideri le droghe una cosa seria ma non un motivo per mandare in galera i giovani e rovinare la vita alle loro famiglie. Che usi e faccia usare alle persone e più in generale all'opinione pubblica il cervello e l'anima piuttosto che le mani e la pancia. Che sia empatico con l'umanità. Che per lui un "rom" è un "rom" e non uno "zingaro". Che sappia che la parola "zingaro" era tatuata sulle braccia dei rom e dei sinti nei campi di sterminio nazista. Che ritenga la libertà di movimento una libertà fondamentale mai sacrificabile sul terreno delle identità nazionali. Che ritenga l'identità e la sovranità un problema piuttosto che un valore. Che non sia islamofobo né assecondi tutti gli stereotipi sull'immigrazione. Che sappia parlare a tutte le differenti anime del Paese. Che sia europeista nel senso di un'Europa dove finalmente si costruisca uno spazio giuridico e umano avanzato dal punto di vista del riconoscimento delle libertà. Che sia profondamente e fino in fondo democratico e dunque contro tutte le discriminazioni. Che reagisca con indignazione volta per volta ad ogni incitamento all'odio razziale e all'omofobia. Che sia laico ma non laicista. Che rispetti tutte le religioni. Che sia per il matrimonio egualitario. Che sappia distinguere il diritto dall'etica e non chieda al diritto di trasformarsi in un feticcio totemico. Che ritenga che la fecondazione assistita, l'eutanasia, il testamento biologico siano qualcosa che non possano essere trattate in modo manicheo da una legislazione vessatoria, ideologica e invadente. Che conosca la società civile dal di dentro senza considerarla un inutile e fastidioso orpello delle democrazie. Che ritenga la riservatezza e la privacy un patrimonio personale e collettivo da garantire. Oltre a tutto questo ci starebbe bene un Presidente che sappia parlare a tutti, anche ai più giovani e dunque che conosca e ami la musica, a partire da quella leggera e da quella meno amata nei salotti. Per meglio capirci ci piacerebbe un Presidente che non vada solo all'inaugurazione della stagione della Scala a Milano o al classico concerto di fine anno bensì che sia in prima fila al prossimo concerto di Bruce Springsteen in Italia. Nelle prossime ore si chiarirà qual è la posizione del Partito democratico e qual è la decisione delle altre forze politiche rappresentate in Parlamento in ordine al Quirinale. In Parlamento e precisamente in Senato, a presiedere la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, c'è da un paio di anni Luigi Manconi. Il profilo che ho delineato gli calza, come si suol dire, a pennello. Ha girato in questi giorni un appello per la sua nomina a capo dello Stato. Sarebbe un Presidente capace di parlare ai giovani e più in generale di restituire gentilezza, umanità, ironia e sorriso a un Paese che si prende troppo sul serio Giustizia: pene domiciliari, tradito l'impegno con l'Unione Europea di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 gennaio 2015 Il governo Renzi fa scadere la delega sulle riforme promesse a Strasburgo. Vince la linea Salvini. Il governo Renzi l'aveva presentata al Consiglio d'Europa, nel giugno scorso, come una delle misure "strutturali" risolutive del problema del sovraffollamento carcerario per il quale l'Italia era stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani. Sanzioni evitate perché il Comitato dei ministri europei, oltre ad apprezzare i "significativi risultati" già ottenuti, aveva accolto "positivamente l'impegno delle autorità italiane", dimostrate attraverso "le varie misure strutturali adottate per conformarsi alle sentenze" di Strasburgo. Ma l'esecutivo ha fatto scadere la delega ricevuta dal Parlamento che lo obbligava a riformare entro il 17 gennaio 2015 il nostro sistema penale introducendo l'arresto e la detenzione domiciliare come pena principale, ossia da comminare anche nella forma preventiva, e potenzialmente applicabile ai reati punibili fino a cinque anni di reclusione. Un fatto ritenuto da gran parte del mondo giudiziario italiano di estrema gravità. Tanto più perché, come spiega l'avvocato Valerio Spigarelli, ex presidente dell'Unione delle camere penali italiane, "si evidenzia il carattere politico della scelta, che contraddice peraltro tutte le aperture fatte su questo tema negli ultimi tempi. E a pensar male - aggiunge Spigarelli - evidentemente i boatos del leghista Matteo Salvini contro questo tipo di impostazione fanno breccia anche nel governo Renzi". A questo punto, governo e parlamento dovranno trovare una soluzione alternativa, perché l'anno di tempo che il Consiglio d'Europa ha dato all'Italia per verificare che le misure risolutive promesse siano state davvero applicate scade nel giugno prossimo. E pensare che alla legge delega 67, approvata dal Parlamento il 28 aprile 2014 ed entrata in vigore il successivo 17 maggio, che dava all'esecutivo un tempo limitato per "adottare uno o più decreti legislativi per la riforma del sistema delle pene", si arrivò dopo un lungo lavoro della Commissione ministeriale composta di magistrati, giuristi e avvocati, presieduta dal professor Francesco Palazzo, istituita nel giugno 2013 dall'allora ministro di Giustizia, Anna Maria Cancellieri, e confermata successivamente anche da Orlando. La legge delega, che ricalcò lo "schema di principi e criteri direttivi" consegnati da quella Commissione nel febbraio 2014, conteneva due diktat per il governo in materia di giustizia: la non punibilità delle condotte di lieve entità e una serie di pene alternative tra le quali, oltre alla messa alla prova, c'erano - molto importanti per l'impatto che avrebbero avuto sui problemi strutturali del sovraffollamento carcerario - l'introduzione dell'arresto e della detenzione domiciliare come pene principali, da applicare obbligatoriamente per i reati punibili con pene edittali fino a tre anni e a discrezione dei giudici per quelli fino a cinque anni. Ma il governo Renzi, che per queste norme aveva un tempo limite massimo imposto dalla legge delega di otto mesi, scaduti appunto il 17 gennaio scorso, si è limitato invece a varare, nel consiglio dei ministri dell'1 dicembre scorso, solo il decreto legislativo che incide sulle condotte di "particolare tenuità" e per il quale i termini si allungavano fino a 18 mesi con scadenza prevista a novembre prossimo. Ma se quelle norme fossero state introdotte, la custodia cautelare domiciliare si sarebbe potuta applicare ad una platea di circa 14 mila detenuti, portando in questo modo la popolazione carceraria addirittura al di sotto della capienza massima, secondo i calcoli riportati ieri da Radio Radicale che ha citato fonti ministeriali. D'altronde è ormai assodato che un provvedimento di decarcerizzazione efficace non può non partire da quel circa 40% di detenuti in custodia cautelare che costituiscono il triste record italiano tra i Paesi europei (la media Ue si ferma al 25%). Giustizia: così la Corte di Strasburgo mette una pezza alle lungaggini processuali in Italia di Elisabetta Burba Panorama, 29 gennaio 2015 Per le lungaggini processuali e il sovraffollamento carcerario, il nostro Paese è ancora ai primissimi posti nella classifica delle violazioni dei diritti umani. Ma negli ultimi mesi il contenzioso si è ridotto. Assieme a disoccupati, debito pubblico e corruzione, l'Italia detiene un altro primato internazionale: il numero di ricorsi presentati da nostri concittadini alla Corte europea dei diritti dell'uomo. A inizio ottobre 2014, l'Italia era in cima alla graduatoria dei paesi con maggior numero di ricorsi per violazioni della Convenzione europea dei diritti umani, soprattutto per lungaggini processuali e sovraffollamento delle carceri. Tanto che nel 2013 è stata condannata a versare indennizzi per oltre 71 milioni di euro. Pur avendo quasi dimezzato l'importo rispetto al 2012 (quando aveva raggiunto la cifra record di 120 milioni di euro), anche nel 2013 il nostro paese è stato quello condannato a versare la cifra più alta fra tutti i 47 paesi membri del Consiglio d'Europa. Con 17.300 procedimenti aperti, nell'ottobre 2014 l'Italia si è aggiudicata il primo inglorioso posto nella classifica dei ricorsi, davanti a paesi non esattamente garantisti come Russia, Turchia e Ucraina. Negli ultimi mesi il numero dei ricorsi è calato agli attuali 12mila, ma la situazione resta critica. "Come numeri assoluti purtroppo siamo ancora molto in alto: al secondo posto dopo l'Ucraina e prima della Russia, anche se fortunatamente non occupiamo più la prima posizione" dice a Panorama Guido Raimondi, il giudice italiano nonché vicepresidente della Corte. Il tribunale ha sede a Strasburgo in uno stravagante palazzo del 1995 che si ispira all'allegoria della dea Giustizia: la hall centrale di vetro simboleggia l'accessibilità della Corte e le due torri d'acciaio laterali con tetto inclinato i piatti della bilancia. Ed è proprio la "denegata giustizia" l'oggetto del contendere fra la Corte e l'Italia. Al primo posto, un annoso problema dei tribunali italiani: le lungaggini processuali (seguito a ruota dal sovraffollamento carcerario). "Il nostro contenzioso riguarda in gran parte l'eccessiva lunghezza delle procedure giudiziarie" spiega Raimondi, L'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che gli Stati membri sono tenuti ad applicare, dice che ogni persona ha "diritto a un equo processo". E quando la Corte rileva la violazione di un diritto segnala allo Stato che nel suo sistema c'è un problema: spetta allo Stato risolverlo. Nel caso dei processi interminabili, un fenomeno esploso negli anni Ottanta, la soluzione trovata nel 2001 era stata la legge Pinto. Quello che in gergo è detto un "rimedio interno" prevedeva un sistema risarcitorio in ambito nazionale secondo un ammontare previsto dalla Corte. Una volta promulgata la legge, che prevedeva il diritto di risarcimento in caso d'irragionevole durata di un processo, la Corte aveva ritenuto chiuso il caso. Peccato però che a Roma mancassero gli stanziamenti necessari per applicarla... "Non solo" commenta Manuel Jacoan-geli, l'attivissimo ambasciatore italiano a Strasburgo, che riceve Panorama nella prestigiosa sede del governo italiano, una villa art nouveau del 1899. "In tutti questi anni, Roma non ha saputo risolvere il problema attraverso una complessiva riforma della giustizia. Solo il governo in carica si sta adoperando in tal senso". Risultato: in breve tempo i ricorsi a Strasburgo per lungaggini processuali erano ripresi, gonfiandosi a dismisura, fino a coprire circa i due terzi del totale. L'altro terzo, grosso modo, riguardava in gran parte il sovraffollamento carcerario: l'Italia è stata condannata prima nel 2009, poi nel 2013, perché non rispettava i limiti minimi di spazio per detenuto nella cella, quantificati dalla Corte in tre metri quadri. Una condizione drammatica, che ha portato oltre 3.500 detenuti ed ex detenuti a chiedere giustizia alla Corte di Strasburgo. Riguardo alle lungaggini processuali, di recente la legge Pinto è stata perfezionata, con l'introduzione di un tetto oltre il quale la lunghezza del processo diventa "irragionevole" (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità). Sono stati anche fissati gli importi per gli indennizzi: 1.500 euro per ogni anno rispetto al termine di ragionevole durata. I numeri però hanno continuato a crescere. Al punto che, per molti studi legali, fare ricorso alla Corte di Strasburgo è diventato quasi un business. Anche perché si tratta di ricorsi ripetitivi, procedimenti-fotocopia sulla stessa questione. L'avvocato napoletano Alfonso Luigi Marra soltanto nel 2010 ha rappresentato in blocco 475 italiani per la durata eccessiva dei loro processi, ottenendo risarcimenti. A quanto risulta a Panorama, Marra (in Italia controversa figura mediatica, promotore di un referendum contro le banche) ha patrocinato oltre 4 mila ricorsi, pari al 25 percento di tutti i ricorsi pendenti. Ma, per contrasti con la Corte, gli è poi stata negata la possibilità di patrocinare a Strasburgo. Già, i ricorsi ripetitivi: ecco il cuore del problema. "Il numero dei ricorsi individuali contro l'Italia, in comparazione con quello di altri paesi, è solo relativamente un indicatore dello stato dei diritti umani" spiega Vladimiro Zagrebelsky, che è stato giudice della Corte europea dal 2001 al 2010. "In Italia è facile organizzare una valanga dì ricorsi seriali, facendone esplodere il totale. In altri paesi è meno frequente, anche in presenza di massicce violazioni. La questione dei numeri va quindi relativizzata, anche in relazione al tipo dì violazioni denunziate". Da relativizzare ma non minimizzare, incalza Raimondi: "È un problema che non va minimizzato perché rivela un difetto di funzionamento dello stato di diritto. Ma certo desta meno allarme rispetto a questioni, come la tortura o gli arresti arbitrari, che solo raramente (a differenza dì quanto accade per altri paesi) vengono sollevate rispetto all'Italia". Un problema più di qualità che di quantità, insomma. "Ciò che invece è grave" continua Zagrebelsky, "sono le violazioni endemiche e strutturali da molto tempo senza soluzione. L'irragionevole durata dei procedimenti giudiziari ne è il maggiore esempio". Conclude Raimondi: "Per il nostro contenzioso non sì intravede una soluzione soddisfacente a breve termine". A medio termine, però, forse sì. "Gli ultimi governi hanno dedicato una crescente attenzione ai rapporti fra Italia e Consiglio d'Europa" spiega l'ambasciatore Jacoangeli. "Sotto ogni profilo, comprese le pesanti sanzioni che il paese rischiava di dover pagare, quantificate un paio di anni fa in 500 milioni di euro solo per le lungaggini processuali. L'inversione di tendenza sta cominciando a dare i suoi frutti: gli oltre 17 mila ricorsi di ottobre ora sono 12 mila". In particolare, sono appena stati rimandati in Italia tutti i ricorsi per sovraffollamento carcerario. "Per effetto di varie misure, l'Italia ha ridotto il numero dei carcerati: dai quasi 70 mila del 2011, siamo passati agli attuali 54 mila" continua il nostro ambasciatore presso il Consiglio d'Europa. "Il Parlamento ha poi approvato un sistema compensativo interno, che prevede sconti di pena e un risarcimento pari a otto euro al giorno. Un ammontare inferiore a quello di solito in vigore: siamo riusciti a farlo approvare dalla Corte, grazie alle riforme strutturali promosse dal ministro Andrea Orlando. Il risparmio stimato è di decine di milioni di euro". Resta aperto il capitolo delle lungaggini processuali. "Anch'esse in via di contrazione" precisa Jacoangeli. "Sono già stati radiati 500 ricorsi, altri 3 mila verranno radiati a breve. Entro il 2015 in tutto dovrebbero scendere sotto le 10 mila unità, consentendoci di rientrare in una situazione di normalità". Doverosamente più cauto il giudice Raimondi: "È innegabile che si stiano compiendo passi avanti: il rientro dei 3.500 ricorsi lo dimostra. Ciò non vuole dire che il problema sia risolto definitivamente: in teoria, il rischio che possano ritornare a Strasburgo esiste. Per il momento, tuttavia, quei ricorsi sono rientrati. Speriamo che le autorità italiane li trattino in modo soddisfacente". Resta il fatto che il nostro percorso è preso a modello da altri paesi. "In febbraio" sottolinea l'ambasciatore "arriveranno a Roma due missioni diplomatiche da Romania e Moldova per uno stage al ministero della Giustizia: analizzeranno le misure adottate per risolvere il problema del nostro sovraffollamento carcerario". Giustizia: lotta alle mafie, il 41bis non serve a vincere di Astolfo di Amato Il Garantista, 29 gennaio 2015 Nella lotta infinita alle mafie, l'ultima notizia è quella di una "maxi operazione dei carabinieri mercoledì mattina contro la ‘ndrangheta in Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Calabria e Sicilia". Nell'ambito della operazione sono state eseguite oltre 160 ordinanze di custodia cautelare. Questa, ennesima, operazione è il segnale di una guerra vittoriosa o la conferma della sconfitta dello Stato e della legalità? È la battaglia vinta di una guerra persa, o il segnale inequivoco di un nemico messo all'angolo e per il quale è sempre più difficile agire? La risposta è data dalla considerazione delle regioni coinvolte. Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto sono regioni storicamente indenni dal cancro della criminalità organizzata di stampo mafioso. Oggi, viceversa, costituiscono territorio di conquista, nel quale possono prosperare ed espandersi. E il 41 bis? e le pene per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso? E il reato di concorso esterno nell'associazione a delinquere di stampo mafioso? E i pentiti? E tutte le norme eccezionali che piegano le garanzie costituzionali alla esigenza di combattere il nemico? E quell'atteggiamento di guerra permanente e all'ultimo sangue, che ha portato di fatto alla criminalizzazione di intere regioni? Se dopo tutto questo vi è una maxi operazione che coinvolge l'Emilia Romagna, la Lombardia, il Piemonte e il Veneto, significa che gli strumenti utilizzati, se hanno fatto vincere qualche battaglia, non stanno facendo vincere la guerra. Anzi, favoriscono il nemico. La criminalità organizzata di stampo mafioso ha spazio e capacità di espansione prima ancora che in ragione della capacità di intimidazione, nel suo radicamento, che è soprattutto culturale, e poi anche territoriale. Un approccio militare è capace di sconfiggere il radicamento culturale? La ovvia risposta è no. Basta guardare ai modesti risultati raggiunti in Afghanistan, per rendersi conto che i problemi politici non sono risolti dalle armi, che al più li possono tenere a covare sotto la cenere per riesplodere con più virulenza. Ed allora, se si tiene conto del retroterra culturale, su cui possono fare affidamento le nostre mafie, si deve registrare che la lotta è innanzi tutto politica, prima che militare. E che, anzi, l'approccio militare contribuisce al mantenimento di una controcultura, che si autoalimenta e si espande. In una società, quale quella meridionale, nella quale l'economia è allo sfascio, la disoccupazione, specie giovanile, ha numeri da capogiro, la sanità è al collasso, è serio pensare che la lotta alla criminalità organizzata si possa fare portando la pena per l'associazione a delinquere di stampo mafioso ad un minimo di venti anni? Il tema è un altro: restituire credibilità allo Stato. Se lo Stato è un nemico e nient'altro, le pene potranno essere incrementata quanto si vuole e le garanzie potranno essere calpestate, ma il risultato sarà sempre e solo quello di dare più forza al nemico. È questo uno degli aspetti principali della questione meridionale: creare le condizioni affinché democrazia, efficienza e benessere siano concetti che si coniughino in modo indissolubile. Solo così verrà meno il retroterra culturale su cui si poggiano le mafie e non vi sarà bisogno di maxi operazioni che interessano tutta l'Italia. Un'ultima notazione. Alcune forze politiche, che in genere si segnalano per il sostegno alla diminuzione delle garanzie ed all'incremento delle pene nella lotta alla criminalità organizzata, hanno lottato con tutte le loro forze per la introduzione più ampia possibile delle preferenze nella legge elettorale. Ed è noto che le preferenze sono uno dei meccanismi di elezione della criminalità organizzata per influenzare la politica. Nel momento in cui la presenza su tutto il territorio nazionale delle mafie ha raggiunto una tale estensione, quale quella segnalata dalla maxi operazione di cui si è detto, quale è la coerenza di quelle forze politiche? Giustizia: Sottosegretario Ferri: nessun rischio che le carceri diventino palestre terroristi Ansa, 29 gennaio 2015 "Allo stato non vedo il pericolo di un arruolamento di potenziali jihadisti all'interno delle carceri italiane. Siamo sensibili e attenti al problema e il nostro monitoraggio credo ci consenta di prevenire qualsiasi iniziativa": così Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, a "Voci del mattino" su Radio 1, sul rischio di un arruolamento di jihadisti nelle carceri italiane. "Il problema - ha aggiunto - può nascere con detenuti che hanno rivestito ruoli importanti nell'ambito di una organizzazione terroristica e in questi casi il controllo va rafforzato per evitare che cerchino di fare proseliti all'interno del carcere, magari fra persone che non ci pensano affatto, e per impedire che mantengano rapporti con gruppi o persone all'esterno". "La popolazione carceraria italiana - ha detto ancora Ferri - conta un 20% di persone provenienti da realtà vicine a quelle islamiche, pertanto di una cultura e una religione diversa, con abitudini diverse che la polizia penitenziaria tiene in conto e rispetta. Ma questo ovviamente senza abbassare la guardia sui controlli, perché un conto sono le diversità di culto, un altro è vigilare affinché non si pongano in essere gli atti criminali che abbiamo visto". "Le carenze di personale della polizia penitenziaria sono innegabili, però gli agenti stanno lavorando molto bene a fronte delle risorse disponibili. Inoltre, laddove i detenuti non siano pericolosi, stiamo approntando, come Dipartimento, una vigilanza dinamica che impegni i detenuti in attività lavorative, formative e di studio. Il tutto nell'ottica di un progetto di rieducazione, perché siamo convinti che l'ozio di certo non agevoli l'integrazione e la sicurezza all'interno delle carceri" ha concluso il sottosegretario. Giustizia: Sappe; sospendere vigilanza dinamica nei penitenziari, troppi agenti aggrediti Comunicato stampa, 29 gennaio 2015 "Nell'incontro di ieri a Roma ho chiesto espressamente al Vice Ministro della Giustizia, Enrico Costa, di sospendere la vigilanza dinamica nelle carceri italiane. Più ore fuori dalle celle senza far nulla, girando da una parte all'altra, non vuol affatto dire umanizzare la pena ma determinare tensioni costanti e continue e favorisce addirittura che si possano verificare nuovi reati tra le celle! E che la vigilanza dinamica così com'è strutturata non funziona lo dimostrano anche le decine di aggressioni a poliziotti penitenziari avvenute in pochi giorni addirittura due volte a Frosinone e Padova e poi nelle strutture detentive di Saluzzo, Frosinone, Asti, Torino, Vigevano, al carcere minorile di Palermo e in quello femminile di Roma. Siamo stanchi di essere feriti, insultati, umiliati, aggrediti!". A dichiararlo è il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Donato Capece, dopo l'incontro di ieri al Ministero della Giustizia di Roma "I vertici regionali e nazionali dell'Amministrazione Penitenziaria che sminuiscono gli episodi gravi e gli eventi critici che si sono verificati in alcune carcere italiane per dare l'idea che in carcere va tutto bene mentono sapendo di mentire. Pensate ai gravi fatti accaduti nel carcere di Padova. Il Provveditore dell'Amministrazione Penitenziaria del Triveneto, Enrico Sbriglia, e il direttore del carcere, Salvatore Pirruccio, hanno detto in una conferenza stampa che i detenuti che hanno sobillato un intero Reparto detentivo erano ubriachi. E allora perché proprio loro non hanno fatto assolutamente nulla rispetto al nostro sequestro, a metà dicembre, di una considerevole quantità di grappa artigianalmente prodotta dai detenuti in cella?". Ma al Vice Ministro Costa il Sappe ha chiesto di "sospendere la vigilanza dinamica nelle carceri, ossia le sezioni detentive autogestite dai detenuti, che permette loro di girare liberamente, nei corridoi, senza fare nulla per molte ore al giorno, e che si sta rilevando - come immaginavamo - non solo inutile ai fini del trattamento rieducativo dei detenuti ma assolutamente pericolosa, come confermano le molte aggressioni contro i poliziotti penitenziari e come avevamo noi stessi ipotizzato". Capece ha chiesto interventi urgenti - "a cominciare da un tavolo tecnico di lavoro che riveda ed eventualmente ridiscuta l'organizzazione della vigilanza dinamica, anche alla luce di tutti i problemi di sicurezza che sono emersi" - e ha annunciato "una manifestazione nazionale davanti al Ministero della Giustizia a Roma e una serie di sit-in di protesta davanti alle carceri delle principali città italiane per protestare contro le condizioni di abbandono in cui si trova la Polizia Penitenziaria". Giustizia: Ospedali Psichiatrici Giudiziari, il rischio è la chiusura soltanto "di facciata" Redattore Sociale, 29 gennaio 2015 L'allarme di Psichiatria democratica: "Gli internati ancora sottoposti alle misure di sicurezza rischiano di finire in residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria collocate negli stessi luoghi e gestite dallo stesso personale sanitario e penitenziario del vecchio Opg". Si cambia tutto per non cambiare niente. Così si potrebbe sintetizzare l'allarme lanciato da Psichiatria democratica sul superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg), previsto per il 31 marzo 2015 ma che, secondo l'organizzazione fondata da Franco Basaglia, potrebbe tradursi in un'operazione di puro maquillage. "Gli internati ancora sottoposti alle misure di sicurezza rischiano di finire in Residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria (Rems) - spiega Cesare Bondioli, responsabile carcere e Opg di Psichiatria democratica - collocate negli stessi luoghi e gestite dallo stesso personale sanitario e penitenziario del vecchio Opg. Insomma, una continuazione, sotto altro nome, del vecchio internamento". Particolarmente allarmante, secondo Psichiatria democratica, la decisione della Regione Sicilia che, se confermata, attiverebbe la Rems nell'area dell'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto: "Un'operazione gattopardesca, che lascia tutto come prima", la definisce Bondioli, che punta il dito anche contro la soluzione adottata nell'Opg di Castiglione delle Stiviere in Lombardia, sottoposto da sempre alle dipendenze del Servizio sanitario nazionale piuttosto che del ministero della Giustizia. "Ma questa particolare condizione non giustifica la riorganizzazione in più moduli da 20 posti. In questo modo andrà avanti esattamente come ora", commenta il rappresentante di Psichiatria democratica. L'allarme riguarda però anche i cosiddetti "dimissibili", ovvero quegli internati non più sottoposti alle misure di sicurezza e ormai esclusivamente sotto la responsabilità del Servizio sanitario nazionale: "Una gran parte di loro finisce nelle grandi strutture riabilitative di lunga degenza psichiatrica", sottolinea. Istituzioni, quest'ultime, che sorgono in luoghi appartati e con un gran numero di posti letto dove, secondo Psichiatria democratica, sono probabilmente finiti molti dei 500 internati dismessi dal 2010, anno in cui è cominciata l'operazione di smantellamento degli Opg. "A questo problema si aggiunge quello degli interessi privati - prosegue Bondioli. Spesso queste strutture sono gestite dai privati: non solo e non tanto dal privato sociale, ma da un privato mercantile". Durante un seminario al Senato lo scorso novembre il governo si era espresso non soltanto sulla concreta possibilità di rispettare la scadenza del 31 marzo per la chiusura degli Opg, ma anche sul ridimensionamento delle Rems, che in un primo momento erano state pensate per ospitare 900 internati sottoposti a misura di sicurezza. "Nel frattempo il numero delle persone è sceso a circa 800, di cui circa una buona metà dimissibili. Il timore ora è che si continuino a costruire strutture in grado di ospitare 900 persone, con il duplice rischio di alimentare interessi privati e di usare queste strutture anche per coloro che non sono sottoposti alle misure di sicurezza". Giustizia: ddl diffamazione; in Commissione alla Camera cento pagine di emendamenti di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 29 gennaio 2015 Camera. Proposte modifiche importanti alla norma bavaglio "reloaded". "Siete una minaccia di livello accettabile, altrimenti lo sapreste". Queste parole di Banksy, street artist londinese, sono perfette per capirci sul tema della diffamazione. Come fa un giornalista ad accorgersi che ha colto nel giusto? Dal numero di querele che riceve. Come si fa a far smettere un giornalista che ha trovato una pista efficace per le sue denunce? Gli si chiede un risarcimento danni dal primo articolo. Secondo l'osservatorio di Ossigeno per l'informazione il 40% delle richieste di risarcimento verso giornali e giornalisti è legata a querele per diffamazione. Chi vince di fronte a una querela per diffamazione? Chi ha più soldi. Cioè chi può impegnare più tempo e risorse a seguire le lunghe cause che ne possono derivare: pagando investigatori, scovando testimoni, ottenendo perizie, reclutando gli avvocati più esperti. Secondo voi tra il giornalista di un foglio locale siciliano e un grande gruppo imprenditoriale multinazionale, al netto della serietà e competenza dei giudici, chi ha maggiori possibilità di vincere? I cavilli giuridici e il "potere contrattuale" dei ricorrenti fanno sempre la differenza. Troppo comodo dire che i giornalisti vogliono garantirsi la libertà di diffamare opponendosi alla brutta legge di riforma della diffamazione a mezzo stampa. Troppo comodo per gli stessi giornalisti ergersi a paladini di una stampa degna di questo nome quando dicono che loro stessi e i colleghi devono "pagare" se hanno scritto il falso. La labilità del confine tra il diritto alla salvaguardia dell'onore e della reputazione e la libertà di espressione è una costante per chiunque comunichi, attraverso qualsiasi mezzo. Ogni articolo, servizio, programma, inchiesta, che faccia nomi e cognomi, calcoli e stime, ipotesi e ricostruzioni, è potenzialmente diffamatorio. È diffamazione pubblicare un fatto palesemente falso. Pubblicare un fatto falso con l'intento di danneggiare qualcuno è peggio. Ma se la notizia di un fatto vero è rilevante per l'interesse generale, e la notizia è pubblicata o trasmessa senza intento doloso, non c'è diffamazione anche se si danneggiano la reputazione o gli interessi di qualcuno perché si considera la libertà di espressione un valore più alto in quanto tutela un interesse collettivo (alla diffusione dell'informazione e delle idee). E tuttavia anche il racconto di un fatto vero, riportato senza intento malevole e senza effetti chiaramente dolosi, può riportare degli errori, offrire diverse angolazioni di lettura che possono o sono oggettivamente lesive della dignità dell'interessato. Per questo, siccome il reato di diffamazione è tipicamente contiguo alla libertà d'informazione, al diritto di cronaca, al diritto di critica e di satira, si configura facilmente come un reato d'opinione. E un reato d'opinione non può essere perseguito senza l'intervento di un giudice e il necessario dibattimento. Tuttavia le basi della riforma attualmente all'esame del Parlamento sono sbagliate, perché anche se si elimina il carcere per i giornalisti le multe sono esorbitanti anche se un giudice non ravvede un comportamento doloso di chi scrive arrecando un ipotetico danno. Ma è sbagliato anche introdurre una libertà di replica integrale e illimitata senza risposta del giornalista da chi eventualmente si sente diffamato. È sbagliato anche prevedere una sorta di diritto all'oblio per le testate online in tempi eccessivamente ristretti affinché l'articolo diffamatorio possa scomparire dal web per una vocale scritta male. Perciò sono benvenuti gli emendamenti proposti in commissione Giustizia alla Camera. Tra questi, più tempo e uno spazio ad hoc per le rettifiche, multe dimezzate o quasi (da 50 a 30 mila euro), cancellazione dell'introduzione del diritto all'oblio. Vedremo se passeranno. Giustizia: il flop dietro un "ma anche", un pasticcio nella norma sulle ferie dei magistrati di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2015 Ma anche: le ferie dei magistrati sono di 30 giorni, ma anche di 45. Un pasticcio. Una delle pochissime "riforme" andate in porto del governo di Matteo Renzi è quella sulle ferie dei magistrati. È stata però scritta così male da essere inutilizzabile. Introduce una nuova norma che riduce i giorni di vacanza delle toghe da 45 a 30; ma non cancella la norma precedente, che assegnava ai magistrati quindici giorni in più. Così adesso le ferie sono di 30, ma anche di 45 giorni. Se n'è accorto anche il Consiglio superiore della magistratura, che lo spiega in un documento approvato dalla settima commissione del Csm. Nel decreto del governo c'è l'articolo 8 bis che dice: "I magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, nonché gli avvocati e i procuratori dello Stato, hanno un periodo annuale di 30 giorni di ferie". Nessuno però si è curato di togliere il preesistente articolo 8, che recita: "I magistrati che esercitano funzioni giudiziarie hanno un periodo annuale di ferie di 45 giorni". Dunque tutti i "magistrati che esercitano funzioni giudiziarie" potranno legittimamente, in forza dell'articolo 8, pretendere di fare 45 giorni di ferie. Ad averne solo 30 resteranno quelli che non "esercitano funzioni giudiziarie", cioè quelli che sono per esempio distaccati nei ministeri: per loro varrà l'articolo 8 bis. Crolla così miseramente l'unica "riforma" realizzata da Renzi in materia di giustizia. Non c'è stato neppure bisogno di scomodare il cavallo Gondrano, quello che si ammazza di lavoro nella Fattoria degli animali di George Orwell, come ha fatto, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, il procuratore generale di Torino Marcello Maddalena. Il taglio delle ferie crolla da sé. Implode. Resta il disagio di gran parte della magistratura italiana e di una parte dell'opinione pubblica che non capisce perché, in materia di giustizia, il governo Renzi sia partito dalle ferie delle toghe. "Come se la colpa principale del dissesto dell'amministrazione della giustizia dipendesse dalla scarsa operosità dei magistrati", chiosa Maddalena, "quando invece è da anni pacifico che la produttività della giustizia italiana è fra le più alte d'Europa". Non sarebbe più urgente, si chiedono i magistrati, affrontare temi come la corruzione e l'illegalità? Ma sulla corruzione si è avviata una riforma a metà, ritoccando solo l'articolo 319 del codice penale e non intervenendo su reati come la concussione, l'induzione indebita, la corruzione semplice, la corruzione in atti giudiziari: lo ha ricordato l'Avvocato generale dello Stato di Milano, Laura Bertolè Viale. Perdendo per strada, dopo averle annunciate, due innovazioni che sarebbero state preziose: la riduzione di pena per chi collabora alla scoperta del reato; e la riparazione pecuniaria a favore della pubblica amministrazione pari alla somma illecitamente corrisposta. Sul falso in bilancio si è fatto di peggio, presentando in Parlamento un testo più insoddisfacente di tante proposte elaborate nelle commissioni di studio. Come pure sulla prescrizione. E in materia fiscale, dove si è introdotta la clausola di non punibilità sotto la soglia del 3 per cento per chi compie il reato di frode fiscale: una "modica quantità" che, al contrario che in materia di droga, favorisce i grandi contribuenti, restando inflessibile con i piccoli. Il reato di auto-riciclaggio, infine, è stato quasi vanificato da un comma che rende non punibile il "godimento personale". Tutto ciò, comunque, è stato avviato sui treni lenti dei lavori parlamentari. Il taglio delle ferie no: realizzato subito dal governo per decreto. Come non interpretarlo come un segnale non proprio pacifico mandato ai magistrati? Ora si sgonfia come un sufflè fatto male. Con un ulteriore paradosso: "Finora i magistrati usavano spesso le ferie per scrivere le sentenze o studiare le carte", spiega Piercamillo Davigo. "La riforma impone ferie piene. Così, invece di ridurle, hanno finito per aumentarle". Giustizia: Erri De Luca, in tanti a sostenere lo scrittore accusato di "reato di opinione" di Mauro Ravarino Il Manifesto, 29 gennaio 2015 E così, in una mattina di sole invernale, inizia il processo alle parole dello scrittore. Avrebbe, secondo la Procura di Torino, istigato a delinquere. Colpevole di aver detto, in un'intervista all'Huffington Post, che il Tav, una grande opera contestata fin dalle origini dalla popolazione valsusina, "va sabotata". Corre l'anno 2015, anche se non sembrerebbe dal carattere dell'accusa che rispolvera il "reato di opinione". E lo scrittore è, ovviamente, Erri De Luca, che ieri si è presentato in anticipo nell'aula del Tribunale di Torino, per la prima udienza del suo processo. A porte aperte, apertissime; il rito abbreviato, che aveva rifiutato durante l'udienza preliminare, le avrebbe, invece, avute chiuse. Un processo alla parola deve essere pubblico, di questo n'è sempre stato convinto. E fuori e dentro il Palagiustizia sono venuti in tanti - attivisti No Tav, lettori, cittadini comuni - a esprimere vicinanza al grande autore napoletano. Hanno distribuito gratuitamente le copie di La parola contraria, il libro appena pubblicato da Feltrinelli e uscito in contemporanea in Francia, Germania, Spagna, Paesi dove il processo a De Luca sta suscitando scalpore. Il pamphlet, letto collettivamente fuori dal Tribunale, rivendica "il diritto a esprimere la propria opinione anche quando è contraria, non solo quando è ossequiosa e gradita". In aula, il folto pubblico ha esposto cartelli con la scritta "Je suis Erri" (parafrasando lo slogan coniato dopo la strage a Charlie Hebdo) che il giudice Immacolata Iadeluca ha fatto abbassare prima dell'avvio dell'udienza. De Luca ha, comunque, subito escluso ogni possibile equiparazione fra il suo processo e "il massacro" alla redazione del periodico satirico parigino. "Sento la responsabilità delle cose che dico e scrivo. Sono uno scrittore, non penso di poter istigare nessuno se non alla lettura e alla scrittura", ha detto Erri De Luca prima dell'inizio del dibattimento. "Sono qui anche per conoscere le persone, nomi e cognomi, che avrei istigato, come sostiene l'accusa, e che cosa hanno fatto spinti dalle mie parole". Ha rivendicato la sua opinione sul Tav e le parole usate per esprimerla: "Sabotare per me è un verbo nobile, utilizzato anche da Gandhi, che va oltre allo scassare attrezzature. Il suo significato è molto più vasto e non intendo farmelo sottrarre. Nell'autunno del 1980 ho partecipato alla lotta operaia e sono stato per 37 giorni davanti alla Fiat partecipando a quel grande sabotaggio. Non è certo necessario fare un reato per sabotare". La Procura difende il proprio operato. "Abbiamo il dovere di verificare se certi casi debbano essere sottoposti al vaglio di un giudice. E in questo caso riteniamo di sì", ha spiegato il pm Andrea Beconi nel suo intervento. "Il reato di istigazione a delinquere è discutibile e si presta a strumentalizzazioni, ma nell'ordinamento esiste e dobbiamo farci i conti. Qui - chiarisce Beconi - non si sta cercando di comprimere un diritto fondamentale come la libertà di manifestare il proprio pensiero. E nemmeno di entrare nella diatriba sul Tav". La giudice Iadeluca ha respinto la richiesta della Procura di fare testimoniare l'architetto Mario Virano, presidente dell'Osservatorio sulla Torino-Lione, una decisione accolta con favore dalla difesa dello scrittore. "Diversamente - ha detto l'avvocato Gianluca Vitale - questo sarebbe diventato un processo contro l'intero movimento No Tav e con un'apologia del Tav". Da ora in poi sarà un processo sulle frasi pronunciate dallo scrittore. "Continuo a pensare - ha aggiunto De Luca - che il Tav vada sabotato, ma sono convinto che si saboterà da solo perché non ci sono i soldi per costruirlo. Il buco del Tav sarà un "buco interrotto", un "bucus interruptus". Il processo, che vede sul banco degli imputati per istigazione a delinquere solo Erri De Luca, è stato rinviato al 16 marzo. "Se sarò condannato non farò ricorso. Quello che ho da dire è quello che ho già detto". Poi, ha aggiunto: "Uno scrittore - ha aggiunto - deve difendere le sue opinioni, che in questo caso per me sono poi diventate convinzioni. Cosa altro deve fare se non difenderle?". L'autore si è allontanato dall'aula del Palagiustizia circondato da fotografi e giornalisti, italiani e stranieri, e fra gli applausi del pubblico. Rispondendo ai cronisti sul peso delle parole dette da uno scrittore, De Luca ha, inoltre, sottolineato: "Quello che riconoscono a me perché non lo riconoscono a Bossi o Berlusconi? Io sono uno e valgo uno, non ho un partito". A margine del processo si è ancora espresso sulla battaglia No Tav. "Cosa c'è di più democratico e civile di oltre di 20 anni di lotta alla Tav? Lotta che continua civilmente". E sulle 47 condanne inflitte, martedì, ad altrettanti militanti, ha affermato: "Non hanno voluto applicare le attenuanti, è una cosa grave che mi colpisce molto". Giustizia: dna, certezze e… passi falsi sull'omicidio di Yara di Davide Milosa Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2015 Una parte della traccia biologica non c'è più ma bossetti resta in carcere. A 7 mesi dall'annuncio del Ministro Alfano, il caso è tutt'altro che risolto. Giustizia e scienza. Il dibattito è aperto. Il Dna divide, gli esperti s'affannano. Vero, falso, probabile. Al netto di tutto resta la domanda: Giuseppe Bossetti rapì e uccise la 13enne Yara Gambirasio? Fu il 44enne carpentiere di Mapello, sposato con tre figli, una vita riservata, dedicata a famiglia e animali, ad aggredire, colpire e infine abbandonare la ragazza di Brembate nei gelidi campi di Chignolo d'Isola, dove fu poi ritrovata il 26 febbraio 2011, esattamente tre mesi dopo la sua scomparsa? Tanti dubbi. L'ultimo, fresco di cronaca, riguarda la genetica. Si scopre, ed è lo stesso perito della Procura di Bergamo a scriverlo, che la parte mitocondriale del Dna trovato sugli slip di Yara non appartiene a Bossetti. Ignoto 1, dunque, non è il carpentiere appassionato di cani e lampade abbronzanti? L'avvocato del presunto killer conferma. Il magistrato frena: non scherziamo, quella è e resta l'impronta di Bossetti. Come spiegato ancora ieri dal capo della Procura di Bergamo Francesco Dettori. A parlare, ragionano gli inquirenti, è la parte cellulare del Dna, quella sì corrispondente all'indagato. L'enigma si allarga. Cellulare o mitocondriale? Ne basta uno (in questo caso il nucleare)? Oppure servono entrambi per dare nome e cognome al killer? Un fatto è certo: a oggi di Dna nucleare non c'è più traccia. Le scorte repertate sul corpo della ragazza sono andate esaurite. Resta, invece il mitocondriale che però non corrisponde. Di più: la traccia regina (codificata 31G20) individuata sugli slip tagliati viene descritta come "mista". C'è Yara, ma c'è anche il suo assassino. Fino a pochi giorni fa, però, si sapeva che i rapporti di quantità erano a favore di Bossetti, ora, invece, si scopre che buona parte del Dna trovato su quella macchia corrisponde al profilo genetico della 13enne. Il perito parla di anomalia. Il rebus si complica. E se la prova regina traballa, gli altri accertamenti scientifici hanno già dato ragione alla difesa. Nei peli repertati attorno al cadavere, infatti, non vi è traccia di Bossetti. Mentre nei mezzi del muratore non c'è Dna di Yara. Ancora: computer e cellulari, per ora, hanno svelato solo quella ricerca (fatta su Google) "tredicenni sesso". Insomma dentro a una domanda s'infila un'altra domanda e così via a ritroso fino al pomeriggio del 16 giugno 2014, quando il ministro dell'Interno Angelino Alfano twitta: "Arrestato l'assassino di Yara". Bastano pochi minuti e il nome del muratore di Mapello fa il giro d'Italia. Lui è il killer. Individuato a quasi quattro anni dal delitto. Il clamore dell'arresto, però, non cancella gli insuccessi precedenti, quando la Procura di Bergamo, sulla base di un'intercetta - zione mal tradotta, arresta il marocchino Mohamed Fikri. L'assassino non è lui. Prima della conferma i cani molecolari, fiutando una traccia di Yara davanti alla palestra di Brembate da dove scomparve il 26 novembre 2010, portano al cantiere di Mapello. Qui lavorò Fikri. Ma Fikri è innocente e lì Bossetti non si è mai visto. In quel momento il Ros di Brescia si concentrano sul Dna di Ignoto 1. Si arriva a Giuseppe Guerinoni, l'autista di Gorno morto nel 1996. Il Dna corrisponde ma solo in parte. L'ipotesi è che l'autista abbia avuto un figlio illegittimo. Si arriva a Ester Arzuffi sposata con Giovanni Bossetti e che ebbe due figli gemelli dalla relazione clandestina con Guerinoni. Il Dna della donna corrisponde a Ignoto 1. Uno dei figli illegittimi è il carpentiere di Mapello al quale, due giorni prima dell'arresto, viene prelevato un campione di Dna con un controllo all'alcol test. Il match tra il codice di Bossetti e quello di Ignoto coincide al 99,9 per cento. Questo fu detto. Oggi scopriamo che non è così. Chiuso il cerchio genetico, dal 16 giugno 2014 iniziano gli accertamenti. I video sono decisivi: l'obiettivo è capire se l'Iveco Daily di Bossetti è stato ripreso attorno alla palestra di Brembate. Il camioncino del carpentiere, sostengono i Ros, ha modifiche che lo rendono riconoscibile: si punta su un catarifrangente rosso. Anche qui il risultato è incerto: dopo aver escluso centinaia di mezzi, i carabinieri confermano che nel giorno della scomparsa il mezzo di Bossetti fu avvistato in zona. A bordo però non è mai stato riconosciuto il muratore. E ancora: telefoni e celle. Alle 16,45 del 26 novembre il cellulare di Bossetti aggancia la cella di Mapello. Alle 18,05 il telefonino di Yara si trova in una posizione opposta. Non meno contraddittorie le testimonianze. Come quella del fratellino della 13enne che parla di aver notato un uomo grasso col pizzetto fissare Yara. Bossetti più che magrolino è esile. C'è altro da capire: Yara conosceva il suo assassino? La procura ci punta, Bossetti nega ("Mai vista"). Il rapporto pregresso, però, giustificherebbe il fatto che la ragazza salga spontaneamente sul furgone e senza opporre resistenza arrivi a Chignolo d'Isola, scenda e cammini tranquillamente fino all'aggressione. Ecco, allora, spuntare una donna che oggi, quattro anni dopo, ricorda di aver notato un uomo, che riconosce essere Bossetti, intrattenersi in auto con una ragazza davanti alla palestra. È l'ennesimo tassello. Ma quanto regge? Decideranno i giudici. Intanto Bossetti resta in carcere. Sono passati sette mesi. E il 25 febbraio la Cassazione deciderà se, dopo l'ultima svolta, il carpentiere potrà tornare nella sua casa di Mapello. Giustizia: caso Fabrizio Corona. Cassazione: no sconto di pena, condanna da ricalcolare La Repubblica, 29 gennaio 2015 Un anno fa il gip di Milano aveva abbassato il cumulo della pena da 13 a 9 anni. Ma la Suprema corte accoglie il ricorso del pm. L'ex re dei paparazzi aveva appena chiesto di andare ai domiciliari. Nessuno sconto di pena per Fabrizio Corona. Che ora, dopo che il suo cumulo di condanne definitive era sceso a nove anni, si ritrova a dover affrontare, dopo due anni già passati in carcere e altri mesi di carcerazione preventiva già scontati, quasi 11 anni di reclusione. Lo ha deciso la Cassazion, che ha accolto il ricorso della Procura di Milano annullando la riduzione che era stata concessa dal gip all'ex "re dei paparazzi". Ora la palla tornerà a un gip del tribunale milanese che sulla base del provvedimento della Cassazione dovrà ricalcolare esattamente il cumulo delle pene. Che stando a quanto riferito dal legale di Corona, l'avvocato Ivano Chiesa, dovrebbe attestarsi attorno ai "13 anni". "Siamo in una situazione molto grave - ha spiegato il difensore. Non ho altre parole per descrivere i 13 anni di galera per Fabrizio". E sulla vicenda interviene anche l'ex compagna di Corona, Belen Rodriguez: "Trovo che parlare di questo argomento a lui faccia davvero male. Se fossero stati tutti zitti, qualche sconto di pena forse l'avrebbe avuto". Quasi un anno fa il gip di Milano aveva portato il cumulo di condanne definitive a carico del fotografo dei vip, per una lunga serie di vicende giudiziarie in cui è stato coinvolto negli anni passati, da 13 anni e due mesi a nove anni. Tenuto conto dei due anni circa già trascorsi a Opera e della carcerazione preventiva all'epoca dell'inchiesta Vallettopoli, come aveva spiegato il suo avvocato nei giorni scorsi, all'ex agente fotografico rimanevano da scontare circa sei anni e otto mesi. Ora con la decisione della Cassazione, che ha accolto il ricorso del procuratore aggiunto Nunzia Gatto, il cumulo di pene ricalcolato potrebbe arrivare a 13 anni e Corona dovrebbe restare in carcere ancora per quasi 11 anni. "Si annulla l'ordinanza impugnata - ha scritto la Cassazione nel dispositivo - limitatamente al riconoscimento della continuazione fra i reati di estorsione e i restanti reati oggetto delle sentenze dell'8 marzo 2010 del gip del tribunale di Milano e del 7 giugno 2012 della Corte d'appello di Milano, e si rinvia per nuovo esame al gip del tribunale di Milano. Si rigetta il ricorso di Corona Fabrizio, che si condanna al pagamento delle spese processuali". Nelle motivazioni, che saranno depositate nelle prossime settimane, la Corte spiegherà i motivi del provvedimento. Stando a quanto chiarito dall'avvocato Chiesa, la Cassazione ha riconosciuto la continuazione tra le pene per le due condanne riportate a seguito delle inchieste di Milano e Torino sui cosiddetti "foto-ricatti". Continuazione, invece, che non si può applicare fra le due condanne per estorsione e altre due sentenze: quella per aver corrotto una guardia carceraria, quando era detenuto nel 2007, per far entrare una macchina fotografica a San Vittore e realizzare un servizio fotografico; la condanna a tre anni e dieci mesi per bancarotta fraudolenta documentale. "Fabrizio continuerà comunque a combattere, ma non va lasciato solo", ha spiegato l'avvocato Chiesa, che assieme al legale Antonella Calcaterra, fra l'altro, ha chiesto alla Sorveglianza di Milano di farlo uscire da Opera e mandarlo in una comunità, perché sta soffrendo di stati depressivi, psicosi, ansia e attacchi di panico. I giudici hanno anche disposto una perizia psichiatrica (l'incarico sarà conferito l'11 febbraio). Pende anche la richiesta di grazia parziale presentata a dicembre a Giorgio Napolitano e di cui dovrà occuparsi il prossimo presidente della Repubblica. Lombardia: sovraffollamento record, San Vittore è peggio di Regina Coeli e Poggioreale di Chiara Rizzo Tempi, 29 gennaio 2015 I dati (e perfino gli allarmi degli stessi magistrati) confermano che i penitenziari italiani sono ancora in emergenza. Situazione critica nel distretto di Milano. Il presidente della corte d'appello di Milano, Giovanni Canzio, lo scorso sabato 24 gennaio nella sua relazione all'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha lanciato un allarme sulla situazione delle carceri lombarde: "Nelle carceri italiane il 31 dicembre 2014 è stata registrata una riduzione del sovraffollamento del 14 per cento, rispetto al 31 dicembre 2013. La situazione appare ancora critica nel distretto di Milano, dove la variazione percentuale rispetto alla capienza regolamentare raggiunge il +24 per cento". Tradotte le percentuali in "cifre reali", diventa chiaro il motivo che ha spinto Canzio a ricordare la situazione allarmante. Nella classifica stilata per il 2013 dall'Osservatorio sulle carceri Antigone, tra tutti gli istituti di pena italiani, al secondo posto per sovraffollamento si trova il carcere di Busto Arsizio, che ospita 312 detenuti in una struttura con 173 posti. Al primo posto il carcere di Latina, con 161 detenuti a fronte di una capienza di 76, al terzo posto il carcere femminile di Pozzuoli (173 detenute contro 97 posti), ma al sesto e al settimo posto troviamo di nuovo due prigioni lombarde: Lodi con 86 detenuti e 50 posti, Brescia con 325 carcerati e una capienza regolamentare di 189. Altre città lombarde, come Como (14esima posizione, 364 detenuti contro 223 posti), Brescia-Verziano (17esima posizione, 115 contro 72) e Bergamo (20esima, 507 contro 320), superano di gran lunga per densità di popolazione realtà tradizionalmente afflitte dall'emergenza carceri, vedi Firenze Sollicciano (32esima posizione, 734 detenuti contro 494 posti) o Napoli Secondigliano (36esima, 1.305 contro 898). La Lombardia esce male anche dal confronto tra le due maggiori città d'Italia: il carcere di Opera (41esima posizione, 1.285 detenuti stipati in 911 posti) e quello di San Vittore a Milano (54esima, 971 persone e 753 posti) sono in proporzione molto più sovraffollati di quelli romani. Regina Coeli è 60esimo con 813 detenuti e una capienza di 642, Rebibbia-Nuovo complesso 1 è 80esimo (1.479 contro 1.235). Meglio dei milanesi anche carceri come quello di Poggioreale a Napoli (85esima posizione, 1.929 detenuti, capienza 1.644) o il Pagliarelli di Palermo (119esima posizione, 1.170 detenuti e 1.181 posti). "Si deve considerare - ha spiegato Canzio - che il Piano carceri varato dal Governo ha comportato per taluni istituti penitenziari del distretto di Milano un rilevante ampliamento numerico della capienza, con significative percentuali di incremento complessivo dei detenuti presenti". Al di là della situazione lombarda, è evidente però come il problema sovraffollamento non sia affatto risolto in tutto il paese. Lo ha confermato il primo presidente di Cassazione, Giorgio Santacroce, sempre in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Santacroce ha ricordato che dopo la scadenza del termine concesso all'Italia da Strasburgo con la Sentenza Torreggiani per affrontare la situazione disumana delle carceri, "l'Italia sembra aver superato l'esame. Il comitato dei ministri del Consiglio d'Europa ha riscontrato "l'impegno" e i "significativi risultati già ottenuti" per migliorare la situazione, e la stessa corte di Strasburgo ha riconosciuto l'adeguatezza dei correttivi". Ha quindi citato a titolo d'esempio la legge "svuota carceri" varata dal governo Letta (che ha ristretto l'ambito della custodia cautelare ai reati punibili con più di 3 anni di carcere e ha ampliato l'accesso ai benefici per i condannati in buona condotta) e il risarcimento ai detenuti che vivono la pena in condizioni inumane varato dal governo Renzi. Poi però ha ammonito: "Il conto non è stato ancora saldato del tutto e c'è ancora molto da fare. Parlare del tema carceri non significa affatto riproporre una tragedia "minoritaria", che riguarda una porzione limitata di umanità". Santacroce ha ricordato come la corte di Strasburgo, anzi, in due sentenze del 2013 e del 2014 ha introdotto un nuovo principio giuridico, imponendo "il riconoscimento a tutti i detenuti, compresi quelli che scontano una pena perpetua, del "diritto alla speranza": ciò comporta che a tutti dev'essere data la possibilità di correggersi e la prospettiva di essere anticipatamente liberati se il percorso di risocializzazione dà esito positivo". Anche per questo senso - ha concluso il presidente della Cassazione - il legislatore prima o poi dovrà convincersi della necessità di rivoluzionare il sistema con un massiccio ricorso alle misure alternative alla detenzione. Massa Carrara: detenuto di 53 anni muore per una "emorragia broncopolmonare" La Nazione, 29 gennaio 2015 Chiesto dal pubblico ministero l'esame esterno sulla salma, ma sussistono pochi dubbi sulle cause naturali della morte. Una emorragia broncopolmonare è stata fatale a G.C., detenuto nel carcere di Massa. L'uomo, 53 anni, originario di Cuneo era detenuto nella Casa circondariale massese da circa un anno e mezzo, dove era arrivato trasferito dal carcere di Bergamo. Era invalido civile. Stava in infermeria, si sottoponeva ad una terapia con ossigeno che non era, tuttavia, incompatibile con la vita carceraria ed era costantemente seguito dall'ospedale di Carrara. Che si sia trattato di morte naturale non sembrano esserci dubbi, ma trattandosi di un detenuto, il pubblico ministero Rossella Soffio ha ritenuto opportuno incaricare il medico della Procura, Maurizio Ratti, di procedere all'esame esterno della salma e all'esame tossicologico. La gravissima insufficienza cardiorespiratoria ha colpito l'uomo verso le sette di questa mattina. Imperia: detenuti al servizio della comunità, arriva il "via libera" dal Consiglio comunale di Selena Marvaldi www.imperiapost.it, 29 gennaio 2015 Nuovo punto all'ordine del giorno viene presentato dal consigliere Olivieri e tratta la modifica e rinnovo della Convenzione con il Comune di Imperia per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità e la stipula di una nuova convenzione tra il comune e la casa circondariale. Terzultimo all'ordine del giorno del consiglio comunale odierno, 28 gennaio, è presentato dal consigliere Olivieri e tratta la modifica e rinnovo della Convenzione con il Comune di Imperia per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità e la stipula di una nuova convenzione tra il comune e la casa circondariale. "Primo obiettivo è stipulare una nuova convenzione per i lavori di pubblica utilità, in secondo luogo è importante la stipula di una nuova convenzione con la casa circondariale di Imperia per il lavoro dei detenuti. Vogliamo cercare di valorizzare la solidarietà nei confronti di soggetti in difficoltà. Stipulando una nuova convenzione speriamo di permettere alla molteplicità dei cittadini di usufruire di queste prestazioni in settori diversi. Il reato principale per cui viene usata questa convenzione è quello di guida in stato di ebrezza, reato trasversale". "Stipulare una convenzione, mettersi d'accordo, a me crea un po' di stupore che un collega si rivolga al Sindaco facendo una proposta così - interviene il consigliere Erminio Annoni. Le tipologie di reato sono le più varie, non solo piccoli e con la nuova normativa si può raggiungere l'estinzione del reato senza previa condanna. Io chiedo la pena sospesa, mi fanno fare i lavori socialmente utili se li ho fatti bene non vengo più processato. Bisogna stipulare più accordi e con vari soggetti a seconda di cosa ci troviamo di fronte. Ti prego di ritirarla, non sono contrario, ma serve fatta meglio". Interviene poi il consigliere Fossati: "Va benissimo come iniziativa, farò un discorso politico: io vedo la mozione, vede che è firmata da Oliveri, so che il Pd ha sette consiglieri comunali, so che si esprime anche l'assessore di riferimento, ma poi mi chiedo come mai il Pd fa una mozione che chiede all'assessore dello stesso partito di fare qualcosa? È assurdo. Serve per farsi fare i complimenti dalla gente". "Credo si possano nascondere anche degli aspetti controproducenti - interviene il consigliere Casano. Non vorrei ci trovassimo di fronte al solito buonismo. Stiamo parlando di persone che hanno commesso reati di una certa entità. Ho fatto vedere il testo ad una persona che lavora in ospedale e anche lei ha avuto delle perplessità a riguardo". Sassari: con il progetto "Isola Digitale" 27 detenuti al lavoro per l'archivio del Tribunale www.notizie.alguer.it, 29 gennaio 2015 Grazie al finanziamento della Banca Nazionale delle Comunicazioni di Roma, che si aggiunge alle somme già stanziate dall'assessorato regionale alla Sanità, altri 8 reclusi entrano a far parte del gruppo coordinato dalla Cooperativa sociale "DigitAbile Onlus". Prosegue il progetto "Isola Digitale" avviato nel maggio 2014 dalla Cooperativa sociale "DigitAbile Onlus" di Oristano. Grazie a un notevole contributo finanziario concesso dalla Banca Nazionale delle Comunicazioni di Roma, ai 19 detenuti già impegnati nel lavoro di digitalizzazione ottica dei documenti d'archivio del Tribunale di Sassari, si aggiungono altre 8 unità. Alcuni opereranno dall'interno del nuovo carcere di Bancali per il "data entry" informatizzato. Gli altri saranno inquadrati in articolo 21, cioè con il permesso di muoversi all'esterno dell'istituto penitenziario. "Si tratta di un modello innovativo e sperimentale per la Sardegna - spiega Giorgio Oggianu, presidente della Digitabile - che si affianca ad altri pochissimi progetti nazionali che coinvolgono i reclusi in percorsi professionalizzanti, spendibili nel mercato del lavoro, in particolare nel settore della digitalizzazione ottica dei documenti". Durante le attività, sarà possibile ampliare e testare i percorsi di accompagnamento dei carcerati attraverso il conseguimento dei moduli e i pass per l'informatica, di quelli per l'orientamento e per la formazione archivistica. L'iniziativa durerà 12 mesi, ma per alcuni detenuti è prevista l'assunzione definitiva. Fin dal primo momento i partner coinvolti sono stati la struttura carceraria, il Tribunale di sorveglianza di Sassari e gli enti finanziatori. Centomila euro sono arrivati dall'assessorato alla Sanità e cinquantamila dalla Fondazione Banca Nazionale delle Comunicazioni. Il progetto prevede la collaborazione di alcune figure professionali complementari, come l'ex direttore dell'Archivio di Stato, professor Angelo Ammirati, i consulenti informatici della Cooperativa e le educatrici del carcere. "Il successo del progetto - afferma il presidente Oggianu - consiste nell'aver professionalizzato detenuti con un livello di scolarizzazione molto basso. Oltre il 55 per cento è in possesso della sola licenza media inferiore, il 10 per cento non supera la licenza elementare". Torino: Coop "Liberamensa" ed economia della speranza, dove il pane lo fanno i detenuti di Adriano Moraglio Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2015 Funziona da un mese il primo negozio, a Torino, che vende esclusivamente prodotti di panificazione che provengono dal lavoro dei detenuti nel carcere "Lorusso e Cutugno", alla periferia della città. L'esercizio è stato aperto in centro, in via Massena 11/C, per iniziativa della cooperativa "Liberamensa", e ha un nome che gioca con la provenienza dei prodotti, "Farina nel Sacco" (info@farinanelsacco.it) Si tratta di una panetteria certamente unica nel suo genere. Da una parte, per la farina che utilizza, dall'altra per chi la utilizza e il luogo in cui viene trattata. La farina viene dal "Mulino della Riviera", con le sue macine a pietra e la sola forza dell'acqua ad azionarle, grazie al minuzioso lavoro di restauro portato avanti dalla famiglia Cavanna. Così è stato possibile tornare a produrre farine pregiate macinando segale, farro monococco, farro integrale, mais pignoletto… Tutto il frumento proviene dal territorio e, in alcuni casi, dal recupero di antiche culture in esso reintrodotte, come la segale della Valle Gesso. Viene poi selezionato con cura consentendo la macinatura a secco dei chicchi, mantenendo così inalterati profumi, colori, digeribilità e principi nutritivi. E poi ci sono i panificatori. Il panificio del carcere di Torino nasce da un contributo della Cassa delle Ammende e della Compagnia di San Paolo, nella convinzione che, spiega Piero Parente, di Liberamensa, "la pena non può essere solo una questione "afflittiva", che la sicurezza sociale non può essere relegata alla sola reclusione e che la vivibilità delle carceri italiane non può ridursi ad un certo numero garantito di metri quadri per persona. Al contrario, sicurezza sociale e condizioni dignitose di vita nelle carcere, si possono perseguire solo offrendo ai detenuti opportunità di formazione, di lavoro, di studio". In questo panificio, sotto la guida di un giovane panificatore, Diamante Abdushi, tre detenuti sono al lavoro impastando le farine del Mulino della Riviera con acqua, sale marino integrale e lievito madre. "Pochi, pochissimi ingredienti - aggiunge Parente - per sfornare un pane di grande qualità, dai sapori antichi e dalla lunga conservazione e quindi anche un pane "economico", che non alimenta i numeri sproporzionati degli scarti alimentari, come purtroppo avviene nell'industria della grande panificazione, che spesso sforna prodotti immangiabili dopo alcune ore". Campobasso: Uil; no a tagli personale medico e infermieristico in strutture penitenziarie Ansa, 29 gennaio 2015 "L'Asrem non tagli i servizi assistenziali nelle carceri". L'appello arriva dal segretario regionale della Uil, Tecla Boccardo, a seguito del provvedimento del direttore generale dell'Azienda sanitaria regionale, Mauro Pirazzoli, che, a seguito della riorganizzazione dei servizi, stabilisce di non prorogare i rapporti convenzionali con medici e infermieri negli istituti penitenziari di Campobasso, Isernia e Larino (Campobasso), transitati dal ministero della Giustizia al servizio sanitario nazionale. "Con tale riorganizzazione - spiega la sindacalista - viene soppresso il servizio di guardia infermieristica h/24, limitandolo a 12 ore al giorno e non è stato rinnovato il rapporto con i medici della continuità assistenziale. Così - prosegue - altri posti di lavoro si tagliano in Molise. Riteniamo che dimezzare i presidi e la presenza di personale in termini di ore, significherebbe non garantire un principio ed un diritto alla tutela della salute". Lanciano (Ch): concluso da 12 detenuti il Corso per pizzaioli, oggi consegna degli attestati di Barbara Lanci www.lanciano24.it, 29 gennaio 2015 L'attività di formazione è stata promossa dal Rotary Club di Lanciano in collaborazione con l'Ass. Pizzaioli Professionisti. Saranno consegnati questa sera, nel corso di una cerimonia che si terrà a partire dalle ore 19.00 presso la Casa Circondariale di Lanciano, gli attestati di partecipazione al Corso Base per Pizzaioli di 40 ore conseguito da 12 detenuti. Il Rotary Club Lanciano, in collaborazione con l'Associazione Pizzaioli Professionisti (App), infatti, ha promosso durante gli scorsi mesi di novembre, dicembre 2014 e gennaio 2015, lezioni di approfondimento tenute dall'Istruttore Pizzaiolo Angelo Ferente, rappresentante locale dell'associazione di categoria che riunisce pizzaioli di tutta Italia. L'evento sarà l'occasione per i corsisti, coordinati dal docente, di mettere alla prova le competenze acquisite per preparare delle gustose pizze che saranno degustate al termine della manifestazione. Questa attività sottolinea l'impegno di amicizia e solidarietà del Rotary Club Lanciano, e del suo Presidente Fabio Lombardi, interessato a favorire percorsi di reinserimento nella società nei confronti degli ospiti della Casa Circondariale di Lanciano. Caltanissetta: carcere di Malaspina ancora sovraffollato, i dati della corte d'appello di Vincenzo Pane La Sicilia, 29 gennaio 2015 Carceri in gran parte sovraffollate e con un numero di poliziotti penitenziari non sempre sufficiente a garantire la sicurezza. A parte qualche eccezione emerge un quadro a tinte fosche della situazione penitenziaria nel distretto della Corte d'Appello nissena. "Gli edifici carcerari - ha spiegato il presidente della Corte d'Appello Salvatore Cardinale nel corso dell'inaugurazione dell'anno giudiziario - sono stati realizzati quasi tutti in anni lontani e necessitano di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria per mantenere un livello coerente con gli standard di idoneità. Il personale di Polizia penitenziaria rimane insufficiente ed è costretto a lavorare in condizioni di continuo logorio fisico e mentale. Va comunque ricordato che, nonostante le difficoltà, nelle carceri del distretto non sono cessate le varie attività di trattamento dei detenuti fondate sull'offerta scolastica, sulla formazione professionale e nemmeno altre iniziative". Non ha usato giri di parole il presidente della Corte d'Appello per descrivere uno dei problemi che riguardano il carcere di via Messina, che ha anche i reparti di media ed alta sicurezza: "Il carcere di Caltanissetta - ha affermato Cardinale - accusa la carenza di spazi sufficienti da dedicare alle attività di svago e di quelle per il trattamento dei detenuti, in relazione al numero di persone che vi sono ristrette. Mediamente, nel corso dell'ultimo anno, sono state detenute al "Malaspina" 280 persone rispetto alle 303 del periodo precedente. i detenuti stranieri rappresentano una minima parte della popolazione carceraria, con un numero di circa 25 reclusi. La capienza regolamentare è di 183 persone e quella regolamentare di 237, i casi di suicidio sono stati 2 ed altrettanti quelli di autolesionismo, mentre le manifestazioni di protesta quali sciopero della fame o rifiuto di sottoporsi a terapie 47". Secondo il rapporto sull'andamento della giustizia il carcere gelese ha ospitato 81 detenuti nell'ultimo anno, un numero al di sotto della soglia di tolleranza di 96 posti letto. Secondo il presidente Cardinale "il personale di Polizia penitenziaria è sufficiente a garantire i livelli minimi di operatività, anche se non risultano tutt'ora completati alcuni impianti tecnologici certamente necessari". Si tratta di una casa di reclusione destinata ad ospitare detenuti condannati a pene che non superano i cinque anni di reclusione. "La sua capienza - ha spiegato Cardinale - è di 118 detenuti e non risultano situazioni di sovraffollamento ed il personale di Polizia penitenziaria, pur essendo diminuito negli ultimi anni, è in grado di svolgere adeguatamente tutti i servizi così come il personale di supporto alle attività educative". "La struttura - secondo l'analisi del presidente della Corte d'Appello - continua a mantenere la già riconosciuta idoneità grazie anche agli interventi che ne hanno migliorato le condizioni di vivibilità. Il numero di detenuti presenti è stato mediamente pari a 10 persone, su una capienza massima di 12 ospiti. I minori che hanno fatto ingresso nella struttura (molti dei quali scarcerati quasi subito, n. d. r.) sono stati 41 di cui 7 stranieri. La direzione del carcere minorile ha inoltre realizzato importanti iniziative per consentire ai minori di acquisire competenze e capacità professionali". Milano: Coop "Abc La Sapienza in Tavola"; non c'entriamo con Buzzi e la "29 Giugno" Ansa, 29 gennaio 2015 La cooperativa Abc di cui si parla oggi in alcuni organi di stampa in relazione alla "29 Giugno" e a Salvatore Buzzi, coinvolto nell'inchiesta Mafia Capitale, non ha nulla a che fare con "Abc La Sapienza in Tavola" che opera a Milano, nel carcere di Bollate. Un caso di parziale omonimia, che Silvia Polleri, presidente della coop attiva nel carcere, ha voluto chiarire per evitare sovrapposizioni che possano offuscare l'immagine della struttura da lei guidata. "Nelle notizie diffuse dai media nell'ultimo mese riguardanti l'inchiesta denominata "Mafia Capitale" - spiega Polleri - tra le cooperative collegate alla 29 Giugno, risulta esserci tale Cooperativa Sociale Abc, con sede a Roma. A causa della parziale omonimia con la nostra cooperativa ("Abc La sapienza in tavola", con sede a Milano), avendo ricevuto da diversi soggetti richieste di chiarimento, precisiamo la nostra totale estraneità alla vicenda e invitiamo la stampa a conoscere la nostra realtà (www.cateringabc.it) che pur opera all'interno di un Carcere, la Casa di Reclusione Milano - Bollate". "Abc la sapienza in tavola Coop Soc. Onlus - sottolinea ancora Polleri - produce servizi di catering d'alto profilo e nei dieci anni di anzianità si è distinta per la sua trasparenza, professionalità e recupero nel percorso riabilitativo dei detenuti; nel 2013 abbiamo ricevuto dalla Camera di Commercio l'attestato di Impresa Responsabile in Lombardia". Torino: Compagnia San Paolo; mostra su lavoro in carcere, convegno al Campus Einaudi Ansa, 29 gennaio 2015 Immagini e oggetti che rappresentano attività svolte nelle carceri del Piemonte, molte delle quali possibili grazie ai contributi della Compagnia di San Paolo: il nastro della mostra, allestita nel Foyer del Teatro Regio di Torino fino al primo marzo 2015, è stato tagliato oggi dal presidente della fondazione, Luca Remmert, dal segretario generale, Piero Gastaldo, da Carlo Petrini dell'associazione Slow Food e dal sovrintendente del Regio Walter Vergnano. "È l'ennesima dimostrazione - ha sottolineato Remmert - dell'attenzione che dedichiamo al mondo del disagio in generale e, in questo caso, del carcere e al ruolo che nel mondo carcerario l'arte, la cultura, la formazione, lo studio possono avere per ricostruire se stessi. Per ricucire a non guardare solo da dietro le sbarre ma anche, come dice il titolo, guardarci dentro". Una più piccola esposizione sarà visitabile presso il Campus Universitario Luigi Einaudi in occasione del convegno nazionale Guardiamoci Dentro, del 25 e 26 febbraio. L'iniziativa ha l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica, il patrocinio del Ministero della Giustizia, della Regione Piemonte, della Città di Torino e dell'Università degli Studi di Torino. La Compagnia di San Paolo da molti anni si impegna al sostegno economico, progettuale e operativo in ambito carcerario, con l'obiettivo di favorire l'inserimento sociale e lavorativo dei detenuti, l'educazione al lavoro e il miglioramento della qualità della vita in carcere. Per questo è nato Progetto Libero, il nome delle Linee guida in ambito carcerario della Compagnia di San Paolo. Dal 2011 a oggi, sono complessivamente quasi 6 i milioni euro investiti dalla Compagnia in questo ambito. Vasto (Ch): liceali alla scoperta della realtà dei detenuti, il progetto entra nel vivo www.histonium.net, 29 gennaio 2015 "Uno sguardo sulla realtà: vigilando redimere" è il tema del progetto che vede la collaborazione tra la sezione Scienze umane del polo liceale "Pantini-Pudente" (ed in particolare la classe VC) e la Casa Lavoro di Torre Sinello di Vasto. Gli studenti sono impegnati in un percorso pluridisciplinare che li sta portando ad approfondire le tematiche della marginalità sociale e della necessità dell'intervento rieducativo, in vista del reinserimento sociale degli ex detenuti. Nel programma ecco la conoscenza diretta della struttura e degli operatori, la realizzazione di interviste agli ospiti della stessa e attività di cineforum rivolte agli studenti e agli stessi internati. L'iniziativa, sottolinea in merito la docente Rosina Colella, rappresenta un'occasione preziosa "per favorire l'interazione tra istituzione scolastica e territorio, specificatamente con le altre agenzie educative che vi operano". Per il direttore della Casa Lavoro di Vasto, Massimo Di Rienzo, quanto in corso d'opera "va nel senso della promozione della legalità e della solidarietà sociale nei confronti dei detenuti, obiettivo che non può perseguirsi senza l'attivo coinvolgimento della comunità esterna al carcere. La collaborazione con il polo liceale Pantini-Pudente ha fornito un'utile occasione di riflessione e di confronto, nello sforzo collettivo di tradurre il fine costituzionale della rieducazione del condannato (articolo 27 della Costituzione) in forme sempre più concrete ed efficaci". Sull'apertura della scuola al territorio batte il dirigente scolastico Letizia Daniele: "La scuola deve essere aperta al territorio, in tutti i suoi aspetti. Avvicinarsi alle persone che vivono in situazione di deprivazione, sia materiale sia psicologica, può davvero offrire ai nostri studenti spaccati di autenticità e di vera validazione delle conoscenze". Forlì: "Incontri in Biblioteca", appuntamento in carcere con lo scrittore Luca Pagliari www.ravennatoday.it, 29 gennaio 2015 Sabato Luca Pagliari, giornalista, scrittore, regista di numerosi documentari e cortometraggi, ha raccontato di persone a persone, convinto che il pregiudizio e la rassegnazione siano i vincoli e le gabbie peggiori da frantumare. Le parole sono importanti e quelle giuste varcano le sbarre e arrivano ai detenuti di Forlì grazie all'iniziativa "Incontri in Biblioteca". Linea Rosa e Lions Club Forlì Cesena-Terre di Romagna proseguono con forza il percorso di aperto confronto, con le detenute e i detenuti del carcere cittadino. Sabato Luca Pagliari, giornalista, scrittore, regista di numerosi documentari e cortometraggi, ha raccontato di persone a persone, convinto che il pregiudizio e la rassegnazione siano i vincoli e le gabbie peggiori da frantumare. Parma: "Pena di morte. Morte per pena", ieri un convegno al Palazzo del Governatore www.parmatoday.it, 29 gennaio 2015 Pena di morte, ergastolo, tortura: il Comune di Parma conferma il proprio impegno a favore dei diritti civili e a sostengo della dignità della persona. Si è parlato di diritti con la "D" maiuscola in occasione del convengo che si è svolto nel tardo pomeriggio di oggi all'auditorium del palazzo del Governatore, promosso dall'associazione LiberaMente Radicale, dall'Ong - Nessuno Tocchi Caino, con il patrocinio del Comune di Parma, dal titolo: "Pena di morte. Morte per pena. Riflessioni e proposte su pena di morte, fine pena mai e altre forme di tortura democratica". Un momento di riflessione e di approfondimento legato in particolar modo al tema dell'abolizione della pena di morte e dell'ergastolo che ha visto il contributo di diversi relatori a partire da Marco Pannella, Presidente del Senato del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito (Prntt), che ha sottolineato come "affrontare il problema dei detenuti sia oggi più che mai importante, così come soffermarsi sul tema della giustizia e della eccessiva durata dei processi". Il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, ha ricordato come il Comune di Parma abbia già deliberato in merito a diversi temi che sono oggi all'ordine del giorno in materia di diritti civili come le unioni civili, il testamento biologico, la bi genitorialità ed in tema di Garante dei detenuti. "Il Partito Radicale - ha ricordato il primo cittadino - ha tracciato un solco proprio in tema di diritti che non deve mai venire meno". Il convegno è stato moderato dal giornalista Salvo Taranto ed ha visto il contributo di Marco Maria Freddi, segretario locale dell'Associazione LiberaMente Radicale, che ha parlato della necessità di affermare "lo Stato di diritto e di battersi per le libertà civili e diritti individuali". Matteo Angioli, membro del Consiglio Generale del partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito (Prntt), ha ricordato la figura di papa Francesco che non appena assurto al soglio pontificio ha eliminato l'ergastolo dal codice vaticano ed ha introdotto il reato di tortura. Rita Bernardini Segretaria di Radicali Italiani, ha fatto riferimento al caso di Enzo Tortora ed alla giustizia spettacolo, al 41 Bis ed alle sue implicazioni sui detenuti. Ha ricordato come la Corte dei Diritti dell'Uomo Europea abbia avviato una procedura di infrazione in merito ai trattamenti inumani a cui sono sottoposto i detenuti in Italia. L'assessore al welfare del Comune di Parma, Laura Rossi, si è soffermata sulla situazione del carcere cittadino, sull'impegno, anche economico del Comune per la realizzazione di diversi progetti importanti ed ha fatto riferimento alla relazione del Garante con riguardo all'assistenza sanitaria in carcere, i permessi ed i trasferimenti. La giornata ha visto i preziosi contributi di Don Umberto Cocconi Presidente dell'Associazione San Cristoforo e Responsabile Pastorale Universitaria della Diocesi di Parma, Sergio D'Elia Segretario Nessuno Tocchi Caino, Paolo Moretti Presidente della Camere Penali di Parma. Parma: il Garante dei detenuti; problemi anche su permessi-premio e trasferimenti di Raffaele Castagno La Repubblica, 29 gennaio 2015 "Trent'anni fa eravamo gli unici a fare queste battaglie, oggi sempre più Paesi abbandonano la pena capitale, aderendo alla nostra moratoria alle Nazioni unite". Marco Pannella rivendica il successo delle campagne radicali, intervenendo al confronto sulla pena di morte, il carcere duro, l'ergastolo, il funzionamento della giustizia a Palazzo del Governatore. Presentato anche il rapporto del garante dei detenuti sul penitenziario di via Burla, con le persone in prigione che segnalano criticità su sanità, calo del permessi premio e difficoltà nell'ottenere trasferimenti. Lo storico esponente dei Radicali è a tutto campo. Spezza una lancia a favore di Emma Bonino presidente della Repubblica, spiegando che la sua candidatura è quella che sostiene la gente comune. "Nessun giornale ci ha detto perché è stata rimossa dall'incarico di ministro degli Esteri. Parliamo di una persona che in 30 anni ha avuto solo riconoscimenti. Renzi - attacca - doveva fare il semestre europeo senza persone che lo oscurassero". Si schiera con Pizzarotti, punzecchia Grillo: "Stai attento Beppe, oggi invece di mandare a sbattere cinque persone, il rischio è che ne mandi 500mila o cinque milioni". Le battaglie di ieri sono ancora quelle di oggi: "Possiamo rivendicare la legalizzazione dell'aborto, del divorzio. Le nostre posizioni sulle droghe, sono sempre più diffuse, l'antiproibizionismo è calante in tutto il mondo" dice. Ma l'impegno per una giustizia giusta in Italia è tutt'altro che arrivato alla fine. Sergio D'Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino: "Stiamo dalla parte dello Stato che vorremmo fosse quello scritto nella Costituzione. Siamo i difensori non della mafia, ma dello stato diritto, che l'Italia non è più. Vogliamo riconquistare un Stato democratico, laico. Questa è il senso della nostra battaglia non solo contro la pena di morte, ma contro l'ergastolo e il carcere duro". Temi ripresi dalla segretaria dei Radicali italiani Rita Bernardini che denuncia il cattivo funzionamento della giustizia in Italia, con 32mila fattispecie di reato, che vede "una mole incredibile di cause civili e procedimenti penali pendenti". Fenomeno che definisce "seriale" e che "mina ogni fiducia del cittadino nello stato di diritto". Dura la presa di posizione contro il 41bis. Cita il caso Provenzano: "Un uomo incapace d'intendere e di volere, alimentato artificialmente, quale pericolo rappresenta? La conferma del 41bis dimostra l'inutile ferocia dello Stato. Uno Stato che se si comporta così, lo fa con tutti" dice, riferendosi alla condanne della Corte europea dei diritti dell'uomo per le condizioni dei detenuti "sottoposti a tortura e situazioni degradanti". Reato quello della tortura - conclude - ancora assente dal nostro ordinamento. Laura Rossi, assessore al Welfare del Comune tracciato un quadro del penitenziario di via Burla, sulla base del primo rapporto del garante per i detenuti - Roberto Cavalieri - figura istituita dal Comune alla fine del 2013. Sono 531, su 439 posti, le persone all'interno della casa circondariale. Le principali segnalazioni dei detenuti arrivate all'attenzione di Cavalieri hanno riguardato l'assistenza sanitaria percepita come "inadeguata", la riduzione dei permessi premi, la difficoltà a ottenere trasferimenti. L'assessore al Welfare ha precisato che per quanto riguarda l'aspetto medico il carcere ha riposto che le urgenze vengono gestite in modo rapido. Secondo Rossi è poi necessario fare di più nell'area della mediazione: "I mediatori linguistici sono usati poco e male. Speriamo di poter parlare con il direttore, in modo da utilizzare al meglio queste importanti figure". La delegata ha ricordato le azioni messe in campo dall'ente, previste dal protocollo sottoscritto con la struttura carceraria. Si tratta di quattro diversi settori, per un impegno di spesa da 120mila euro, un terzo dei quali a carico del Comune e due terzi dalla Regione. Dallo sportello informativo, che svolge un ruolo di tramite tra le persone in carcere e il mondo esterno, garantendo per esempio l'accesso ai documenti anagrafici o il permesso di soggiorno. Quindi l'ambito della formazione-lavoro, con 24 percorsi attivi nel 2015. Il ruolo delle associazioni, come quella di "Per ricominciare", che mette a disposizione due strutture per le famiglie e i detenuti con permessi premio, e organizza un laboratorio per favorire l'incontro con i bambini e i minori. Infine le attività di carattere ludico-ricreativo, gestite dal Teatro Europa. Guinea Equatoriale: caso Roberto Berardi, nuova interrogazione sull'italiano detenuto di Andrea Spinelli www.crimeblog.it, 29 gennaio 2015 Il firmatario è questa volta Mauro Ottobre del gruppo Misto. L'imprenditore pontino continua il Calvario in isolamento. Isolato nel carcere di Bata Central, l'imprenditore Roberto Berardi cerca di riprendersi faticosamente da una febbre malarica che nelle ultime settimane ha reso ancora più ardua la sua già drammatica detenzione in un paese straniero: nel frattempo in Italia la famiglia Berardi ed i suoi amici continuano l'infinita battaglia contro i mulini a vento per riportarlo a casa. Il 15 gennaio scorso il deputato Mauro Ottobre, gruppo Misto-minoranze linguistiche, ha presentato un'interrogazione parlamentare al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale Paolo Gentiloni nella quale, ripercorrendo la vicenda giudiziaria e penale di Roberto Berardi, chiede al ministro ed alla Farnesina quali misure stiano attuando per la salvaguardia del connazionale "ingiustamente detenuto" all'estero. Un'interrogazione imprecisa, per certi versi, ma che rientra perfettamente in quel mantra che recita imperterrito: "per fortuna che qualcuno ne parla". Nell'interrogazione del deputato Ottobre viene riportata la pessima risposta scritta data dal viceministro Lapo Pistelli alla precedente interrogazione del senatore Luigi Manconi, nella cui risposta si descrive un'attività febbrile nel lavoro della Farnesina, un lavoro che allo stato attuale però non ci risulta (non tanto per mancanza di fonti quanto per i riscontri oggettivi che abbiamo, che ci fanno affermare con assoluta e diplomatica certezza che di certo la Farnesina potrebbe fare parecchio di più). In fondo alla risposta del viceministro Pistelli si legge: "Anche la sede centrale della Farnesina, dal canto suo, si è mossa ai fini di tutelare il connazionale e tenendo sempre informati i parenti più stretti del signor Berardi". Come ci ha raccontato Rossella Palumbo, ex-moglie di Roberto Berardi, ma come anche ci è stato raccontato da molti altri amici e parenti stretti dell'imprenditore pontino, e come abbiamo potuto riscontrare direttamente quando abbiamo fornito noi di Crimeblog il telefono del legale equatoguineano alle autorità italiane (le quali non sapevano avesse un legale), diciamo che l'attività di comunicazione del Mae sin qui non è stata proprio il massimo. Gli "Yes Men" incaricati dal Mae di parlare con i parenti per infondere un tuttapostismo che dopo due anni di detenzione somiglia più a una crudeltà fanno il paio con le balle snocciolate alle stesse autorità italiane ed alla famiglia Berardi dal governo della Guinea Equatoriale, nell'aprile 2014 all'onorevole Tajani e nel giugno 2014 allo stesso senatore Luigi Manconi, in visita all'ambasciata romana della Guinea Equatoriale, dove aveva ricevuto precise rassicurazioni sulla "volontà al rilascio" del detenuto italiano. Chiacchiere da bettola di periferia buone unicamente a creare false speranze e disperazione in Roberto Berardi e nella sua famiglia. Nell'interrogazione l'onorevole Ottobre chiede al ministro Gentiloni: "[...] quali ulteriori iniziative urgenti il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale abbia intrapreso o abbia intenzione di intraprendere per giungere ad una documentata, obiettiva, ricostruzione dei fatti, delle responsabilità che hanno portato alla condanna ingiusta e arbitraria di Berardi; quali iniziative urgenti il governo italiano intenda porre in essere, nei rapporti con la Guinea Equatoriale e presso ogni organismo internazionale affinché sia sostenuta da parte del nostro Paese la richiesta di revisione del processo Berardi; quali atti il Governo italiano intenda assumere, affinché da parte della Commissione europea sia espressa una posizione comune sulla situazione di Berardi e in ordine ad altri casi analoghi di violazione dei princìpi del giusto processo e dei diritti umani, sulla base anche dei pronunciamenti della Corte europea per i diritti dell'uomo". Domande cui una risposta è oggi un obbligo dopo due anni di detenzione e 14 mesi di isolamento assoluto, una restrizione resa ancor più insopportabile dal clima torrido, dalle malattie, dalla luce accesa per poche ore al giorno e dai pasti saltuari e inadeguati. Il 17 maggio 2015 terminerà la pena dell'imprenditore pontino, che dovrà essere scarcerato dall'inferno di Bata ma sul quale pende ancora una richiesta di risarcimento milionario di 1,4 milioni di euro: di contro l'impresa di Berardi, la Eloba Construcion Sa, vanta crediti per circa 6 milioni di euro dal ministero della Difesa guineano, crediti derivanti da alcune certificazioni sui lavori che rimasero in sospeso dopo l'arresto dell'imprenditore italiano. Una guerra che sembra non abbia una fine vicina, purtroppo. Sud America: "Encerrados", un viaggio per immagini nelle carceri latinoamericane di Roberto Saviano La Repubblica, 29 gennaio 2015 "Encerrados" è un viaggio per immagini nelle carceri latinoamericane. Una discesa all'inferno da cui emerge l'umanità dei detenuti: anche i più pericolosi. "Encerrados" non è un libro sulle carceri; è un libro sulla libertà perduta, sulla libertà mai avuta. Se nell'immediato non riuscite a percepire la differenza, è perché magari avrete avuto una vita felice e per voi carcere e assenza di libertà sono concetti che coincidono. Eppure la differenza esiste, ed è tutt'altro che sottile. Valerio Bispuri ha fotografato prigionieri, ha fotografato celle, ma il suo obiettivo era su altro. Era sulla mancanza di libertà che spesso precede e segue la vita di chi finisce in prigione. La mancanza di libertà, e quindi di scelta, è ciò che ha condannato le migliaia di detenuti che Bispuri ha raccolto con il suo obiettivo. Le carceri in cui è entrato in Argentina, Cile, Uruguay, Brasile, Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela sono tra le più pericolose del continente latino. Lurigancho è il carcere più grande del Sudamerica, si trova a Lima, in Perù, e qui Bispuri ha trascorso lungo tempo. Ospita diecimila detenuti, è una città nella città e in un paese che in questo momento è il primo produttore di coca entrare in questo luogo significa sbirciare nelle viscere dell'inferno. Poi è andato a Penitenciaria, a Santiago del Cile, il carcere più vecchio del continente, costruito agli inizi del Novecento. Qui ha visto e fotografato detenuti ricavare spade da tubature arrugginite in vecchi bagni. "Encerrados": i volti in bianco e nero della libertà perduta Poi è stato a Villa Devoto, in Argentina, una delle carceri più pericolose del Sudamerica, proprio dentro la città di Buenos Aires. Poi a Los Teques, a Caracas, in Venezuela, un carcere paradossale ma non per il Sudamerica, lì tutti i detenuti sono armati di coltelli, pistole e hanno una sorta di codice per cui quando un capo esce di prigione sparano sul muro come per festeggiare. A Bogotà, in Colombia, ha visitato Combita, il carcere dove sono rinchiusi ex guerriglieri delle Farc. Quelle di Bispuri sono fotografie di città, carceri formicai, carceri dove chiunque è condannato, poliziotti e detenuti. Carceri dove il detenuto sa che la differenza tra lo stare dentro e lo stare fuori è minima, sostanziale certo per fare affari, ma minima sul piano del disagio, della disperazione, finanche del diritto. Dal momento che si è armati, dal carcere in Venezuela si potrebbe forse persino scappare, ma per cosa? Per finire di nuovo dentro? O ammazzati da un rivale? Il carcere infondo dà regole e spesso sospende vendette. Il primo reato che riempie le carceri sudamericane è il primo reato che riempie le carceri americane, ed è il primo reato che riempie le carceri europee: la droga. In paesi in cui i cartelli criminali sono fortissimi, a testimoniare quanto la repressione e il proibizionismo non siano stati la strada giusta, quanto le politiche repressive siano state fallimentari. Poi ci sono le truffe, ma prima delle truffe omicidi, stupri, furti. Bispuri è stato anche in carceri femminili. Ha trovato e fotografato storie di donne che hanno ucciso i mariti, spesso ubriachi, per difendersi o semplicemente per stordirli, ma hanno esagerato con i colpi. Madri che hanno ucciso i propri figli. Figli drogati, figli violenti o figli innocenti e a essere ubriache e drogate erano loro. Eppure ciò che colpisce, in tutto questo bianco e in tutto questo nero, è forse la mancanza di disperazione finale, ciò che mi ha sempre colpito sono le percentuali di suicidi in questi inferni, percentuali bassissime se paragonate a quelle dei suicidi nelle carceri nordamericane ed europee. Nessuno si uccide in Sudamerica. E Bispuri, in fondo, è riuscito con il suo talento di fotografo a raccontare queste vite fatte di resistenza alla morte. Resistenza che spesso diventa indolenza - guardate i volti!, questi uomini e queste donne non sembrano voler insorgere, sembrano piuttosto resistere come legni, come stalattiti. Pelle, calli, gocce di sudore e ancora gocce di sudore. Nel carcere di Mendoza, Valerio Bispuri chiede di poter entrare nel Padiglione 5, dove sono reclusi i detenuti argentini più pericolosi, dove nemmeno le guardie vanno più, loro si fermano e lasciano a distanza cibo, detersivi e lenzuola. Bispuri chiede di entrare: ottiene il permesso da direttore e guardie, ma gli fanno firmare un documento in cui c'è scritto che si assume tutta la responsabilità di quella decisione. Valerio entra da solo, nessuno lo accompagna. Entra e gli tremano le gambe. C'erano novanta detenuti, i più feroci di tutti ma a lui non è torto un capello. Non solo, lo accolgono commossi, gli indicano cosa fotografare e gli chiedono di documentare le terribili condizioni in cui erano costretti a scontare la loro pena, in cui erano lasciati sopravvivere. Lo accompagnano poi all'uscita e si fanno promettere che avrebbe pubblicato quelle foto. E Valerio Bispuri lo ha fatto, le ha esposte, e così agli occhi degli argentini, grazie a lui e ad Amnesty International, finalmente il Padiglione 5 ha smesso di essere la gabbia delle bestie feroci ed è diventato uno scempio, una vergogna, segno, testimonianza di disumanità, ma non dei detenuti, piuttosto dello Stato. Criminali responsabili di delitti violenti che vivono in un crimine che è più grande di tutti i loro messi insieme, perché è un crimine di Stato. La prigione che diventa tortura, come del resto avviene anche nella maggioranza delle carceri italiane, nel silenzio e nell'indifferenza generali. Dopo la pubblicazione di queste foto, il Padiglione 5 del carcere di Mendoza è stato chiuso. Non è stato chiuso perché ha denunciato l'abiezione di quel luogo, molti argentini volevano che quei detenuti soffrissero le peggiori pene possibili. È stato chiuso perché Bispuri ha mostrato l'orma umana in quelle persone e quando riconosci te stesso nell'altro, il peggiore altro possibile, forse riesci a capire che la sua umiliazione è la tua. Questo, e molto più, può la fotografia, arte maggiore, sguardo sul mondo. Stati Uniti: pena di morte; dalla Corte suprema lo "stop" a tre esecuzioni in Oklahoma Ansa, 29 gennaio 2015 La Corte Suprema ha ordinato all'Oklahoma di rinviare le prossime tre esecuzioni previste fino a quando non deciderà sul controverso farmaco usato per il procedimento. La decisione è stata presa dopo il ricorso dei tre condannati a morte che si erano rivolti alla Corte per far fermare le esecuzioni, previste da qui a marzo. Tuttavia, in attesa della decisione dei giudici, lo stato dell'Oklahoma voleva comunque procedere con le esecuzioni usando un altro farmaco, ma la Corte Suprema ha respinto la richiesta. "Si ordina che le esecuzioni dove è previsto l'uso del midazolam siano bloccate in attesa della disposizione finale sul caso", si legge nella decisione della Corte Suprema. Lo scorso venerdì i giudici hanno accettato la richiesta dei tre detenuti e deciso di verificare se il sedativo midazolam possa essere utilizzato nelle esecuzioni a seguito dei timori che non produca un profondo stato comatoso e di incoscienza come è accaduto nelle esecuzioni avvenute in Arizona, Ohio e Oklahoma. Il caso sarà discusso ad aprile e una decisione è attesa per giugno. La sentenza della Corte Suprema giunge otto giorni dopo che i giudici si erano rifiutati di bloccare l'esecuzione di un detenuto in Oklahoma dove viene usato lo stesso tipo di farmaco. Oltre al midazolam viene utilizzato un medicinale per paralizzare il detenuto e un terzo per bloccarne il cuore.