Serve un lavoro delicato per mediare i conflitti e stemperare la rabbia Ristretti Orizzonti, 28 gennaio 2015 "Rivolta al carcere Due Palazzi": a leggere i titoli di questi giorni sui fatti avvenuti di recente nella Casa di reclusione di Padova, si immagina un carcere violento e fuori controllo. Tutto vero o tutto falso? Forse semplicemente tutto mal raccontato, tanto che si stenta a capire cosa sia successo realmente, e perché dei detenuti dovrebbero aver aggredito degli agenti così, per il gusto di farlo, o perché sono degli animali. Noi abbiamo semplicemente cercato di capire cosa c'è dietro, quale malessere, quale disagio, e cerchiamo di raccontarlo. La Casa di reclusione di Padova ha 400 detenuti di troppo: se ci fossero quelli previsti dalla legge, sarebbero tutti impegnati in qualche attività, lavoro, scuola, redazione del giornale, e invece ci sono sezioni, come quella dove è scoppiata la rissa, in cui le persone passano la loro carcerazione "ammazzando il tempo". È lì che si annidano la rabbia, la fatica di vivere, il senso di impotenza. Se a questo si aggiunge il fatto che, in previsione della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, si sta riversano nelle carceri anche tanto disagio psichiatrico, si capisce quanto sia delicata da gestire la situazione. E quanto sia difficile vivere in queste condizioni, e anche lavorarci. In galera trovare la verità è una gran fatica Là fuori dal muro di cinta una bugia detta tre volte diventa una verità, in galera invece basta una volta e mezzo. Leggo: Rivolta al carcere di Padova: detenuti inneggiano all'Isis. Sale la tensione al carcere Due palazzi di Padova. Quattro poliziotti sono stati feriti per una rivolta dei detenuti nel carcere di Padova avvenuta ieri pomeriggio. All'origine c'è una lite tra detenuti di cui non sono chiare le cause. Rivolta nel carcere padovano Due Palazzi: ore di tensione e due agenti feriti. Il sindacato Sappe: "Molti detenuti inneggiavano all'Isis". Sono state ore di paura quelle di ieri sera nel carcere padovano. Tra le 18 e le 20 una sessantina di detenuti del quarto piano dell'edificio è insorta contro le guardie penitenziarie. Carcere di Padova, rivolta dei detenuti arabi al grido di Allah e Isis: feriti due guardie e un carcerato. A me risulta, dalle testimonianze raccolte, che un detenuto si sentiva male e i suoi compagni di sezione hanno protestato con urla e una battitura alle sbarre per attirare l'attenzione. Ed in seguito è nata una colluttazione fra un detenuto e degli agenti. E che fra i principali protagonisti non c'era nessun detenuto di fede mussulmana. Anch'io però sono di parte e vi chiedo di non credermi sulla parola perché in carcere è difficile, se non impossibile, scoprire la verità, forse perché anche questa deve rimanere prigioniera. Purtroppo, quando accadono questi brutti fatti a nessuno interessa la verità perché probabilmente tutti i protagonisti dell'universo carcerario ne approfittano per avere dei vantaggi politici, mediatici e finanziari: gli agenti, miglioramenti sindacali, le associazioni di volontariato, attenzione pubblica, le cooperative che lavorano in carcere, maggiori sgravi fiscali, e ai giornali, dopo i brutti fatti di terrorismo di Parigi non gli sembra vero di mettere un titolo come questo (non ha importanza se la notizia sia o non sia vera) "Carcere di Padova, rivolta dei detenuti arabi al grido di Allah e Isis" . In carcere tutto fa brodo e dei detenuti non si butta via nulla, e la loro disperazione, sofferenza, rabbia e lacrime spesso serve ai "buoni" per avere un motivo per continuare a tenere i cattivi rinchiusi nelle nostre patrie galere. Credo che la cultura della punizione fine a se stessa non serve né ai cattivi né ai buoni. Non si capisce o non si vuole capire che bisognerebbe mettere sullo stesso piano sicurezza e legalità sociale, come d'altronde la legge vuole. Credo che i detenuti lasciati più liberi di creare, studiare e lavorare, potrebbero essere seguiti e giudicati meglio che non se ci si limita a osservare i loro comportamenti di passività e sottomissione alle regole del carcere. Non so se è una notizia eclatante come "Rivolta al carcere di Padova: detenuti inneggiano all'Isis", ma vi informo che intanto salgono a quattro i detenuti che si sono tolti la vita dall'inizio del 2015 nelle nostre illuminate e democratiche prigioni italiane. Carmelo Musumeci Se chiudono le attività, io, che ho trent'anni di galera da fare, dò di matto In questo carcere in passato sono morte persone per problemi di salute sottovalutati, ed è quindi naturale che la popolazione detenuta tutta accusi il colpo quando vede uno che sta male: un pizzico di solidarietà tra di noi è rimasta, non sarà quella di una volta forse, ma è rimasta e così scatta il nervosismo, l'agente dice di aspettare e tu non aspetti, perché hai paura che succeda qualcosa, che qualcuno muoia come già è successo. Ed è quello che è accaduto a Padova. Poi secondo me, per ragioni che non riesco a capire, vogliono calcare la mano sui fatti di giovedì scorso: perché se parlano di rivolta riferendosi a quello che è successo vuol dire che una rivolta non l'hanno mai vista, la rivolta vera è quando arrivano le squadrette con scudi e caschi, quelle sono le rivolte nelle carceri, e arriva subito anche la polizia da fuori. A Padova c'è stato un momento di agitazione perché una persona stava male, era una richiesta di aiuto. Poi capita che arriva uno, che può essere un detenuto, ma può essere anche un agente, che dice la parola sbagliata e la situazione subito degenera, è purtroppo normale nelle galere. Ieri alla televisione ho sentito la dichiarazione di un esponente del personale che suggeriva di chiudere le attività: ma non capiscono che non è così che si risolvono i problemi? Dopo aver sentito questa affermazione, pensavo che se chiudono le attività, se mi tolgono questa possibilità, io, che ho trent'anni da fare, dò di matto e come me ce ne sono tanti qui dentro che hanno pene lunghe e che, se gli tolgono quelle poche opportunità che hanno di farsi una carcerazione dignitosa, iniziano a pensare "non ho più niente da perdere, perché farmi la galera qui o farmela in Sardegna a questo punto è la stessa cosa". Sentire dichiarazioni come questa è un'altra delle cose che accende gli animi delle persone detenute, a me è successo ieri ascoltando la tv, e sono una persona che bene o male riesce a tenersi sotto controllo, figurarsi altre persone magari, che sono più agitate, o più arrabbiate perché non riescono proprio ad occupare il tempo in modo sensato. È importante allora cercare di mediare con il direttore, il comandante, gli agenti e trovare insieme una soluzione, altrimenti si rischia di distruggere tutto quello di buono che è stato costruito qui dentro. Lorenzo Sciacca Quelle notizie così "urlate" dalla Casa di Reclusione Due Palazzi In questi ultimi giorni noi detenuti, nella Casa di Reclusione Due Palazzi, abbiamo vissuto una realtà "interna", nel carcere, ed un'altra realtà, quella "esterna" raccontata dalla cronaca dei TG e dei quotidiani locali. Ben presto, tuttavia, i tg locali hanno fornito un riassunto molto ridimensionato rispetto al romanzo narrato in precedenza, forse perché hanno ascoltato più voci e questo aiuta a comprendere meglio la realtà e a dare un'informazione più corretta. Pochi giorni fa si è tenuto in carcere un seminario di formazione per i giornalisti, organizzato dalla redazione di Ristretti Orizzonti, e le informazioni meno allarmistiche date in un secondo tempo sulla "rivolta" mi inducono a credere che il seminario stia dando i suoi frutti. Credo che i fatti di cui si è data notizia in questi giorni devono essere raccontati con una diversa profondità, ma in questa realtà penitenziaria giocano sempre gli interessi di bottega delle diverse parti. Gli episodi di violenza che ci sono stati in realtà riguardano pochi individui e sono rimasti circoscritti a questi. Ma a molti fa comodo descrivere quei luoghi di sofferenza che sono le carceri italiane come il terreno di scontri fra culture diverse, vissuti in un clima di violenza costante e crescente. Si tratta, invece, del luogo del degrado, della limitazione degli spazi, dove persone private della libertà scontano la pena nella disperazione degli affetti negati, dei pochi contatti con le famiglie. Uomini abbandonati alla loro sofferenza, chiusi nei reparti detentivi per 20 ore al giorno, vittime di un sistema che non rispetta la dignità umana e quei risicati diritti che nessuno gli dovrebbe negare. Questo carcere di Padova funziona in maniera ottimale per circa 350 detenuti, però siamo poco meno di 800 reclusi. Se alle persone detenute si concedesse di svolgere attività di studio o di lavorare, questi episodi di rabbia si ridurrebbero quasi fino a scomparire. Purtroppo, non ci sono spazi per offrire a tutti le condizioni stabilite dall'Ordinamento Penitenziario, non ci sono psicologi di sostegno a sufficienza, i tossicodipendenti sono tanti e spesso imbottiti di psicofarmaci, la maggior parte degli altri disperati che non erano tossicodipendenti sono diventati a loro volta dipendenti degli psicofarmaci distribuiti in grande abbondanza. Esiste anche una presenza sempre più consistente di persone problematiche che provengono dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, che a breve dovrebbero essere chiusi. Queste persone, invece di essere inserite nelle comunità o nelle case-famiglia, vengono gettate nei reparti detentivi comuni. Ecco che esplodono così tutte le contraddizioni e le tensioni di una detenzione già di per sé spesso poco umana. Questo è il risultato delle riforme incomplete, di quelle disposizioni ancora troppo deboli che per fare un po' di scandalo molti nemici della verità chiamano "svuota carceri". Qualcuno ha detto, e mi piace questa osservazione, che un Paese potrà dirsi civile quando le sue scuole cesseranno di essere simili alle carceri e quando le carceri diventeranno più simili alle scuole. Siamo ancora lontani da questa situazione. Bruno Turci Da carcere modello a carcere-incubo? Cosa è successo che il Due Palazzi, in poco tempo, è passato da carcere modello, dal bellissimo carcere, a detta del Ministro Cancellieri, ad essere un carcere ora chiacchierato per i recenti fatti di violenza nelle sezioni, e prima ancora per le indagini per un traffico di droga e cellulari che hanno coinvolto alcuni agenti e detenuti? C'è chi invita a chiudere nuovamente le celle durante il giorno, ma questo è il contrario di quanto richiesto dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, e cioè una carcerazione più dignitosa e civile, per evitare la disumanità di una detenzione in cella di 20 ore su 24. Con l'apertura delle celle per alcune ore al giorno è necessario però impegnare i detenuti in qualcosa di produttivo, farli sentire utili a se stessi, ai propri famigliari, ma anche lavorare per attenuare le tensioni che hanno origine in una detenzione passiva. La mia esperienza di carcere ha avuto inizio circa otto anni fa e solo in quell'occasione ho avuto modo di conoscere la Polizia Penitenziaria. Il primo periodo l'ho vissuto per un mese in un ospedale dove la presenza degli agenti era stata disposta 24 ore su 24 e posso affermare che mi hanno saputo ascoltare, mi hanno sostenuto psicologicamente e da loro ho imparato i primi passi della condizione di detenuto e ho capito che ogni richiesta doveva essere sottoposta ad autorizzazione attraverso una domandina. Ho visto anche che avevano delle regole che non erano le regole della società esterna nella quale ho vissuto per 54 anni da libero cittadino: il carcere infatti è un mondo diverso, ma per non isolarmi e distruggermi dovevo anche cercare di capire le ragioni di chi aveva il compito di sorvegliarmi e custodirmi e di mantenere con loro un confronto. Certamente il carcere di Rovigo è una realtà non comparabile al carcere di Padova, ma entrambi erano e sono ancora in una situazione di sovraffollamento, che è un po' la causa di tutti i mali, e quindi certe tensioni possono arrivare al culmine e non essere più gestibili né da parte dei detenuti né da parte di chi si occupa della sicurezza. Nei giorni scorsi ho pensato spesso a queste due parti, a come poter evitare stress inutili. C'è un modo di avvicinare il "ladro" e la "guardia"? Noi della redazione di Ristretti Orizzonti abbiamo incontrato tante realtà sociali: volontari, professionisti che gravitano attorno al carcere, politici, giornalisti, migliaia di studenti ed insegnanti, criminologi, mediatori penali. Abbiamo dialogato con il direttore per cercare soluzioni ai problemi e ai disagi, come l'introduzione del sistema a scheda per telefonare, che ha anche alleggerito il lavoro degli agenti che dovevano controllare settimanalmente centinaia di domandine per poter autorizzare le telefonate. Abbiamo dialogato con i Magistrati di Sorveglianza, con Dirigenti del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, con l'azienda Ulss 16 per rendere più vicina al detenuto l'assistenza sanitaria. Ma allora perché non possiamo trovare un mediatore che cerchi di conciliare le necessità e le tensioni delle parti, aiutandoci a dare delle risposte ai diversi bisogni? Ho sentito al TG3 qualcuno dire che sarebbe il caso di chiudere tutti nelle celle e ripartire da zero. Io credo che così vedremmo solo l'aumento dei suicidi, non mi sembra che sia quello che chiede l'Europa, e non è certo una risposta agli inviti del Presidente Napolitano, e agli appelli del Papa. Sicuramente gli agenti penitenziari sono sottoposti a lavori stressanti, a turni non più sopportabili, forse anche scarsamente remunerati, molti provengono da città lontane e sono costretti ad una lontananza dalla famiglia, che è una condizione che ogni detenuto capisce benissimo. Noi da parte nostra non siamo solo e sempre il reato commesso, ma persone che hanno sbagliato e che hanno la necessità di non sentirsi annullate ed abbandonate, e certamente non ci è utile vedere la controparte come nemico. Ma allora cosa possiamo fare, cosa ci possono suggerire gli agenti per alleviare le condizioni di illegalità legate ad un sovraffollamento che, anche se ridotto, rimane su valori non accettabili, ancora non adeguati a quello che la Corte Europea ci chiede? Nel 2014 i casi di suicidio sono stati numerosi tra i detenuti ma anche tra gli agenti. Proviamo a trovare una via che rispetti il lavoro degli agenti ma anche la vita del detenuto, che è una persona che ha commesso il reato ma che deve essere vista come persona, consentendogli un percorso che sia quello previsto dalla Costituzione. Ulderico Galassini Isis nel carcere di Padova? Non era vero… ecco invece come è andata di Damiano Aliprandi Il Garantista, 28 gennaio 2015 Al carcere dì Padova non c'era stata nessuna grande rivolta e nessuno ha inneggiato ad Allah e all'Isis. Alla fine la verità è arrivata a galla perché a smentire la ricostruzione fatta dal Sappe - il sindacato di polizia che aveva denunciato una rissa di una trentina di detenuti che inneggiavano al fondamentalismo islamico - è stato il provveditore regionale del Dap (Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria), Enrico Sbriglia: "L'episodio risale alle 17.50 di giovedì - ricostruisce il provveditore - nel quarto blocco, un'area del quarto piano. I detenuti direttamente coinvolti che sono stati successivamente denunciati e trasferiti in altri carceri sono 4, un pugliese e tre romeni. Uno di questi ultimi ha usato un rasoio per provocarsi dei tagli superficiali. Come spesso accade in questi casi, si crea un assembramento di detenuti, ma solo in quattro sono stati ritenuti parte attiva nella protesta. Odoravano di alcol - continua Sbriglia - sostanza che nell'istituto non entra, ma che i detenuti hanno ricavato dalla distillazione artigianale, con alambicchi di fortuna, della frutta fatta macerare sulle pentole a disposizione in cella, dove viene loro consentito di prepararsi i pasti. Distruggendo un tavolino in legno hanno poi usato le gambe contro gli agenti, due dei quali rimasti feriti, rompendo anche due vetri semi blindati. Uno dei quattro detenuti, una volta in ospedale dove era stato portato per essere medicato - conclude il dirigente - ha tentato di afferrare per il collo un medico donna, venendo bloccato in tempo utile dalle guardie penitenziarie". La redazione di Ristretti ha effettuato un'indagine interna e hanno chiesto spiegazioni ai detenuti del quarto piano dove sarebbe avvenuta la "rivolta". Stando al racconto, alla mattina c'era stata una perquisizione nelle celle del quarto piano, e in una cella un agente aveva trovato un secchio di frutta marcia. L'agente aveva accusato i detenuti di voler distillare la frutta per produrre grappa. Di fronte alla sua intenzione di fare rapporto, ne era nata una discussione con due detenuti, uno italiano e uno romeno, che cercavano di sminuire la gravità del fatto. Alla fine l'agente aveva scritto il rapporto e i due ormai aspettavano l'immancabile sanzione disciplinare. Nello stesso reparto, alla sera, un detenuto si era sentito male, pare si fosse tagliato, e si era accasciato per terra. Altri suoi compagni avevano chiamato in cerca di aiuto, ma i soccorsi non sarebbero arrivati. I due detenuti puniti alla mattina, carichi anche di rabbia per la punizione, insieme ad altri si erano affacciati al cancello del reparto e avevano iniziato a urlare contro quella che secondo loro era una inerzia voluta dell'agente di turno. A quel punto l'agente aveva chiamato i rinforzi poiché, vista la rabbia dei detenuti, non se la sentiva di entrare in reparto. Poco dopo era arrivata una squadra di agenti. Dopo aver portato via la persona che stava male, gli agenti avevano ordinato ai detenuti di rientrare nelle celle, ma alcuni di loro si erano rifiutati chiedendo di parlare con il comandante. Temendo qualche azione di forza, qualcuno aveva rotto un tavolo e teneva una gamba in mano come arma. Ma alla fine i detenuti si erano convinti a rientrare nelle proprie celle. Poi i racconti parlavano di rappresaglie nei confronti dei due detenuti più violenti, ma l'azione collettiva dei detenuti in realtà si era conclusa. L'allarmismo però sta creando enormi danni. L'Italia dei Valori e Lega Nord hanno presentato due distinte interrogazioni parlamentari sul tema ai ministri Orlando e Alfano, il sindaco leghista di Padova chiede fermezza contro gli inesistenti fondamentalisti islamici presenti nel carcere di Padova e gli stessi sindacati di polizia chiedono di far rimanere più a lungo i detenuti nelle celle. Ricordiamo che al carcere "Due Palazzi" di Padova, le celle rimangono aperte dalle 8 alle 20 e all'interno della sezione detentiva i reclusi sono liberi di muoversi e incontrarsi. Un metodo di umanizzazione che con il tempo è risultato utile per gli stessi detenuti: diventano più responsabili ed escono dal carcere meno arrabbiati. Giustizia: appello per Luigi Manconi Presidente Della Repubblica Ristretti Orizzonti, 28 gennaio 2015 L'elezione del Presidente della Repubblica si svolge in un momento particolarmente delicato per il nostro paese, colpito duramente dalla crisi economica ma anche da una profonda crisi dei valori fondanti la convivenza civile. Al termine del mandato di Giorgio Napolitano, si rivela sempre più necessario pensare a una figura di sicuro prestigio, di solida cultura politica e di grande attenzione ai temi della giustizia sociale e dei diritti civili. Quella persona è Luigi Manconi, oggi Senatore e Presidente della Commissione Diritti Umani del Senato. Un uomo la cui vita è stata connotata fin da ragazzo da passione politica che lo ha visto schierato risolutamente dalla parte dei deboli. Questa motivazione lo ha sempre accompagnato, pur attraverso un percorso di continua elaborazione guidato tanto della sua maturazione personale, quanto dall'attenzione alle nuove tematiche che sono andate man mano emergendo all'interno di una società in continua evoluzione. E' proprio questo percorso così complesso a fare di Luigi Manconi uno dei pochi uomini politici italiani dotati di una visione del futuro che ha al centro la difesa dei gruppi sociali più vulnerabili. Muovendo da tale difesa egli ha sviluppato un progetto politico capace di guidare il nostro paese fuori da una crisi priva di prospettive. Una crisi che ha come prima conseguenza il mancato riconoscimento o il crescente indebolirsi dei diritti civili, sociali e politici nel nostro paese. Si tratta di un progetto politico radicale, senza dubbio. Ma di una radicalità che cerca giorno dopo giorno soluzioni razionali e ampie alleanze, finalizzate ad approssimare e a rendere realizzabile il progetto stesso. Un lavoro fatto di conflitti e di mediazioni, costruito attraverso una pratica di impegno di decenni, corroborato dalla presenza nelle istituzioni, nelle formazioni politiche e nel mondo associazionistico. L'Italia ha bisogno oggi di un garante dotato di cultura politica, di progettualità complessa e di sensibilità sociale. In Luigi Manconi individuiamo la figura che meglio risponde a questa necessità e per questo lo proponiamo con convinzione per il ruolo di Presidente della Repubblica. Primi firmatari: Vittorio Emiliani, Goffredo Fofi, Gad Lerner, Franco Lorenzoni, Luca Zevi. Giustizia: apertura dell'anno giudiziario, un rituale obsoleto di Valerio Spigarelli (Unione Camere Penali) Il Garantista, 28 gennaio 2015 "Mi si nota di più se...", diceva un personaggio di Nanni Moretti, in uno dei suoi film più belli, Ecce Bombo, nell'intento riuscitissimo di rappresentare in due parole il vuoto comportamentale di un'intera generazione. Quella generazione è evaporata ma sembra che qualcuno abbia eletto quelle parole a manifesto esistenziale. Si tratta dei capi delle procure, il giorno dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Ora che Berlusconi non fa più paura neppure al Pretore di Roccasecca", hanno pensato i capi degli uffici giudiziari mentre preparavano i loro discorsi di inaugurazione dell'anno giudiziario, "mi si nota di più se lancio allarmi terrorizzanti sulla criminalità mafiosa, sul terrorismo, oppure è meglio che denuncio per la trecentesima volta il dilagare della corruzione e l'incubo della prescrizione?". Nel dubbio, dopo aver dato uno sguardo alle pagine dei giornali del giorno prima, e avendo constatato con preoccupazione che la cerimonia svolta in Cassazione, rispetto al passato, aveva perso un bel po' di appeal mediatico, tanto da scalare dalle prime pagine a quelle immediatamente precedenti i fattacci di sangue, non hanno trovato di meglio che far un bel riassunto delle puntate degli anni precedenti salvo spingere, chi più chi meno, l'acceleratore anche sui temi più schiettamente sindacali. "Terra ingrata - è stato allora il nuovo refrain - che ci accusi di essere sfaticati e ci vuoi far schiantare di fatica per non ascoltare i nostri saggi moniti, sappi che ti comanda uno che parla e non conclude, che non ha rispetto per gli anziani, che non sa che la magistratura d'Italia è la meglio d'Europa, anche se gestisce il peggior servizio dal Manzanarre al Reno. Sappi che l'idea di decapitare un'intera generazione di capi, facendoli andare in pensione a settanta anni, è un attentato alla Costituzione, visto che lascerà scoperti dall'oggi al domani centinaia di posti di potere, mentre eliminare il filtro di ammissibilità sulla responsabilità civile dei magistrati rischia di far precipitare l'Italia delle Procure nel caos". Siccome, poi, è sempre difficile passare da un copione all'altro, trasferendo in campo giudiziario quel che in campo politico viene sostenuto già da tempo da alcuni raffinatissimi osservatori, chi più chi meno hanno tutti convenuto che "ammazza, ammazza i politici sono tutta una razza, e a Firenze si porta a termine ciò che ad Arcore s'era abbozzato". "Ora che gli italiani ce l'hanno con le Caste - ha pensato nello stesso momento Matteo Renzi assieme ai suoi spin doctor - mi si nota di più se insisto su questi quattro spicci di demagogia anti-castale, ferie, baiocchi e bramini da pensionare in testa, o mi viene meglio buttare là un paio di battute sul fatto che comunque abbiamo appena presentato una raffica di aumenti di pena, estensione di misure di prevenzione, reati di antiriciclaggio, superprocure nuove di pacca?". Insomma - ci si arrovellava a palazzo Chigi - nello sforzo di essere il nuovo usando i vecchi ingredienti per sfornare pietanze stantie avvolte in involucri di puro tweet, è meglio menare "l'ultra-casta" oppure dare lustro al vecchio adagio secondo il quale, nel Bel Paese, quando si ragiona intorno alla Giustizia, chi non ha idee fa leggi, anzi decreti legge? "Mena sulle ferie, Matteo, che è il punto debole dei colleghi", deve aver suggerito qualche consigliere del Principe, "così gli metti contro anche il Fatto Quotidiano, e quando replicano cacci fuori il poster di Gratteri e spieghi all'universo mondo che tra quelli che lavorano per te c'è anche Davigo che è uno che parla chiaro e, tanto per dire, ce l'ha su pure con le correnti, tanto che è stato costretto a farsene una nuova". Italia patria del diritto non delle ferie, è stata la felice sintesi di questo pensiero forte in tema di Giustizia, via il vecchiume sconsiderato di quei quattro illusi che ad ogni inizio d'anno sperano che un premier, un ministro o chissà che, si metta a parlare di come dovrebbe essere il diritto, nella patria sua, oppure del conflitto tra Poteri, della separazione delle carriere o della (finta) obbligatorietà dell'azione penale. "Ora che dei carcerati non gliene fotte più nulla a nessuno - hanno pensato all'unisono i direttori dei telegiornali italiani - mi si nota di più se taccio sul fatto che c'erano anche i radicali alle cerimonie, a denunciare lo scandalo degli 8 euro per giorno di galera disumana e a chiedere l'amnistia, oppure se racconto che un ministro semisconosciuto, a Bologna, ha preso cappello e se n'è andato via, o che Renzi ha storto il muso quando Maddalena ha citato il Napoleone di Orwell?". Inutile dire come hanno concluso, basta dare uno sguardo alle cronache. Le cerimonie di inaugurazione dell'anno giudiziario sono un rituale obsoleto, stantio e retorico che, di anno in anno, dimostra solo che il vaporoso candore degli ermellini è pari al nulla vanesio di molti di quelli che vi si esibiscono, dentro e fuori, pensando "mi si nota di più...". Giustizia: Ucpi; l'inaugurazione dell'anno giudiziario e le polemiche sulle riforme www.camerepenali.it, 28 gennaio 2015 L'oramai esangue rito dell'inaugurazione dell'anno giudiziario fa infine almeno i conti con la verità. E così, attraverso le parole del Primo Presidente della Corte di Cassazione Giorgio Santacroce, finisce anche con il dirci dove avevamo torto e dove avevamo ragione. Avevamo avuto ragione quando dicevamo che la corsa dissennata agli aumenti delle pene edittali non è mai uno strumento adeguato nel contrasto dei fenomeni criminali e che non si sarebbe mai dovuto legiferare sulla base di "impulsi emotivi". Avevamo ragione anche quando dicevamo che allungare i termini di prescrizione è inutile, che rischia di rendere irragionevolmente lunghi i tempi del processo. Avevamo ragione quando affermavamo che andava ripensato l'intero sistema sanzionatorio, ed avevamo avuto ragione quando avevamo detto che il carcere doveva essere l'extrema ratio, che le condizioni delle carceri del nostro paese erano indegne di un paese civile, per i condannati e per gli imputati in attesa di giudizio. Avevamo avuto ragione quando dicevamo che il reato di tortura doveva essere introdotto nel nostro ordinamento colmando un vuoto normativo oramai insopportabile. Avevamo avuto ragione anche quando avevamo denunciato il protagonismo della magistratura, l'indebita ricerca di consenso e quando avevamo ancora segnalato come una corretta e responsabile interpretazione ed applicazione delle norme processuali vigenti, secondo il principio del "minimo sacrificio possibile" avrebbe reso inutili le reiterate, e spesso tautologiche, riforme sulla custodia cautelare. Abbiamo invece avuto torto quando abbiamo ritenuto che l'intera magistratura si potesse riconoscere in questa visione, laica e liberale, del processo, mentre abbiamo sentito chiedere ad alta voce inasprimenti delle pene come unica soluzione di ogni male e come unico rimedio ai delitti, e l'interruzione della prescrizione come unico strumento di salvezza del processo. Abbiamo avuto ancora torto nel ritenere che l'intera magistratura condividesse quella stessa interpretazione del suo ruolo collocata al di fuori di pericolosi protagonismi, convinta di svolgere davvero un servizio in favore di tutti i cittadini e pronta dunque a riconoscere anche la necessità della riforma sulla responsabilità civile che l'Europa da tempo ci chiede, senza denunciare la riforma come un indebito strumento per ottenerne "obbedienza", come un attacco alla sua indipendenza. Abbiamo avuto torto nell'immaginare che si potesse anche condividere, da parte di tutti, quel richiamo al ruolo pericoloso delle correnti, che sono state invece difese ad oltranza sebbene spesso si trasformino, esse stesse, in un pericolo effettivo per l'autonomia interna della magistratura intera. Giustizia: progetto con detenuti in esecuzione penale esterna "lo Stato risparmia 200mln" Vita, 28 gennaio 2015 Presentato da Banca Intesa-Banca Prossima e da alcune realtà del terzo settore fra cui San Patrignano, un innovativo progetto che contribuisce alla riduzione della spesa pubblica, circa 200 milioni di euro appunto, e che promuove l'inclusione sociale e lavorativa di un migliaio di detenuti in regime di esecuzione esterna di pena. L'innovatività sta nel meccanismo. "Si tratta di un sistema di rete che coinvolge i cittadini, Banca Prossima, il mondo delle comunità di accoglienza e recupero come la Cnca e la Fict, San Patrignano, la cooperazione sociale con Legacooperative e Confcooperative, le associazioni. Ogni soggetto consapevole di contribuire a ridurre il sovraffollamento delle carceri e di dare ad alcuni detenuti un lavoro che è veicolo strategico per il loro reinserimento sociale", afferma Roberto Leonardi, Segretario Generale della Fondazione Fits e referente del progetto per Banca Prossima. L'accordo tecnico è stato presentato al ministero della Giustizia ed è in attesa del via libera. "Il progetto - prosegue Leonardi - potrà essere finanziato attraverso i Sib-Social Impact Bond, emessi da Banca Prossima e acquistabili dai cittadini e da investitori istituzionali. I Social bond sono forme di obbligazioni a bassissimo rischio finanziario con cui l'investitore diversifica il proprio portfolio, rispondendo ai suoi impegni di responsabilità sociale. I fondi raccolti dalla collocazione dei Sib potranno servire a finanziare la formazione e l'avvio di attività anche auto imprenditoriali. Azioni che verranno organizzate e gestite dal mondo dell'accoglienza e della cooperazione sociale. In particolare abbiamo coinvolto 800 realtà". Con questo meccanismo il rischio di fallimento dei progetti sociali non è esattamente trasferito al privato come nel modello inglese, ma viene piuttosto "condiviso" con quello privato. Non solo. I risparmi generati possono essere reinvestiti in altri progetti. "La riduzione della spesa pubblica è un'urgenza e progetti come questo vanno nelle direzione in cui il nostro Paese deve puntare". Le ricadute di questa iniziativa saranno misurate da Clean centro di ricerca dell'università Bocconi. "Con questo progetto finalmente ci sarà un'azione di sistema unitaria in tutta Italia, in cui il terzo settore si affianca allo Stato nelle risposte di welfare", conclude Leonardi. Giustizia: chiusura Opg, l'allarme delle Regioni "no a scorciatoie per rispettare norma" di Maurizio Balistreri www.ilfogliettone.it, 28 gennaio 2015 "Mentre si avvicina sempre più la data per la chiusura definitiva degli attuali Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) - 31 marzo 2015 - nonostante l'ottimismo esternato dal sottosegretario De Filippo sulla concreta possibilità di rispettarla, i segnali che giungono dalle Regioni destano allarme e giustificate preoccupazioni". Lo afferma la Società italiana di Psichiatria democratica. "Appare evidente- prosegue l'associazione- che il programma di ridimensionamento delle Rems (Residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria), sta scontando dei ritardi nella sua attuazione e le Regioni cominciano ad avanzare dubbi sulla possibilità di attivare le nuove soluzioni residenziali, per quanto provvisorie, entro i termini di legge (si veda la denuncia di Psichiatria democratica per quanto riguarda la Toscana, ma anche il Veneto sembra essere in ritardo, e in Emilia Romagna l'attivazione delle Rems provvisorie sembra incontrare difficoltà, specie con i familiari dei pazienti che dovrebbero lasciare il posto agli ex internati)". Secondo la società italiana fondata da Franco Basaglia "non mancano inoltre segnali diversamente allarmanti e assai gravi, come la decisione della Sicilia di attivare la Rems nell'area del vecchio Opg di Barcellona Pozzo di Gotto: è evidente che una simile soluzione va respinta con forza non rispondendo certamente allo spirito della legge 81, non realizzando una reale territorializzazione ma una continuazione, sotto altro nome, del vecchio internamento (stesso luogo, stessi reparti per quanto ammodernati) come pure non è accettabile la soluzione adottata in Lombardia che prevede più moduli accorpati, anche qui, nell'opg di Castiglione delle Stiviere". Psichiatria democratica ritiene che "si debbano rifiutare queste scorciatoie per un formalistico rispetto del termine di chiusura e ribadisce che solamente l'attuazione di veri programmi individualizzati di presa in carico territoriale degli attuali internati dichiarati dimissibili (la grande maggioranza dei presenti secondo le stesse stime ministeriali) possono conseguire l'obbiettivo della legge. Solo in questo modo, insieme a un atteggiamento proattivo dei servizi e della magistratura di sorveglianza per prevenire i nuovi invii in misura di sicurezza detentiva, si ridurrà il numero di posti letto nelle Rems facilitandone la realizzazione e, se ancora il termine per la chiusura non dovesse essere rispettato si ricorra- conclude- come prevede la legge, al commissariamento delle Regioni inadempienti". Giustizia: 142 anni di carcere, in quarantasette condanne, per gli assalti al cantiere Tav di Andrea Rossi La Stampa, 28 gennaio 2015 Tafferugli a Torino, scontri in Val di Susa. Inflitti complessivamente 142 anni e 7 mesi di carcere, la procura ne aveva chiesti 193. È finito con quarantasette condanne per gli assalti (del 27 giugno e del 3 luglio 2011) al cantiere Tav di Chiomonte, in val Susa, il processo contro i 53 attivisti individuati come gli autori delle violenze durante i due appuntamenti. I giudici del tribunale di Torino hanno inflitto 145 anni e 7 mesi di reclusione, con pene che oscillano tra i 250 euro di multa e i 4 anni e 6 mesi di reclusione. nell'elenco dei condannati ci sono tutte le anime del movimento No Tav, da esponenti della galassia anarchica, agli autonomi, passando per gli abitanti della valle già in prima fila durante le manifestazioni anti alta velocità del 2005, agli intellettuali. La sentenza arriva poco meno di un mese dopo la cancellazione da parte della Corte d'Assise dell'accusa di terrorismo contro altri 4 No Tav vicini all'area anarchica, protagonisti di un assalto messo a segno nel maggio del 2013 in quello stesso cantiere. E chi sperava che anche il maxi processo durato più di due anni contro i 53 finisse con un nulla di fatto - o quantomeno con un numero congruo di assoluzioni, e per gli altri condanne decisamente blande - è stato un colpo durissimo. Tra loro c'è Alberto Perino, leader storico del movimento dice: "Questa sentenza sa più di vendetta che di giustizia". Mentre lo storico avvocato del movimento No Tav, Roberto Lamacchia, commenta: "Una sentenza già scritta, ma con pene spropositate". Il riferimento è alla consistente provvisionale che i condannati dovranno versare alle parti civili: oltre 142 mila euro. L'elenco è lungo. Ci sono, ovviamente, i poliziotti rimasti feriti durante le due operazioni di val di Susa (a loro andranno 42 mila euro), c'è il Sap, il sindacato autonomo di Polizia, e ci sono il ministero dell'Interno e quello della Difesa a cui devono andare 93 mila euro. In separata sede, ovvero attraverso una causa civile, sarà determinata l'entità del risarcimento. Nel dispositivo manca Ltf, la società che si occupa della realizzazione della linea ferroviaria. Che, proprio pochi giorni fa, aveva ottenuto un risarcimento di 200 mila euro per il blocco delle operazioni di carotaggio all'autoporto di Susa, avvenuto nel 2010 da parte di un gruppo di No Tav. Un altro colpo durissimo al movimento, che fino ad oggi era sempre riuscito ad uscire indenne dalle azioni risarcitorie. La sentenza del tribunale di Torino ha ovviamente riacceso gli animi di chi contesta il supertreno. Se dopo la cancellazione del reato di terrorismo anche per il secondo gruppo di anarchici arrestati sempre per l'attacco del maggio 2013 al cantiere di Chiomonte, il livello di conflitto sembrava essersi attenuato, la protesta è riesplosa con potenza. A Torino, subito dopo la lettura del dispositivo (durata più di un'ora) un consistente gruppo di attivisti ha bloccato il traffico per oltre mezz'ora su corso regina Margherita, una delle arterie più trafficate della città, è in valle che ci sono stati i momenti di tensione maggiore. In serata, a Bussoleno, un gruppo di manifestanti ha bloccato l'autostrada a A32 Torino - Bardonecchia e la statale 24. I manifestanti hanno lanciato sassi e fumogeni contro le forze dell'ordine. Per ragioni di sicurezza - a causa del fumo - in entrambe le carreggiate è stato necessario chiudere l'autostrada. Tre persone sono state fermate. La marcia era stata organizzata dai comitati di valle come risposta alla condanna emessa poche ore prima. E il sito NoTav.Info commenta così: "Questa viene data al Movimento No Tav tutto, perché dopo decenni ancora non abbassiamo la testa e continuiamo a lottare, forti della ragione e della volontà (mai negoziabile) di difendere la nostra valle e le nostre vite". Intanto l'ex segretario Fiom, oggi parlamentare di Sel, Giorgio Airaudo, così scrive su Twiter: "Questa è una condanna pregiudiziale e spropositata. L'ordine pubblico non può sostituire la politica che latita". Di segno opposto quella del suo collega del pd, Stefano Esposito, da sempre favorevole al progetto del supertreno, che dice: "La giustizia fa il suo corso e si rispetta". Giustizia: caso Yara; e adesso la "prova regina" scagiona il "mostro" Bossetti di Errico Novi Il Garantista, 28 gennaio 2015 È in carcere dal 16 giugno. Si dichiara innocente. Ora Giuseppe Bossetti assiste allo sbriciolarsi delle prove che, secondo la pm, lo incastravano. Quelle che avevano consentito, non solo al sostituto Letizia Ruggeri ma anche al gip di Bergamo, di attribuirgli l'assassinio di Yara Gambirasio. E "un'indole malvagia e priva del più elementare senso di umana pietà". Già ridotto al rango di mostro prima di essere giudicato colpevole, Bossetti magari si starà chiedendo chi gli restituirà questi otto mesi di vita. A maggior ragione dopo le ultime rivelazioni che provengono dai periti. Dal consulente tecnico incaricato dalla Procura, per l'esattezza. Il quale lo scorso 5 gennaio ha firmato una relazione di 113 pagine che smonta il precedente lavoro dei suoi colleghi. Pur con il garbo che si conviene tra scienziati, il dottor Carlo Previderè dell'università di Pavia fa emergere due anomalie nelle precedenti analisi del dna, e arriva a una conclusione: il dna mitocondriale di Bossetti non c'è. Né nei residui organici trovati sugli slip della povera Yara, né tra i peli e i capelli sparsi sui suoi leggins. Ad anticipare i contenuti di quest'ultima perizia è stata lunedì sera l'agenzia Adnkronos. Il pool di difensori che difendono il 44enne muratore bergamasco valuta se presentare una nuova istanza al Gip, o se attendere un altro mese, cioè fino al 25 febbraio, giorno in cui si discuterà in Cassazione il ricorso sulla custodia cautelare. Quel giorno Bossetti potrebbe riottenere la libertà, oltre otto mesi dopo un arresto accompagnato da enorme clamore. In quella occasione fu addirittura il ministro dell'Interno Angelino Alfano a parlare di vittoria della giustizia. Non poteva sapere che quell'ordinanza di custodia si basava su una prova del dna condotta in modo probabilmente sbagliato. È questo almeno quanto sostiene la perizia di Previderè. Ricercatore che dirige il laboratorio di Genetica forense dell'ateneo di Pavia. E, soprattutto, consulente interpellato non dall'avvocato difensore Salvagni ma dalla stessa pm che conduce le indagini, Letizia Ruggeri. Nella sua analisi il genetista ha comparato peli e capelli trovati sul corpo della vittima con il dna di Yara e con quello dell'altra persona, classificata nelle precedenti perizie come "Ignoto 1" e identificata in Giuseppe Bossetti. "Il semplice confronto di tali profili consentì di realizzare immediatamente di essere in presenza di un unico profilo mitocondriale", scrive Previderè, e tale profilo "era certamente attribuibile alla vittima e non al soggetto definito "Ignoto 1", come indicato nella relazione del consulente del pm, dottor Giardina". Quei peli e quei capelli sono tutti di Yara e di nessun altro, dunque. Com'è possibile che l'altro perito non se ne fosse accorto? Nella relazione il genetista scrive che sono state rinvenute "150 formazioni pilifere umane". Di queste, 101 sono state esaminate. La gran parte sono "perfettamente sovrapponibili" con quelle di Yara Gambirasio. Ce ne sono altre sette. E il loro dna mitocondriale è "diverso da quello della vittima e da quello identificato" come "Ignoto 1". Nessun pelo o capello, scrive dunque testualmente Previderè, "è risultato attribuibile a Massimo Giuseppe Bossetti". Casomai si profilerebbe la presenza di un "Ignoto 2". C'è un altro passaggio della relazione ancora più delicato. Riguarda la traccia trovata sugli slip della giovane ginnasta di Brembate. Lì, secondo i rilievi del Ris, vi sarebbe dna cellulare di Bossetti. Eppure non vi si riscontra dna mitocondriale riconducibile all'indagato. Aspetto considerato "inspiegabile" dal genetista di Pavia: il dna cellulare contiene sempre, al suo interno, il dna mitocondriale, che proviene dalla madre. Risulta complicato, è in sostanza l'analisi della perizia, giustificare una traccia abbondante di dna cellulare e l'assenza di quello mitocondriale. Ci sono due anomalie, dunque, nei rilievi dei Ris e nell'analisi che, a partire da questi, aveva fatto l'altro perito, il dottor Emiliano Giardina. Lo dice un tecnico che, come il collega, è stato interpellato dalla Procura. A cui ora spetterà spiegare come si può essere certi della colpevolezza di Bossetti con prove così traballanti. Giustizia: caso Yara; Bossetti non è il "mostro"… oppure la pm ha sbagliato tutto di Tiziana Maiolo Il Garantista, 28 gennaio 2015 I casi sono due: o Bossetti è innocente o gli inquirenti sono degli incapaci. In ogni caso non vorremmo vedere il carpentiere di Bergamo trasformato nel Girolimoni degli anni Duemila. Perché Gino Girolimoni, il "mostro di Roma" degli anni del fascismo, accusato arrestato e poi prosciolto per sevizie e uccisione di sette bambine, dopo gli undici mesi di carcere non si riprese più e morì povero con addosso la reputazione del "pedofilo". I mesi scontati da Massimo Bossetti sono già sette, e stiamo parlando di carcere preventivo, anche se viene pudicamente chiamato custodia cautelare. E ancora i magistrati che gli stringono le manette ai polsi non ci spiegano in che modo potrebbe "reiterare il reato" (come hanno scritto sia il gip che il tribunale del riesame). Ci stiamo avviando a un clamoroso processo indiziario, in cui le "prove" così conclamate dagli inquirenti impallidiscono ogni giorno di più. Persino la "prova regina", la famosa "pistola fumante" impugnata a due mani dal pubblico ministero Letizia Ruggeri, il dna trovato sugli indumenti di Yara Gambirasio, presenta i suoi bravi margini di ambiguità nella relazione non di un perito di parte, ma di quello ufficiale della Procura, il dottor Carlo Previderé, responsabile del laboratorio di Genetica forense dell'università di Pavia. Il dna mitocondriale, di cui evidentemente gli uomini del Ris di Parma, i primi a esaminarlo, non hanno tenuto nessun conto, non sono di Bossetti. Perché è importante questa parte del dna? Perché è quello trasmesso dalla madre ai figli. E se quello trovato sul corpo di Yara non è di Bossetti, di chi è? E ancora: sul corpo della ragazzina vengono trovati un certo numero di peli e capelli, ma nessuno è riconducibile all'indagato. Di chi sono dunque? Ma c'è un altro problema. Gli inquirenti affermano di avere la "prova" (farebbero meglio a essere più cauti nell'uso di questa parola) del fatto che il furgone dell'indiziato gironzolasse dalle parti della casa della bambina quando lei uscì per andare in palestra e prima di sparire per sempre. Sul furgone però non c'è traccia alcuna di Yara. Il veicolo, così come un'auto di proprietà di Bossetti, è stato sequestrato subito dopo il suo arresto, il 16 giugno dell'anno scorso. Nessuno l'ha toccato, da quel giorno, tranne i tecnici, che l'hanno rivoltato come un calzino. L'unico risultato è che la ragazzina lì sopra non è mai salita. Così come non è mai entrata in contatto con nessuno degli oggetti, a partire dal telefonino, in uso a Bossetti. La bambina è dunque un fantasma? Nelle ultime settimane poi, a quattro anni dalla sparizione della giovane ginnasta, è scoppiata la guerra delle testimonianze. È bastato che i difensori di Bossetti, l'avvocato Salvagni e il criminologo Denti (quest'ultimo l'ha raccontato a Iceberg, la nota trasmissione di Telelombardia), lasciassero intendere di avere tra le mani una deposizione importante, che la Procura rilancia dando in pasto ai giornalisti la "sua" teste. E il segreto investigativo cui sono tenuti in primis gli stessi inquirenti? Ma che importa, tanto si sa che, da vent'anni a questa parte, i provvedimenti giudiziari non si depositano più in cancelleria, ma direttamente in edicola. E Bergamo non sarà certo seconda a Milano o a Roma. Le testimoni sono due donne. La signora A, dopo aver invano parlato a un carabiniere fermato per strada, nei giorni della sparizione della ragazzina, contatta gli avvocati di Bossetti dopo aver saputo dell'arresto, e ripete il suo racconto: aveva ospitato, proprio in quei giorni, un giovane rumeno, poi tornato al suo Paese, che diceva di avere una fidanzatina di nome Yara che faceva la ginnasta e viveva in provincia di Bergamo. L'unico punto debole di questa teste, che viene descritta come molto lucida e sicura di sé, è che la signora A si era rifiutata di andare a fare la sua deposizione in caserma, come l'aveva sollecitata il carabiniere. Che andrebbe oggi individuato e ritrovato. Cosa non facile. La signora B è una testimone ancora più fragile. A quanto se ne sa, avrebbe raccontato ai magistrati di aver notato Bossetti e Yara in auto nel parcheggio del centro sportivo di Brembate nell'estate del 2010 e di esser stata colpita dal fatto che un adulto e una ragazzina discutessero animatamente. Aveva pensato a un padre e una figlia, anche perché il giorno dopo avrebbe visto il muratore al supermarket che comprava delle birre, tranquillo. La signora B si è fatta viva con i magistrati solo tre mesi dopo l'arresto di Bossetti, e questo genera già un primo dubbio: perché non subito, visto che la foto dell'uomo è uscita su tutti i giornali e le televisioni? Ma il problema, che dà anche un po' di amarezza, è: se la signora B ha riconosciuto Yara in quella ragazzina che discuteva con un adulto in auto, perché non è andata dai carabinieri quattro anni fa, quando Yara è sparita? O invece crede di averla riconosciuta solo dopo l'arresto del muratore? O magari, cosa probabile, la sua memoria ha subito una suggestione? Dunque: Bossetti è innocente e sta subendo una grave ingiustizia, o è colpevole e i magistrati non riescono a dimostrarlo? Giustizia: caso Yara; il difensore "in un Paese civile sarebbe Procura a farlo scarcerare" di Antonello Micali Il Garantista, 28 gennaio 2015 È davvero possibile un clamoroso ribaltone o si tratta solo, come dicono alcuni, dell'ennesima dimostrazione che la genetica, soprattutto applicata al crimine, oltreché complessa (e cara), non dà poi sempre tutte queste certezze? E se poi il campo di applicazione è quello penale, ecco che le cose si complicano ulteriormente. A dare, in attesa del processo, nuova linfa al dibattito tra pro e contro il presunto "abuso" delle nuove frontiere scientifiche delle tecniche investigative moderne, è il nuovo elemento secondo cui sul corpo di Yara Gambirasio, la 13enne scomparsa il 26 novembre 2010 e trovata cadavere in un campo di Chignolo d'Isola tre mesi dopo, non ci sarebbe traccia del dna mitocondriale di Massimo Giuseppe Bossetti, unico indagato per l'efferato omicidio della ginnasta di Brembate di Sopra. E pensare che a fornire quello che di fatto è diventato forse un prezioso assist per la difesa del muratore 45enne in carcere da più di 7 mesi, è stato addirittura il consulente della Procura nella sua relazione al pubblico ministero. Insomma, la vicenda è complessa e rimanda, a fronte di "tale anomalia", a scenari per il momento non prevedibili; fatto sta che, semplificando, il tratto mitocondriale non è di Bossetti, ma quello nucleare, accertamento comunque non ripetibile e da sempre contestato dalla difesa, lo sarebbe: e allora? Avvocato Claudio Salvagni, se la notizia venisse confermata che ne sarebbe della "prova regina" contro il muratore, quella per la quale un padre di famiglia incensurato (e che ha scoperto di non essere figlio del padre che lo ha cresciuto grazie proprio all'inchiesta) è in carcere dal 16 giugno scorso perché identificato come "Ignoto 1", ovvero come colui che avrebbe il profilo genetico dell'assassino di Yara? "Prova regina? Dall'inizio di questo caso sostengo che la perizia che l'ha prodotta, anche perché effettuata in piena autonomia e solitudine dalla Procura e senza le garanzie del caso, visto che non è ripetibile, in un Paese democratico e civile quale dovrebbe esserscagionato, poiché rimarrebbe sempre un dubbio". Ma potrebbe dunque cadere questa prova? "Speriamo a questo punto che ciò avvenga nel processo". Invece, nonostante tutto, secondo l'accusa, l'inchiesta a carico di Bossetti e con il suo complesso quadro accusatorio rimane valida. "Guardi, a pensare male… Noi sappiamo da almeno due settimane di questa anomalia rilevata dal consulente Previderè dell'accusa; la Procura da almeno due mesi: a fronte della totale caduta di altri elementi e con questo quantomeno ragionevole dubbio sulla cosiddetta prova regina, avrebbe dovuto essere proprio la Procura a chiedere la scarcerazione di Bossetti, invece. È paradossale che un' inchiesta per la quale sono stati spesi milioni e scomodati i più sofisticati metodi scientifici produca una tale pochezza di riscontri". Il consulente del pm nella sua relazione scrive che "tale profilo mitocondriale era certamente attribuibile alla vittima e non al soggetto definito "Ignoto 1"", quindi? "Quindi l'analisi del dna mitocondriale di Bossetti, estratto dal campione della relazione del Ris, non coincide con quello di "Ignoto 1", ovvero alla traccia trovata sugli slip della ragazzina: questo sarebbe chiaro, non lo è altrettanto per quel che concerne il profilo nucleare". Sbaglio o adesso la Procura si affida alle stesse ipotesi del consulente, secondo cui, e siamo sempre nel campo delle ipotesi, appunto, la traccia analizzata dal Ris conterrebbe i profili genetici di Yara e di Ignoto 1 e che il tratto mitocondriale della bambina possa aver coperto quello di Ignoto 1? "Lo vedremo in dibattimento. A noi sembra comunque chiaro che sono stati commessi degli errori, dall'inizio delle indagini. Questa che il consulente del pm chiama anomalia va spiegata. Il mitocondriale non è di Bossetti, ma di un altro. E sul fatto che il nucleare non lasci dubbi mi consenta di dire, a fronte di tutto quello che non è quantomeno lineare in questa storia, che la Procura dovrà dare delle spiegazioni più convincenti (come, probabilmente, sul motivo per cui i profili genetici mitocondriali di 532 donne sono stati comparati con il profilo genetico mitocondriale di Yara e non di Ignoto 1, ndr) e prendere in considerazione il nostro quanto meno ragionevole dubbio sulla prova del dna che non è più possibile ripetere". Alla luce di questi nuovi elementi state preparando una nuova istanza di scarcerazione, dopo che la prima è stata rigettata dal tribunale del Riesame proprio in base all'esame del dna, in attesa della prossima udienza in Cassazione del 25 febbraio? "Confermo questa intenzione, ma ribadisco che Bossetti avrebbe dovuto essere libero già da tempo". Giustizia: caso Mafia Capitale; Buzzi comanda ancora… scrivendo lettere dal carcere? di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2015 Dalla cella, il "rosso" ha inviato molti messaggi. Il sospetto dei pm: potrebbe continuare a impartire ordini alle coop perquisite ieri. Mi stupisco del fatto che gli organi che si sono occupati di mafia a Roma, non mi abbiano ancora interrogato. Il mio è un caso di cui si dovrebbe parlare in tutto il mondo". Parla Salvatore Buzzi dal carcere di Nuoro (Sardegna), che - detenuto in regime di alta sicurezza per associazione a delinquere a stampo mafioso - dal giorno del suo arresto si dedica ad una copiosa attività epistolare. Lui, il ras delle coop della presunta Mafia Capitale da dietro la sbarre manda lettere. Troppe per gli investigatori che ora hanno due sospetti: il primo che qualcuno abbia potuto sorvolare sul contenuto di quelle missive inviate dal carcere, soprattutto non informando i magistrati sulla quantità; il secondo sospetto, da verificare dopo che saranno state visionate tutte le lettere, è che da dietro le celle Buzzi possa continuare a impartire ordine e inviare messaggi. Per questo ieri gli uomini del Ros, guidati da Mario Parente, hanno perquisito le sedi della Cns, un consorzio rosso di Bologna del quale la 29 giugno fa parte, e della cooperativa Abc, attualmente commissariata. Perquisita anche la casa della compagna di Buzzi, Alessandra Garrone, finita ai domiciliari nell'ambito della stessa indagine. Molte lettere infatti sono state arrivate anche a lei, che oltre la compagna secondo l'accusa ha anche il ruolo di "collaboratrice stretta di Buzzi, il quale condivide le strategie operative del sodalizio, contribuisce alle operazioni corruttive e di alterazione delle gare pubbliche". Dal carcere di Nuoro, Salvatore Buzzi non ha dimenticato neanche Franco La Maestra, un dipendente della Cooperativa 29 giugno con un passato nelle Br-Partito comunista combattente. Proprio a La Maestra, secondo quanto riferito da quest'ultimo ad un altro indagato - erano state date delle direttive da parte di Buzzi il giorno dell'arresto: ossia di non litigare e di tenere lontano dalla 29 giugno Giovanni Campenni, l'imprenditore che secondo i pm "il clan Mancuso aveva inviato su Roma per avviare attività imprenditoriali in collaborazione con l'associazione romana". Adesso quindi vi è il dubbio che stia servendo a poco quel sistema di alta sicurezza al quale è sottoposto l'uomo ritenuto il braccio sinistro di Massimo Carminati. Sul caso delle lettere inviate alla Garrone, il legale di Salvatore Buzzi, l'avvocato Alessandro Diddi commenta: "Non capisco le ragioni della perquisizione anche perché ho fatto una richiesta di autorizzazione al giudice perché la Garrone potesse parlare con il marito. La risposta è stata affermativa". Proprio al suo legale. Buzzi domanda il perché ancora non sia stato interrogato e adesso vuole rispondere alle domande dei magistrati, a differenza di mesi fa quando, durante l'interrogatorio di garanzia dopo l'arresto, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Intanto in molti prendono le distanze da Buzzi, come il consigliere regionale del Lazio ed ex presidente del Pd romano Eugenio Patanè, tra i politici coinvolti nell'inchiesta Mafia Capitale, ma indagato per turbativa d'asta: "L'ho incontrato nel 2012 per caso - ha detto Patanè a SkyTg 24 - durante l'occupazione del mattatoio di Roma. A giugno 2013 mi ha mandato un messaggio nel quale si giustificava della foto con Alemanno e Casamonica". Patanè avanza anche dei dubbi: "Mi pare strano che Buzzi assurga a capomafia. Poteva essere il capo delle cooperative sociali. Ma ti pare che questo diventa improvvisamente il capomafia per un fatturato al Comune di Roma di 43 milioni di euro, quando il bilancio del Comune di Roma è di 10 miliardi?". Di diverso parere un gestore di una cooperativa che, intervistato sempre da SkyTq24, ha preferito l'anonimato: "Non hanno scoperto ancora niente - ha detto - e non sono stati tirati fuori ancora i nomi dei politici coinvolti". Ed è vero, perché potrebbero essere ancora tante le novità di questa inchiesta, nonostante sia esplosa a dicembre scorso. Friuli: il programma regionale per il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari www.marketpress.info, 28 gennaio 2015 Rafforzare la rete di servizi in modo da garantire la presa in carico terapeutico riabilitativa di persone con problemi di salute mentale autrici di reato, per avviare il processo di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg), deciso da una norma nazionale del 2012. È l´obiettivo di un Programma regionale approvato dalla Giunta del Friuli Venezia Giulia, su proposta dell´assessore Maria Sandra Telesca. Elaborato in collaborazione con i Dipartimenti di Salute Mentale, indica le modalità di utilizzo di una cifra di poco inferiore a 1,3 milioni di euro, già assegnati dallo Stato in attesa che la Regione Friuli Venezia Giulia, che ha già acquisito le funzioni in materia di Sanità penitenziaria, ottenga anche quelle relative proprio al superamento degli Opg, che comporterà un ulteriore aumento nella disponibilità di risorse. I fondi già assegnati saranno impiegati per: - potenziare gli stessi Dipartimenti di Salute Mentale, anche attraverso l´assunzione di nuovo personale a tempo determinato, in modo da ridurre il ricorso agli Opg; - prendersi cura delle persone dimesse perché non socialmente pericolose; - incrementare l´attività di tutela della salute mentale presso le strutture penitenziarie tradizionali. Ad ogni modo in Friuli Venezia Giulia il problema appare limitato. Le persone con problemi di salute mentale autrici di reato sono al momento otto, accolte negli Opg di Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere. Castelfranco Emilia (Mo): bollette non pagate, l'Eni stacca il riscaldamento al carcere www.modenatoday.it, 28 gennaio 2015 Un disguido abbastanza clamoroso ha lasciato al freddo per una notte la caserma degli agenti della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia. La direzione della struttura non aveva saldato le bollette con Eni, che ha inviato Hera a sigillare i contatori. Un intoppo imbarazzante ha contraddistinto la giornata di ieri presso il carcere di Castelfranco Emilia, la Casa Lavoro spesso soggetta a critiche sulla reale efficienza della struttura. Ma questa volta niente elucubrazioni sul sesso dei detenuti: quanto accaduto è qualcosa di molto pragmatico, che ha richiesto l'intervento della Prefettura. Nel pomeriggio la Direzione ha infatti segnalato alla Prefettura che ieri tecnici del Gruppo Hera erano intervenuti presso i contatori del gas in dotazione alla struttura, apponendo i sigilli su due di essi, interrompendo così la fornitura di gas e provocando il blocco della caldaia che alimenta l'impianto di riscaldamento della caserma destinata agli agenti della Penitenziaria. Si è poi appreso che l'intervento era stato eseguito su disposizione della società Eni S.p.a., titolare del servizio di fornitura, del quale Hera è semplice esecutore. Il motivo? Il mancato pagamento delle fatture del gas. La Direzione del carcere ha precisato che la causa dell'insolvenza era del tutto formale: Eni infatti, nonostante ripetute segnalazioni, continuava a inviare documenti in forma cartacea e non elettronica. Evidentemente un problema di scarsa comunicazione. Vista la necessità di mantenere in buone condizioni la caserma e permettere agli agenti di non passare troppe ore "al fresco", la Prefettura ha immediatamente chiesto ad Hera di intervenire per ripristinare la fornitura. La multiutility ha inviato celermente i propri tecnici a Castelfranco e il servizio è tornato attivo, mentre sono state avviate le procedure per risolvere il debito con il gestore Eni. Ripristinata nel pomeriggio la fornitura di gas (www.sassuoloonline.it) Nel pomeriggio di ieri la Direzione della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia ha segnalato alla Prefettura che, nella giornata di ieri, tecnici del Gruppo Hera sono intervenuti presso i contatori del gas in dotazione alla struttura, apponendo i sigilli su due di essi, interrompendo così la fornitura di gas e provocando il blocco della caldaia che alimenta l'impianto di riscaldamento della "Caserma agenti". L'intervento è stato eseguito su disposizione della società "Eni Spa", titolare del servizio di fornitura, del quale Hera è semplice esecutore, per l'inadempimento circa il pagamento di fatture. Da parte della Direzione del carcere è stato fatto presente che la causa del mancato pagamento di dette fatture, era da ricercarsi nell'emissione di tali documenti in forma cartacea e non elettronica, come previsto dalla normativa di settore, circostanza ripetutamente segnalata alla citata Società "Eni Spa". Attesa l'esigenza di garantire la continuità del servizio di vigilanza interna all'Istituto, nell'attuale stagione caratterizzata da basse temperature, la Prefettura ha interessato la Direzione del Gruppo Hera affinché valutasse la possibilità di ripristinare in via d'urgenza l'erogazione del gas, consentendo la riattivazione dei dispositivi di riscaldamento. La Direzione tecnica di Hera, aderendo con immediatezza alla richiesta della Prefettura, ha inviato prontamente presso l'Istituto penitenziario propri tecnici che hanno provveduto al ripristino dell'utenza. Catania: Corso formazione con la Scuola Edile, giovani detenuti riqualificheranno rione Ansa, 28 gennaio 2015 Diciassette detenuti di età compresa tra i 18 ed i 21 anni del carcere minorile di Bicocca, a Catania, hanno cominciato nell'Ente scuole edile un corso di formazione tecnico-pratico per effettuare interventi di riqualificazione nel quartiere di San Berillo Vecchio. L'iniziativa, resa possibile da un protocollo d'intesa firmato nelle scorse settimane da Comune, Ente scuola edile ed Accademia di Belle arti, rientra nell'ambito di un piano, approvato dal ministero della Giustizia, di reinserimento sociale di giovani che hanno subìto una condanna penale e sono detenuti o in regime di semilibertà. "Un momento di straordinaria importanza per Catania - ha commentato il sindaco Enzo Bianco - perché con questo intervento coniughiamo il recupero di energie giovanili, che vanno canalizzate nelle legalità e nel vivere civile, con i concreti interventi di ripristino di un quartiere storico di particolare rilevanza che da decenni attende di essere valorizzato". La formazione dei giovani detenuti nella prima fase avverrà negli uffici dell'Ente scuola edile con un cantiere simulato nel boschetto della Plaia, per poi passare dal 16 dicembre all'istituzione di un cantiere di lavoro nel quartiere principalmente per il rifacimento di intonaci esterni. Il via alle lezioni è stato dato dall'assessore comunale all'urbanistica e al decoro urbano Salvo Di Salvo. "Vi incoraggio - ha detto l'assessore ai ragazzi - a raccogliere con generosità questa grande opportunità per voi e per la Città. Lavorerete per due mesi perfezionando un mestiere che vi potrà servire per la vita e nel frattempo avrete reso un servizio utile per un quartiere del centro storico che ha bisogno di piccoli e grandi interventi e che potrete dire di avere contribuito a migliorare col vostro impegno". Lodi: il Tar "l'ex direttrice della Casa circondariale Stefania Mussio torni al suo posto" Il Cittadino, 28 gennaio 2015 Il tribunale ammnistrativo regionale di Milano ha ordinato al ministero della Giustizia di consentire all'ex direttrice della Casa circondariale di Lodi Stefania Mussio di "riprendere il predetto servizio nel più breve tempo possibile". La decisione è stata da poco pubblicata e l'ordine decorre "entro il termine di cinque giorni dalla notificazione, con l'avvertenza che, nella persistenza dell'inerzia si nomina fin d'ora, quale commissario ad acta, il prefetto di Lodi, che provvederà a eseguire l'ordinanza cautelare nei successivi cinque giorni". L'ordinanza non è ancora un pronunciamento definitivo sulle vicende della direzione del carcere di Lodi, ma segna un ulteriore punto a favore degli avvocati della dottoressa Mussio. L'ex direttrice, il 30 giugno scorso, si era vista revocare dal provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria l'incarico di direttore a Lodi, con conseguente distacco a Opera e con un ulteriore decreto che aveva nominato al suo posto, quale reggente a Lodi, Stefania D'Agostino. Mussio aveva impugnato i due decreti innanzi al Tar che nei mesi scorsi aveva concesso la sospensiva, "congelandone" quindi l'efficacia in attesa di entrare nel merito della loro legittimità: discussione rinviata al prossimo dicembre. La sospensiva però non era stata sufficiente per consentire a Stefania Mussio di riprendere posto nel suo ufficio. Si era presentata in via Cagnola con un avvocato ma l'accesso le sarebbe stato negato. Da qui un'ulteriore ricorso al Tar, per chiedere l'ottemperanza della decisione del tribunale. Il ministero della Giustizia si è nuovamente opposto, difendendo le decisioni prese e l'operato del personale del carcere, ma in questa fase, oltre a veder respinte le proprie tesi, il Ministero è stato anche condannato a pagare 2mila euro di spese di giudizio. D'Agostino invece non si è costituita. Reggio Calabria: boss ergastolano "compatibile" con il carcere, torna in cella a 83 anni www.lametino.it, 28 gennaio 2015 È malato ma le sue condizioni sono compatibili con il carcere. E per questo motivo stamane i carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria hanno arrestato a Oppido Mamertina il boss ergastolano della ‘ndrangheta Giuseppe Mazzagatti, di 83 anni. L'uomo fino ad oggi era detenuto ai domiciliari presso la sua abitazione. L'anno scorso davanti all'abitazione di Mazzagatti ci fu l'inchino della statua della Madonna durante la tradizionale processione. Il provvedimento restrittivo è stato emesso dai giudici del Tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria. Mazzagatti, condannato nel 2004 all'ergastolo per diversi reati tra cui associazione di tipo mafioso e omicidio, è ritenuto dagli inquirenti lo storico boss dell'omonima cosca e dal 2006 stava scontando la sua pena nella propria abitazione. L'anziano boss beneficiava della detenzione domiciliare in ragione delle sue condizioni sanitarie, apparentemente incompatibili con il regime carcerario. Il provvedimento restrittivo emesso dal Tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria deriva dall'istanza di revoca della detenzione domiciliare avanzata dalla Dda di Reggio Calabria a seguito degli elementi emersi durante le indagini dell'inchiesta ‘Erinni' e dalle risultanze dei numerosi controlli effettuati dai carabinieri di Oppido Mamertina. Il tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria ha quindi disposto nuovi controlli medici a carico dell'ergastolano, da cui è emerso che le condizioni di Mazzagatti non sono incompatibili con il regime detentivo in un struttura carceraria assistita da idoneo centro clinico. Il boss è stato così condotto in un carcere del centro Italia. Ascoli: la redazione di "Io e Caino" incontra il settimanale diocesano "Ancoraonline" di Susanna Faviani Avvenire, 28 gennaio 2015 Una trasferta particolare, quella di Ancoraonline, la redazione Internet del settimanale diocesano di San Benedetto del Tronto-Ripatransone-Montalto: una trasferta dietro le sbarre. L'idea è scaturita dall'incontro della redazione con Teresa Valiani, direttrice del periodico del supercarcere di Marino del Tronto (Ascoli Piceno) Io e Caino. Dall'incontro-dibattito è emerso che il penitenziario è molto disponibile per attività ricreative, culturali o professionalizzanti che aiutino i detenuti, una volta usciti, a rifarsi una vita e a non ricadere nei medesimi reati. E la stesura di un giornale rientra tra queste finalità. Dall'incontro con i detenuti emerge uno spaccato di dolore: "Sono scaturite storie - ha sottolineato Valiani - molto commoventi, in cui i detenuti si raccontano senza reticenze. Sono storie di profonda sofferenza, quasi sempre di emarginazione. Ma la redazione di Io e Caino non solo è frutto del contributo dei detenuti ma anche della lungimiranza della direttrice Lucia Di Feliciantonio e della collaborazione degli agenti penitenziari". La cultura quindi ancora una volta si rivela come la strategia più efficace per riscattare l'uomo. Tante le problematiche e altrettanti i bisogni, dal sovraffollamento all'impegno "fuori", una volta usciti, col senso dell'azione di recupero di un carcere e non solo della sua funzione punitiva. Così la redazione di Ancoraonline ha deciso di andare a trovare i detenuti che redigono "Io e Caino" per conoscersi, imparare, spiegare, scambiarsi idee ed esperienze. Una riunione di redazione dietro le sbarre, così da abbattere, almeno idealmente, il muro del pregiudizio, dell'indifferenza, e troppo spesso del silenzio. Taranto: "Storie di dentro, dentro le storie", incontro-dibattito nella Casa circondariale www.tarantobuonasera.it, 28 gennaio 2015 In collaborazione con l'Anm, il 31 gennaio incontro con il magistrato e scrittore Giancarlo De Cataldo e con la giornalista Giusi Fasano. "Storie di dentro, dentro le storie" è il tema dell'incontro-dibattito che il prossimo 31 gennaio si terrà nella casa circondariale di Taranto e vedrà protagonisti Giancarlo De Cataldo, magistrato e scrittore e Giusi Fasano, giornalista, inviata del "Corriere della Sera". L'interessante appuntamento culturale, che è stato proposto dal consigliere Martino Rosati, presidente della sottosezione Anm di Taranto e condiviso dal direttore Stefania Baldassarri, avverrà alla presenza di detenuti e detenute. Il consigliere Martino Rosati incontrerà detenuti e operatori penitenziari. L'incontro sarà arricchito anche dalla presenza di associazioni e di enti di volontariato, da studenti della locale Facoltà di Giurisprudenza e da alunni dei Licei "Battaglini" e "Archita" di Taranto. L'evento avrà l'obiettivo di far raccontare ai due relatori le rispettive esperienze con la realtà del carcere e l'umanità che la abita. "La direzione della casa circondariale di largo Magli che è sempre sensibile a promuovere tematiche di interesse ed attualità- si legge in un comunicato stampa - ancora una volta intende dare spazio e visibilità alla trattazione delle stesse, non potendo non compiacersi per la presenza di una personalità così ampiamente riconosciuta sia sul piano letterario che, ancor prima, per i suoi meriti professionali". Il dibattito che si terrà alle 10 del 31 gennaio sarà illustrato nella conferenza stampa che si terrà il prossimo 29 gennaio alle ore 11.30, sempre presso la casa circondariale. Roma: il 3 febbraio presentato libro "Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti" Ristretti Orizzonti, 28 gennaio 2015 Il prossimo 3 febbraio a Roma verrà presentato il volume di Patrizio Gonnella, "Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti". Durante l'incontro verranno presentati e illustrati i dati relativi alla presenza dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, suddivisi per nazionalità e per credo religioso, oltre che per età, legame famigliare e titolo di studio. Verrà inoltre riportato il dato relativo a quanti di questi detenuti siano in custodia cautelare, quanti appellanti e ricorrenti, quanti in esecuzione penale e in esecuzione penale esterna. Altro dato che sarà presentato è quello del tipo di reato per il quale vengono reclusi gli stranieri nel nostro paese. Sarà presentato inoltre il quadro normativo che, nel corso degli anni, ha fatto sì che il numero di stranieri nelle nostre carceri sia progressivamente aumentato. Il volume, realizzato grazie all'attività di ricerca dell'Associazione Antigone con il sostengo di "Open Society Foundation" ed edito dall'Editoriale Scientifica, è il primo lavoro di questo genere realizzato in Italia. La presentazione si terrà alla Libreria del Viaggiatore, via del Pellegrino 78, a partire dalle ore 11.00. Insieme all'autore interverranno Silvana Sergi (Direttrice del carcere di Regina Coeli), Marco Ruotolo (Ordinario di Diritto Costituzione, Università Roma Tre) e Abudl Matahar (Mediatore culturale Associazione Medea). La Libreria del Viaggiatore, è la redazione della Round Robin, casa editrice che da anni promuove iniziative letterarie nelle carceri. Con il progetto "un libro ti fa evadere" la Round Robin ha raccolto - grazie ai suoi lettori - decine di volumi poi inviati nelle carceri che ne hanno fatto richiesta. Contestualmente la giovane casa editrice ha promosso presentazioni di alcuni titoli in catalogo, proprio all'interno delle carceri incontrando i detenuti. L'auspicio è che questo genere di iniziative - non a scopo di lucro e finanziate dall'editore stesso - possano continuare con la collaborazione dei lettori. Un libro è come un viaggio. E la Round Robin si augura di regalare un momento di "evasione" proprio attraverso le sue pagine. Bari: domani la presentazione del libro "Non sono un assassino", di Francesco Caringella Comunicato stampa, 28 gennaio 2015 Il Direttore della Casa Circondariale di Bari Lidia De Leonardis, comunica che il 29 gennaio 2015 alle ore 15,00 si terrà presso l'Istituto penitenziario barese la presentazione del romanzo di Francesco Caringella, Magistrato e Consigliere di Stato: "Non sono un Assassino" (Ed. Newton Compton). Caringella, dopo il fortunato esordio con "Il colore del vetro", conferma le brillanti doti di scrittore noir, in un thriller in cui un delitto senza movente diventa l'incubo di un poliziotto che si ritrova a dover dimostrare la sua innocenza contro tutto e tutti. La presentazione presso la Casa Circondariale di Bari, come lo stesso Caringella afferma: "È un atto d'amore e per questo, trova nell'umanità varia e dolente che popola il carcere il luogo ideale d'incontro". Un incontro che si inserisce nel percorso di rinnovamento voluto dalla Direzione della Casa Circondariale di Bari, in sinergia con il Resp.le Area Sicurezza Commissario Francesca De Musso e il Resp.le Area Trattamentale Tommaso Minervini. Per "Non sono un Assassino" questa vicinanza è ancora più accentuata perchè il romanzo scandaglia il percorso psicologico, le sofferenze, le emozioni, ma anche i sogni, di uomini privati del bene prezioso della libertà e costretti ad un percorso dal quale difficilmente usciranno quelli di prima. Il Direttore della Casa Circondariale di Bari Droghe: Anno Giudiziario, droga e pene illegali di Stefano Anastasia Il Manifesto, 28 gennaio 2015 "L'anno trascorso è stato caratterizzato dalla rilevante incidenza sul trattamento punitivo dei reati in tema di stupefacenti che è derivato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014", questo ha detto il Primo presidente della Corte di cassazione, Giorgio Santacroce, inaugurando l'anno giudiziario. Come avevamo sostenuto già all'indomani della sentenza, alcuni delicati problemi interpretativi che ne sono seguiti "avrebbero potuto essere evitati o, almeno, ridotti da un tempestivo e coerente intervento del legislatore volto ad adeguare le pene previste in questa materia, tenuto conto del ripristino della differenziazione tra droghe leggere e droghe pesanti e, soprattutto, prendendo coraggiosamente atto della estrema inutilità dell'incremento sanzionatorio stabilito con la legge Fini-Giovanardi". Ma così non è stato. E in carcere abbiamo visto consumarsi l'esecuzione di pene illegittime, stabilite sulla base di norme giudicate incostituzionali. Già in due importanti pronunce la Cassazione ha fatto cadere il tabù dell'intangibilità del giudicato, non opponibile al "diritto di libertà contro ingiustificate limitazioni disposte in applicazione di una norma in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo ovvero dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale", per stare ancora alle parole di Santacroce. Ma, si sa, la giurisdizione è un potere diffuso, e ogni giudice è indipendente nelle sue decisioni. Così non mancano decisioni assurde, che si rifiutano di rivedere la pena in esecuzione perché rientra nei limiti stabiliti dalla vecchia normativa tornata in vigore, senza che sia tenuto in alcun conto il fatto che una detenzione di droghe leggere punita con meno di sei anni di carcere ai tempi della Fini-Giovanardi era un reato poco più che bagatellare, mentre con i nuovi limiti di pena diventa equivalente a un fatto che si merita quasi il massimo della pena. Così, ha ricordato Santacroce, il 26 febbraio le Sezioni unite della Cassazione torneranno ad affrontare la questione dell'intangibilità del giudicato, questa volta proprio in materia di droghe, per "fare un po' d'ordine nel microsistema sanzionatorio della nuova normativa". E, in effetti, un po' d'ordine serve se il Procuratore aggiunto di Milano, Antonio Robledo, coordinatore dell'ufficio dell'esecuzione penale presso il Tribunale, richiesto di informazioni dal suo Capo, Edmondo Bruti Liberati, su sollecitazione della Garante dei detenuti di Milano, Alessandra Naldi, ha messo nero su bianco la soluzione tartufesca escogitata dalla VI sezione penale della Corte di cassazione e citata anche da Santacroce per motivare il ricorso al giudizio delle Sezioni unite. In base a essa, la pena sarebbe illegittima, appunto, solo nel caso in cui si collochi fuori dalle previsioni penali vigenti. Insomma, se valutate tutte le circostanze del caso, Tizio era stato condannato a cinque anni di reclusione sulla base della Fini-Giovanardi, potendo essere condannato a cinque anni di reclusione anche con la normativa rinnovata, per Robledo (e immaginiamo anche per Bruti, che su questo non obietta nulla al suo aggiunto-antagonista) non c'è problema: era condannato a una pena addirittura inferiore al minimo previsto dalla Fini-Giovanardi, oggi può restare condannato a una pena corrispondente quasi al massimo della (più mite) legislazione in vigore. La cosa non ha senso e offende il più elementare senso di giustizia. Speriamo che le Sezioni unite della Cassazione chiudano definitivamente questa stucchevole querelle e, soprattutto, che ognuno faccia ciò che deve per porre termine all'esecuzione di pene illegittime. India: rinviato il rientro in Italia di Eli e Tommy, assolti da una condanna all'ergastolo di Daisy Parodi La Repubblica, 28 gennaio 2015 Una questione burocratica allontana il giorno del rimpatrio dei due giovani liberati in India dopo la condanna per omicidio. Rinviato il rientro di Eli e Tomaso Bruno e Elisabetta Bocompagni (ansa)Ad Albenga lo stanno aspettando da cinque lunghi anni. Gli striscioni con scritto "Tommy è libero" sono appesi un po' ovunque nella città delle torri, e dal 20 gennaio scorso, il giorno della libertà, è solo un conto alla rovescia per riabbracciare un figlio e un amico. Ma per fare festa si dovrà aspettare ancora. Si allungano, infatti, i tempi sul rientro in Italia di Tomaso Bruno e Elisabetta Boncompagni, i due ragazzi, detenuti per cinque anni nel carcere a Varanasi, per una condanna all'ergastolo annullata dalla Corte Suprema indiana. I due ragazzi, che hanno lasciato il carcere sabato, ora, sono ospiti in una casa per studenti, la stessa struttura che ha ospitato i genitori dell'albenganese quando andavano a fare visita al figlio in prigione. Sono momenti d'attesa per le famiglie dei due italiani che non vedono l'ora di rivederli. E in molti nel gruppo Facebook "Tomaso libero" scrivono messaggi di gioia per la scarcerazione degli italiani, postano foto con cartelli con scritto "Tommy è libero". Ma se in un primo momento sembrava che per Tomaso e Eli il rientro fosse questione di poche ore dopo la sentenza di liberazione, la burocrazia indiana allontana ancora la gioia di fare una grande festa. All'attesa delle ventiquattro ore per la preparazione dei documenti per lasciare il carcere indiano si è aggiunta la visita del presidente americano Barak Obama per la festa della repubblica Indiana di lunedì. "Fino a questo momento- spiega Euro Bruno, il papà di Tommi - i documenti necessari per il trasferimento da Varanasi a Delhi non sono ancora pronti e quindi escludo che possano tornare in Italia entro giovedì. Quel documento potrebbe arrivare anche via web, ma di fatto i nostri ragazzi ad ora ne sono sprovvisti e questo ritarda anche il loro trasferimento nella capitale". A questo punto il ritorno in patria potrebbe slittare al fine settimana. "Tutto - continua il padre del ragazzo - dipende da quando sarà pronta quella documentazione". Unione Europea: allerta nelle carceri... così vengono reclutati i jihadisti di Sergio Rame Il Giornale, 28 gennaio 2015 Nelle carceri francesi i musulmani rappresentano il 40% di una popolazione pari a 68mila persone. Il ministero della Giustizia: "Creano problemi di gestione". È stato in carcere che Amedy Coulibaly è venuto a contatto una decina di anni fa, allora poco più che ventenne, con esponenti del terrorismo jihadista, uno dei quali - teoricamente rinchiuso in isolamento - ha avuto un forte ascendente su di lui. Ed è stato nello stesso penitenziario, quello di Fleury-Merogis, alla periferia di Parigi, che un altro detenuto, Cherif Kouachi, ha conosciuto lo stesso jihadista. Il carcere è uno dei principali luoghi di reclutamento di candidati alla jihad. L'allarme, legato al caso degli attentati in Francia, è al centro di un lungo articolo pubblicato oggi dal Financial Times, che illustra il ruolo che il periodo di detenzione ha avuto nell'avvicinare i terroristi che hanno agito tra il 7 ed il 9 gennaio a Parigi alla violenza religiosa estremista. Coulibaly è morto il 9 gennaio durante il blitz delle forze dell'ordine nel supermarket kosher di Parigi, dove teneva numerose persone in ostaggio, Kouachi - autore della strage nella sede di Charlie Hebdo - in quello lanciato in contemporanea nella tipografia di Dammartin-en-Goele. Il jihadista conosciuto dai due, di origine algerina, di 17 anni più grande di Coulibaly, era stato in Afghanistan dove raccontava di essere stato torturato. E Coulibaly, anni dopo, raccontò alla polizia durante un interrogatorio di aver continuato a frequentarlo dopo l'uscita dal carcere non per via della religione ma perché "colpito dall'esperienza umana" della persona. Si trattava di Djamel Beghal, incarcerato nel 2001 per aver complottato un attentato dinamitardo contro l'ambasciata americana a Parigi. "Beghal è stato il loro mentore, ha insegnato loro la religione e la jihad - spiega al Financial Times Jean-Charles Brisard, esperto di al Qaeda che svolge un ruolo di consulente per i governi in materia di antiterrorismo - il periodo trascorso in carcere è stato cruciale". Beghal, per il tramite del suo legale, ha negato ogni coinvolgimento negli attacchi di Parigi. Ma il ruolo avuto da uno dei più noti penitenziari della Francia, costruito per 2.855 detenuti e che ora ne ospita più di 4mila, ha alimentato i timori sulle prigioni nei Paesi europei, che rischiano di fungere da centri di reclutamento per gli islamisti violenti. Per Missoum Chaoui, cappellano carcerario in Ile-de-France, il pericolo è l'assenza di un referente musulmano in un'istituzione che lascia aperta la strada agli "imam autoproclamati". L'islam diventa così un mezzo per porsi al centro di un universo carcerario in cui molti detenuti non hanno alcun riparo: "Si trovano in uno stato di debolezza e precarietà, hanno bisogno d'ascolto e di disciplina per non andare alla deriva". Nelle carceri francesi i musulmani rappresentano il 40% di una popolazione pari a 68mila persone. Quelli praticanti sono circa 18mila. Quelli ritenuti ad alta pericolosità sono 152. Sessanta di questi, secondo il ministero della Giustizia, "creano problemi di gestione" e sono in isolamento o in una cella singola, distribuiti in sette diverse prigioni. Ventidue sono "refrattari a ogni relazione e con loro non è possibile alcun contatto". Questi ultimi sono raggruppati e isolati nel carcere di Fresnes. Un esperimento che, secondo il governo francese, avrebbe contribuito a far "cessare la pressione costante sugli altri detenuti musulmani". Francia: le carceri sono i nuovi centri di reclutamento della Jihad di Roberto Bongiorni Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2015 L'ultima operazione antiterrorismo condotta dalle forze speciali francesi contro una cellula di jihadisti nel comune di Lunel mette ancora una volte in luce l'ampiezza della minaccia terroristica di matrice islamica in Europa. La Francia è sempre più determinata a combattere un fenomeno che l'ha colta quasi di sorpresa, mettendo a nudo la sua vulnerabilità. In secondo luogo, il Paese che ospita la più grande comunità musulmana d'Europa si conferma come un terreno particolarmente fertile per gli aspiranti jihadisti. Mese dopo mese le autorità correggono al rialzo il numero degli uomini partiti per la Siria e per l'Iraq al fine di unirsi nelle file dei gruppi estremisti islamici, soprattutto nell'Isis. L'ultimo aggiornamento, annunciato di recente dal premier Manuel Valss, indicava 1.300 persone circa partite, rientrate o in partenza per Siria e Iraq. Due dei cinque uomini arrestati questa mattina a Lunel erano, per l'appunto, rientrati dalla Siria. D'altra parte questo comune di 26mila abitanti nel cuore della Francia meridionale, a una trentina di km da Montpellier, ha acquisito ormai grande notorietà, non solo in Francia: dal 2013 a oggi, da questa cittadina sarebbero infatti partiti 20 giovani musulmani alla volta della Siria. Sei di questi, di età compresa tra i 18 ed i 30 anni, sarebbero caduti nei violenti combattimenti avvenuti sul fronte nel mese di ottobre. L'ultimo, un uomo di circa 20 anni, trasferitosi in Siria quest'estate insieme alla moglie, sarebbe morto a fine dicembre. L'ambizioso piano del Governo francese per contrastare la minaccia del terrorismo islamico cresciuto in casa - il budget contro il terrorismo è stato portato a 735 milioni di euro per i prossimi tre anni - si scontra tuttavia con una serie di problemi complessi. Oltre al proselitismo via internet, il principale canale di reclutamento dei "terroristi fai da te", i nuovi centri di indottrinamento e reclutamento dei candidati jihadisti sono le carceri. Non più, dunque, le moschee o i centri islamici più radicali, perché troppo sorvegliati. Un lungo articolo pubblicato oggi dal Financial Times illustra in modo dettagliato il processo di avvicinamento all'estremismo, avvenuto in carcere, dei terroristi che hanno agito tra il 7 ed il 9 gennaio a Parigi . Sotto l'attenzione dei media è il carcere di Fleury-Merogis, il più grande di Francia. È in questa grande prigione alle porte di Parigi che dieci anni fa un giovane ragazzo, condannato per rapina, si trova vicino di cella con un noto jihadista - in teoria in isolamento - che aveva combattuto sui fronti più caldi. Il giovane si chiamava Amedy Coulibaly, vale a dire l'uomo che il 9 gennaio ha sequestrato diverse persone in un supermarket kosher di Parigi, uccidendone quattro per poi essere a sua volta ucciso dalle forze speciali. Il veterano jihadista, di 17 anni maggiore del giovane Coulibay su cui esercita la sua influenza è Djamel Beghal. Di origini algerine, con un passato di mujaheddin in Afghanistan, in carcere dal 2001 con l'accusa di aver preso parte a un complotto per far esplodere una bomba contro l'ambasciata americana di Parigi. Sempre nello stesso carcere, Djamel aveva avuto modo di conoscere e dialogare con un altro giovane musulmano, salito anche lui alla ribalta dei media mondiali. Cherif Kuachi, uno dei due terroristi autori della strage nella sede del giornale satirico Charlie Hebdo, ucciso a sua volta nel blitz contro la tipografia di Dammartin-en-Goele in cui si era nascosto con il fratello. Avevano scontato una periodo di detenzione per rapina anche Mohammed Merah e Mehdi Nemmouche, che avevano assassino cittadini ebrei rispettivamente nel 2012 e nel 2014 a Tolosa e a Bruxelles. La storia di Nemmouche è risaputa. Parte per la Siria dove si unisce alle milizie siriane dell'Isis, con cui resta un anno a combattere. Una volta rientrato in Francia, nel maggio 2013, mette in atto il suo folle gesto: si reca a Bruxelles dove uccide quattro persone dentro al museo ebraico. Il problema di come allontanare l'estremismo islamico dalle carceri francesi è complesso. Più della metà dei detenuti francesi sono musulmani. E il carcere di Fleury-Merogis, costruito per ospitare 2.855 detenuti, in realtà ne conta più di 4mila. Definire e poi isolare chi è ritenuto estremista non è facile. In teoria potrebbero essere parecchi. Inoltre, come ha sottolineato il coordinatore europeo contro il terrorismo, Gilles De Kerchove, mettere in prigione migliaia di combattenti rientrati dalla Siria sarebbe "un invito alla loro radicalizzazione". Peraltro chi ha abbracciato l'estremismo in prigione, ha precisato al Financial Times Jean-Charles Brisard "presenta un profilo molto più pericoloso". Il Governo francese ha comunque deciso di nominare 60 nuovi imam nelle carceri, che si aggiungeranno così ai 180 già esistenti. Entro la fine dell'anno verranno poi costruite cinque aree riservate ai quei jihadisti definiti irriducibili; in altre parole chi si rifiuta di intrattenere qualsiasi relazione con gli addetti delle prigioni e partecipare agli incontri di de-radicalizzazione con gli imam. Sarà sufficiente? Francia: allarme Islam nelle carceri? solo una patacca, i soggetti a rischio sono pochi di Damiano Aliprandi Il Garantista, 28 gennaio 2015 Il dibattito sul radicalismo islamico in carcere è di grande attualità in Francia. In un articolo del giornale francese Le Monde viene riportata la testimonianza di una guardia penitenziaria dove racconta dettagliatamente le cause di questa radicalizzazione. Dal 7 al 9 gennaio scorso, il carcere di massima sicurezza di Condé-sur-Sarthe ha vissuto delle crisi di gloria di alcuni detenuti esaltati dagli attacchi terroristici parigini. Tuttavia, secondo Emmanuel Guimaraes - il poliziotto penitenziario nel carcere intervistato da Le Monde - "il rifiuto dell'autorità e dei valori della Repubblica" da parte di quei detenuti che si dicono musulmani è lungi dall'essere una novità. Questo tipo di incidenti sembra legato molto ai fatti d'attualità, "come le tensioni scoppiate in occasione dell'ultimo conflitto israelo-palestinese a Gaza", spiega sempre Guimaraes. Il resto del tempo, le tensioni tra detenuti, soprattutto negli spazi condivisi, sono banali. In diverse prigioni francesi, gli agenti raccontano gli stessi aneddoti: le vessazioni inflitte a chi fuma o a chi ascolta la musica; gli appelli alla preghiera; gli incitamenti a leggere il corano; il proselitismo ai detenuti più isolati. A forza di vedere conversioni e radicalizzazione nel carcere, Guimaraes parla dell'Islam in prigione come "una sorta di moda". "Alcuni ci dicono che Allah ci punirà, anche se non sono musulmani. Altri sono solo arrabbiati, altri ancora voglio avere dei privilegi", racconta l'agente. "Tuttavia, la maggior parte si converte per starsene in pace", dichiara l'agente. Liberato da un anno, Franck Steiger ha scontato sei anni in otto diverse prigioni francesi. È ateo e - interpellato sempre da Le Monde - ha detto di aver vissuto i suoi anni di detenzione "in minoranza". "I musulmani hanno il monopolio. Per non avere problemi, molti si convertono per far parte della banda", afferma. Secondo Steiger, le condizioni di prigionia sono determinanti; "La mancanza di rispetto, le violenze, le misure di ritorsione: tutto questo produce l'odio e la voglia di fare ricorso alla religione", afferma con rabbia. Invece per Missoum Chaoui, cappellano carcerario in Ile-de-France, il "pericolo" è l'assenza di un referente musulmano in un'istituzione che lascia aperta la strada agli "imam autoproclamati". La religione diventa per molti un mezzo per porsi al centro di un universo carcerario in cui molti detenuti non hanno alcun riparo. "Si trovano in uno stato di debolezza e precarietà, hanno bisogno d'ascolto e di disciplina per non andare alla deriva", commenta Chaoui al quotidiano francese. "Alcuni sono più psichiatri che islamisti. I radicali sono molto pochi e non rappresentano affatto i musulmani di Francia", conclude il cappellano. Secondo il ministero della Giustizia, gli effettivi sospettati sono 152, per la maggior parte in Ile-de-France. In quattro anni, Abdelhafid Laribi, cappellano permanente presso il carcere di Nanterre, dice sempre a Le Monde di non essersi mai confrontato con nessuno di loro; "C'era un convertito che non aveva alcuna nozione di base dell'islam. Ho provato a parlare con lui, ma non ha voluto capire. Non è mai più venuto. In questi casi, non si può fare nulla, solo evitare che altri cadano in questo radicalismo", racconta. Quando invece incontra chi "vacilla", allora si tratta di "seminare il dubbio nello spirito, evocare altri punti di vista, con pazienza e pedagogia, per convincerli", spiega Laribi. A gennaio, i cappellani carcerari musulmani erano 182, contro 680 cattolici e 71 ebrei. La loro presenza è stata incrementata negli ultimi due anni "al fine di tranquillizzare la detenzione e diffondere un islam illuminato", ha indicato il ministero della giustizia francese. Altri 60 cappellani verranno reclutati nell'arco dei prossimi tre anni. "Manca la volontà politica, mentre noi siamo là per evitare il radicalismo. Se la situazione non cambia, peggiorerà", conclude amaramente Laribi. Stati Uniti: Corte suprema rifiuta la grazia, giustiziato disabile che uccise compagno cella Askanews, 28 gennaio 2015 Un uomo che soffriva di handicap mentali, confermati da diverse visite psichiatriche, è stato giustiziato questa notte nello Stato della Georgia, Sud-est degli Stati Uniti, dopo che la Corte suprema ha respinto anche l'ultimo appello per la grazia. Warren Hill, 54 anni, di cui 24 nel braccio della morte, è stato dichiarato morto dopo un'iniezione letale, alle 19.55 ora americana, l'1.55 in Italia, nel penitenziario di Jackson. Lo ha reso noto Susan Megahee, portavoce degli istituti penitenziari della Georgia. La Corte Suprema, che ha dato il via libera all'esecuzione con sette voti favorevoli e due contrari, ha manifestatamente lasciato libero arbitrio allo Stato della Georgia, a dispetto di opposti pronunciamenti precedenti. La Corte Suprema aveva stabilito infatti nel 1986 il divieto di esecuzioni nei confronti di persone con handicap mentale, in base all'Ottavo emendamento, che parla di "pene crudeli e inconsuete". Nel 2002 aveva ulteriormente confermato questa linea asserendo che gli handicappati mentali non possono essere giustiziati poiché si corre il rischio di un'esecuzione arbitraria. Warren Hill, dotata di un QI pari a 70, era stato condannato alla pena capitale dopo aver ucciso un detenuto con asse, mentre scontava una pena all'ergastolo per l'omicidio della sua compagna. Svizzera: leggero calo detenuti nei 114 penitenziari per adulti, ma numero sempre alto www.swissinfo.ch, 28 gennaio 2015 Nonostante un leggero calo del numero di detenuti, le prigioni in Svizzera restano affollate soprattutto nella Svizzera latina dove il tasso di occupazione ha raggiunto il 117%. È quanto rivelano i dati pubblicati oggi dall'Ufficio federale di statistica (Ust). Il 3 settembre 2014 - giorno preso come riferimento - le persone incarcerate nei 114 penitenziari per adulti erano complessivamente 6.923 il 2% in meno rispetto al 2013 (7.072). Grazie a questo calo e alla creazione di circa 190 nuovi posti di detenzione il tasso di occupazione delle carceri su scala nazionale è diminuito di 4 punti percentuali attestandosi al 96%. Di questo miglioramento ha approfittato quasi esclusivamente la Svizzera interna e nordoccidentale, dove il tasso è diminuito dal 100% all'86%. Nella Svizzera orientale tale valore si è attestato all'85% (-1 punto percentuale). Al contrario i penitenziari nel concordato delle esecuzioni delle pene della Svizzera latina - in particolare quelli di Vaud e Ginevra - sono sovraffollati: per 2.720 detenuti vi erano 2.330 posti con un tasso del 117% (+1 punto percentuale). L'Ust non fornisce cifre sui singoli carceri. Tuttavia ad essere particolarmente toccata dal fenomeno è la prigione ginevrina di Champ-Dollon: a metà agosto era stato reso noto che in un fine settimana nelle celle per 390 detenuti erano state poste oltre 900 persone. La percentuale di stranieri nelle prigioni svizzere era il 73% (74,3% nel 2013), la maggior parte dei quali privi di permesso di soggiorno. Una buona metà dei 6.923 detenuti (53%) era stata condannata, il 40% - secondo le indicazioni dell'Ust - si trovava in carcere preventivo o era in esecuzione anticipata della pena. Complessivamente le donne erano il 4,7%. Quanto ai minorenni si è registrato un ulteriore calo di quelli collocati presso terzi secondo il diritto penale minorile: in questa condizione - il 3 settembre 2014 - si trovavano 480 giovani (-17% rispetto al 2013 e -44% rispetto al 2010), precisa l'UST. La maggior parte dei minorenni (344, pari al 72%) era in un istituto educativo, prevalentemente aperto (308 giovani, 89%). Quasi tutti i minorenni collocati (95%) erano di nazionalità svizzera o stranieri con un permesso C o B, prevalentemente di sesso maschile (92%) e la stragrande maggioranza aveva più di 15 anni (89%). Turchia: il governo progetta un carcere "speciale" per la comunità Lgbt www.iljournal.today, 28 gennaio 2015 La soluzione a cui è giunto il governo turco per contrastare l'ostilità nei confronti della comunità Lgbt all'interno delle carceri accrescerà la discriminazione? In Turchia membri della comunità Lgbt (gay, bisessuali e transessuali) incarcerati subiscono ogni genere di discriminazione. "Quando sono arrivata in carcere non ho rivelato il mio orientamento sessuale. Ma l'amministrazione penitenziaria ha subito scoperto che ero omosessuale dopo aver visto che avevo preso parte a dei cortei Lgbt", racconta un detenuto ad un giornalista del giornale online Al-Monitor. "Mi hanno quindi imposto una visita medica che però ho rifiutato, visto che questo genere di controllo prevede un esame anale. Allora mi hanno obbligato ad andare da uno psichiatra, perché per le autorità l'omosessualità è una malattia e mi serviva un rapporto medico. Questo rapporto gli avrebbe permesso di rinchiudermi in una cellula d'isolamento, ma lo psichiatra si è rifiutato di scriverlo". Il detenuto, Koyuncu, spiega come ha cominciato a diventare sempre più oggetto di insulti, aggressioni e minacce, anche da parte dei guardiani del carcere. Ma ad un certo punto, al termine della sua pazienza, l'uomo ha deciso di cedere e di accettare l'isolamento che la struttura voleva imporgli sin dall'inizio. Ma la legge turca recita che l'isolamento è riservato ai detenuti condannati al carcere a vita, a coloro che soffrono di una malattia contagiosa e coloro che devono ‘pagare' delle sanzioni disciplinari. La maggioranza dei detenuti rinchiusi in isolamento è quindi quasi per intero illegale. Ma dopo che un detenuto ha denunciato le misere condizioni alla Corte Europea dei diritti dell'uomo, questa ha praticamente respinto la sua rimostranza, dichiarando che la Turchia avrebbe potuto mettere i detenuti Lgbt in isolamento per ragioni di sicurezza. La Corte però ha convenuto anch'essa che si tratta di un caso di evidente discriminazione. Ma il risultato di questa risposta della Corte è che adesso il Ministero della Giustizia turco ha deciso di costruire delle carceri esclusive solo ad un pubblico appartenente alla comunità Lgbt. Per quest'ultima si tratterebbe, ancora una volta, di un gesto altamente discriminatorio, ma è anche vero che alcuni si sono pronunciati a favore della prigione separata piuttosto che essere chiusi in isolamento, così da non perdere lucidità dentro le strutture di reclusione.