Finché morte non vi separi… dalla vostra pena di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 27 gennaio 2015 "In carcere sembra che i cancelli scricchiolino di ferraglia solo quando li aprono, invece quando li chiudono non fanno nessun rumore, forse perché sono abituati a stare sempre chiusi". (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). Dopo le dichiarazioni di Papa Francesco che ha definito la condanna alla pena dell'ergastolo "Una Pena di Morte Nascosta" sto raccogliendo centinaia di certificati di detenzione dai carceri di tutta Italia, perché gli uomini ombra (così si chiamano gli ergastolani fra loro) hanno deciso di contarsi da soli. Per dare voce ed un po' di luce agli ergastolani, insieme allo scrittore Aldo Nove, abbiamo i n progetto di pubblicare un libro rendendo pubblici i certificati di detenzione di molti ergastolani in Italia. Me ne sono già arrivati varie centinaia ed ho notato sia nei funzionari dell'amministrazione pubblica che di quella giurisdizionale una fantasia creativa veramente spregiudicata. Passano dalla vecchia formula fine pena mai scritta in rosso, al fine pena 9.999 o a quello ancora più incredibile del fine pena 99/99/999. Penso che sia proprio irragionevole che in uno Stato di Diritto si scriva in un certificato di detenzione di un condannato fine pena 9.999, perché a mio parere sarebbe molto più serio scrivere "finché morte non vi separi dalla vostra pena". In carcere, purtroppo, tutto quello che è assurdo è realistico. Quello che però in questi giorni mi ha colpito in questa conta di morti viventi, è stato leggere in un' ordinanza della Corte di Assise di Appello di Catania la formula fine pena "fino alla morte del reo". Dato che ho letto da qualche parte che la vita media si sta allungando, questa brutta notizia mi ha fatto riflettere che più tempo sto in vita e più carcere farò. Poi ho pensato che gli ergastolani hanno un rapporto speciale con il tempo, in particolare con il futuro. In pratica per noi il futuro non esiste perché tutto continua a essere presente. E sempre lo sarà. Ed è un presente che terribilmente si dilata in un minuto qualsiasi. In un'ora qualsiasi. In un giorno qualsiasi di qualsiasi giorno. Non ci accorgiamo neppure d'invecchiare, perché invecchiano solo le persone che vivono. E noi non viviamo. Ci teniamo solo in vita. La cosa più assurda è che lo facciamo solo per continuare a sopravvivere. E lo facciamo in mezzo al nulla perché questa condanna è diversa da tutte le altre pene perché è una pena del diavolo che rasenta il sovrannaturale. Se non sai il giorno, il mese e l'anno che finirà la tua pena praticamente sei perso nel nulla. E non hai davanti a te nessun orizzonte. A mio parere la condanna perpetua ad essere cattivo e colpevole per sempre rende ingiusta e crudele la giustizia, più della pena di morte. E alla lunga la pena dell'ergastolo ti penetra nel corpo, nella mente, nel cuore e nell'anima. Alla lunga ti uccide, ma, maledizione, lo fa lasciandoti vivo, "finché morte non vi separi dalla vostra pena". Giustizia: la vera riforma? spiegare all'opinione pubblica che il carcere è l'extrema ratio di Riccardo Polidoro (Responsabile Osservatorio Carcere dell'Unione Camere Penali) Il Garantista, 27 gennaio 2015 La relazione sull'amministrazione della Giustizia nell'anno 2014 del primo presidente della Suprema Corte di Cassazione, Giorgio Santacroce, reca in premessa questa frase: "La privazione della libertà essendo una pena, essa non può precedere la sentenza se non quando la necessità lo richiede" (Dei delitti e delle pene - a 250 anni da Cesare Beccaria). Tale concetto, enunciato da Beccaria due secoli e mezzo fa, non viene riportato prima di affrontare le problematiche relative alla detenzione, ma all'inizio del consueto rapporto annuale che viene redatto per l'inaugurazione dell'anno giudiziario presso la Suprema Corte. Nell'affrontare tutti i temi fondamentali della Giustizia - quelli in materia civile, penale, minorile, a tutela della giurisdizione, ecc. - il Primo Presidente ha sentito la necessità di ricordare, innanzitutto, che la custodia cautelare è la soluzione a cui ricorrere quando le altre possibili misure siano state sperimentate o esaminate, ma ritenute non adeguate. La ragione di tale importante richiamo la si trova nella stessa relazione, dove si legge: "(...) Non basta, dunque, che i giudici invochino e sollecitino il legislatore e la politica ad intervenire. È necessario che assumano anche su di loro il carico di conferire effettività al principio del minimo sacrificio possibile, che deve governare ogni intervento, specie giurisdizionale, in tema di libertà personale". Viene sottolineato come "...non sembra, però, che il monito sia stato del tutto ascoltato. I dati relativi alla percentuale dei detenuti ristretti in carcere in forza di misure cautelari parrebbe smentirlo. E pure il nostro sistema, se correttamente inteso, già oggi impone di considerare realisticamente le esigenze cautelari e di saggiarne prudentemente l'effettiva attualità; di valutare e privilegiare ogni modo alternativo del loro contenimento; di adeguare le decisioni sulla libertà ai principi di proporzionalità e adeguatezza; di considerare, insomma, anche il ricorso alla custodia cautelare in genere e alla custodia cautelare in carcere in particolare alla stregua dei canoni di adeguatezza, proporzionalità ed extrema ratio. Molte delle enunciazioni normative contenute nel disegno di legge n. 1232-8 sarebbero probabilmente superflue se tali indicazioni venissero sempre effettivamente seguite". Il magistrato più autorevole, dunque, rimprovera i suoi colleghi non solo di un eccessivo ricorso alla custodia cautelare in carcere, ma anche di non applicare le norme vigenti in tema di limitazione della libertà personale. Il legislatore, infatti, si è visto costretto ad elaborare un disegno di legge che, in larga misura, ripropone principi già ampiamente previsti dalle norme in vigore. L'Unione Camere penali denuncia da sempre l'abuso che viene sistematicamente fatto della custodia cautelare in carcere. Ora a ribadirlo è anche la Magistratura, non quella associata, ma la più autorevole, la "Suprema", che spesso è costretta a cassare ordinanze e a ridare la libertà dopo innumerevoli mesi d'ingiusta detenzione, che troveranno, a volte, un esiguo risarcimento monetario da parte dello Stato. E se la perdita della libertà non ha prezzo per l'individuo, per lo Stato il prezzo è molto alto, vista la quantità di indennizzi pagati. Da Tangentopoli in poi si è cercato, inutilmente, di porre rimedio all'abuso della custodia cautelare. Più recentemente, da oltre due anni il Parlamento tenta di approvare una riforma, senza approdare ad un testo che possa davvero considerarsi innovativo. Il disegno di legge nei continui passaggi da una Camera all'altra si svuota sempre più di contenuti e, se finalmente approvato, porterà ben poche novità. L'insegnamento di Beccaria, dopo 250 anni, non trova alcun riscontro nella pratica. L'enorme numero di misure cautelari annullate non riesce ad innescare il meccanismo politico che possa condurre ad un testo legislativo in grado di definire in maniera chiara, inequivocabile e stringente la possibilità di ricorrere alla privazione della libertà in assenza di una condanna definitiva. Le ragioni di tale inerzia, spesso indicate dalle Camere penali, sono da riscontrarsi in una certa cultura giustizialista, che trova ampi consensi nell'opinione pubblica. Sono le "ansie sociali" descritte da Giovanni Fiandaca e richiamate dal Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione nella sua relazione, che "invocano un sistema repressivo incentrato sul paradigma della pena detentiva". Eppure sono molti gli autorevoli giuristi - recentemente Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte costituzionale - a ritenere il carcere dannoso per chi lo subisce e per gli uomini liberi. Il segnale che viene da questi 250 anni trascorsi invano è l'improcrastinabile necessità di "rieducazione". Non quella prevista dall'articolo 27 della Costituzione per i condannati, ma un'attività svolta nei confronti dell'opinione pubblica che possa far condividere principi base di civiltà giuridica. Nell'incontro avuto con il ministro della Giustizia lo scorso 22 gennaio l'Osservatorio Carcere dell'Unione Camere penali ha illustrato un progetto che va soprattutto in questa direzione, riscontrando piena adesione. Giustizia: corrotti impuniti e porte girevoli per i boss, in carcere soltanto i "poveri cristi" di Roberto Scarpinato Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2015 Giudizio abbreviato e pene ridotte: cosa nostra non subisce colpi nelle carceri poveri cristi come nel 1860, colletti bianchi "salvi". Pubblichiamo un estratto dell'intervento del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, all'inaugurazione dell'anno giudiziario. Da un recente e documentato studio statistico condotto dal Dipartimento Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, pubblicato nella rivista Rassegna Penitenziaria e Criminologica, risulta che l'attuale composizione sociale della popolazione carceraria è per molti versi analoga a quella dell'Italia del 1860. Oggi come ieri in carcere a espiare la pena finiscono soprattutto esponenti dei ceti popolari e coloro che occupano i gradini più bassi della piramide sociale, oltre che gli esponenti della criminalità organizzata. La quota di colletti bianchi in espiazione di pena è statisticamente irrilevante (...). Manca la voce "Reati contro la Pubblica amministrazione" a causa dell'irrilevanza numerica del dato statistico. Quanto ai detenuti in custodia cautelare, nell'audizione del ministro della Giustizia alla Camera del 13 ottobre 2013 si segnalava che su un numero complessivo di 24.744 unità, le persone in stato di custodia cautelare per reati di corruzione a ottobre 2013 erano 31 (...). La mafia intatta. L'incessante turn over tra i mafiosi arrestati che entrano in carcere e quelli che ne escono per espiazione pena, continua a garantire la tenuta dell'organizzazione sul territorio. I capi arrestati vengono sostituiti da reggenti in attesa di riprendere il loro posto. Agli estorsori condannati ne subentrano di nuovi, che talora richiedono le rate arretrate non riscosse a causa degli arresti eseguiti. Lo sconto di pena derivante dall'accesso quasi generalizzato al giudizio abbreviato, nel sommarsi all'ulteriore sconto di pena derivante dall'applicazione dell'istituto della continuazione della pena in sede di condanna, riduce l'entità delle pene in concreto inflitte in maniera così significativa da perdere in molti casi la loro efficacia deterrente. Dalla relazione della Procura di Palermo, emerge una articolata casistica di capi e di gregari di Cosa Nostra che grazie a tali sconti di pena subiscono condanne minimali non solo per il reato di cui all'art. 416 bis c.p., ma anche per altri gravi reati fine, tra i quali quelli di estorsione aggravata. Per citare un solo esempio tra i tanti: in esito a un processo su una serie di estorsioni perpetrate dal 2007 al 2013 in danno del presidente di Confindustria di Trapani, uno storico esponente di vertice della famiglia mafiosa di Castellammare del Golfo, grazie al duplice sconto di pena del giudizio abbreviato e della continuazione con altri reati per i quali era stato già condannato, ha subìto una condanna di appena 3 anni e 8 mesi. Come se non bastasse, le pene così ridotte subiscono un'ulteriore decurtazione grazie all'applicazione in sede esecutiva della liberazione anticipata che prevede, anche per gli esponenti della criminalità mafiosa, lo sconto di pena di 45 giorni ogni semestre. Così in concreto i 3 anni e 8 mesi si riducono ulteriormente a poco meno di 2 anni, 7 mesi e 15 giorni. Ma, a parte tali fattori di debolezza giuridica nella risposta repressiva alla criminalità mafiosa, ai quali potrebbe porsi rimedio con una celere e mirata riformulazione delle norme vigenti in materia di reato continuato e di liberazione anticipata, a destare preoccupazione è il mutato clima sociale. La sfiducia sistemica alla quale prima accennavo, comincia a serpeggiare sottotraccia anche sul terreno della cultura antimafia (...). La recessione economica e i tagli drastici alla spesa pubblica nel mettere in ginocchio l'economia dell'isola falcidiando posti di lavoro stanno radicando nell'immaginario collettivo di molti la convinzione che la promessa di coniugare legalità e sviluppo sia stata ancora una volta tradita o sia una mera chimera. (...) Nell'assenza di risposte ai bisogni primari di sussistenza da parte del Welfare state legale, molti tornano a bussare alle porte del Welfare mafioso. Le intercettazioni ambientali effettuate in taluni procedimenti ritraggono file di questuanti che pregano i boss mafiosi dei quartieri di far loro ottenere una qualsiasi occupazione per sfamare la famiglia. Corruzione e dintorni. Tale disillusione delle attese collettive è imputabile solo in parte alle ricadute locali di fattori macroeconomici globali. E in buona misura a un grave tradimento della fiducia collettiva e delle speranze di un intero popolo perpetrato da quei settori delle classi dirigenti che hanno continuato a depredare sistematicamente le risorse pubbliche destinate a creare lavoro e sviluppo. Le relazioni delle Procure del distretto sui procedimenti per reati di corruzione, di concussione, di abuso del potere pubblico, ricompongono un quadro globale di devastante gravità per il numero dei soggetti coinvolti, per i loro ruoli apicali, per la serialità delle condotte, per la vastità e il radicamento delle reti corruttive, per l'omertà blindata che continua a coprire la pratiche corruttive, quasi superiore a quella mafiosa, per la straordinaria e ingentissima entità dei fondi pubblici depredati e distolti dalle loro finalità istituzionali. Basti considerare che in uno dei procedimenti in corso, i fondi pubblici depredati ammontano a 100 milioni di euro, e che in tanti altri processi le cifre sono di poco inferiori e, nel loro insieme, assommano a miliardi. Si tratta di una corruzione le cui ricadute macroeconomiche negative sono molto più gravi rispetto a quelle della Prima Repubblica. (...) Se in passato la corruzione poteva essere finanziata con l'innalzamento della spesa pubblica, oggi, a causa dei vincoli europei, è finanziata con i tagli lineari alla spesa sociale: 100 milioni in più alla corruzione equivalgono a 100 milioni in meno per i servizi dello Stato sociale. E a proposito di responsabilità collettive, non posso che ritornare ai guasti prodotti da un politica criminale che nell'ultimo ventennio ha sistematicamente ridotto e quasi azzerato i rischi e i costi penali per tutta la costellazione dei reati legati ai fenomeni corruttivi, creando di fatto una sorta di statuto impunitario. "Ce lo chiede l'Europa". Ciò è avvenuto e continua ad avvenire in contrasto con le direttive europee in materia. L'inderogabile esigenza di adeguarsi alle direttive europee, riassunta nella frase "Ce lo chiede l'Europa", ripetuta come un mantra quando si tratta di giustificare i tagli lineari alla spesa sociale e il depotenziamento dei diritti del lavoro, viene invece ignorata quando l'Europa ci chiede una efficace legislazione contro la corruzione. Ben 13 anni è durata l'inerzia del Parlamento prima che venisse finalmente ratificata (...) la Convenzione di Strasburgo contro la corruzione del 1999. Ed è stata necessaria la minaccia di sanzioni europee perché venisse finalmente emanata (...) una riforma dei reati contro la PA che non solo ha lasciato in buona misura irrisolti molti dei problemi preesistenti, ma anzi ha contribuito a indebolire ulteriormente la risposta repressiva sul fronte cruciale del reato di concussione per induzione prevedendo una riduzione delle pene edittali e la criminalizzazione con la pena della reclusione sino a 3 anni del concusso che denuncia il concussore. Così, mentre sul fronte antimafia si prevedono provvidenze e sostegni economici per gli imprenditori che denunciano gli estorsori mafiosi rompendo il vincolo di omertà, all'opposto sul fronte della corruzione si minacciano sanzioni penali a chi denuncia gli estorsori in guanti gialli, rafforzando il vincolo di omertà. Neanche l'incessante susseguirsi di scandali nazionali sembra sufficiente per una riforma legislativa di svolta che incida sui nodi cruciali per restituire efficacia dissuasiva all'azione repressiva. Nell'elenco dei processi che ai sensi dell'art. 132 bis delle disposizioni di attuazione del c.p.p. devono essere trattati in via prioritaria, sono previsti i processi per i reati in materia di circolazione stradale e di immigrazione, ma significativamente non quelli per i reati contro la PA. Prescrizione. I progetti di riforma in cantiere continuano a eludere i punti cruciali. In particolare per quello concernente la riforma della prescrizione, va ricordato che la Commissione europea, nella relazione del 2013 sulla corruzione in Italia, ha individuato nella disciplina normativa della prescrizione una delle principali cause dell'inefficacia del contrasto alla corruzione e ha sollecitato lo Stato italiano ad allineare tale fallimentare normativa a quella di tutti gli altri paesi europei. Non pare coerente con tale sollecitazione il progetto governativo di riforma in cantiere, che invece prevede solo il temporaneo congelamento biennale della prescrizione dopo la sentenza di primo grado e annuale dopo quella di secondo grado. Si tratta di una soluzione palesemente inadeguata ove solo si consideri che, come dimostrano i dati statistici di questo distretto e quelli nazionali, una percentuale elevatissima di prescrizioni si verifica nel segmento processuale antecedente la sentenza di primo grado a causa del decorrere dei termini di prescrizione non dalla data di accertamento del reato, ma da quello della sua consumazione (in Italia i procedimenti penali estinti per prescrizione sono stati circa l'11,4% nel 2007 e il 10,16% nel 2008, contro una media Ue nello stesso periodo che va dallo 0,1 al 2%). Eppure una soluzione rapida ed efficace sarebbe a portata di mano. Tenuto conto che oggi la corruzione costituisce una emergenza nazionale che provoca danni macroeconomici pari se non superiori a quelli della criminalità mafiosa, basterebbe estendere ai più gravi reati di corruzione lo speciale regime di prescrizione previsto dal comma 6 dell'art. 157 c.p. che contempla termini di prescrizione raddoppiati (...). Responsabilità civile. Non posso concludere senza fare cenno alla ulteriore riforma in cantiere sulla responsabilità civile dei magistrati. Si tratta di una legge ordinaria, ma di sostanza e portata costituzionale, per la sua idoneità a incidere sul delicatissimo sistema di bilanciamento dei poteri previsto dalla Costituzione, compromettendo le garanzie di indipendenza e autonomia dell'ordine giudiziario. Non può che destare viva inquietudine in chiunque abbia a cuore l'ordine democratico, che nella relazione di accompagnamento a un progetto di legge che dovrebbe limitarsi a disciplinare le forme risarcitorie previste per i cittadini che hanno subìto un danno da provvedimenti giudiziari, sia invece esplicitamente enunciato che il tema della responsabilità civile dei magistrati merita di essere riesaminato in ragione "della esigenza di un riequilibrio delle posizioni politico-istituzionali coinvolte e del superamento definitivo del conflitto ancora in corso". Spiace constatare che trovi legittimazione culturale in una sede istituzionale (...) la falsificazione storico-concettuale secondo cui le condanne definitive per corruzione e accertati rapporti collusivi tra mafia ed esponenti del mondo politico, siano state non doverosa applicazione della legge, ma capitoli di un asserito conflitto tra ordine giudiziario e politica (...). Viene da chiedersi dove e tra chi si starebbe svolgendo tale asserito conflitto. A noi risulta che nel Paese non vi sia alcun conflitto in corso, ma siano in corso solo doverose inchieste penali su scandali corruttivi come la vicenda Expo di Milano, il Mose di Venezia, Mafia Capitale a Roma, e ancora processi da Milano a Palermo sulle collusioni tra colletti bianchi e mafia; inchieste e processi anche su personaggi che, sebbene già condannati in passato per fatti analoghi, hanno avuto la possibilità di continuare a delinquere come e più di prima perché rimasti pienamente inseriti in un mondo politico che non ha mai ritenuto di doverli emarginare. Il cavallo di Troia. Se questo è l'animus del legislatore o quantomeno di larghe componenti del mondo politico, resta forte il pericolo che, come ha evidenziato il Csm nella suo parere al disegno di legge, tale riforma possa divenire un occulto cavallo di Troia per ridisegnare gli equilibri costituzionali mediante la costruzione di una trama normativa che nelle pieghe di sofisticate tecnicalità giuridiche, incomprensibili alla pubblica opinione, metta nelle mani dei poteri forti, tra i quali anche quelli criminali, obliqui strumenti di condizionamento dell'indipendenza dei magistrati. Non resta che fare appello e affidamento al senso di responsabilità collettivo e istituzionale. Compromettere oggi l'indipendenza e l'autonomia dell'ordine giudiziario rivelatosi alla luce della lezione della storia come il più efficace, se non l'unico anticorpo, contro il dilagare pervasivo dell'illegalità, dell'uso distorto del potere pubblico, come ultima spiaggia per la difesa dei diritti, non sarebbe solo un vulnus inferto allo Stato democratico di diritto, ma una ferita forse mortale inferta nel corpo vivo della Nazione. Giustizia: serve una riforma dell'intero sistema, non riformicole che non risolvono nulla di Serena Gana Cavallo Italia Oggi, 27 gennaio 2015 Si inaugura l'Anno giudiziario e la processione di mantelli rossi richiama alla mente la Santa inquisizione e pone alla logica la domanda sul perché in un Paese che non ha più tradizioni i magistrati ancora continuino a mettersi in maschera. A Milano, con tutto quel che è successo in Procura, si parla di mafia. A Roma, con tutto quel che è successo, si parla del calcio. A Torino, per non restar da meno, si parla di corruzione (argomento peraltro comune) e di quanto è duro il lavoro in miniera e nelle aule giudiziarie. Il giorno che un Procuratore esordisse parlando di corruzione nella Magistratura sarebbe un giorno che potrebbe ridare speranza al Paese. Nei giorni scorsi la Corte di Cassazione ha condannato in via definitiva alla incredibile pena di 6 anni e due mesi un (ex) magistrato in servizio dal 1994 al 2002 alla sezione fallimentare del tribunale di Firenze. Il tribunale di Genova lo aveva condannato a 15 anni, ma, come dicono i legulei, "nelle more" le 51 imputazioni sono finite in gran parte in prescrizione, per poche è stato addirittura assolto. Nelle (rarissime) notizie di stampa si evidenzia come, da solerte cittadino, non abbia atteso l'ordine di cattura a casa ma si sia costituito, facendosi accompagnare al carcere femminile di Ponte Decimo, dove vi sono anche alcune celle per uomini. Comprensibile che un ex magistrato non voglia trovarsi in mezzo a quelli che, probabilmente in numero non irrilevante, si sono trovati a subire episodi di malagiustizia, ma stupefacente che un uomo, un giudice corrotto, alla fi ne condannato solo per un falso e bancarotta aggravata di una ditta, che ha tra l'altro avuto un condono di 3 anni, debba in definitiva scontare solo una pena di 3 anni e due mesi, per cui a breve avrà diritto ai domiciliari con affidamento ai servizi sociali. È evidente a tutti che la pena che sta scontando Fabrizio Corona è, dimostratamente, del tutto indecente. Da notare che lo scandalo emerse nel 2002 dopo il suicidio di un commercialista che fece venire alla luce un "sistema" per il quale i professionisti incaricati dal giudice dovevano cedergli parte dei compensi. Lo stile di vita del magistrato era tale che tra il 1995 e il 2002 risulta aver speso un miliardo e 833 milioni, avendo guadagnato legalmente circa 790 milioni ed avendo risparmi per 500 milioni di euro. Naturalmente i giudici genovesi erano anche abbastanza convinti che avesse conti all'estero, intestati a sé o alla compagna, ma purtroppo, cerca cerca, non hanno trovato niente. Nei giorni scorsi si è parlato su queste pagine di una eccessiva timidezza nel progetto di riforma presentato dal Governo. Il punto è che non serve una riforma (riformina) della Giustizia che tolga un po' di ferie (soldi mai perché la Corte costituzionale si è affrettata a dichiarare il taglio delle retribuzioni inammissibile perché è risaputo, lo insegna Orwell, che alcuni sono più uguali degli altri), che depenalizzi un po' di reati (scelti in maniera raffazzonata) e che proponga la mediazione come ricetta per velocizzare le pendenze civili. Serve una riforma dell'intero sistema giudiziario. Serve la separazione delle carriere. Serve una vera responsabilità civile dei magistrati. Serve abolire il totem dell'"ordine di autogoverno" perché questo non funziona, la casta non si tocca, è saldamente compatta. Inutile chiedersi come un magistrato abbia potuto lucrare e truffare per sette anni senza che i suoi superiori ne avessero nemmeno il vago sospetto. O sono degli incapaci o, come è molto più probabile, "cane non morde cane". D'altronde una storia del tutto analoga è venuta alla luce, dopo decenni, anche per il tribunale fallimentare di Roma. Ma quello che serve soprattutto è qualcuno che faccia veramente il ministro della Giustizia e ponga mano ad una totale riscrittura dei codici normativi e procedurali, tolga spazio ai cavilli su cui, nell'interesse anche degli avvocati, i procedimenti si contorcono per anni. Servirebbe che la Corte di Cassazione non continuasse a produrre sentenze che "fanno diritto" e rovescio, come abbiamo scritto tempo fa. Tanto più che noi non abbiamo purtroppo un diritto di "Common Law" come i più felici Paesi anglosassoni, dove i processi sono veloci, dove le truffe, quando scoperte, vengono immediatamente sanzionate, dove, non sempre, ma nei procedimenti penali si scopre il colpevole in tribunale, non sulle pagine dei giornali o nelle televisioni o nelle interviste, con dibattiti e dibattimenti pluriennali, sempre lasciando una forte ombra di dubbio. Da noi abbiamo i codici e se è necessario interpretarli o scriverli meno ambiguamente dovrebbe essere il legislatore a farlo. (certo che poi ognuno ha il legislatore che si merita e in particolare i burocrati che ci meritiamo) C'è un gruppo su internet, che si chiama "Comitato spontaneo cittadini contro la malagiustizia". Non sempre la scrittura è perfetta, ma leggere quanto pubblica sarebbe molto istruttivo per il Signor Ministro che sembra ritenere che bisogni fare solo qualche ritocchino, un maquillage, un po' di cipria e fard, così non si vedono le rughe. Qualche volta le rughe sono piaghe. Giustizia: i penalisti sgridano Renzi "si fa dettare l'agenda dalla cronaca giudiziaria…" di Chiara Rizzo Tempi, 27 gennaio 2015 La prova? Gli annunci sulla prescrizione dopo il caso Eternit e sulla corruzione dopo Mafia capitale. Intervista al presidente delle Camere penali Beniamino Migliucci, che cita Beccaria e ne ha anche per il sindaco Marino e per il commissario Cantone. Casale Monferrato assemblea cittadina presso la Sala Tartara. "Duecento cinquanta anni fa Cesare Beccaria ammoniva: "Una sorgente di errori e d'ingiustizie sono le false idee d'utilità che si formano i legislatori". Queste false idee "si chiaman leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione degl'inconvenienti". Si appella all'autore del Dei delitti e delle pene Beniamino Migliucci per spiegare a tempi.it la sua preoccupazione in merito alla riforma della giustizia. Da presidente delle Camere penali italiane, l'organo che rappresenta i penalisti del nostro paese, Migliucci ha severamente ammonito l'esecutivo Renzi, ricordando che "l'agenda del governo non dovrebbe essere dettata dalla cronaca giudiziaria e le scelte legislative non orientate ad ottenere facili consensi o placare lo sdegno dell'opinione pubblica determinato da questo o quel procedimento". Avvocato Migliucci, perché questo monito al governo? "A noi penalisti sembrava che le direttrici su cui si muoveva il ministro della Giustizia Andrea Orlando fossero diverse dal passato, perché basate sul confronto, come Orlando stesso ha ribadito nella sua relazione annuale al Parlamento. In realtà abbiamo rilevato che in due grossi casi penali, il processo Eternit e l'inchiesta Mafia capitale, c'è stata un'inversione di tendenza. Il metodo, dal dialogo, è diventato l'emergenza del momento". Lei recentemente ha dichiarato: "Dopo la sentenza Eternit - si è fatto nuovamente largo, prepotentemente, il populismo in materia giudiziaria". Prova ne sarebbe, secondo lei, il fatto che la Cassazione, all'indomani della sentenza e prima di depositare le motivazioni, "ha dovuto spiegare la propria decisione con un comunicato, il che è segno dei tempi e costituisce grave anomalia"; ma anche che subito "il governo si è affrettato a comunicare che la prescrizione andava riformata, senza considerare che l'esito di quel processo non era stato affatto determinato dall'inadeguatezza dell'istituto della prescrizione". Vuole spiegarsi? "Anche l'ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick ha fatto notare che il punto non è la prescrizione. In qualsiasi paese civile un processo non può certo durare all'infinito. Il problema di quella vicenda (e non solo) se mai è che nel nostro paese manca il reato ambientale. E che in base alla contestazione fatta dall'accusa (disastro colposo innominato, che non è un disastro ambientale vero e proprio) il reato risultava prescritto già dal primo grado di giudizio. La procura di Torino aveva ritenuto di non contestare il reato di omicidio: è stata una scelta, ma ciò non toglie che il baco della sentenza non è la prescrizione. Bisogna far notare ai cittadini che i processi senza fine costituiscono un disastro e un'ingiustizia sia per chi è imputato, sia per le vittime del presunto reato. Non si può ragionare dicendo, come fa l'Anm, che la prescrizione dovrebbe interrompersi all'apertura di un'indagine: avremmo soltanto dei processi eterni e ciò non è interesse di nessuno, nemmeno delle persone offese". Roma, sciopero dei vigili urbani contro il comandante Clemente voi penalisti fate notare che il 70 per cento delle prescrizioni matura in fase di indagine preliminare. Il governo propone allora di sospenderla dopo la sentenza di primo e secondo grado, l'Anm invece all'avvio dell'azione penale. Vi piacciono queste proposte? "Il problema è anzitutto l'obbligatorietà dell'azione penale, perché oggi si fanno troppi processi inutili, anche per reati bagatellari. Per ridurre il rischio prescrizioni, a nostro avviso occorre anzitutto non celebrare processi inutili. Per alcuni reati minori si può pensare alla depenalizzazione. È un bene che il governo si stia muovendo proprio in questa direzione riguardo ai reati per cui sono previsti fino a 5 anni di pena e che non destano particolare allarme. Altro aspetto fondamentale è rendere certi i tempi delle indagini: in Italia le inchieste non finiscono mai. Un pubblico ministero può chiedere proroghe ogni sei mesi e, senza alcun reale controllo da parte del giudice terzo, di solito esse vengono concesse quasi in automatico. Poi, quando finiscono le indagini, ci sono tempi morti molto lunghi: per noi occorre "contingentarli", dando termini e prevedendo sanzioni perentorie. Ancora: si rendano appetibili i riti alternativi, come il patteggiamento e il rito abbreviato, per evitare che si arrivi al processo inutilmente. Senza dimenticare, infine, le cause organizzative. Anche le carenze di cancellieri, gli errori di notifica, incidono sui tempi. Su tutti questi temi chiediamo che si intervenga con un disegno di legge, e non in nome della singola emergenza. Un paese liberale e democratico deve lavorare soprattutto per rendere ragionevolmente breve un processo, secondo l'articolo 111 della Costituzione, in modo da garantire anche pene ragionevolmente certe". Dopo lo scandalo "Mafia capitale", il governo vuole accelerare l'approvazione delle norme anti-corruzione. Il guardasigilli, nella relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, ha preannunciato che verrà innalzata la pena (da 8 a 10 anni) e saranno introdotte confische. Che ne pensa? "La prova più evidente e solare che l'aumento delle pene non serve a combattere la corruzione è che già la legge Severino ha previsto l'aumento delle condanne, due anni fa. È evidente che questo non serve in sé: è solo un segnale simbolico per l'opinione pubblica. Adesso il governo aggiunge che se si vuole patteggiare occorre restituire il maltolto: ma questo è possibile già adesso, solo che spesso sono il pm o il gip a non dare il consenso. Anche qui, credo che si tratti di annuncio populista. Occorre piuttosto una cultura diffusa della legalità, controlli più attenti e una semplificazione delle norme tale per cui il cittadino non abbia più bisogno di chiedere "aiuti" o "aggiustamenti" quando non sa come muoversi". A Repubblica il presidente dell'Autority anti-corruzione Raffaele Cantone ha dichiarato che dal governo "sono state fatte cose importanti" e cioè "è stato rafforzato il potere del mio ufficio in modo significativo". Vuole commentare? "Noi penalisti ci siamo sempre espressi con perplessità. Siamo sempre perplessi di fronte all'accentrarsi di cariche e poteri su un solo uomo. Il tema della trasparenza deve essere assolutamente recuperato dalla politica. Di recente, dopo l'inchiesta Mafia capitale, a Roma è diventato assessore alla legalità e alla trasparenza il magistrato Sabella: ebbene, ciò non fa che confermare la tendenza da parte della politica di delegare alla magistratura le azioni di presunta trasparenza. La politica non ha altri antidoti per respingere la corruzione? Nel momento in cui si chiede a un magistrato di fare l'assessore, si dà solo una prova straordinaria di debolezza e si concede alla magistratura un potere che non le spetta. Se i magistrati chiedessero a un politico di controllarli, sobbalzeremmo sulla sedia". Giustizia: anno giudiziario; che cosa ha detto il magistrato di Bologna oscurato dai media di Giorgio Ponziano Italia Oggi, 27 gennaio 2015 Inaugurazione dell'anno giudiziario al calor bianco, a Bologna. Uno scontro così frontale tra magistratura e governo, scontro peraltro oscurato dai media, probabilmente ancora non si era mai visto. Il presidente della Corte d'appello, Giuliano Lucentini, ha attaccato a testa bassa il premier Matteo Renzi, provocando la reazione sdegnata del ministro dell'Ambiente, Gianluca Galletti, che si è alzato (era in prima fila) e se n'è andato in segno di protesta. I sassi lanciati da Lucentini? Contro le ferie tagliate, gli stipendi bloccati e le annunciate riforme del Csm e della giustizia senza trattativa coi magistrati. Un attacco così veemente a un presidente del consiglio e al suo governo non si era mai ascoltato nelle austere e paludate inaugurazioni dell'anno giudiziario. A Matteo Renzi & Co le hanno cantate, nei giorni scorsi, i presidenti delle Corti d'appello di mezza Italia ma a Bologna è andato in scena uno strappo istituzionale senza precedenti, col rappresentante del governo, il ministro (bolognese) all'Ambiente, Gianluca Galletti, che si è alzato (era in prima fila in uno dei posti d'onore, come prescrive il protocollo) e se n'è andato in segno di protesta verso le parole pronunciate nel suo discorso ufficiale dal presidente della Corte d'appello, Giuliano Lucentini. Altro che sassolini nella scarpa. Qui sono stati lanciati massi di granito. Le ferie tagliate, gli stipendi (più o meno) bloccati, le annunciate riforme del Csm e della giustizia senza trattativa coi magistrati: quanto basta per indurre i giudici ad accendere una miccia sotto la poltrona di Renzi. Tanto che il suo rappresentante, appunto Galletti, non ha nascosto l'ira. Anche perché il presidente è stato chiaro: prima avevamo contro Silvio Berlusconi, adesso abbiamo contro Renzi. Cambia il colore del premier, non muta l'assalto ai magistrati. Il che, in pieno patto del Nazareno, ha fatto una certa impressione, con una parte degli invitati a quella che solitamente era un'inaugurazione di routine che hanno sgranato gli occhi e si sono dati di gomito: avevano davvero sentito bene? Anche perché Giuliano Lucentini (ex presidente di sezione della Corte d'appello di Firenze, nominato nel 2007dal plenum del Csm presidente della Corte d'appello di Bologna) non aveva mai, finora, fatto parlare di sé, agli antipodi dal cliché del magistrato interventista e sovraesposto. La sorpresa è quindi stata maggiore quando ha scandito: "Avevo pensato che finito un certo periodo di tempo, le cose potessero cambiare. Certo, non siamo più additati come disturbati mentali, non si dice più che taluni di noi, quelli impegnati in ben noti processi, sono mafiosi, criminali, irresponsabili. Peraltro, tali epiteti non ci toccavano più di tanto, perché per la loro grossolanità si sconfessavano da sé". E invece, afferma il presidente della Corte d'appello: "Mi sbagliavo perché le cose sono sostanzialmente rimaste quelle di prima. Quello che è cambiato è solo il metodo, che è diventato mediaticamente più sottile e dunque di maggiore suggestività". E ancora: "Mi fu detto tempo addietro che sul sito web del governo era scritto che, se la giustizia era lenta, era conseguenza diretta delle ferie troppo lunghe dei magistrati. Mi sembrò incredibile e volli verificare di persona. Con mia enorme sorpresa constatai che, effettivamente, sul sito governativo "Passo dopo passo", recentemente istituito, vi era la testuale scritta: "Meno ferie dei magistrati: giustizia più veloce". Si tratta di uno sconsolante accostamento delle due proposizioni". In verità il presidente della Corte d'appello anche lo scorso anno aveva accennato al difficile dialogo con la politica, ma i toni erano stati meno perentori pur se la fustigazione era stata, anche in quell'occasione, esplicita: "Per buona parte della gente comune, anche sull'onda di interessate campagne mediatiche, se la giustizia civile e penale non funziona, la colpa è dei giudici, in quanto inefficienti e indolenti, se non addirittura fannulloni. La politica, che pur sa bene come stanno le cose, e comunque dovrebbe saperlo, ha sempre taciuto per ovvie ragioni di convenienza". "Fino a vent'anni fa", aveva aggiunto Lucentini, "se un qualche personaggio di rilievo pubblico subiva una condanna penale, la prima cosa che sentiva di dover pubblicamente comunicare era il senso del suo più totale rispetto per il giudice e la sua decisione: la quale però, di norma aggiungeva, non toglieva che lui fosse innocente, la qual cosa sarebbe stata accertata nei successivi gradi di giudizio. Ipocrisia? Può darsi, ma comunque un pur formale rispetto era, allora, alla base di ogni rapporto. Ora invece arrivano soltanto ingiurie e attacchi ai giudici, considerati "mafiosi" o appartenenti alle "toghe rosse". Quest'anno ha ripreso il tema, e riempito il cannone di munizioni. Così Lucentini spara a zero su Renzi ricordando scandalizzato che "a settembre, quando l'Associazione nazionale magistrati preannunciava uno sciopero, uscì pubblicamente con un "Brrr… che paura", una frase irrispettosa". Poi il magistrato insiste, per chi eventualmente non ha voluto capire: "Non voglio pensare che la politica, per farsi bella, non volendo o non potendo metter mano a una seria riforma della giustizia, debba ricorrere a mezzucci di tal genere. Che per le istituzioni possono essere mortali". Gianluca Galletti, che pur è un politico casiniano di lungo corso, è scandalizzato e mentre se ne va, commenta coi giornalisti: "Ho trovato la situazione imbarazzante. Ero qui per ascoltare, non voglio commentare, non è il momento di fare polemiche. Le riforme sono il punto forte del nostro governo, ci sono molte resistenze, ma andiamo avanti comunque". Ma per Lucentini è sbagliato sottovalutare il pericolo "che corre il Paese se i suoi giudici sono delegittimati". Quindi l'errore di Renzi verso il mondo giudiziario è assai grave, tanto più che ci sono encomi verso il lavoro dei magistrati: "Vi è il giudizio positivo arrivato dalla Commissione europea per l'efficacia della giustizia (Cepej) sulla produttività dei giudici italiani oltre a quanto detto dal capo dipartimento dell'organizzazione giudiziaria del ministero della Giustizia che ha riconosciuto l'assoluta laboriosità dei magistrati italiani. Voglio solo pensare, anche se mi è diffi cile, che nemmeno il capo del governo conoscesse né quanto aveva detto il capo dipartimento di un suo dicastero né quanto aveva rilevato la Cepej". Non solo. La bocciatura di Renzi è totale: "il concetto che sta alla base è stato di recente ribadito dal capo del governo, allorché ha pubblicamente detto che preferiva ai magistrati che facevano comunicati quelli che facevano sentenze. Che è quanto dire, in sostanza, che i magistrati pensassero a fare meno chiacchiere e a lavorare di più". Pollice giù anche sull'azione di governo: "In settembre è stato pubblicato il decreto sulle misure urgenti per la degiurisdizionalizzazione e il taglio dell'arretrato in materia civile dice il presidente della Corte d'appello. Un illustre studioso della materia nel commentarlo ha scritto: Tristi notizie per la giustizia, tanto rumore per nulla, o quasi". Un j'accuse in piena regola, con l'equilibrio istituzionale che vacilla. Tra il sistema giudiziario e l'organo esecutivo si è prodotta a Bologna, ma è solo la punta dell'iceberg, una frattura dirompente. Mentre il ministro sbatte la porta, Renzi risponde per le rime: "Di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo. Mi dispiace molto perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo - e lo dico, senza giri di parole - che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: "il premier ci vuol far crepare di lavoro". La crisi è aperta. Un nuovo fronte per Renzi, che si aggiunge alla legge elettorale, a quella costituzionale, al voto per il nuovo capo dello Stato, alle tante riforme che non riescono a decollare. Tra i litiganti a rimetterci sono i cittadini, che non riescono ad avere giustizia: a Bologna ogni giorno in Appello vengono decise quattro prescrizioni, nel 2014 in secondo grado, in Emilia-Romagna, le sentenze di prescrizione sono state 1.524, il 23,6%. È giustizia questa? Giustizia: intervista a Giovanni Legnini (Csm) "La magistratura recuperi autorevolezza" di Giovanni Minoli Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2015 Onorevole Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm, dichiarazioni violentissime quelle che abbiamo sentito. Siamo di nuovo alla guerra tra politica e magistratura? "Spero proprio di no. La giustizia italiana di tutto ha bisogno fuorché di una nuova stagione di scontro, che rischia di distogliere i decisori politici ma anche la magistratura, gli operatori del diritto e i cittadini, dai problemi veri". Come fa un cittadino normale a sentirsi garantito da una giustizia così conflittuale al suo interno? "Infatti occorre recuperare urgentemente quell'autorevolezza, quel prestigio della magistratura, con fatti e comportamenti concreti, e con politiche che pongano il tema giustizia finalmente tra le grandi priorità nazionali". Onorevole, mentre tutte le categorie pubbliche hanno il blocco degli scatti di stipendio solo i magistrati no; è giusto? "Anche per i magistrati ci fu il blocco degli stipendi, a seguito del ricorso ci fu un pronunciamento della Corte Costituzionale qualche anno fa, che dichiarò illegittimo quel blocco. Dopodiché io penso che è ingiusto anche per le altre categorie professionali, nel pubblico. Per i magistrati tutto si può dire fuorché che siano privilegiati sotto il profilo economico". L'eccesso di visibilità dei Pm a lungo andare ha creato protagonismi ingestibili? "Che si siano provocati fenomeni di eccesso di visibilità è fuori discussione. Dopodiché c'è un grande tema: quello del rapporto tra la comunicazione e l'amministrazione della giustizia, che è molto importante". Nel mondo dominato dai mass media, mi sembra quasi una priorità. "Assolutamente. Io penso che bisogna arrivare, e noi avvieremo un lavoro nelle prossime settimane, a una sorta di protocollo di comportamento". Vincolante per tutti? "Io penso che bisognerà arrivare a una condivisa autoregolamentazione". Di fronte ai 5 milioni e mezzo di pratiche inevase nei processi civili, è stato un errore iniziare la riforma da lì, come ha fatto il governo, oppure era una necessità? "Era ed è una necessità. Il processo civile per troppo tempo è stato considerato una Cenerentola, e invece è l'aspetto dell'amministrazione, dell'esercizio dell'attività giurisdizionale che impatta di più sui cittadini". Il procuratore Maddalena, a proposito del taglio delle ferie voluto dal governo, ha detto testualmente che "Renzi vuol far crepare di fatica i magistrati come il maiale Napoleone della fattoria di Orwell". Lei come giudica questa dichiarazione? "La giudico sbagliata, perché questo tema delle ferie è stato enfatizzato. È noto che quei 15 giorni in più sono serviti, servono ai magistrati, come agli avvocati, per smaltire il lavoro pregresso, per completare gli adempimenti, per depositare le sentenze. Dopodiché il legislatore ha deciso. Si può giudicare più o meno giusta quella decisione, ma il legislatore ha deciso. Continuare a parlare di ferie significa produrre una situazione di sviamento dai reali problemi della giustizia". Infatti il premier Renzi ha commentato: "Accusarci di far crepare magistrati per una settimana di ferie in meno o è un disegno o significa che i magistrati hanno perso il contatto con gli italiani che lavorano". Quindi la guerra è una guerra veramente alzo zero. "Guardi noi eviteremo che questa guerra continui a combattersi, perché non serve ai cittadini. Il Parlamento ha deciso che i giorni di ferie effettivi devono essere 30. Punto. Dopo di che è giusto che i magistrati critichino ma bisogna rispettare quella norma". A proposito degli organici, il ministro Madia propone di assegnare una quota dei 20mila esuberi delle province ai tribunali. Una strada semplice e chiara. È giusto secondo lei? "Secondo me è giusto e io stesso l'ho sollecitata. Il ministro Madia va nella giusta direzione, ma anche qui, non bisogna solo dirlo ma bisogna farlo. E ricordo anche che negli uffici giudiziari italiani lavorano circa 2mila precari che non si sa che fine faranno e bisogna decidere anche sulla sorte di questi lavoratori". Giustizia: ferie magistrati intoccabili, al Csm passa la tesi dell'Anm. Renzi ricorre al Tar di Errico Novi Il Garantista, 27 gennaio 2015 Poteva scegliere tra due indicazioni, il Csm. La prima l'aveva proposta l'Associazione nazionale magistrati: secondo il parere tecnico - e ovviamente non vincolante - del sindacato delle toghe, il taglio delle ferie dei giudici da 46 a 31 giorni riguarderebbe solo la magistratura fuori ruolo. Secondo questa lettura dunque nulla dovrebbe cambiare per tutti coloro esercitano effettivamente la funzione giurisdizionale. Nulla di vincolante. Palazzo dei Marescialli avrebbe d'altronde avuto modo di sottoporre il dilemma al proprio Ufficio Studi. Così ha fatto (come riferito con tutti i dettagli tecnici nell'altro servizio di questa pagina, ndr), e ha raggiunto una conclusione opposta: la norma sulle vacanze di giudici e pm, contenuta nel decreto sul processo civile, va estesa a tutti; non riguarda solo i colleghi in distacco presso ministeri o altre amministrazioni, vale per qualsiasi magistrato. Gli esperti in servizio presso il Csm lo hanno sostenuto in un documento di ben 18 pagine, consegnato il 19 dicembre. Bene: tra le due, il Consiglio è orientato a optare per la prima versione. Quella secondo cui i giorni di vacanza restano 45. Quella prodotta dal sindacato dei giudici. La dotta disquisizione dell'Ufficio Studi resterà un mero esercizio di erudizione. La Settima Commissione si prepara a votare a netta maggioranza la proposta di documento avanzata dal consigliere Antonello Ardituro. Un consigliere togato. Cioè un magistrato pure lui. L'Organo di autogoverno dei giudici, che dovrebbe rappresentare l'autonomia, l'indipendenza ma anche la credibilità della magistratura, sposa una tesi sindacale e mette da parte quella dei propri tecnici. Deciderà il plenum. Se davvero approverà un documento con efficacia regolamentare che di fatto vanificherebbe il decreto governativo, si aprirà un pesante scontro istituzionale. A quel punto il ministro della Giustizia, più che sollevare il conflitto dinanzi alla Consulta, ricorrerà al Tar. La magistratura rischia di apparire come una corporazione che difende con le unghie e con i denti 15 giorni di vacanza in più. Ieri il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, un politico, ha dato torto al pg di Torino Maddalena rispetto alla polemica sulle ferie con Renzi: "È sbagliata, si può anche ritenere che quei 15 giorni in più sono usati dai giudici per completare gli adempimenti, ma ormai il legislatore ha deciso". Poi ha aggiunto: "Occorre urgentemente recuperare l'autorevolezza e il prestigio della magistratura con fatti e comportamenti concreti". Il plenum, col voto sulle ferie, sta per smentire in modo clamoroso il suo vertice. Giustizia: comunicato di Psichiatria Democratica "Chiudere presto e bene gli Opg" Ristretti Orizzonti, 27 gennaio 2015 Mentre si avvicina sempre più la data per la chiusura definitiva degli attuali Opg - 31 marzo 2015 - nonostante l'ottimismo esternato dal Sottosegretario De Filippo sulla concreta possibilità di rispettarla, i segnali che giungono dalle Regioni destano allarme e giustificate preoccupazioni. Appare evidente che il programma di ridimensionamento delle Rems, annunciato nel seminario al Senato, nel novembre scorso, sta scontando dei ritardi nella sua attuazione e le Regioni cominciano ad avanzare dubbi sulla possibilità di attivare le nuove soluzioni residenziali, per quanto "provvisorie", entro i termini di legge (si veda la denuncia di Psichiatria Democratica per quanto riguarda la Toscana ma anche il Veneto sembra essere in ritardo e in Emilia Romagna l'attivazione delle Rems provvisorie sembra incontrare difficoltà, specie con i familiari dei pazienti che dovrebbero lasciare il posto agli ex internati). Non mancano inoltre segnali diversamente allarmanti e assai gravi, come la decisione della Sicilia di attivare la Rems nell'area del vecchio Opg di Barcellona Pozzo di Gotto: è evidente che una simile soluzione va respinta con forza non rispondendo certamente allo spirito della legge 81, non realizzando una reale territorializzazione ma una continuazione, sotto altro nome, del vecchio internamento (stesso luogo, stessi reparti per quanto ammodernati) come pure non è accettabile la soluzione adottata in Lombardia che prevede più moduli accorpati, anche qui, nell'opg di Castiglione delle Stiviere. Psichiatria Democratica ritiene che si debbano rifiutare queste scorciatoie per un formalistico rispetto del termine di chiusura e ribadisce che solamente l'attuazione di veri programmi individualizzati di presa in carico territoriale degli attuali internati dichiarati dimissibili (la grande maggioranza dei presenti secondo le stesse stime ministeriali) possono conseguire l'obbiettivo della legge; solo in questo modo, insieme ad un atteggiamento proattivo dei Servizi e della Magistratura di sorveglianza per prevenire i nuovi invii in misura di sicurezza detentiva, si ridurrà il numero di posti letto nelle Rems facilitandone la realizzazione e, se ancora il termine per la chiusura non dovesse essere rispettato si ricorra, come prevede la legge, al commissariamento delle Regioni inadempienti. Giustizia: caso Yara; il perito della Procura "ribalta" il Dna, ora Bossetti potrebbe uscire di Davide Milosa Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2015 Il campione di Ignoto 1, almeno per metà, non corrisponde all'arrestato. Se la scienza ha portato in carcere Massimo Giuseppe Bossetti con l'accusa di essere l'assassino di Yara Gambirasio, ora sempre la scienza rischia di rimetterlo in libertà sollevando ragionevoli dubbi sull'esistenza dei gravi indizi e, dunque, sul fatto che il 44enne muratore di Mapello la sera del 26 novembre 2010 non rapì e non uccise la 13enne di Brembate, ritrovata cadavere nei campi di Chignolo d'Isola il 26 febbraio del 2011. La svolta clamorosa, infatti, sta nelle oltre cento pagine con cui il perito della Procura di Bergamo ha rianalizzato e confrontato la prova regina di tutta questa inchiesta, vale a dire le tracce ematiche trovate sugli slip tagliati della ragazza. Si tratta, è sempre stato detto, di una sostanza mista, ovvero un mix di Dna della vittima e di quello del killer, che fino al 16 giugno 2014 era identificato come Ignoto 1 e che da allora ha preso il nome e il volto di Bossetti, sposato con tre figli. Incastrato, hanno raccontato gli atti dell'inchiesta, dopo un controllo causale con l'alcol test e dopo aver capito che Ester Arzufi aveva avuto un figlio illegittimo con l'autista di Gorno Giuseppe Guerinoni. In quel momento il Dna estratto fa il "match" con quello di Ignoto 1. Questi i fatti, fino a poche settimane fa, quando il ricercatore dell'università di Pavia Carlo Previderè deposita la sua perizia. E qui iniziano i problemi, per la procura in futuro e d'interpretazione in generale. Secondo quanto ricostruito, infatti, la parte mitocondriale, legata al ceppo materno, di Ignoto 1 non corrisponde in alcun modo a quella dello stesso Bossetti. Il punto è certamente a favore della difesa. Va detto, però, che la cellula di Dna è composta anche da una parte nucleare che fissa il ceppo paterno e che, al contrario, corrisponde a Massimo Giuseppe Bossetti. La svolta, dunque, se c'è potrebbe non essere decisiva per la conclusione del processo, ma certamente fondamentale per la richiesta, già annunciata dall'avvocato Claudio Salvagni, di scarcerazione del suo assistito. Tanto più che oltre all'anomalia clamorosa della non coincidenza della parte mitocondriale, dalla relazione del perito escono totalmente ribaltati i rapporti quantitativi tra il Dna di Yara e del presunto killer. Nella perizia, infatti, si sottolinea come sulla traccia catalogata 31G20 prevalga decisamente il Dna di Yara rispetto a quello di Ignoto 1. E ancora: secondo quanto ricostruito dal rapporto, gli esperti hanno dovuto rifare, dal punto di vista genetico, la traccia trovata sugli slip di Yara e questo perché "i campioni risultano essere esauriti". Insomma, a questo punto dell'inchiesta, che va ricordato resta ancora nella sua fase preliminare (la Procura ha tempo fino al prossimo 16 giugno), i dubbi aumentano esponenzialmente. E non solo sul Dna. La relazione, infatti, spiega che dall'analisi dei peli trovati attorno e sul corpo della ragazza emergono almeno due profili genetici identici ma ad ora sconosciuti e non certo corrispondenti ad Ignoto 1. E del resto è fatto accertato che il Dna di Bossetti non compaia sul cosiddetto "cuscino di peli" repertato attorno al corpo della vittima. Non solo: le analisi del Ris di Parma hanno escluso presenza di Dna di Yara nel camion Iveco cassonato dello stesso muratore di Mapello. A questo, infine, va aggiunto il ragionamento del tribunale del Riesame di Brescia che nell'ottobre 2014 ha respinto la richiesta di scarcerazione di Bossetti. In quel frangente i giudici hanno considerato come vera e unica prova il Dna, mentre tutti gli altri indizi (compresi i filmati del furgone di Bossetti attorno a casa Gambirasio) sono stati definiti "dati neutrali" perché "potrebbero aver valore per ricostruire la dinamica degli eventi ma sono poco significativi per istituire una relazione univoca con Bossetti solo perché lavora come muratore". A sette mesi dall'arresto dell'operaio di Mapello, buona parte del castello dell'accusa sembra seriamente vacillare. Tanto più, e questo è agli atti dell'inchiesta, che sul corpo di Yara Gambirasio sono stati trovati molti profili genetici diversi da quelli di Ignoto 1. Tracce che ora potrebbero aprire scenari inediti. Giustizia: Tribunale Sorveglianza Milano chiede perizia psichiatrica per Fabrizio Corona di Igor Greganti Ansa, 27 gennaio 2015 È necessaria una perizia psichiatrica per valutare le condizioni di salute di Fabrizio Corona, l'ex ‘re dei paparazzi' in carcere da circa due anni e che, come viene spiegato in una consulenza tecnica depositata dai suoi difensori, soffre di stati d'ansia, psicosi, depressione e attacchi di panico. Lo ha stabilito il Tribunale di Sorveglianza di Milano che ha tenuto conto proprio di quella relazione firmata da uno psichiatra e allegata all'istanza di detenzione domiciliare presentata dagli avvocati Ivano Chiesa e Antonella Calcaterra. "Questa decisione - ha spiegato l'avvocato Chiesa - è una buona notizia, perché vuol dire che i giudici hanno valutato la nostra consulenza tecnica e vogliono approfondire la questione, verificando quali siano le condizioni di Fabrizio". I magistrati della Sorveglianza (presidente Marina Corti, relatore Beatrice Crosti), infatti, hanno ordinato che venga effettuata una "perizia psichiatrica" sull'ex agente fotografico, dopo che "in particolare", come si legge nel provvedimento, i difensori di Corona hanno depositato una consulenza, redatta dallo psichiatra Riccardo Pettorossi, nella quale si parla delle sue condizioni di "sofferenza" psichica. Consulenza su cui è basata l'istanza di detenzione domiciliare: i legali chiedono, infatti, che l'ex fotografo dei vip possa uscire dal carcere di Opera e andare in regime detentivo in una comunità (la Fondazione Exodus di Don Mazzi ha già dato la sua disponibilità). "Sto male, ho seri problemi psicologici e vi chiedo di darmi un'opportunità", aveva detto Corona, rivolto ai giudici, nell'udienza di giovedì scorso nella quale si è discussa l'istanza. Il sostituto pg Giulio Benedetti, però, si era opposto alla richiesta di domiciliari e oggi il Tribunale ha deciso di disporre un accertamento tecnico d'ufficio per poi stabilire, proprio sulla base della perizia, se fare uscire o meno l'ex fotografo dei vip dal carcere di Opera. I giudici hanno fissato un'udienza per il prossimo 11 febbraio nel corso della quale verranno nominati i periti (medici e psichiatri) che dovranno condurre gli accertamenti sullo stato psichico e psicologico di Corona. In quell'udienza verrà conferito formalmente l'incarico ai periti, e verrà anche fissato un termine per il deposito della relazione. Nella consulenza psichiatrica della difesa Corona, che viene curato in carcere con degli psicofarmaci, viene descritto come un uomo dalla personalità "narcisistica" e "borderline". Un tipo di personalità che all'interno del carcere gli sta causando, secondo la relazione, soprattutto gravi stati depressivi e psicosi. Ora la parola passerà ai periti del Tribunale. Intanto, lo scorso dicembre, la difesa dell'ex agente fotografico (ha riportato condanne definitive per un totale di 14 anni, poi ridotti a oltre 9 anni, di cui 6 anni e 8 mesi ancora da scontare) ha presentato all'allora presidente Giorgio Napolitano una domanda di grazia parziale per chiedere la cancellazione dei due anni e mezzo circa, ancora da scontare, per la condanna riportata a causa del foto-ricatto all'ex attaccante juventino David Trezeguet. Giustizia: caso Concordia; "pericolo di fuga", il pm chiede 26 anni e arresto per Schettino di Michele Giuntini Ansa, 27 gennaio 2015 Il comandante della Costa Concordia Francesco Schettino rischia 26 anni di carcere e l'arresto per pericolo di fuga per il naufragio al Giglio del 13 gennaio 2012, che causò 32 morti e decine e decine di feriti. Deciderà il tribunale di Grosseto. "Dio abbia pietà di lui, noi non possiamo", ha concluso il pm Stefano Pizza dopo aver coniato per Schettino la definizione di "incauto idiota", crasi logica di una citazione dottrinale giuridica - "incauto ottimista" e "abile idiota" - relativa alla figura di chi sopravvaluta le proprie capacità, si sente bravo e poi causa gravi danni. La requisitoria conclusa oggi - quasi 20 ore in tre udienze, con staffetta fra tre magistrati, Alessandro Leopizzi, Stefano Pizza, Maria Navarro - è stata dura e ha mirato direttamente sulle responsabilità dell'imputato culminando nella richiesta di una condanna esemplare: Schettino ha portato la nave sugli scogli, non ha dato subito l'emergenza generale perdendo tempo prezioso, ha mentito alla capitaneria sulle reali avarie a bordo, ha abbandonato la nave lasciando al loro destino centinaia di persone in difficoltà, tra cui bambini, anziani disabili, ha causato morti, feriti, danni. Schettino, ha poi detto il pm Navarro prima di esprimere il pesante conteggio della pena, è "l'unico responsabile" di un evento da lui stesso causato, cioè il naufragio della Concordia, che solo per la Provvidenza non si è trasformato in ecatombe". I 26 anni di reclusione richiesti vanno riferiti alle accuse di omicidio e lesioni colposi (partendo dal fatto più grave, 4 anni per la morte della bambina Dayana Arlotti, si arriva con le altre 31 vittime più decine di feriti a 14 anni), a quella di naufragio (9 anni), abbandono di incapaci e della nave (delitti dolosi), 3 anni. In più, "una ciliegina", altri tre mesi di arresto perché l'imputato omise, o fece dire cose false (come quella su un risolvibile black out a bordo anziché dell'irrecuperabile allagamento della nave) all'autorità marittima: per queste contravvenzioni la legge prevede o una semplice ammenda o un arresto. È scattata, dati i fatti gravi, la seconda opzione. E ancora, no alle attenuanti generiche. "Schettino non le merita", ha detto il pm Navarro: "Anche se è incensurato e non ha precedenti penali né giudiziari, la gravità dell'evento e dei fatti trattati è tale e totalmente ascrivibile a sue responsabilità". "Non ha mai chiesto scusa", ha inoltre accusato il pm Navarro, "non ha mai ammesso le sue responsabilità e si è rimangiato quel poco di colpa che aveva ammesso", anzi "al dibattimento ha tentato di scaricarle sugli altri". Tra il pubblico il procuratore di Grosseto, da qualche giorno in pensione, Francesco Verusio, che aveva sempre ipotizzato una richiesta di 20 anni: "Oggi - ha commentato lasciando l'aula - i pm hanno presentato il conto". Presente a Grosseto il pg di Firenze, Tindari Baglione, che ha pronto per i pm del processo un elogio formale: "La richiesta è congrua, forse si poteva chiedere un po' di più, ma non meno. Sono qui per dare piena adesione alla linea della pubblica accusa". Sbalordita la difesa di Schettino, non tanto per i 26 anni di condanna chiesti - "c'erano avvisaglie di una richiesta forte", ha detto l'avvocato Donato Laino - quanto per la richiesta di arresto che era "già stata respinta dal riesame e poi dalla Cassazione tre anni fa e che ora viene riproposta dal pm con gli stessi argomenti di allora". Il processo continua con le parti civili tutta la settimana. Calabria: i Radicali; Presidente Corte Appello Catanzaro dà ragione alle nostre denunce www.radicali.it, 27 gennaio 2015 "Anche quest'anno, dirigenti e militanti del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito e di Radicali Italiani sono stati presenti all'inaugurazione dell'anno giudiziario presso le Corti d'Appello, lo scorso sabato 24 gennaio. E anche a Catanzaro, dove è intervenuto Rocco Ruffa con delega della segretaria Rita Bernardini, durante la cerimonia i Radicali hanno letto un testo, lo stesso in ogni Corte d'Appello, per denunciare lo stato della giustizia e del sistema carcerario italiano, anche alla luce di quelle "ispezioni" che, militanti e dirigenti radicali svolgono regolarmente e che erano state intensificate nelle ultime settimane, nell'ambito dell'azione nonviolenta denominata "Satyagraha di Natale", lanciata dal leader Marco Pannella". A comunicarlo, con una nota congiunta, sono i radicali calabresi Giuseppe Candido, componente del Comitato nazionale di Radicali italiani e Rocco Ruffa militante del partito e intervenuto sabato 24 gennaio presso la Corte d'Appello di Catanzaro per i Radicali con delega della segretaria Rita Bernardini. "Il Presidente della Corte d'Appello di Catanzaro nella sua relazione di inaugurazione dell'anno giudiziario, ha dato ragioni" - scrivono Candido e Ruffa - "a noi Radicali che a Capodanno eravamo stati al carcere Ugo Caridi di Catanzaro notando e denunciando come, soltanto dal punto di vista del sovraffollamento, la situazione era leggermente migliorata dopo la consegna del nuovo padiglione. Mentre avevamo denunciato il permanere di violazioni palesi dei diritti umani sia per quanto riguarda il diritto alla salute sia per quanto attiene il diritto al lavoro e a scontare la propria pena vicino i propri parenti. Per non parlare di quelle "traduzioni forzate" dei detenuti, trasferiti non su base della territorialità della pena, ma in base alle capienze disponibili. Una situazione patente in tutte le carceri della regione. Tutto ciò è stato rilevato, nella relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, dal presidente della Corte d'Appello di Catanzaro, Domenico Introcasio che ha sottolineato chiarissimamente come, nelle case circondariali del distretto di Catanzaro ci sia una "grave situazione igienico-sanitaria". Riportando i dati del tribunale di Sorveglianza, il Presidente della Corte d'Appello del capoluogo calabrese, ha infatti sottolineato come, nelle otto carceri del distretto, sono presenti 1.810 detenuti: 645 a Catanzaro, 272 a Vibo Valentia, 242 a Rossano, 243 a Cosenza, 140 a Castrovillari, 264 a Paola, 4 a Crotone. Per il presidente Introcasio è migliorata quindi la percentuale di sovraffollamento, che comunque "rimane critica solo a Castrovillari" dove si registra ancora una presenza di detenuti superiore all'11% rispetto la capienza regolamentare, ma, come avevamo denunciato all'uscita dalla visita al carcere Ugo Caridi di Catanzaro condotta a Capodanno nell'ambito del Satyagraha di Natale, molti diritti umani delle persone detenute rimangono sistematicamente violati perché persistono i gravi deficit di personale rispetto alle piante organiche delle varie figure professionali, specie per educatori, polizia penitenziaria e personale amministrativo. Come Radicali Italiani abbiamo deciso di fare nostro e difendere in ogni sede istituzionale possibile quel messaggio inviato dal Presidente della Repubblica alle Camere l'8 ottobre del 2013 in cui si descrivevano gli obblighi del nostro Paese per rientrare nella legalità costituzionale e sovranazionale che, praticamente, è rimasto inascoltato proprio dal quel Parlamento e dagli interlocutori istituzionali cui era esplicitamente rivolto. Un messaggio che - di fatto - chiedeva al Parlamento di riconsiderare l'ipotesi di un provvedimento di amnistia e indulto non solo per l'immonda realtà carceraria delle nostre patrie galere, ma anche, e forse soprattutto, per la non ragionevole durata dei processi per la quale il "Paese canaglia" Italia continua ad esser condannato da trent'anni a pagare cifre ingenti in risarcimenti. E, come ha sottolineato anche il Presidente della Corte d'Appello di Catanzaro nella sua relazione, le pendenze sono in crescita anche nel distretto di Catanzaro dove, nel penale, sfiorano il 25%. E non solo il Presidente della Corte d'Appello, ma anche il Procuratore Generale, il rappresentante del Csm, il presidente Iannello e molte altre autorità intervenute all'inaugurazione hanno ammesso che la situazione, per molti versi, è "al collasso". Una non ragionevole durata dei processi che l'Europa sanziona, e come Radicali denunciamo inascoltati perché, di fatto, si ripercuote sul senso di giustizia che i cittadini percepiscono. Pure in Calabria - concludono Candido e Ruffa - serve subito il garante dei detenuti perché, con le prescrizioni che galoppano e di cui nessuno parla troppo, viene il dubbio che si discuta di ferie dei magistrati per far melina e nascondere i veri problemi della giustizia e delle carceri". Di seguito il testo letto e depositato per i Radicali Italiani, da Rocco Ruffa, presso la Corte d'Appello di Catanzaro sabato 24 gennaio 2015 in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario: Anche quest'anno, come Radicali del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito e come Radicali Italiani abbiamo deciso di essere presenti, chiedendo di intervenire, in tutte le Corti di Appello in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, leggendo lo stesso testo in ogni corte d'Appello, con lo spirito di dialogo e confronto con le istituzioni che hanno la responsabilità di occuparsi della giustizia. Si tratta di un atto e di una iniziativa che riteniamo doverosa per corrispondere in una sede istituzionale all'unico messaggio formale, inviato alle Camere ai sensi dell'art. 87 Cost., dal Presidente della Repubblica uscente nel corso dei suoi nove anni di Presidenza, contestualmente denunciando il comportamento degli interlocutori istituzionali del Presidente, in primo luogo quelle Camere alle quali il Capo dello Stato si è rivolto, che con platealità hanno sistematicamente negato dignità al testo formale proveniente dalla più alta carica dello Stato nell'esercizio della sua massima autorità magistrale e volto a richiamare gli improcrastinabili obblighi di riforma strutturale della Giustizia, a partire da un provvedimento di amnistia e indulto. Un comportamento scandaloso, che siamo convinti abbia suscitato non poca amarezza nell'animo del Presidente, che è servito e serve al regime partitocratico, editore di riferimento dell'informazione radiotelevisiva e di una stampa spesso asservita, per continuare ad impedire all'opinione pubblica e al popolo italiano di conoscere e giudicare gli atti del Presidente della Repubblica nel solenne esercizio delle sue funzioni costituzionali ed i fatti, gravissimi e che implicano altrettanto gravi violazioni di norme costituzionali e sovranazionali, che di quell'unico messaggio formale alle Camere rappresentano i presupposti. L'assenza di riforme organiche e strutturali del sistema, a partire da quelle ordinamentali, ha reso - da anni - cronici i mali di una giustizia divenuta strutturalmente inefficiente soprattutto per la sua irragionevole durata. La giustizia è divenuta in tal modo per i nostri cittadini e le nostre imprese - e queste sono parole del ministro Orlando dette alla Camera dei Deputati lo scorso 19 gennaio 2015 - non la sfera a cui rivolgersi per vedere garantiti diritti o dare tutela ai propri legittimi interessi, non la dimensione dove anche il più debole tra i cittadini possa trovare riparo dai soprusi del più forte, ma il simbolo di un calvario da tenere il più lontano possibile dalla propria vita. Tutto questo ha un notevole costo in termini di denaro pubblico, a causa di uno Stato le cui stesse istituzioni non sono in grado di rispettare le proprie leggi. È ormai accertato che le violazioni delle fondamentali norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo da parte del nostro Stato stanno causando ingenti danni all'intera economia nazionale. Lo stesso Ministero della Giustizia, nella relazione presentata all'inaugurazione dell'Anno Giudiziario 2014, ha ammesso che i ritardi della giustizia ordinaria determinano ricadute anche sul debito pubblico. L'alto numero di condanne ed i limitati stanziamenti sul relativo capitolo di bilancio hanno comportato un forte accumulo di arretrato del debito ancora da pagare sulla base dei risarcimenti previsti dalla "legge Pinto", debito che, ad ottobre 2013, ammontava ad oltre 387 milioni di euro. Il fenomeno ha oramai assunto le sembianze di una vera e propria ipoteca accesa a carico di ogni cittadino italiano. A queste cifre si devono aggiungere le somme dovute a titolo di risarcimento per i detenuti che hanno scontato e che stanno scontando la loro pena in condizioni disumane e degradanti. Lo scorso 8 ottobre, in occasione dell'anniversario dall'invio del messaggio alle camere da parte del Presidente Napolitano, noi Radicali abbiamo depositato un esposto presso la procura regionale della Corte dei Conti del Lazio per sollecitare un'indagine volta a stabilire l'esatto ammontare del danno economico patito dall'intera nazione in relazione alla mancata attuazione di concrete e urgenti riforme volte a impedire il reiterarsi delle violazioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo ed al fine di individuarne i responsabili. Questa è lo stato in cui versa in Italia una fondamentale infrastruttura immateriale del paese, com'è la giustizia, perno di qualsiasi processo di crescita civile, sociale ed economica oltre che un essenziale pilastro di ogni moderna democrazia. Gli interventi frammentari e disorganici assunti dal Governo anche nel corso del 2014 appena trascorso, l'assenza di un disegno complessivo di riforma del sistema, non hanno affatto posto rimedio alle censure mosse dalla Corte Edu con la nota sentenza Torreggiani, posto che la Corte aveva chiesto soluzioni e rimedi effettivi, mentre i rimedi adottati continuano a rimanere solo sulla carta, com'è evidente ad esempio, a chiunque conosca, anzitutto la magistratura di sorveglianza, la vicenda del nuovo art. 35 ter dell'ordinamento penitenziario, introdotto con il d.l. 92/2014 successivamente convertito con la legge 117/2014. A sei anni dalla sentenza Sulejmanovic e a due dalla sentenza Torreggiani, in Italia abbiamo ancora ben 72 Istituti penitenziari che hanno un sovraffollamento che va dal 130% al 210% se vogliamo riferirci esclusivamente al sovraffollamento; ma tutti sappiamo che la sentenza pilota dell'8 gennaio 2013 faceva riferimento non solo allo spazio disponibile pro-capite in cella, ma anche alla possibilità di accesso alla luce naturale e all'aria, alle condizioni igieniche e, in generale, alle condizioni trattamentali. L'Italia è ancora sub judice, le Istituzioni Europee sino ad ora hanno fatto fiducia all'Italia, riservandosi di verificare in un prossimo futuro l'effettività dei rimedi adottati in seguito alla sentenza Torreggiani: il 2015 sarà l'anno in cui la Corte Edu, così come il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, non potranno che prendere atto della assoluta ineffettività ed inadeguatezza di questi rimedi e nuove pesanti ombre si profilano all'orizzonte, sul versante della verifica del rispetto dei diritti umani fondamentali da parte dell'Italia. È per questo che gli obiettivi indicati al Parlamento dal Capo dello Stato nel 2013, da raggiungere attraverso il percorso pure indicato dal Presidente, nel messaggio rimasto totalmente inascoltato anche nel corso dell'appena trascorso 2014, rappresentano e continuano a rappresentare i nostri obiettivi che hanno quale fondamentale pilastro quello del rientro nella legalità costituzionale e sovranazionale del sistema giustizia del nostro Paese. Sin qui, illustrissimo signor Presidente, ho letto il discorso che, come Radicali Italiani, abbiamo inteso ribadire in ogni Corte d'Appello d'Italia per l'inaugurazione di quest'anno giudiziario. Giustizia ritardata è giustizia negata; come calabresi, siamo profondamente rattristati dalla condizione esanime della Giustizia anche calabrese dove, problematicità presenti in tutta Italia appaiono aggravate da carenze di organico ancora più marcate che altrove. Da semplice cittadino mi consenta di aggiungere che provo profonda vergogna a vivere in uno Stato che è condannato per la violazione dei fondamentali diritti umani, e che ha un Parlamento incapace di corrispondere come avrebbe dovuto al messaggio di Napolitano che, anch'io, personalmente e non formalmente ringrazio da questo luogo istituzionale. Padova: Sbriglia (Prap); "rivolta" in carcere a causa dall'alcol, Allah e Isis non c'entrano www.padovaoggi.it, 27 gennaio 2015 La direzione del penitenziario di Padova esclude collegamenti con l'Islam nei tafferugli di giovedì, che hanno portato al ferimento di due agenti. All'origine l'assunzione di bevande ricavate dalla macerazione della frutta. Tafferugli di misera e non rara cronaca penitenziaria, impropriamente avvicinati a un fenomeno di fondamentalismo arabo". Così il provveditore regionale del Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria), Enrico Sbriglia, riassume i fatti avvenuti lo scorso giovedì pomeriggio nel carcere Due Palazzi di Padova, dove, secondo la ricostruzione invece fornita in prima battuta dal sindacato di polizia Sappe, sarebbero stati coinvolti almeno una 30ina di detenuti "molti di questi, di origine araba, inneggianti ad Allah e all'Isis". "L'episodio risale alle 17.50 di giovedì - ricostruisce il provveditore - nel quarto blocco, un'area del quarto piano. I detenuti direttamente coinvolti che sono stati successivamente denunciati e trasferiti in altri carceri sono 4, un pugliese e tre romeni. Uno di questi ultimi ha usato un rasoio per provocarsi dei tagli superficiali. Come spesso accade in questi casi, si crea un assembramento di detenuti, ma solo in quattro sono stati ritenuti parte attiva nella protesta. Odoravano di alcol - continua Sbriglia - sostanza che nell'istituto non entra, ma che i detenuti hanno ricavato dalla distillazione artigianale, con alambicchi di fortuna, della frutta fatta macerare sulle pentole a disposizione in cella, dove viene loro consentito di prepararsi i pasti. Distruggendo un tavolino in legno hanno poi usato le gambe contro gli agenti, due dei quali rimasti feriti, rompendo anche due vetri semi-blindati. Uno dei quattro detenuti, una volta in ospedale dove era stato portato per essere medicato - conclude il dirigente - ha tentato di afferrare per il collo un medico donna, venendo bloccato in tempo utile dalle guardie penitenziarie". Il direttore del carcere Salvatore Pirruccio enuncia quindi i dati del Due Palazzi: 758 le persone recluse, mentre un anno e mezzo fa erano oltre 900 prima dello "svuota carceri". Originariamente il penitenziario di Padova era stato costruito per ospitare un detenuto per cella, ovvero 350 in tutto, mentre attualmente sono almeno un paio per stanza. 617 sono gli europei, 108 gli africani, 13 gli asiatici e 20 gli americani. Il numero ottimale di agenti sarebbe di 431, in realtà ce ne sono 326, di cui effettivi in servizio, (al netto di ferie, malattie ecc.) ogni giorno, 278, compreso anche il personale addetto ai servizi amministrativi. Le celle rimangono aperte dalle 8 alle 20 e all'interno della sezione detentiva i reclusi sono liberi di muoversi e incontrarsi. "Se anche non c'è stato alcun inneggiamento ad Allah o all'Isis durante la rivolta - replica Giovanni Vona, rappresentante Veneto del Sappe - è la solita messa in scena all'italiana per cui si vuole sempre sminuire tutto". Vona ha confermato il coinvolgimento di 30-45 persone nei tafferugli avvenuti al quarto piano dell'istituto di pena, spiegando che i detenuti "avevano addirittura cercato di sfondare un cordone di agenti per aprire un cancello e coinvolgere nella protesta anche i detenuti degli altri blocchi". Per far luce sull'accaduto c'è stata anche la visita in carcere, lunedì, dei consiglieri regionali Piero Ruzzante (Pd) e Antonino Pipitone (Idv). Italia dei Valori e Lega Nord hanno presentato due distinte interrogazioni parlamentari sul tema ai ministri Orlando e Alfano. Comunicato Dap: mai a rischio sicurezza istituto "L'episodio, contrariamente a quanto è stato enfatizzato sugli organi di stampa, non ha mai messo a rischio la sicurezza dell'istituto e non vi è alcun collegamento tra tali episodi e i detenuti di matrice islamica". È quanto precisa in una nota il Dap, a proposito dei fatti avvenuti giovedì scorso nel carcere di Padova. Il Capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, "nell'immediatezza dell'evento - si legge in una nota del Dap - ha interpellato il direttore del carcere Salvatore Pirruccio e il provveditore regionale Enrico Sbriglia, che hanno riferito l'esatta dinamica dei fatti, di molto ridimensionati rispetto alla rappresentazione mediatica". In particolare, viene sottolineato, "i detenuti coinvolti appartengono al circuito media sicurezza e sono prevalentemente di nazionalità rumena e italiana. Tutte le fonti attendibili acquisite hanno allo stato escluso il coinvolgimento di soggetti vicini all'estremismo islamico. I fatti trovano origine dall'assunzione di bevande alcoliche ricavate dalla macerazione della frutta che ha generato uno stato di agitazione psico-fisica". Il capo del Dap, "informato costantemente dai vertici dell'istituto e del provveditorato, ha concordato le linee di indirizzo finalizzate a una maggiore vigilanza e controllo in via preventiva. I detenuti coinvolti nell'evento sono stati assegnati ad altre sedi penitenziarie. È stato attivato l'Ufficio ispettivo". Il Dipartimento, continua la nota, "esprime apprezzamento per l'intervento tempestivo della Polizia Penitenziaria dell'istituto, che, ancora una volta, ha mostrato grande professionalità nel riportare l'ordine nel reparto interessato. Vicinanza e solidarietà si esprime ai due agenti di Polizia Penitenziaria aggrediti nell'adempimento del loro dovere". La rivolta? Detenuti ubriachi di grappa (Il Mattino di Padova) Clamorosa dichiarazione del provveditore e del direttore del Due Palazzi: "Non c'entra la Jihad, erano solo alticci per l'alcol che producono in cella". "Pochi agenti al Due Palazzi e troppi detenuti, la nostra è una lotta impari". Il provveditore regionale dell'Amministrazione Penitenziaria, Enrico Sbriglia e il direttore della Casa di reclusione Salvatore Pirruccio, smorzano i toni dopo gli echi dello scontro avvenuto il 22 gennaio scorso alle 17.50 nel quarto blocco, anche se dicono che le guardie sono sempre meno e detenuti il doppio di quelli previsti. "Nessuna rivolta di massa di detenuti, solo quattro facinorosi alticci che dopo aver bevuto grappa prodotta in cella hanno aggredito gli agenti. Nessuna lotta religiosa all'origine del gesto, purtroppo ordinario nella routine carceraria". "Dei quattro uno si era ferito da solo, facendo credere agli altri che era colpa degli agenti" ha chiarito Sbriglia "poi con una lametta da barba in bocca voleva sfregiare un agente, riuscendo solo a strappargli la divisa. Tutti sono già stati trasferiti per paura di ritorsioni da parte magari di altri detenuti dello stesso braccio in attesa di benefici. C'è stata confusione e un paio di vetri sono stati rotti. Nessuna motivazione nel gesto è stata riconducibile a Isis o Jihad. In merito alla produzione della grappa, cosa possiamo fare, non diamo più la frutta ai detenuti? Non diamo più le pentole con cui, qualche volta, si cucinino quello che vogliono? L'eccellenza del carcere Due Palazzi è nota in termini di progetti di formazione per i detenuti e non solo". È stata, ovviamente aperta un'indagine interna e i quattro sono stati denunciati. I numeri. "Nella casa di reclusione oggi ci sono 758 detenuti, a fronte dei 358 previsti, dei quali 617 europei, 108 africani, 13 asiatici e 20 americani" aggiunge Pirruccio "su 431 operatori previsti ce ne sono in servizio 326, ai quali dobbiamo togliere la cinquantina che si occupano delle traduzioni, restiamo mediamente in carcere con 278 agenti. Le stanze sarebbero singole, invece mediamente sono in due se non in tre. Dalle 8 alle 20 le celle sono aperte e loro possono circolare liberamente all'interno del loro piano. Per il Sappe è stata rivolta. "I detenuti avevano addirittura cercato di sfondare un cordone di agenti per aprire un cancello e coinvolgere nella protesta anche i detenuti degli altri blocchi. Aggressioni e rivolte sono aumentate negli ultimi tempi". Giovanni Vona, rappresentante Veneto del Sappe, ha replicato alla direzione del carcere sulla ricostruzione fatta degli incidenti. "Non è il caso di sminuire tutto" aggiunge. Dall'inchiesta giudiziaria di luglio perso il 20% degli agenti Il capo del Dipartimento. "L'episodio accaduto al Due Palazzi non ha mai messo a rischio la sicurezza dell'istituto e non vi alcun collegamento tra tali episodi e i detenuti di matrice islamica" assicura il capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, "nell'immediatezza dell'evento l'episodio è stato chiarito, i detenuti coinvolti appartengono al circuito media sicurezza e sono prevalentemente di nazionalità rumena e italiana. I fatti trovano origine dall'assunzione di bevande alcoliche ricavate dalla macerazione della frutta che ha generato uno stato di agitazione psico-fisica". Le attività lavorative. La Casa di reclusione padovana è da sempre pioniera in merito a progetti pilota sul lavoro in cella. Centoventi detenuti sono occupati nel consorzio Officina Giotto con laboratori di pasticceria, call center per il servizio Cup di Padova e Venezia, costruzione di biciclette e assemblaggio di valigeria; altri 120 sono occupati con l'associazione Granello di senape al centro di documentazione; altri 150 ai corsi scolastici e altrettanti in attività teatrali. In cella si produce grappa artigianale La si potrebbe chiamare grappa a chilometro, anzi a "cella zero". Per chi in carcere non ci hai messo piede è bene spiegare come i detenuti si producono una sorta di grappa, visto che in cella ovviamente non arrivano i super alcolici veri. Delle piccole distillerie clandestine. Principalmente vengono usate pere e kiwi maturi, vengono fatte bollire in una pentola che viene trasformata in pentola a pressione "saldando" il coperchio con della mollica di pane. Dopo due o tre giorni il succo viene filtrato con dei tubicini modificati come un alambicco. Il prodotto che ne esce non è particolarmente sano, ma il grado di alcol è simile alla grappa. Tanto da far ubriacare, o comunque rendere alticci i detenuti. Sappe: detenuti ubriachi causa la grappa prodotta artigianalmente (Ansa) Durante la rivolta nel carcere Due Palazzi di Padova alcuni detenuti sarebbero stati palesemente ubriachi, a causa della grappa prodotta artigianalmente da alcuni compagni. Lo denuncia il Sappe, il Sindacato autonomo Polizia penitenziaria. "A metà dicembre avevamo dato notizia del sequestro in alcune celle della Casa di reclusione patavina, da parte della Polizia Penitenziaria, di alcuni litri di grappa artigianale prodotta da alcuni detenuti - afferma il segretario Donato Capece. Fatto, questo, che si volle far passare sotto un incomprensibile silenzio istituzionale. Rispetto al questo, il Provveditore dell'Amministrazione Penitenziaria del Triveneto, Enrico Sbriglia, e il direttore del carcere, Salvatore Pirruccio, non hanno fatto assolutamente nulla perché ciò non si verificasse di nuovo, emanando ad esempio precise e chiare disposizioni in materia di sicurezza interna nelle strutture detentive". Non è dunque un caso, per Capece, "che a scaldare gli animi dei detenuti, giovedì pomeriggio, pare essere stata anche una abbondante assunzione di questi distillati alcoolici artigianali". Dura l'accusa del Sappe: "è sorprendente constatare come le articolazioni periferiche dell'Amministrazione penitenziaria del Veneto e di Padova in particolare si siano affrettate a sminuire quel che è accaduto l'altro giorno nel carcere di Padova, con poliziotti aggrediti e feriti e momenti di altissima tensione. Lo fanno, evidentemente, per coprire le loro responsabilità". "Al Due Palazzi di Padova si sono vissuti momenti di alta tensione e pericolo e in prima linea c'erano (come al solito) solamente poliziotti penitenziaria - conclude Capece. Non c'è stata nessuna guerra di religione, certo. Ma alcuni detenuti Allah l'hanno invocato: per paura, probabilmente. Ma l'hanno fatto". Padova: "rivolta" in carcere, è scontro sui numeri tra Polizia penitenziaria e Istituto di Riccardo Bastianello Corriere Veneto, 27 gennaio 2015 Nessun riferimento all'Isis o ad Allah. L'ha ripetuto decine di volte ieri il direttore del carcere Due Palazzi di Padova Salvatore Pinuccio e il provveditore dell'amministrazione carceraria del Veneto Enrico Sbriglia. Le proteste avvenute in carcere nel tardo pomeriggio di giovedì non hanno nulla a che vedere con una presunta "rivolta islamica". Ma precisazioni sono arrivate anche sul numero dei detenuti coinvolti: non una trentina, ma solo quattro. E per di più persone che poco o nulla hanno a che fare con l'Isis (un pugliese e tre romeni). La direzione ha puntato così il dito contro il Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria, che aveva diffuso alla stampa i primi, allarmisti dettagli della presunta rivolta in carcere. "Non sono un magistrato - ha spiegato Sbriglia - ma se lo fossi chiederei conto a chi ha diffuso questa notizia". "Un episodio che non ha mai messo a rischio la sicurezza dell'istituto", ha precisato anche il Dap. La vera ragione della protesta, secondo i vertici del penitenziario? Il troppo alcol. Sì, perché in un carcere dove ovviamente non è consentito la vendita o la somministrazione di alcolici i detenuti si organizzano come possono e creano artigianalmente imbevibili grappe lasciando macerare la frutta dentro a delle pentole. Innegabile, tuttavia, che il sovraffollamento abbia la sua parte di responsabilità (758 detenuti in una struttura nata per ospitarne 350). "La solita messa in scena all'italiana per cui si sminuisce tutto", ha replicato stizzito il responsabile del Sappe Giovanni Vona. Intanto ieri hanno fatto una visita in carcere i consiglieri regionali Piero Ruzzante (Pd) e Antonino Pipitone (Idv), che, sul caso, ha annunciato un'interrogazione parlamentare del suo partito. Imperia: detenuti accompagnano disabili e puliscono fiumi, intesa con carcere e tribunale di Giò Barbera www.riviera24.it, 27 gennaio 2015 Detenuti che accompagnano i disabili a scuola, detenuti che puliscono strade, cimiteri, alveni dei fiumi e ancora che aprono e chiudono cimiteri e controllano giardini pubblici. Il Comune di Imperia è pronto a stipulare una convenzione con la casa circondariale di via don Abbo Il Santo così come prevede una nuova normativa approvata lo scorso anno. Sarebbe uno dei primi Comuni della provincia di Imperia a trovare un accordo del genere. Ma non è tutto è pronta anche una seconda convenzione che in realtà è un rinnovo: quello siglato nel 2002 e scaduto nel 2007 con il Tribunale di via XXV Aprile che prevedeva la messa alla prova in lavori di pubblica utilità di persone denunciate per guida in stato di ebbrezza. Con la legge 381 del 1991, i detenuti o ex detenuti potevano svolgere lavori socialmente utili. Oggi, la legge 67/2014 ha introdotto uno strumento in più per le pubbliche amministrazioni: le persone che hanno commesso determinate tipologie di reato possono chiedere la sospensione del processo con la cosiddetta "messa alla prova", anche attraverso lo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità. "È un'opportunità concreta per l'inclusione sociale e dà la possibilità a chi ha sbagliato di non far diventare un errore un danno permanente - spiega il sindaco Carlo Capacci. Abbiamo predisposto una bozza di convenzione che Comune che prende in carico il soggetto dovrà siglare con il Tribunale e con il carcere". I lavori di pubblica utilità potranno riguardare la tutela del patrimonio culturale, ambientale, la manutenzione del verde pubblico e del patrimonio comunale, l'accompagnamento di anziani e disabili, il supporto alle attività musicali e bibliotecarie, l'accoglienza al pubblico presso gli uffici comunali, le attività connesse alla sicurezza e all'educazione stradale. C'è anche una mozione, predisposta dal consigliere Oliviero Olivieri del Pd, pronta a sbarcare in consiglio comunale dopodomani che salvo imprevisti sarà ratificata. "In particolare - spiega Olivieri, che di professione fa l'avvocato - sono due i punti contenuti nella mozione. Il primo rispolvera una convenzione che il Comune di Imperia aveva sottoscritto nel 2002 con il Tribunale che è scaduta cinque anni dopo e mai rinnovata. Secondo la convenzione, i cittadini autori di reati lievi, come la guida in stato di ebbrezza, possono richiedere di rivolgersi al Comune e eseguire dei lavori di pubblica utilità per ottenere una sentenza di estinzione del reato. Ma era limitata ad un numero decisamente esiguo di persone: comprendeva una ventina di posti disponibili ed era stata interpretata dagli uffici in modo molto restrittivo. Chi veniva destinato a lavori di pubblica utilità, infatti, veniva mandato a fare lavori di fatica, generalmente veniva destinato ai servizi cimiteriali. Ora, invece, chiediamo di poter utilizzare i soggetti anche in altri settori come ad esempio i servizi sociali. Il controllo - precisa il consigliere - sarà comunque fatto dal giudice che dovrà stabilire se la persona sia o meno adatta a svolgere lavori di pubblica utilità". C'è poi l'altro capitolo della mozione, ovvero il lavoro che potrà essere svolto dai detenuti del carcere di Imperia. Chi ha subito condanne per reati minori può svolgere lavori socialmente utili. Si tratta di un progetto che prevede percorsi di formazione lavoro rivolti a detenuti ed ex detenuti che riguarda in particolare servizi a tutela della manutenzione del territorio con particolare attenzione alle problematiche ambientali. Obiettivo non meno importante è quello di valorizzare l'occupazione lavorativa al fine dell'integrazione sociale di ciascun detenuto. "In questo senso - sottolinea Oliviero Olivieri - l'amministrazione comunale può svolgere un ruolo importante di coordinamento". Una convenzione quindi che di fatto sostiene progetti finalizzati al recupero e alla risocializzazione delle persone, che danno la possibilità a chi ha sbagliato di pagare il proprio debito e che allo stesso tempo possono avere un effetto deflattivo sul numero dei procedimenti e quindi contribuire a rendere più efficace l'intero sistema della giustizia. Trento: un'interrogazione della Lega Nord sul costo dei corsi di formazione per i detenuti Ansa, 27 gennaio 2015 I costi sostenuti per il 2012-2013-2014 per corsi di formazione per i detenuti del carcere di Spini di Gardolo a Trento erano stati oggetto di un'interrogazione da parte del segretario della Lega Nord del Trentino e consigliere provinciale, Maurizio Fugatti, che ora rende nota la risposta, che vede il dettaglio sia della tipologia dei corsi, dalla formazione professionale alla scuola secondari, che dei costi, da parte del presidente della Provincia, Ugo Rossi. Quanto alla spesa, per i corsi con finanziamento Fse il costo complessivo è stato pari a 64.638,87 euro. I percorsi di alfabetizzazione e scolastici sono stati erogati coinvolgendo il personale docente in servizio. Il personale equivalente coinvolto per il triennio è stato di 3 docenti di scuola primaria per 3 anni, 2 docenti di scuola secondaria di primo grado per 2 anni, 1 per l anno, 5 docenti di scuola secondaria di secondo grado in 3 anni. Considerato che il costo medio di un docente è pari a 35.500,00 euro per la primaria e 38.000 euro per la secondaria di primo e secondo grado, il costo complessivo per il triennio è pari a 699.500 euro. Per i percorsi di formazione professionale le ore di docenza nel triennio sono state complessivamente 563. Considerato il costo medio di un docente della formazione professionale (con un orario di 692 ore annue) pari a 40.000 euro, il costo per il triennio e di 32.543 euro. Non è invece possibile fornire, si legge nella risposta diffusa da Fugatti, il dato relativo a quanti ex detenuti sono stati introdotti negli anni 2012-2013-2014 all'interno del mondo lavorativo e di quale nazionalità essi siano, perché dal momento della dimissione dall'istituto i detenuti sfuggono ad ogni rilevazione. Sentito il carcere di Trento, viene inoltre spiegato, le misure alternative concesse in virtù del possesso di un'offerta lavorativa sono state pochissime, forse una decina, soprattutto per la scarsa offerta occupazionale esterna, anche legata alla crisi economica. Udine: niente soldi per la benzina, giudici chiedono un passaggio alla Polizia penitenziaria di Luana de Francisco Messaggero Veneto, 27 gennaio 2015 Le scorte sono finite con tre mesi d'anticipo e non è ammesso acquistarne altre. Contatti con Ass e Polizia penitenziaria per passaggi in carcere e case di riposo. Nelle auto di servizio del tribunale di Udine non c'è più un goccio di benzina. Le scorte ministeriali sono finite con tre mesi di anticipo e acquistare altro carburante non è permesso. Risultato: magistrati appiedati e paralisi dell'attività giudiziaria, sia penale che civile, svolta al di fuori del palazzo. Non è uno scherzo, ma la kafkiana situazione con la quale da qualche giorno gli uffici di largo Ospedale vecchio sono costretti a barcamenarsi. La circolare della presidente, Alessandra Bottan, porta la data della settimana scorsa e ieri pomeriggio il neo coordinatore dell'ufficio Gip-Gup, Daniele Faleschini Barnaba, ha improvvisato una riunione per affrontare l'emergenza. Le vetture ferme nel parcheggio sono soltanto due e pure datate. "Una Croma e una Punto che dovremo fare durare il più a lungo possibile - afferma la presidente del tribunale, perché ci è già stato anticipato che non saranno sostituite". Il loro utilizzo è legato esclusivamente a fini di servizio. I giudici per le indagini preliminari le adoperano per recarsi nella casa circondariale di via Spalato e nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, per le udienze di convalida e per gli interrogatori. Ci vanno accompagnati dai rispettivi cancellieri e con una frequenza che varia a seconda delle esigenze di ciascun turno: più arresti ci sono, più trasferte si fanno. I giudici della sezione civile, invece, se ne servono soprattutto per le udienze a domicilio dei casi di amministrazione di sostegno nei quali l'istruttoria non possa avvenire in tribunale, per impedimento dei beneficiari. Per garantire la prosecuzione dell'attività, ora, è in corso una febbrile ricerca di soluzioni alternative. "Stiamo cercando di sbloccare l'impasse e di riuscirci nel più breve tempo possibile - dice Bottan. Il problema riguarda tutta l'Italia ed è destinato ad aggravarsi, per la decisione del ministero di Giustizia di ridurre ulteriormente le scorte, in futuro". La questione è più complessa di quanto sembri: per ovviare alla temporanea indisponibilità delle auto di servizio, in teoria, i magistrati non possono neanche arrangiarsi con le rispettive vetture private. "Non godrebbero della dovuta copertura assicurativa per sé e tanto meno per chi dovesse viaggiare con loro", spiega Bottan. "Non appena ci è stato comunicato l'esaurimento del contingente - continua, abbiamo chiesto di poter attingere con anticipo alla nuova dotazione, disponibile da aprile, e ci siamo anche rivolti alla Corte d'appello per vedere se nel resto del Distretto vi fosse ancora qualche residuo. Ma entrambi i tentativi sono andati falliti". L'unica via di scampo praticabile, a questo punto, pare quella dei "passaggi". "Stiamo valutando la possibilità di cercare supporti nelle Aziende sanitarie o in altri enti del territorio - assicura la presidente. Quest'anno abbiamo registrato un aumento degli assistiti dell'amministrazione di sostegno e per questo avevamo chiesto già un incremento del carburante: si tratta per lo più di persone anziane, allettate e con disagi anche psicologici. Il nostro - aggiunge - è un bacino assai vasto e buona parte dei beneficiari abita o è ospite di case di riposo della zona di Palmanova. Trattandosi di questioni di valenza anche socio-sanitaria, ritengo che a farsene carico possano essere anche le altre istituzioni". Nel caso dei gip, a dare uno "strappo" ai magistrati potrebbe essere la stessa Polizia penitenziaria. Più facile a dirsi che a farsi, visto che il "favore" comporterebbe all'istituzione penitenziaria una continua rivisitazione dei turni di servizio e l'impiego di più personale al giorno. "L'anno scorso eravamo riusciti a tenere duro fino ad aprile - ha concluso Bottan - e finora siamo stati costretti ad accorpare le udienze e far fronte a quasi tutte le scadenze. Ma le doglianze dei cittadini sono già cominciate e questa paralisi va risolta in tempi rapidi". Palermo: Sappe; alta tensione nell'Ipm, un giovane detenuto aggredisce un poliziotto Ansa, 27 gennaio 2015 Alta tensione nell'Istituto penale per minorenni di Palermo, dove mercoledì un giovane detenuto ha dato in escandescenza, aggredendo un poliziotto penitenziario. Lo dice il Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. Il segretario generale del Sappe Donato Capece dice: "Il grave episodio è la conseguenza di una situazione allarmante che vivono i poliziotti penitenziari dell'Istituto, abbandonati a loro stessi dalla Direzione del carcere minorile palermitano e sempre più frequentemente oggetto di minacce e insulti da parte dei detenuti minorenni. Si tenga conto che oggi sono presenti nell'Ipm di Palermo 27 minori. Il dipartimento della Giustizia minorile deve assumere urgenti provvedimenti per il Personale di Polizia Penitenziaria che lavora a Palermo, a tutela della loro stessa incolumità personale. Il Sappe esprime solidarietà al Personale di polizia penitenziaria in servizio all'Ipm palermitano. Ma va anche detto che queste aggressioni sono intollerabili ed inaccettabili. Noi non siamo carne da macello ed anche la nostra pazienza ha un limite". Frosinone: Uil-Pa Penitenziari; lunedì 2 febbraio una nuova tappa de "Lo scatto dentro" 9Colonne, 27 gennaio 2015 Lunedì 2 febbraio una delegazione della Uil-Pa Penitenziari, capitanata dal segretario generale Eugenio Sarno, effettuerà una visita all'interno della casa circondariale di Frosinone per verificare lo stato dei luoghi di lavoro della polizia penitenziaria. Durante la visita sarà effettuato un servizio fotografico che ne documenterà la situazione. Si tratta dell'ennesima tappa di una iniziativa denominata "Lo scatto dentro, perché la verità venga fuori", un tour che ha già toccato, in poco più di due anni, circa 50 istituti penitenziari d'Italia documentando, in numerosissimi casi, le difficili condizioni di lavoro cui sono costretti gli agenti penitenziari e le incivili condizioni della detenzione. "Riteniamo che le immagini, molto più delle parole, possano contribuire ad una presa di coscienza collettiva" spiega Eugenio Sarno, che conclude: "Aver superato in prima battuta l'esame della Corte di Strasburgo non significa affatto aver risolto le criticità del sistema penitenziario. Come apprezzabilmente richiamato anche dal primo Presidente della Corte di Cassazione , Giorgio Santacroce, resta in piedi la necessità di riconsegnare al nostro sistema carcerario la civiltà delle detenzione e la dignità del lavoro. Se non si interviene strutturalmente ad aprile rischiamo una bocciatura europea che potrebbe costarci milioni di euro in sanzioni". Bergamo: dalle mortadelle del detenuto spuntano hashish e un telefonino L'Eco di Bergamo, 27 gennaio 2015 L'ultimo stratagemma scoperto dalla polizia penitenziaria del carcere di Bergamo per far arrivare a un detenuto tre panetti di hashish (50 grammi) e un telefonino. Il "pacco dono" era destinato a un detenuto di origini calabresi, un venticinquenne residente nella nostra provincia, che si trova in carcere da un mese per furto aggravato. L'uomo è stato denunciato così come la compagna che gli ha portato i "generi di prima necessità": si tratta di una ragazza di 25 anni residente nel Milanese. I due salumi sono stati passati sotto i raggi X che hanno evidenziato, nel centro di entrambe le mortadelle, degli oggetti di colore diverso. È bastato aprirle a metà per scoprire il telefono e i tre panetti di hashish. Ma se anche non fossero stati passati ai raggi X sarebbero ugualmente stati scoperti: la procedura prevede infatti che questo genere di prodotto venga tagliato prima di essere consegnato al detenuto. Sicuramente, in questo caso, c'è stato anche l'aiuto delle abili mani di un macellaio. Dopo la droga nelle scarpe, le sim card negli slip e i cellulari nelle bombolette di gas, è arrivata anche la mortadella. Già, perché questo è l'ultimo stratagemma scoperto dalla polizia penitenziaria del carcere di via Gleno per far arrivare a un detenuto tre panetti di hashish e un telefonino. Tutto perfettamente nascosto in due belle mortadelle, perfettamente integre e confezionate con tanto di pellicola trasparente. Peccato che dentro ci fossero 50 grammi di hashish e un cellulare Nokia vecchio modello completo di sim card. Il "pacco dono" era destinato a un detenuto di origini calabresi, un venticinquenne residente nella nostra provincia, che si trova in carcere da un mese per furto aggravato. L'uomo è stato denunciato così come la compagna che gli ha portato i "generi di prima necessità": si tratta di una ragazza di 25 anni residente nel Milanese. Le mortadelle con sorpresa sono state scoperte sabato scorso, nel primo pomeriggio: la giovane si è presentata per il colloquio con il compagno e ha consegnato le due mortadelle agli agenti. Nella sala pacchi è avvenuto il controllo, una prassi per tutto ciò che viene portato all'interno del carcere ed è destinato ai detenuti. I due salumi sono stati passati sotto i raggi X che hanno evidenziato, nel centro di entrambe le mortadelle, degli oggetti di colore diverso. È bastato aprirle a metà per scoprire il telefono e i tre panetti di hashish. Ma se anche non fossero stati passati ai raggi X sarebbero ugualmente stati scoperti: la procedura prevede infatti che questo genere di prodotto venga tagliato prima di essere consegnato al detenuto. Sicuramente, in questo caso, c'è stato anche l'aiuto delle abili mani di un macellaio. Per la coppia è dunque scattata la denuncia: "Agli uomini e alle donne della polizia penitenziaria di Bergamo e alloro comandante di reparto va, ancora una volta, il plauso da parte di questa organizzazione sindacale - commenta il vice segretario regionale del Sinappe, Alessandro Mondavi - in quanto, nonostante la nota carenza d'organico, continuano a dimostrare un profondo senso del dovere e spirito di abnegazione nonché spiccate doti investigative". Non è l'unico ritrovamento di cellulari o droga nel carcere di via Gleno: il sindacato riferisce infatti che, negli ultimi due anni, sono stati ben 30 i telefonini e diversi quantitativi di sostanze stupefacenti sequestrati tra le mura del penitenziario. L'ultima operazione risale a metà ottobre dello scorso anno, quando nell'area verde del reparto penale la Polpen ha ritrovato cinque ovuli di hashish, marijuana, un telefono cellulare e un carica-batterie. "La scorsa settimana sono stati trovati quattro cellulari a Verona e uno a Cremona - aggiunge Mondavi - segno che il fenomeno è dilagante, ma che il livello dei controlli è molto alto". Libri: "Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre", di Antonio Falda di Flavia Carletti Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2015 Il rugby come riscatto, come possibilità di vivere normalmente, anche in prigione. Per quello che possa voler dire "normalmente" in una prigione. Ma non solo rugby. "Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre" è il nuovo libro di Antonio Falda, un viaggio in otto carceri italiane, tra il settembre 2013 e il marzo 2014, alla scoperta di chi ha portato la palla ovale all'intero di istituti di detenzione per adulti e minori, tramite il "Progetto Carceri" sviluppato e sostenuto dalla Federazione italiana rugby. Lo sport, però, diventa anche la scusa e il modo per parlare di persone, per narrare storie ed esperienze, che vanno anche al di là del rugby. Il libro, che uscirà il 28 gennaio 2015, infatti, non è solo il racconto delle iniziative legate a questa disciplina sportiva ma descrive il viaggio, fisico e non solo, fatto dall'autore attraverso l'Italia nell'arco di 210 giorni, partendo da Nisida (Napoli) e passando per Terni, Torino, Monza, Frosinone, Porto Azzurro (Livorno), Bollate (Milano), e Sollicciano (Firenze), dove ha incontrato gli operatori esterni, gli educatori/allenatori, i direttori, i comandanti della polizia penitenziaria e naturalmente i detenuti coinvolti nell'iniziativa. La palla ovale, però, diventa quasi una scusa per parlare d'altro, di altri, di coloro che sono prigionieri e di chi, non per una condanna, ma per scelta si reca regolarmente all'interno di quei luoghi dove si concentrano dolori, sofferenze, solitudini, frustrazioni, violenza, rabbia. E proprio lì, su quei campi improvvisati, tra il cemento e il metallo delle sbarre, si annida anche la speranza, la voglia di cambiare, la ricerca dell'occasione di riscatto. A questo punto il rugby emerge come uno dei mezzi per poterlo fare, il modo, per chi ha sbagliato ma vuole riprendere in mano la propria vita, di averne la possibilità. Lo sport, uno sport che a "un ragazzo di strada ha fatto bene", come dice ad Antonio Falda uno dei suoi interlocutori, diventa quello che il teatro è stato per Aniello Arena, l'attore condannato all'ergastolo che partendo da un laboratorio teatrale all'interno del carcere è stato protagonista del film "Reality" e premiato con un Nastro d'argento nel 2013, come racconta lui stesso nella prefazione. Arriva così quello che risulta essere il messaggio finale del libro, l'insegnamento che l'autore ha tratto dalla sua esperienza e che trasmette a chi lo legge: che si tratti di sport, di arte, di teatro, l'importante è non mollare, non abbandonare chi ha sbagliato e sta pagando per i propri errori e dare a tutti coloro che lo vogliono un motivo e i mezzi per non cadere di nuovo. "Per la libertà", infatti, non è solo il titolo del libro, sono le parole usate da due delle squadre di cui si racconta come motto e incitamento. Antonio Falda è anche l'autore di "Novelle Ovali, 35 piccole storie di rugby e di vita", Davide Zedda Editore, co-autore de "Il XV del Presidente", A.Car. Edizioni, e di "Franco come il Rugby", Absolutely Free Editore, che pubblica anche "Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre", testo patrocinato dal ministero della Giustizia, Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, dalla Federazione italiana rugby e dal Club Italia Amatori Rugby. "Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre", di Antonio Falda. Absolutely Free Editore, 14 euro, 254 pagine. Siria: "Salvate i superstiti", più di 80mila i detenuti spariti di Fouad Roueiha Il Garantista, 27 gennaio 2015 Solo di 215.000 si conosce l'identità. Spesso alcuni dispersi tornano dalla famiglia che li riteneva morti. Sembravano banconote da 500 lire siriane, piegate e abbandonate negli angoli delle vie di Damasco. Una volta aperti, i foglietti si rivelavano volantini della campagna Inquzu al baqia, "Salvate i Superstiti". Siamo a dicembre del 2014 e un gruppo di attivisti vuol riaccendere i riflettori sulla questione dei prigionieri e dei dispersi dall'inizio della rivolta contro Assad, dal marzo del 2011. "Sono 215.000 i detenuti di cui si ha certezza nelle carceri del regime, lo ha verificato sulla base agli standard internazionali, il Syrian Network for Human Rights (SN4HR)" ci dice Susan Ahmad, la portavoce della campagna. Numeri che si riferiscono ad un rapporto del SN4HR dell'aprile del 2013, l'ultimo che è stato possibile realizzare, e riguardano solo le persone di cui sono noti il nome, la data e le circostanze dell'arresto. Nello stesso rapporto di parla di 80.000 persone sparite, ma questo numero, come quello dei prigionieri, è ben al di sotto di quello reale. "In molti casi non possiamo registrare gli arresti sommari o le detenzioni perché i parenti hanno paura di parlarne" prosegue la Ahmad "I prigionieri non sono arrestati in virtù di un crimine, tutt'altro. Non sono rari i casi di arresti arbitrari e casuali ai check point, è persino nato un mercato intorno agli arresti: quando una persona viene presa, spesso i famigliari vengono contattati e ricattati da militari che si offrono di "aiutare" a far uscire il loro caro in cambio di una ricompensa a sei zeri. Ci sono famiglie che hanno venduto casa e rinunciato a tutto, per poi scoprire che loro figlio era morto sotto tortura da tempo". Capita anche il contrario: quando il regime comunica la morte di un detenuto, i famigliari devono recarsi a recuperare la carta d'identità della vittima e firmare, volenti o nolenti, una dichiarazione in cui si dice che il loro congiunto è morto per cause naturali, rinunciando quindi ad ogni ipotesi di rivalsa legale. "Spesso il cadavere non viene consegnato ed è accaduto più volte che un prigioniero dato per morto bussasse alla porta di casa dopo mesi. Sono migliaia le famiglie che non hanno certezza della morte dei loro cari". "Salvate i superstiti" chiede la liberazione dei prigionieri di coscienza, di quelli in mano agli estremisti (una goccia nel mare), la fine degli arresti arbitrari e che i colpevoli di abusi siano processati. L' obiettivo immediato è che tutti i luoghi di detenzione siano rivelati e resi accessibili alle ispezioni e all'intervento della Croce Rossa e della Mezza Luna Rossa siriana e che siano rivelati anche i luoghi di sepoltura. La campagna ha raggiunto l'apice nell'ultima settimana di gennaio, con manifestazioni nel nord della Siria ma anche all'estero, in Libano, Canada, negli USA, o qui in Europa a Londra, Istanbul e Parigi, mentre a Roma e Berlino si muoveranno il 31. Durante le iniziative in piazza si leggono lettere dei prigionieri e si rappresentano le condizioni di detenzione. La protesta si è espressa anche attraverso i social network, invasi di testimonianze, interviste, vignette, e col "twitter storm" del 26 di questo mese. Uno sforzo coordinato dalla società civile che resiste in Siria, ma che ha visto coinvolti i siriani della diaspora sparsi ormai in tutto l'occidente ed il mondo arabo. La prigionia Oltre alle carceri, ci sono prigionieri chiusi nelle strutture dei servizi segreti e in luoghi sconosciuti. Basta poco per finire in questi gironi infernali: poche righe scritte da qualche informatore in un "taqrir", un rapporto, magari una parola di troppo davanti al fruttivendolo sotto casa, la foto di una manifestazione o i contatti sbagliati nella rubrica del cellulare. Può bastare anche solo il trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Le condizioni di detenzione variano, ma sono sempre disumane. Nelle carceri destinate ai prigionieri politici e nelle sedi dei servizi segreti la brutalità delle torture fisiche e psicologiche raggiungono il loro picco. Alle percosse continue e gli elettroshock si aggiungono il freddo, il sovraffollamento, la fame, la mancanza di assistenza sanitaria e condizioni igieniche drammatiche: ogni giorno c'è chi muore di stenti o per banali infezioni. Anche l'umiliazione fa parte della quotidianità, anche le più elementari esigenze fisiologiche sono strumento di tortura, in celle con 50 persone ed oltre in cui si dorme a turno, corpi straziati che si incastrano gli uni con gli altri in cerca di riposo prima di un altro giorno di agonia. Diffuse anche le torture relative alla sfera sessuale, dai "semplici" stupri fino ai casi di detenuti costretti ad assistere o persino a partecipare allo stupro di propri congiunti. In alcune strutture detenuti privilegiati possono comprare, corrompendo i carcerieri, un po' di dignità, ma si tratta di una esigua minoranza. Le testimonianze Già nell'estate del 2012, un rapporto basato su 200 interviste ad ex detenuti realizzato da Human Right Watch (HRW) denunciava il sistematico ricorso alla tortura da parte del regime di Assad, svelando la collocazione di 27 delle numerose strutture segrete e descrivendo nei dettagli i più comuni metodi di tortura riportati dai superstiti. Nel settembre del 2013 HRW ha avuto accesso ad alcuni di questi luoghi dopo la conquista di Raqqa da parte delle forze ribelli. Qui sono stati trovati strumenti di tortura e documenti che provano i crimini descritti nel precedente rapporto. Le prove più consistenti sono però nel cosiddetto "rapporto Caesar": un documento di 31 pagine con le foto di 11.000 corpi, trafugate dal disertore chiamato Caesar, che tra settembre 2011 ed agosto 2013 aveva il compito di fotografare e catalogare i morti nelle prigioni di Assad di un'area del Paese. Immagini esaminate da giuristi e procuratori del calibro di Desmon De Silva, ex procuratore capo del Tribunale Speciale per la Sierra Leone, che ha detto al quotidiano britannico The Guardian che le prove "documentano uccisioni su scala industriale" e ha aggiunto: "Questa è la pistola fumante che non avevamo mai avuto prima" mentre David Grane, anche lui tra i procuratori del Tribunale Speciale, ha affermato che: "Si tratta esattamente del tipo di prove che un procuratore cerca e si augura di trovare. Ci sono foto con numeri che corrispondono a documenti governativi e c'è la persona che le ha scattate. Sono prove che vanno al di là di ogni ragionevole dubbio". Tuttavia, nonostante le foto siano state mostrate al Congresso USA ed al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, non ci sono state conseguenze per il regime di Assad che oggi sembra sempre più riabilitato, quasi un alleato dell'occidente nella lotta contro il sedicente "Stato Islamico". Presente e memoria Le foto trafugate da Caesar mostrano corpi emaciati, con chiari segni di percosse e torture elettriche, alcuni hanno gli occhi cavati o altre mutilazioni. Foto che ricordano tragicamente quelle scattate dall'Armata Rossa 70 anni fa nel campo di Auschwitz. C'è un filo rosso che lega il 27 gennaio del 1945 ed il nostro presente e non è solo nella similitudine tra quelle foto: il regime di Hafiz al Assad, padre dell'attuale dittatore Bashar, si era servito della consulenza di vari criminali di guerra nazisti nel formare ed addestrare i servizi segreti e le forze speciali. Il più noto era l'austriaco Alois Brunner, la cui morte è stata accertata solo quest'anno. Il gerarca, ritenuto responsabile dell'uccisione di 140.000 ebrei, giunse in Siria nel 1954 dove divenne consigliere di Hafiz al Assad col nome di Dr. Georg Fischer. Nella sua ultima intervista, rilasciata nell'87 dalla sua casa di Damasco, Brunner dichiarò "Tutti gli ebrei meritavano di morire, erano agenti del demonio e la feccia dell'umanità. Non mi pento e lo rifarei ancora". Forse dovremmo ripensare il senso della Giornata della Memoria: si dice che, quando l'Armata Rossa entrò ad Auschwitz, il mondo scoprì le dimensioni tragiche dell'olocausto nazi-fascista. Stavolta non ci sono scuse, sappiamo in dettaglio cosa sta succedendo, continueremo a ripeterci, con aria contrita, "Mai più!" o faremo qualcosa per fermare lo sterminio in atto? Gran Bretagna: un job act per gli ex-detenuti inglesi di Paola Battista www.west-info.eu, 27 gennaio 2015 Uscire dal carcere, e poi? Finalmente la risposta arriva da un'impresa sociale britannica. Si chiama Blue Sky e tra Manchester e Denham offre concrete possibilità di reinserimento socio-lavorativo a 100 ex detenuti l'anno che, altrimenti, dopo il rilascio, sarebbero abbandonati a se stessi. Un'iniziativa nata da una inconfutabile verità: la recidiva comporta un enorme spreco di capitale (umano e) pubblico. Che costa caro al Regno Unito: £13miliardi l'anno. Non un caso. Visto che in media il 60% dei detenuti inglesi incappa nuovamente nel crimine. Per lo più per ragioni economiche. Come conferma il fatto che, al tanto atteso rilascio, oltre il 75% della popolazione carceraria fa i conti con la disoccupazione. Da qui l'efficace programma proposto dall'impresa sociale. Che non offre solamente i classici lavori di manutenzione e riciclaggio. Ma propone un primo contratto di 6 mesi, affiancati da un mentore che investe nella loro formazione, anche nel campo della distribuzione, del catering, della produzione e del trasporto. Non bastasse, nel ventaglio delle possibilità offerte loro, non manca il supporto a chi voglia mettersi in proprio. A ciò Blue Sky affianca il training per agevolare la qualificazione nell'ambito edilizio o l'ottenimento di patenti speciali. Ma anche supporto per gli utenti con figli in difficoltà abitativa. Il risultato? Tra i partecipanti il tasso di recidiva crolla al 15%. Stati Uniti: difficile mantenere la promessa di Obama sulla chiusura di Guantánamo La Presse, 27 gennaio 2015 L'opposizione del Congresso renderà "molto difficile" mantenere la promessa del presidente degli Stati Uniti Barack Obama di chiudere la prigione di Guantánamo, sull'isola di Cuba. Lo ha dichiarato il segretario alla Difesa Usa Chuck Hagel, in un'intervista alla radio pubblica statunitense Npr, affermando che secondo lui la chiusura della prigione non potrà avvenire prima della fine del secondo mandato di Obama nel gennaio 2017, "specialmente se il Congresso continuerà a impedire il trasferimento dei 122 prigionieri ancora detenuti". Hagel ha poi aggiunto che la situazione diventerà tanto più complicata quanto sarà più basso il numero dei carcerati. Sebbene molti di loro abbiano un visto per essere liberati e trasferiti in un altro Paese perché non rappresentano una minaccia, 15 sono considerati prigionieri di grande valore. Fra loro c'è Khalid Shaykh Muhammad, il presunto ideatore degli attentati dell'11 settembre 2001. Egitto: i figli dell'ex presidente egiziano Mubarak rilasciati dal carcere Aki, 27 gennaio 2015 Alaa e Gamal Mubarak, i figli dell'ex presidente egiziano, sono stati rilasciati oggi dal carcere. Lo riporta il sito di al-Ahram. I due sono ancora accusati di appropriazione indebita di fondi dello Stato, ma sono stati scarcerati per aver già scontato i 18 mesi di detenzione preventiva. Dovranno affrontare un nuovo processo dopo che il primo, che li aveva condannati a quattro anni di carcere ciascuno, è stato giudicato da rifare in sede d'Appello per vizi procedurali. Un Tribunale penale del Cairo aveva ordinato giovedì la scarcerazione dei due fratelli Mubarak dal carcere di Tora. A maggio dello scorso anno, i due furono condannati a quattro anni di carcere, mentre l'ex presidente Hosni Mubarak a tre. Il 13 gennaio la Corte di Cassazione ha annullato il processo per vizi procedurali e ne ha ordinato un altro. Arrestati ad aprile del 2011 dopo la Rivoluzione del 25 gennaio, i Mubarak hanno trascorso quasi quattro anni in carcere. L'ex presidente si trova ancora nell'ospedale militare di Maadi a sud del Cairo. Mauritania: rivolta nel carcere della capitale Nouakchott, salafiti prendono ostaggi Ansa, 27 gennaio 2015 Resta ancora molto confusa la situazione nel carcere della capitale mauritana Nouakchott dove, da alcuni giorni, un gruppo di detenuti appartenenti alla corrente salafita dell'Islam, dopo una rivolta, hanno preso in ostaggio un numero imprecisato di guardie. I salafiti, impossessatisi di alcune ali del reclusorio, hanno comunicato, via internet, con l'esterno lanciando dei messaggi contrastanti, alcuni dei quali minacciavano l'esecuzione delle guardie in caso di loro mancata liberazione. Ma questa mattina la situazione, pur potenzialmente pericolosa, sembra ridimensionarsi perché è stato accertato che i rivoltosi, contrariamente a quanto avevano fatto trapelare, non sono armati di fucili o anche solo di coltelli, ma solo dei manganelli sottratti ai loro ostaggi quando questi ultimi hanno tentato una incursione nei locali in mano ai salafiti. Sembra che la rivolta sia scoppiata quando un gruppo di salafiti che, scontata la loro condanna aspettavano di essere scarcerati, hanno avuto comunicato uno slittamento delle procedure di liberazione, peraltro senza una apparente giustificazione, almeno a loro giudizio. Intorno alla prigione, riferiscono testimoni da Nouakchott, sono state dispiegate alcune unità di sicurezza, che fanno ritenere come imminente una azione di forza.