Lettera "aperta" al Ministro Orlando a proposito degli Stati Generali sul carcere e le pene Ristretti Orizzonti, 26 gennaio 2015 Gentile Ministro Orlando, siamo la redazione di Ristretti Orizzonti, la rivista realizzata da detenuti e volontari nella Casa di reclusione di Padova. Vorremmo avanzarle una proposta molto concreta: quella di organizzare gli Stati Generali sulle pene e sul carcere qui, in questa Casa di reclusione. Lei forse sa che ogni anno noi organizziamo un Convegno, a cui partecipano circa seicento persone dall'esterno, e 150 persone detenute. Non pensa che portare gli "addetti ai lavori" a confrontarsi con le persone detenute sul senso che dovrebbero avere le pene avrebbe un valore davvero fortemente educativo per tutti, per chi deve essere protagonista di un percorso di rientro nella società, e per chi deve aiutare a costruire quel percorso? Ci sono tante buone ragioni per cui riterremmo utile fare qui nella Casa di reclusione di Padova gli Stati Generali sulle pene e sul carcere, prima fra tutte che in tal modo si eviterebbe di trasformarli in un lungo elenco di interventi di "esperti" senza nessun confronto con chi le pene e il carcere li vive direttamente come parte della sua vita. Abbiamo cercato di immaginare per un attimo una cosa inimmaginabile: di essere noi il ministro della Giustizia in questo difficilissimo periodo per le carceri, con l'Europa che ci sta addosso perché il nostro Paese sta gestendo il sistema della Giustizia in modo ancora pesantemente illegale. La prima cosa che faremmo allora è di provare ad aprire un dialogo con i diretti interessati, quelli che hanno sì commesso reati, ma a loro volta ora subiscono ogni giorno l'illegalità del sistema. Ecco, se gli Stati Generali si organizzassero nella Casa di reclusione di Padova, ci sarebbe l'occasione per confrontarsi non con il singolo detenuto che porta la sua testimonianza sulla sua condizione personale, né esclusivamente con operatori ed esperti, perché il confronto avverrebbe con una redazione di detenuti che da anni lavora per cambiare le condizioni di vita in carcere, ma anche per ridare un senso alle pene. Forse è paradossale che a fare questo siano i detenuti stessi, ma in fondo non è neppure così assurdo, perché proprio vivendo pene insensate tante volte le persone hanno accumulato altri anni di carcere e hanno ulteriormente rovinato la loro vita e non vogliono più farlo; gli addetti ai lavori potrebbero sentir raccontare nei particolari più crudi anche quello che patiscono le famiglie da un sistema, che dimostra spesso scarsissima attenzione nei confronti dei famigliari dei detenuti. Ormai non c'è paese al mondo dove non si discuta di rendere più umane le condizioni delle visite dei famigliari. E noi, con tutta la nostra democrazia, continuiamo a permettere in tutto sei ore al mese di colloquio con controllo visivo, l'equivalente cioè di tre giorni all'anno, e una telefonata di dieci miserabili minuti a settimana; gli addetti ai lavori potrebbero sentir parlare di come è possibile comunicare in modo efficace con la società e informare sulla realtà delle pene e del carcere, senza suscitare la rabbia dei cittadini: glielo diciamo con assoluta certezza, perché noi incontriamo ogni anno in carcere più di seimila studenti, e le assicuriamo che attraverso le testimonianze delle persone detenute, che parlano dei loro reati per assumersene la responsabilità e per fare prevenzione rispetto ai comportamenti a rischio delle giovani generazioni, le persone cominciano a farsi una idea diversa delle pene e del carcere. Forse, se in tanti comunicassero con l'onestà e la consapevolezza con cui lo facciamo noi, non si perderebbero neppure voti a parlare del carcere, perché i cittadini capirebbero che pene più umane sono garanzia di maggiore sicurezza; le persone detenute, chiamate a partecipare da interlocutori alla pari a un confronto sulla propria condizione, vedrebbero riconosciuta alla propria voce dignità, e questo è un passo importante per imparare ad aprirsi all'ascolto dell'altro e al dialogo; da ultimo, sarebbe significativo fare gli Stati Generali in un carcere come quello di Padova, descritto dai mass media ora come un carcere modello, ora come un luogo violento e fuori legge: in realtà, non è né l'uno né l'altro, è un carcere che sarebbe dignitoso, con esperienze anche innovative, se non contenesse ancora il doppio dei detenuti che dovrebbero esserci. A Padova convivono, per forza malamente, due realtà, quella di una detenzione che dà un senso alla pena attraverso lo studio, la cultura, il lavoro, l'apertura e il confronto con il mondo esterno, e quella di un carcere in cui le persone sono costrette ad "ammazzare il tempo" per mancanza di spazi e attività per tutti, e quindi accumulano solo rabbia e rancore. Nella speranza di essere stati convincenti, le porgiamo i nostri saluti e ci auguriamo di poter ospitare gli Stati Generali sulle pene e sul carcere nella Casa di reclusione di Padova. E, per prepararli seriamente, speriamo anche che lei possa al più presto essere ospite della nostra redazione. La redazione di Ristretti Orizzonti Notizie "gridate" che mettono a rischio tutto il processo di umanizzazione delle carceri di Elton Kalica Ristretti Orizzonti, 26 gennaio 2015 Dato che di solito, quando ho un giornale in mano, mi limito per lo più ai titoli e mi fermo a leggere solo gli articoli che trattano il tema della giustizia, potrei essere considerato uno di quei noiosi lettori monotematici della stampa quotidiana. Una curiosità, la mia, determinata dalla mia lunga conoscenza del sistema penitenziario italiano, e dal mio attuale lavoro di giornalista. Se fare informazione sul carcere non è facile, leggere come gli organi di informazione raccontano quello che succede nelle carceri mi causa spesso un sentimento di frustrazione. Un sentimento che ho provato anche in questi giorni. L'agente picchiato Pochi giorni fa sul Mattino di Padova è apparso un articolo che parlava di un "agente picchiato..." e raccontava un episodio avvenuto all'interno del carcere riferendosi a dettagli forniti da un comunicato stampa di un sindacato della polizia penitenziaria. Vedo le galere da 18 anni. Prima come detenuto e poi da volontario. Non so cosa prova una persona "normale" alla lettura di un articolo così, ma a me ha fatto raddrizzare le antenne del sospetto. L'articolo diceva che l'agente era stato preso a calci e pugni da un detenuto, dopo che aveva scoperto che il suo televisore era stato modificato per attività illecite. Certo le risse ci sono perché la convivenza forzata e la ristrettezza a volte esaspera i rapporti tra gli uomini. Tuttavia, il sistema di premialità, che vige in carcere, funziona abbastanza bene. Se il detenuto infrange qualsiasi regola, perde i 45 giorni di sconto di pena previsti per ogni sei mesi di pena scontata, e per chi ha una lunga condanna da scontare, ottenere 45 giorni ogni sei mesi è un buon motivo per comportarsi bene. Discutere animatamente con un agente in carcere è un fatto grave, ma succede. Solo che spesso l'agente scrive poche righe per fare un rapporto disciplinare al comandante del carcere su quella discussione, e addio ai 45 giorni di libertà. Se invece scappa una parolaccia, il comandante procede spesso con la denuncia penale ed è molto probabile che si venga condannati per direttissima per offesa a pubblico ufficiale. In questo caso, perdi facilmente anche tutto lo sconto di pena eventualmente ottenuto, e non puoi chiedere alcuna misura alternativa. La storia del televisore "modificato" mi ha fatto ricordare una cosa che avevo ormai rimosso. Lo facevo anch'io quando ero detenuto. Avevamo i mangianastri e ascoltavamo le cassette che ci mandavano da casa con le cuffie. Le casse non si potevano comprare, e noi avevamo scoperto che tagliando i fili delle cuffie e infilandoli dietro il televisore, nella porta destinata ad ospitare il decoder, il flusso audio passava dal mangianastri alle casse del televisore facendo ascoltare a tutti la stessa cassetta. Sicuro che dietro l'aggressione ci fosse un motivo più grave del televisore, ho ascoltato in redazione il racconto di alcuni detenuti su cosa fosse successo. Secondo loro, l'agente stava facendo la solita battitura: si tratta di battere con un ferro contro le sbarre per capire dal suono che non siano state segate. In una delle celle aveva visto il filo delle cuffie attaccato al televisore. Quindi aveva detto al detenuto di togliere il filo, il detenuto si era rifiutato, sostenendo che non stava facendo nulla di male. L'agente a quel punto aveva staccato lui stesso il filo, che era stato preso a sua volta dal detenuto. Ne era nato un "tiro alla fune" che aveva visto vincitore il detenuto. Mentre all'agente era rimasta una strisciata sulla mano. Certo, è solo la versione dei detenuti, ma è totalmente diversa dal comunicato del più forte sindacato di Polizia Penitenziaria, e di conseguenza, dagli articoli di giornale che ne sono seguiti. La cosa meriterebbe però di essere approfondita. La "rivolta" dei detenuti di Padova Due giorni dopo "l'agente preso a calci e pugni", alcuni sindacati della polizia penitenziaria denunciano un altro gravissimo episodio. Con toni particolarmente allarmanti si informa di una rivolta nel quarto piano della Casa di reclusione di Padova messa in atto da circa sessanta detenuti, di cui molti inneggiavano ad Allah e all'Isis. Di nuovo nella cronaca del "Mattino di Padova", ma anche di altri giornali, appaino articoli che riportano integralmente interi comunicati stampa di alcuni sindacati di Polizia Penitenziaria. Il caso assume dimensioni nazionali, compresa una interrogazione parlamentare. Decidiamo di approfondire e durante l'ultima riunione di redazione chiamiamo dei detenuti del quarto piano e chiediamo se avevano una idea di cosa fosse accaduto. Stando al racconto, alla mattina c'era stata una perquisizione nelle celle del quarto piano, e in una cella un agente aveva trovato un secchio di frutta marcia. L'agente aveva accusato di voler distillare la frutta per produrre grappa. Di fronte alla sua intenzione di fare rapporto, ne era nata una discussione con due detenuti, uno italiano e uno romeno, che cercavano di sminuire la gravità del fatto. Alla fine l'agente aveva scritto il rapporto e i due ormai aspettavano l'immancabile sanzione disciplinare. Nello stesso reparto, alla sera, un detenuto si era sentito male, pare si fosse tagliato, e si era accasciato per terra. Altri suoi compagni avevano chiamato in cerca di aiuto, ma i soccorsi non arrivavano. I due detenuti puniti alla mattina, carichi anche di rabbia per la punizione, insieme ad altri si erano affacciati al cancello del reparto e avevano iniziato a urlare contro quella che secondo loro era una inerzia voluta dell'agente di turno. A quel punto l'agente aveva chiamato i rinforzi poiché, vista la rabbia dei detenuti, non se la sentiva di entrare in reparto. Poco dopo era arrivata una squadra di agenti. Dopo aver portato via la persona che stava male, gli agenti avevano ordinato ai detenuti di rientrare nelle celle, ma alcuni di loro si erano rifiutati chiedendo di parlare con il comandante. Temendo qualche azione di forza, qualcuno aveva rotto un tavolo e teneva una gamba in mano come arma. Ma alla fine i detenuti si erano convinti a rientrare nelle proprie celle. Poi i racconti parlavano di rappresaglie nei confronti dei due detenuti più violenti, ma l'azione collettiva dei detenuti si era conclusa. Certo, anche qui si tratta della prospettiva dei detenuti, che forse dovrebbe essere presa con le pinze. Tuttavia ci sono molti elementi che rendono degna di attenzione questa versione. C'è da menzionare che qualche articolo ha timidamente dedicato poche righe alla risposta fornita da chi sta conducendo le indagini. Ebbene, anche gli inquirenti negano ogni coinvolgimento di detenuti arabi e di manifestazioni di stampo islamista, così come negano che ci siano agenti ricoverati. Come dicevo prima, raccontare il carcere non è facile per un giornalista. Tuttavia ci sono tanti modi per informarsi, e limitarsi a riportare integralmente un comunicato del Sappe, così come riportare integralmente la versione di un detenuto, non è un buon giornalismo. Allora, noi che abbiamo imparato a fare informazione guardando il mondo attraverso le sbarre vorremmo che anche i giornalisti fuori imparassero a mettersi nei panni di chi sta dentro, e raccontassero il carcere in modo diverso. Ad esempio hanno parlato tutti di scontri e di feriti, ma non mi pare che qualcuno abbia chiesto al medico del carcere di confermare quanti agenti e quanti detenuti contusi ci sono stati. Il rischio di tornare indietro di quindici anni Solo una settimana fa abbiamo organizzato in carcere un Seminario di aggiornamento per i giornalisti di cronaca nera e giudiziaria, e come ogni anno, invitiamo i giornalisti a studiare e a documentarsi quando scrivono di persone condannate e di esecuzione delle pene. Sono pochi a conoscere la lunga strada di battaglie fatte fino ad ora per conquistare piccoli spazi di vita dignitosa all'interno delle carceri. Dopo dieci anni e più di continui "allarmi sociali" e di "pacchetti sicurezza", negli ultimi anni abbiamo visto un cambio di rotta: un minor uso del carcere inteso come unica pena per qualsiasi reato e una tendenza ad umanizzare le carceri e a renderle più trasparenti. È naturale che qualche agente non sia d'accordo e che desideri tornare a un carcere più chiuso. Però ci sono anche molti più agenti che hanno capito come un carcere aperto significa avere detenuti più responsabili che usciranno meno arrabbiati. Pertanto, dare spazio a richieste che vogliono tornare a chiudere ancora più a lungo i detenuti nelle celle, oppure usare come titolo la richiesta di armare gli agenti con spray urticante, significa mettere a rischio tutto il processo di umanizzazione della detenzione. Il Parlamento s'impegna ad approvare la legge per rendere più umane le carceri Il Mattino di Padova, 19 gennaio 2015 Il Parlamento finalmente si è accorto delle famiglie dei detenuti. Quando hanno partecipato, nel carcere di Padova, lo scorso dicembre, al seminario "Per qualche metro e un po' di amore in più", alcuni parlamentari hanno ascoltato gli interventi di tante figlie di detenuti, e dei loro padri, e poi si sono impegnati a fare propria la battaglia per una umanizzazione vera delle carceri, che deve passare attraverso un autentico e profondo miglioramento dei rapporti delle persone detenute con le loro famiglie. Ora, questo impegno sta diventando qualcosa di concreto: nei prossimi giorni, la Commissione Giustizia della Camera inizierà la discussione su una proposta di legge sugli affetti dei detenuti, e al Senato verrà presentata una seconda proposta in materia. Noi speriamo che le forze si uniscano, le due proposte diventino una sola, che finalmente venga calendarizzata, discussa e approvata. Perché nelle carceri c'è davvero bisogno di un po' di amore in più da dedicare alle famiglie. Noi, nel frattempo, dedicheremo tutte le nostre energie a tener viva l'attenzione su questi temi con testimonianze come quelle che seguono, che raccontano l'emozione e la sofferenza dei colloqui, quei colloqui crudelmente brevi (sei ore al mese, quattro nelle sezioni di Alta Sicurezza) che la nuova legge dovrebbe prolungare e rendere più frequenti. Il mio primo colloquio in carcere Mi chiamo Slavisa, ho 43 anni e provengo dalla Serbia. Sono detenuto presso la Casa di Reclusione di Padova, con la pena dell'ergastolo. Io e la mia compagna abbiamo tre figli. Sono stato arrestato nel 2006 per la prima volta nella mia vita. Prima di arrivare a Padova ho vissuto nelle carceri del Meridione. Come potete immaginare mi era difficile avere colloqui con i miei famigliari, perciò nel 2007 ho chiesto un trasferimento, in Friuli. Nel 2011 da Palermo sono stato trasferito in provincia di Udine, presso la Casa circondariale di Tolmezzo. Per prima cosa ho avvertito subito la mia famiglia. Dopo un mese siamo riusciti a ottenere il primo colloquio. Il 4 agosto 2012 i miei figli e la mia compagna sono venuti a trovarmi. Quella mattina mi ero alzato molto presto e non facevo altro che pensare a loro, parlando da solo e cercando le parole giuste. Cosa dirgli, dopo otto anni che non li vedo? È arrivato il momento. Gli agenti mi hanno chiamato. Il percorso fino alla sala colloqui mi sembrava lunghissimo. Mi sembrava di volare. Non posso spiegare come mi sentivo, non so come descriverlo. Ecco, ci siamo, mi ripeto dentro di me, sono nella sala colloqui che aspetto. Sento il mio cuore che batte forte dentro il mio petto, tutum, tutum, tutum. A quel punto si è aperta la porta, ed entrano subito due splendide ragazze. Dietro loro una donna con gli occhi gonfi e rossi, di quelli che hanno appena pianto. A chiudere la fila un uomo. In quell'attimo volevo urlare di gioia, volevo urlare fortissimo perché avevo male al petto. Sono cresciuti e la donna è invecchiata. Mi sono ritrovato quasi incredulo, poi ho pensato che era meglio abbracciarli con un grandissimo sorriso. Dopo i saluti ci siamo seduti a parlare, per la prima volta dopo otto anni. In quella confusione c'erano parole che avremmo voluto dirci, ma i sospiri erano quello che riuscivamo a darci. Mio figlio e la maggiore delle mie figlie mi chiedevano di tutto. La più piccola era silenziosa, mi parlava solo se le chiedevo qualcosa, pensavo fosse stanca per il viaggio. Le quattro ore concesse dalla Direzione per il colloquio sono passate in un attimo, veloci come un lampo. A quel punto l'agente entra nella stanza e a voce alta comunica che la visita è terminata. Ci siamo salutati con un lungo abbraccio e poi se ne sono andati. Rientrando pian piano nella mia stanza, mi tenevo appoggiato al muro con i pensieri fissi ai bei momenti appena trascorsi. Dopo un paio di giorni ho chiamato a casa per risentirli e chiedere come era andato il viaggio. Mi risponde la mia piccola: "Ciao, papà, come stai?" E io rispondo che sto bene, a mia volta chiedo se è ancora stanca del viaggio. Lei mi risponde: "No, non sono stanca e anche in Italia non ero stanca". Le chiedo perché, al contrario dei suoi fratelli, non mi aveva parlato al colloquio, ma non mi giungeva nessuna risposta. Riuscivo solo a sentire un sospiro lieve e umido. Allora ho capito che stava piangendo. "Parlami", le dissi, e dopo qualche attimo mi esplose in faccia la verità: "Papà, io non ti conosco". Non ho più avuto parole, né io e neppure lei, siamo rimasti in silenzio fino a quando si è interrotta la telefonata. Il tempo era scaduto. Slavisa D. La pena non la sconti solo tu, ma anche la tua famiglia Per un detenuto la famiglia è vita. Quando si avvicina il giorno del colloquio, dire di sentirsi una gioia dentro che voglia esplodere da un momento all'altro è poco. L'attesa di essere chiamato per entrare al colloquio è però angosciante. Si inizia con la notte che precede il giorno del colloquio, non si riesce a dormire, si pensa alla famiglia che si metterà in viaggio nella mattinata, nel mio caso alle 5 per prendere un aereo per Roma, per poi proseguire con una macchina fino a Spoleto, dove mi trovo ristretto. In questa attesa faccio i calcoli di quanto possono impiegare per arrivare a Spoleto, ma vuoi per una cosa o per un'altra, i conti non mi tornano mai, c'è sempre un ritardo, la mia mente inizia a tormentarsi e faccio tanti pensieri brutti. Dico a me stesso che se succede qualcosa la colpa è mia, questa attesa mi distrugge dentro, mi rilasso solo quando l'agente mi chiama, in quel momento è come se mi sentissi mancare le forze per la gioia di sapere che la mia famiglia è qui. La legge dice che i detenuti dovrebbero stare "in istituti prossimi alla residenza delle famiglie", ma tutto questo nella realtà conta poco, si è detenuti spesso lontano da casa, e il motivo della lontananza non si riesce a capirlo. Quando avviene l'incontro con i familiari il mio cuore inizia a battere più forte come se volesse uscire dal mio torace, li abbraccio con forza e sento il calore della mia famiglia, ci sediamo attorno ad un tavolo, stringo la mano a mia moglie, accarezzo i miei figli e i miei nipotini, quando possono venire. Osservo la mia famiglia e sono fiero di loro, cerco di chiedere come stanno quelli che sono assenti, ma poi mi accorgo che mi ripeto sempre con le stesse domande. Quando si avvicina la fine del colloquio vorresti che le lancette dell'orologio della sala colloqui si spostassero indietro per avere ancora tempo di stare con loro, ma è finita, in quei pochi minuti che rimangono vorrei dire tutto quello che non ho detto in tre, quattro ore di colloquio. Poi ci sono i saluti con abbracci e baci, in quel momento non vorrei staccarmi più da loro, ma devono andare, il colloquio è finito. Il rientro in stanza è tra gioia e malinconia, la gioia perché hai un po' di cibo cucinato da casa, dalle mani di mia moglie, questo odore mi fa dimenticare per alcuni minuti che sono chiuso tra quattro mura. Poi inizia l'angoscia perché sai che la tua famiglia è di nuovo in viaggio, un'altra notte di tormenti nella mente che troverà pace quando sai che sono arrivati a casa e dirò: grazie mio Dio che hai avuto cura di loro. Io posso solo concentrare il mio affetto e l'amore per la mia famiglia su un foglio di block notes dove posso esprimere le mie paure, il mio amore e tutto quello che passa per la mia mente, questo foglio di block-notes lo invierò alla mia famiglia, ma lo odio già in quanto ha il privilegio di poter stare tutto il tempo che vuole con i miei cari, quello che a me manca. Questa affettività in carcere è solo angoscia e paura. Penso che sia una sofferenza che si aggiunge alla pena che devi scontare, ed è una pena a tutti gli effetti che però non sconti solo tu, ma anche la tua famiglia. La nostra Costituzione credo sia la più bella al mondo, solo che viene violata quotidianamente. Leonardo G. Giustizia: quelle leggi inique per eccesso di zelo di Michele Ainis Corriere della Sera, 26 gennaio 2015 Eduardo De Falco era un panettiere di Casalnuovo, paesone di 50 mila abitanti a due passi da Napoli. La mattina del 19 febbraio 2014 un paio d'ispettori del lavoro entrano nel suo locale; dietro il bancone c'è la moglie; lei non ha un contratto d'assunzione, dà una mano al marito, anche perché da un po' di tempo quel forno arranca per arrivare a fine mese; loro però si dimostrano inflessibili, nonostante le preghiere, e i pianti, del suo titolare. Sicché gli appioppano una sanzione da 2 mila euro, intimandogli di pagarla in giornata, altrimenti dovranno mettere i sigilli; e altri 10 mila da versare a stretto giro. Il giorno dopo De Falco si suicida, collegando un tubo fra lo scarico e l'abitacolo della propria utilitaria. Aveva 43 anni, ha lasciato tre bambini. Nadir Gismondi, invece, di anni ne aveva 22. Un ragazzone grande e grosso, ottimo studente, ex volontario negli Alpini, elettricista nei ritagli di tempo. Il suo sogno era diventare vigile del fuoco, come il papà. Viveva a Imperia. All'alba del 28 giugno 2009 sta rientrando a casa dopo una notte trascorsa con gli amici. Lo ferma una pattuglia dei carabinieri, lui risulta positivo all'etilometro, ma appena d'un soffio: 0,7 milligrammi per litro, mentre il limite di legge è 0,5. Quanto basta per impedirgli di rimettersi al volante della sua Peugeot, perciò i carabinieri gli infliggono una multa di 258 euro e lo invitano a farsi venire a prendere dal padre. Da qui la sfuriata paterna, da qui il terrore del ragazzo che teme di non poter più concorrere per un posto da vigile del fuoco. Si uccide pochi minuti dopo, sparandosi alla tempia con una calibro 9. Otto mesi dopo s'impicca pure il padre. Cos'hanno in comune queste due vicende? Un epilogo tragico, certo; ma non solo. In entrambi i casi il colpevole non aveva coscienza della colpa, percependo quindi la sanzione come ingiusta o almeno sproporzionata. E lo era, infatti. Era colpevole la legge, non il reo. Perché trattava la moglie del panettiere come ogni altro operaio, come un garzone che deve avere in tasca il suo contratto di lavoro, prima di rimboccarsi le maniche in bottega. Ma lei era la moglie, non il garzone; dalla sua fatica traeva beneficio la stessa famiglia del datore di lavoro, gli stessi figli, la stessa casa. E la legge era colpevole perché trattava (tratta) un ragazzo di vent'anni come un ottantenne, rispetto al tasso alcolico tollerato in chi conduce un'automobile. Ma invece no, non siamo tutti uguali. Il primo può ben conservare lucidità e riflessi anche con un paio di bicchieri di vino nello stomaco, il secondo può addormentarsi sul volante pur essendo astemio. Conta l'età, come conta del resto la tua stazza fisica, la tua salute generale, magari il grumo d'angosce che ti frulla nella testa. Se il legislatore ha davvero a cuore la sicurezza stradale, farebbe meglio a misurare i riflessi, non i centilitri. Diceva Anatole France: "La legge, nella sua maestosa equità, proibisce tanto ai ricchi quanto ai poveri di dormire sotto i ponti". Bella equità, quando i primi vivono in dimore sontuose, mentre ai secondi manca un tetto sotto il quale ripararsi dalla pioggia. No, è il contrario che bisogna fare. Altrimenti la legge produrrà l'effetto opposto a quello che - in teoria - vorrebbe perseguire. E infatti, a che servono le regole applicate a Casalnuovo dagli ispettori del lavoro? A proteggere il lavoratore, invece provocano il suicidio del lavoratore. Specie se le regole sono del tutto indifferenti alla crisi economica che ci martella in questi anni, costringendo ciascuno ad arrangiarsi come può. E a che serve l'etilometro? A tutelare l'automobilista, eppure determina il suicidio dell'automobilista. La salvezza - del lavoratore come dell'automobilista - dipende in questi casi dalla pietas dei gendarmi della legge, dalla loro disponibilità a immergersi nel vissuto di ogni situazione, anche a costo di chiudere un occhio sulla legge. Ma non è una buona regola quella che trasforma i poliziotti in giudici o che lega i destini individuali al capriccio del burocrate. Vicende simili interrogano il nostro senso di giustizia e interrogano perciò il concetto di eguaglianza. Quale eguaglianza? Fra chi? Come? Infine: quanta eguaglianza? (...) Perché non è affatto vero che le piccole diseguaglianze siano trascurabili: Allah si manifesta anche in un granello di sabbia, come dicono gli arabi. E dalle piccole ingiustizie derivano però grandi soprusi, tanto grandi da provocare una tragedia, come nei due fatti di cronaca che abbiamo rievocato. Giustizia: l'avvertimento giudiziario di Mauro Calise Il Mattino, 26 gennaio 2015 Lo scontro frontale col governo, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, colpisce ma non sorprende. Colpisce per i toni durissimi, talora addirittura sprezzanti, che non dovrebbero fare parte del repertorio istituzionale in una occasione ufficiale. Ma, ormai, in Italia siamo abituati a vivere sopra le righe. E colpisce per l'unitarietà di argomenti, e di intenti, anti renziani, quasi vi fosse stato un concerto, un passaparola tra le alte toghe - non proprio il massimo come segnale di autonomia della magistratura che ha, come presupposto, quella dei singoli magistrati. Solo un ingenuo, tuttavia, potrebbe dire di essere stato preso in contropiede dall'offensiva inscenata nei tribunali. Il premier viene così aspramente - e apertamente - osteggiato dai parlamentari del suo stesso partito, che lo accusano ripetutamente di collusione con Berlusconi. Perché non dovrebbe ritrovarsi contro quella magistratura che è stata, per un ventennio di fila, in guerra dichiarata - e combattuta - con l'ex-Cavaliere? Il nodo, tanto per - non - cambiare, è lo stesso: la lotta per la supremazia tra politica e magistratura. Che si declina in vari sotto temi, che poi sono altrettanti simboli e messaggi sulla scena mediatica: leader contro corporazioni, garantismo contro giustizialismo, responsabilità individuale contro impunità cetuale (che si può leggere double face, a seconda di per chi si tifa), legittimazione popolare contro legalità procedurale. Sbaglierebbe chi volesse infilarsi nei meandri tecnici della contrapposizione, come se la ragione potesse stare da una parte o dall'altra in una materia che è un groviglio inestricabile di interessi e poteri secolari. Certo che hanno ragioni da vendere i magistrati quando denunciano i ritardi che anche questo governo colleziona nel far passare una legislazione che potrebbe dare finalmente un colpo al virus della corruzione. Ma altrettanto sacrosanto è il dito puntato contro la pessima gestione che la magistratura ha fatto e fa del proprio autogoverno. Impantanando nelle faide tra correnti qualunque serio sforzo di riforma di una macchina giudiziaria la cui inefficienza è diventata un alibi per ogni forma di arbitrio. Se si scende nei particolari e si analizzano i dettagli, appare evidente che non ha molto senso parlare dei due contendenti come fossero, ciascuno, un blocco monolitico. Sanno tutti che, nell'esecutivo, sono rappresentate forze molto eterogenee, e che - almeno per il momento - è illusorio attendersi accelerazioni troppo brusche nella direzione necessaria. Altrettanto, non avrebbe senso accomunare in un solo calderone i giudici che accumulano ferie e menano i processi all'infinito con i tanti - tantissimi - che stanno costantemente e indefessamente al lavoro su fronti delicatissimi, e anche spesso pericolosissimi. No, nei fuochi d'artificio di sabato, e nella piccatissima risposta ieri di Matteo Renzi, la posta in gioco non sono le ferie della categoria, o questo o quel provvedimento da modificare. Dietro l'orgogliosa difesa delle prerogative di corpo, i top-gun della magistratura ci hanno tenuto a mandare al premier un messaggio squisitamente politico. Trattandolo con lo stesso linguaggio adoperato, in un recentissimo passato, nei confronti di Berlusconi. Una sorta di avvertimento, a starsi accorto. Perché a mettersi di traverso ai magistrati rischia di farsi - molto - male. Renzi, che è lesto di comprendonio, il messaggio lo ha capito bene. Anzi, lo aveva anticipato. Provocando, con alcune sue scelte e - soprattutto - dichiarazioni, la levata di scudi di sabato dalle aule di mezza Italia. Le parole pronunciate ieri confermano che, come suo solito quando c'è odore di battaglia, il premier alza la posta. Chiamando a sostegno il consenso popolare che, su questo tema, sa bene come solleticare. E ribadendo, preventivamente, che lui "non ha niente da temere. Come tutti i cittadini onesti". Se in un futuro - più o meno prossimo - dovesse piovere anche sul capo di Renzi qualche tegola giudiziaria, l'ombrello è stato già aperto. Non è detto che sarà sufficiente. Ma una antica legge della politica insegna che la miglior difesa è l'attacco. Giustizia: va scritta una nuova pagina di Cosimo Maria Ferri (Sottosegretario alla Giustizia) Il Tempo, 26 gennaio 2015 L'apertura dell'anno giudiziario è da sempre l'occasione per parlare di giustizia e analizzare i risultati raggiunti e le criticità emerse e anche se non fa notizia in alcuni distretti è stato dato atto dello sforzo e della spinta riformatrice del governo e del coraggio nell'affrontare questioni da anni irrisolte. Va anche detto che negli anni alle condizioni di lavoro dei magistrati e al funzionamento effettivo degli uffici sono stati anteposti spesso argomenti di natura ideologica sia dallapoliti-ca che dall'Anm. I cittadini oggi avvertono un problema complessivo di efficienza del sistema giustizia. Evidenziando ciò, il premier Matteo Renzi non cercava lo scontro coni magistrati ma intercettava il senso comune dei cittadini, che vedono tempi troppo lunghi per avere giustizia. Ed è proprio nei magistrati italiani - secondo le classifiche Ue (vedi rapporto Cepej) tra i più "produttivi" d'Europa - che occorre ricercare l'alleato strategico per la sfida di una giustizia che cammini alla giusta velocità: né troppo rapida e sommaria, né troppo lenta e tardiva. I magistrati già oggi sacrificano ore di riposo, fine settimana, vacanze, per scrivere sentenze, senza avere diritto a recuperi compensativi. Si può chiedere loro un ulteriore sacrificio, tagliare le ferie, ma i trenta giorni di riposo devono essere effettivi. Il Csm può evitare che nei giorni immediatamente precedenti e successivi alle ferie non vi siano udienze, così da evitare che le vacanze siano spese a scrivere sentenze. E ancora: oggi tutti i lavoratori hanno diritto a essere retribuiti durante la malattia, per i magistrati non è cosi. Chi si ammala perde l'indennità giudiziaria. Si potrebbe quindi riconoscere la malattia evitando il taglio dell'indennità. C'è insomma da scrivere una nuova pagi-na per una giustizia di qualità e il governo lo sta facendo con serietà. Altro tema è poi quello del correntismo che è innegabile che esista dentro la magistratura e che abbia un peso nelle decisioni del Csm. Su questo da anni anche all'interno dell'Anm ho sempre chiesto di fare autocritica: nessuno si può chiamare fuori. L'indipendenza interna è un valore che deve essere salvaguardato e se non riesce a farlo da sola la magistratura, è inevitabile ce lo faccia la politica: ciascun magistrato deve sempre sentirsi libero di decidere senza preoccuparsi di dispiacere il collega che potrebbe giudicarlo nella sua carriera. Giustizia: Renzi gela i magistrati "critiche ridicole, basta con lo strapotere delle correnti" di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 26 gennaio 2015 Loro lo accusano di averli trattati come degli scansafatiche, senza rispetto istituzionale, addossando alla categoria i guai della giustizia. Lui ieri ha preso carta e penna e replicato agli attacchi ricevuti il giorno prima, in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario: le contestazioni sono bollate dal premier come "ridicole", così come la questione delle ferie ridotte dal governo, "non vogliamo far "crepare di lavoro" nessuno, ma vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice, passo dopo passo ci arriveremo". Matteo Renzi risponde a tutte le critiche ricevute, in modo esplicito, difendendo le recenti misure approvate dall'esecutivo, come il taglio delle ferie di 15 giorni: "Alcuni magistrati - scrive di prima mattina il presidente del Consiglio su Facebook - sfruttano iniziative istituzionali per polemizzare con il governo, mi dispiace molto, perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo - e lo dico, senza giri di parole - che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia, il premier ci vuol "far crepare (scritto in maiuscolo ndr) di lavoro". Nella risposta del premier ai magistrati, che minacciano ricorsi alla magistratura amministrativa contro il recente provvedimento di Palazzo Chigi, c'è anche un'analisi dello stato dell'ordinamento giudiziario: "Bisogna valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti", scrive Renzi, aggiungendo che "l'Italia è la patria del Diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore", anche per "la memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia che ci impone di essere seri e rigorosi". Nel replicare ai magistrati il capo del governo dice di sfidare anche un luogo comune: "A chi mi dice: ma sei matto a dire questa cose? Non hai paura delle vendette? Rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati. E i nostri giudici - aggiunge - devono sapere che il governo (nel rispetto dell'indipendenza della magistratura) è pronto a dare una mano. Noi ci siamo". Alle parole del premier ha risposto l'Associazione nazionale magistrati, dopo poche ore, dicendo che "il problema non sono i magistrati, ma le promesse mancate, la timidezza in materia di prescrizione e corruzione, la proposta, alla vigilia di Natale, di depenalizzare l'evasione fiscale fino al 3%. Le critiche che vengono dai magistrati - si legge ancora nel comunicato dell'Anm, il "sindacato" delle toghe - sono dettate dalla delusione: noi riponevamo e vorremmo riporre fiducia nella volontà di fare le buone riforme, ma chiediamo coerenza tra parole e fatti. Renzi vuole un sistema più veloce e più semplice? Blocchi la prescrizione almeno dopo la sentenza di primo grado, introduca sconti di pena ai corrotti che collaborano con la giustizia, estenda alla corruzione gli strumenti della lotta alla mafia". Ma non solo, è anche di "cattivo gusto" la citazione dei magistrati uccisi. "Le critiche delle ultime ore sono ingenerose", interviene in serata il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, "dispiace che l'Anm non colga il passaggio attuale per recuperare obiettività. Le nostre riforme non sono contro la magistratura, ma contro la paralisi che dura da troppi anni". Giustizia: il premier Renzi "toghe ridicole". L'Anm ribatte "dal governo solo promesse" di Luca De Carolis Il Fatto Quotidiano L'avevano criticato, ancora, per quella riforma della giustizia che ignora l'emergenza prescrizione ma recide le ferie dei magistrati. E il fu rottamatore ha risposto con la milionesima mitragliata di accuse (offese?): "L'Italia è la patria del diritto, non delle ferie. La memoria dei magistrati uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi". A sostegno del premier, tante voci di Forza Italia. In profonda sintonia, specialmente quando c'è da picchiare sui giudici. Nella graduatoria renziana dei presunti "gufi" i magistrati restano ai primissimi posti. E allora, ecco che la domenica del premier diventa quella del post su Facebook contro le toghe. La miccia, il discorso di sabato scorso del procuratore generale di Torino, Marcello Maddalena, per l'inaugura - zione dell'anno giudiziario: "Pensavo che una delle prime riforme del governo Renzi sarebbe stata quella della prescrizione, e invece è stata quella che ha brutalmente ridotto le ferie dei magistrati". Postilla letteraria: "Il premier è come quel personaggio di Orwell secondo cui il grande rimedio ai problemi era far lavorare tutti fino a farli crepare di fatica". Ieri mattina, l'acuminata replica di Renzi. "Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo" si lamenta subito. Poi mette la gamba: "Ridicolo dire che vogliamo far crepare di lavoro i giudici, noi desideriamo solo sentenze rapide, giuste. Vogliamo che i colpevoli di tangenti paghino davvero e finalmente con il carcere ma servono le sentenze, non le indiscrezioni sui giornali. Un Paese civile deve avere una sistema veloce, giusto, imparziale". Il premier ritorna poi su un vecchio tasto: "Bisogna valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti". E gioca di ambiguità: "A chi mi dice "ma sei matto a dire queste cose? Non hai paura delle vendette?" rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati". Infine, chiosa classicamente renziana: "Vogliamo un sistema della giustizia più veloce e semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo". Nessun cenno al taglio dei tempi della prescrizione. Non così urgente, nello spartito del rottamatore che ai "gufi" togati ribadisce che decide lui, e chi non ci sta si arrangi. Ma la partita dialettica non può ovviamente finire così. L'Associazione nazionale magistrati contrattacca, partendo dalla forma: "Non si può non trovare di cattivo gusto il richiamo ai magistrati uccisi". Quindi, la sostanza: "Il problema non sono i magistrati ma le promesse mancate, la timidezza in materia di prescrizione e corruzione, la proposta, alla vigilia di Natale, di depenalizzare l'evasione fiscale fino al 3 per cento". Quanto alle correnti, "riaffermiamo il valore delle diverse sensibilità che costituiscono una risorsa dell'associazionismo". Interviene anche Magistratura democratica, che critica le distanze da Maddalena ("Su ferie assist a Renzi e goal"), ma punge anche il premier: "A che punto è la riforma della prescrizione?". Nella battaglia delle agenzie si schiera pure la Cgil, naturalmente contro il segretario del Pd: "Il grido di allarme lanciato da molti procuratori nell'apertura dell'anno giudiziario non può essere rubricato a una banale diatriba sulle ferie dei magistrati, grave la sottovalutazione del governo". Ma Renzi non è solo. A soccorrerlo, una lunga teoria di forzisti, tanto per ribadire che il Nazareno prospera. Si va da Daniela Santanché ("L'Anm parla con lo stesso linguaggio di Magistratura democratica e gli sfugge un particolare non da poco: non è un partito") a Lucio Malan: "L'atteggiamento dell'Anm non serve a nulla, se non a riprodurre lo scontro con la politica". In serata, parla il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "Le critiche delle ultime ore al progetto di riforma sono ingenerose, andremo avanti perché le troppe polemiche di questi anni hanno determinato una paralisi e nuociuto gravemente al sistema". Giustizia: siamo alla resa dei conti tra due poteri, tutto nasce dall'inchiesta Stato-mafia di Alessandro Barbera La Stampa, 26 gennaio 2015 Secondo il costituzionalista Stefano Ceccanti le toghe hanno supplito alla politica durante il terrorismo e Mani Pulite, ma adesso va recuperato l'equilibrio tra le istituzioni. Professor Ceccanti, i rapporti fra politica e magistratura sono ai minimi termini. Siamo di fronte ad un corto circuito istituzionale? "Non c'è dubbio. E il punto di massima frizione ha a che vedere con l'indagine sui presunti rapporti Stato-mafia. Non tanto per il fatto di aver chiamato a deporre il presidente della Repubblica, ma per quanto accaduto prima". Ovvero? "Ad un certo punto la Procura di Palermo decise che le telefonate erano utilizzabili perché - questa la tesi - essa stessa aveva il potere di decidere quando il presidente agiva o meno all'interno delle sue funzioni, interpretate unilateralmente in senso restrittivo: di fatto lo stravolgimento del dettato costituzionale". C'è stato un accanimento nei confronti di Napolitano? "Nulla accade per caso. Una parte della magistratura aveva individuato in lui la massima autorità politica in carica. E in effetti è quel che è accaduto fra il 2011 e il 2012, quando Napolitano fu costretto dagli eventi a ricoprire quel ruolo. Quando c'è una maggioranza che funziona, gli attacchi della magistratura sono rivolti al governo. Oggi c'è un presidente del Consiglio che vuole riportare l'equilibrio fra i poteri dello Stato alla sua fisiologia e un pezzo della magistratura si oppone". A cosa dobbiamo il cortocircuito? "C'è una corrente di pensiero - lo chiamerei di populismo giudiziario - per cui l'interprete vero del corpo elettorale, e più in generale della Costituzione, è la magistratura". La genesi dello scontro è nel potere di supplenza iniziato nel 1992? "Dal Dopoguerra sono due i periodi di supplenza della magistratura verso la politica: negli anni del terrorismo e con Mani pulite. Ora si cerca di farla vivere al di là delle ragioni obiettive di quei periodi. Se posso aggiungere, vedo nei miei colleghi costituzionalisti una certa timidezza nel denunciarlo: sta a loro difendere la logica dell'equilibrio tra i poteri". Come se ne esce? "Approvando la riforma istituzionale ed elettorale. Ma non una riforma qualsiasi, bensì una capace di assicurare governi di legislatura". Il fatto che Renzi non sia stato eletto direttamente è un problema? Per essere coerenti con quel che dice bisognerebbe votare. "È il primo leader dai tempi di De Gasperi ad avere insieme, e in modo non episodico, il ruolo di capo del governo e del partito di maggioranza. In passato è successo solo, per piccole parentesi, a De Mita e Fanfani". Secondo alcuni la soluzione è la riforma della Giustizia. "Non facciamo confusione. Quella serve a far funzionare meglio un servizio per i cittadini: oggi costa molto e funziona male. L'equilibrio tra i poteri lo realizzano l'Italicum e la riforma costituzionale. Sulla riforma della Giustizia c'è un veto corporativo della stessa magistratura, sulle riforme istituzionali obiezioni contrarie a trovare il giusto equilibrio fra i poteri". Giustizia: Livia Pomodoro "anche i magistrati giudici imparino a farsi giudicare" di Luca Fazzo Il Giornale, 26 gennaio 2015 Dalla presidente del Tribunale Livia Pomodoro l'unico atto d'accusa a una categoria che attacca politica e sentenze. Quando Giovanni Canzio, presidente della Corte d'appello, prima di dichiarare aperto l'anno giudiziario le dedica un lungo ringraziamento, Livia Pomodoro si alza, visibilmente commossa, mentre i magistrati applaudono. Per lei, che il 21 aprile andrà in pensione, è l'ultima cerimonia. E coglie l'occasione per strigliare con franchezza i colleghi che sta per lasciare. Nel messaggio con cui accompagna il bilancio del tribunale che ha presieduto per sette anni, manda ai magistrati, "anche ai loro più illustri rappresentanti", un invito chiaro: fatevi giudicare, come chiunque, perché la giustizia è un pezzo della società e alla società deve rendere conto. "Ancora oggi purtroppo prevale la convinzione che solo la Giustizia può valutare la Giustizia, come se il nostro mondo fosse scevro da corporativismi ed opportunismi, come se fossimo gli unici esenti dalla necessità di attivare forme di valutazione esterne, perché i magistrati sono in grado di svolgere qualsiasi lavoro e qualsiasi ruolo compreso quello di valutare se stessi. Una idea di autosufficienza foriera di gravi danni per la giustizia italiana". Livia Pomodoro si augura che nel nuovo anno i giudici, grazie anche al ricambio generazionale, sappiano "abbandonare definitivamente alle nostre spalle tradizioni e comportamenti finalizzati solo alla salvaguardia delle proprie rendite di posizione". Se i magistrati milanesi sapranno cogliere l'appello, lo si vedrà nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Di certo, quello che viene annunciato ieri nel corso della cerimonia a Palazzo di giustizia è un impegno del governo che - se verrà messo in pratica - toglierà di mezzo uno degli alibi più ricorrenti per l'inefficienza della giustizia milanese, per i "fallimenti e le criticità" di cui parla la Pomodoro, ovvero l'assenza di risorse, la carenza di giudici: il viceministro della Giustizia, Enrico Costa, annuncia che entro l'Expo arriveranno in città 37 nuovi magistrati, sparsi tra procure e uffici giudicanti. Anche se in platea qualcuno brontola e si mostra insoddisfatto, non è un impegno da poco, perché equivale all'intero organico di un tribunale minore. Basterà a risolvere i "fallimenti e le criticità"? Dovrebbe. Anche perché la tendenza complessiva, stando alle statistiche contenute nella relazione di Canzio, è già oggi ad un progressivo miglioramento, tanto che i ricorsi per la "irragionevole durata dei processi" a Milano sono stati solo cinquanta. Nella giustizia civile, la grande malata del sistema, in un anno le cause arretrate sono scese del 15 per cento, e la durata media di un processo è scesa a due anni e quattro mesi, che salgono a due anni e mezzo per le cause di lavoro. E questo nonostante che la domanda di giustizia continui a crescere soprattutto in alcuni settori: sono sempre di più i milanesi che si separano (il 13,8 in più dello scorso anno) e che divorzino (più 12,50), e una vera impennata, che andrebbe investigata, sono le liti sui brevetti (più 73,8 per cento). E anche nel settore penale la cura di efficienza imposta da Canzio, sfidando qualche mugugno, sembra avere dato i suoi frutti: nel 2014 la Corte d'appello ha chiuso 9.297 processi, con un aumento addirittura del 26 per cento rispetto a due anni fa. All'interno di questo dato emerge con chiarezza qual è il vero reato "boom" di questi anni: lo stalking. Un po' perché è un reato introdotto da poco, un po' perché i casi aumentano, un po' perché cresce la tendenza a sporgere denuncia: sta di fatto che la Corte d'appello ha emesso l'anno scorso ben 171 sentenze in processi per "atti persecutori", il 76,29 per cento più del 2013. Certo, dai giudici ci si aspetta non solo che lavorino tanto ma anche che lavorino bene, cioè che - nei limiti del possibile - emettano la sentenza giusta. Anche su questo punto Canzio sembra soddisfatto del bilancio: la Cassazione ha annullato il 16,9 per cento delle sentenze penali milanesi contro cui gli imputati o la procura avevano fatto ricorso. É un tasso che al comune cittadino può sembrare abbastanza alto, ma che la relazione considera fisiologico, e comunque in miglioramento rispetto agli anni passati. In miglioramento risulta anche il punto d'approdo finale della giustizia penale, cioè la situazione nelle carceri di Milano e del suo distretto. Complessivamente, alla fine del 2014 vi erano detenuti 6.192 detenuti, quasi settecento in meno di un anno prima. Rimangono situazioni gravi di sovraffollamento, in particolare nelle prigioni di Como, Lodi, Vigevano, Busto Arsizio e San Vittore, ma in altre strutture, grazie ai provvedimenti "svuotacarceri" del governo e all'apertura di nuovi reparti, ci si sta avvicinando a garantire gli spazi vitali cui i detenuti hanno diritto. Giustizia: Ilaria Cucchi e la nuova inchiesta sulla morte del fratello "è una farsa…" Il Messaggero, 26 gennaio 2015 Ilaria Cucchi annuncia l'apertura di una nuova inchiesta per la morte del fratello Stefano, dicendosi però delusa per la decisione della Procura di procedere per il reato di lesioni lievi. "Questa accusa, di fronte alle immagini del corpo martoriato di mio fratello - spiega, credo che sia l'ennesima presa in giro e ulteriore mancanza di rispetto che ha la giustizia nei confronti di mio fratello". "Il procuratore capo ci aveva promesso che avrebbe fatto nuove indagini - sottolinea Ilaria, pronta a chiedere un nuovo incontro a piazzale Clodio. Se le nuove indagini che vuole fare sono queste io e i miei genitori ce ne resteremo a casa". Replica Pigliatone: "Non ho preso alcuna decisione". Ilaria Cucchi si dice amareggiata: "Questa accusa, di fronte alle immagini del corpo martoriato di mio fratello - ha spiegato in un'intervista al Tg1 - credo che sia l'ennesima presa in giro e ulteriore mancanza di rispetto che ha la giustizia nei confronti di mio fratello". "Il procuratore capo ci aveva promesso che avrebbe fatto nuove indagini" ha sottolineato Ilaria, pronta a chiedere un nuovo incontro a piazzale Clodio. "Se le nuove, indagini che vuole fare sono queste io e i miei genitori ce ne resteremo a casa, ci risparmieremo altra sofferenza inutile. Ad ottobre la morte di mio fratello andrà in prescrizione. Evidentemente mio fratello non contava nulla, questa ne è l'ultima dimostrazione". Durante l'intervista è stato mostrato anche il filmato con le dichiarazioni del detenuto che ha visto Stefano Cucchi prima di morire. "Ho sentito dei rumori, qualcuno che dava calci e qualcuno che cadeva e piangeva", spiega nel video parlando anche del coinvolgimento di una guardia. "Non ho preso alcuna decisione in merito alla riapertura di indagini sulla morte di Stefano Cucchi". Lo afferma il procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone con riferimento a quanto dichiarato da Ilaria Cucchi. "Sto completando - ha aggiunto - la rilettura degli atti e lo studio delle motivazioni della Corte d'Assise d'Appello". Bologna: Direzione Ipm "i fatti riportati nell'articolo del 24 gennaio si riferiscono a 3 anni fa" Ristretti Orizzonti, 26 gennaio 2014 L'articolo "Tre evasioni e tre tentati suicidi, all'Ipm del Pratello l'emergenza continua", di Gianluca Rotondi, tratto dal Corriere della Sera del 24 gennaio 2015 e riportato nel "Notiziario quotidiano" di Ristretti Orizzonti del 24 c.m. "Non corrisponde al vero in quanto i fatti riportati fanno riferimento ad eventi accaduti nell'anno 2011. Attualmente la situazione all'interno dell'Istituto è normalizzata e non presenta situazioni critiche di rilievo". Questo precisa il Dipartimento Giustizia Minorile - Istituto Penale Minorenni "Pietro Siciliani" di Bologna, con una nota del Direttore Alfonso Paggiarino. Padova: il pm Matteo Stuccilli "la sommossa dei detenuti non ha avuto motivi religiosi" di Giorgio Cecchetti Il Mattino di Padova, 26 gennaio 2015 "Escludo che ciò che è avvenuto nel carcere Due Palazzi sia stato causato da motivi che hanno a che fare con la religione". Il procuratore della Repubblica Matteo Stuccilli, sabato a Venezia per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, dove è presente anche il magistrato di sorveglianza che si occupa delle carceri di Padova Marcello Bortolato, è categorico sul punto, poi non aggiunge altro, visto che è in corso un'indagine del suo sostituto Sergio Dini. Un'affermazione che trova il pieno accordo anche il giudice Bortolato. Stando alla ricostruzione che gli inquirenti, con non poche difficoltà, stanno facendo, tra l'altro, ad essere coinvolti inizialmente non sarebbero state detenuti di fede musulmana: i primi quattro indagati, infatti, sono un italiano e tre cittadini di nazionalità rumena, tutti cristiani. È da loro che è partita la protesta che poi si è allargata coinvolgendo un'altra ventina di detenuti, tra cui alcuni albanesi e altri rumeni e italiani. Sono accusati dei reati di violenza a pubblico ufficiale e resistenza, ma è probabile che anche altri finiscano sul registro degli indagati, visto che sono circa una trentina coloro che hanno partecipato alla violenta protesta. Tutto sarebbe iniziato perché il detenuto italiano aveva chiesto l'intervento sanitario a causa di qualcosa che non andava, ma ne sue richieste non sarebbero state esaudite (sarà necessario anche ricostruire il motivo). A quel punto avrebbe iniziato a urlare, ad agitarsi, imitato poi da altri tre detenuti rumeni. A quel punto sarebbero intervenuti gli agenti della Polizia penitenziaria per farli smettere e il loro arrivo ha provocato il coinvolgimento di altri reclusi dello stesso piano, il quarto. Nessun detenuto di etnia araba è rimasto coinvolto, è invece probabile che a invocare l'intervento di Allah e a inneggiare al nome del suo profeta siano stati alcuni albanesi, tra loro infatti ci sono anche quelli di religione musulmana. Tutti i testimoni, comunque, escludono che qualcuno, albanese o meno, abbia inneggiato allo Stato Islamico, insomma all'Is e al califfato. Si sarebbe trattato di un episodio grave, visto che tre agenti di custodia sono rimasti feriti e anche alcuni detenuti sarebbero ricorsi alle cure dei sanitari, ma i testimoni hanno escluso che vi sia stato una rissa tra detenuti, rumeni e albanesi da un lato e magrebini dall'altro; si sarebbe trattato di uno scontro tra un nutrito gruppo di detenuti e gli agenti della Polizia penitenziaria intervenuti. La situazione nelle carceri, anche se la popolazione detenuta lentamente sta diminuendo grazie ai provvedimenti del governo, non è delle migliori, al Due palazzi ci sono quasi il doppio di "ospiti" rispetto a quelli che potrebbero esserci, mentre gli agenti sono perennemente sotto organico. Inoltre, dalla Direzione degli istituti penitenziari è giustamente arrivata l'indicazione di tenere le celle aperte più ore possibili durante il giorno, questo però comporta una maggiore difficoltà nei controlli, soprattutto quando gli agenti in servizio sono pochi. "Scontri e feriti all'ordine del giorno", di Carlo Bellotto "Gli scontri in carcere, purtroppo, sono all'ordine del giorno. Ma durante l'ultima sommossa nessun detenuto tra quelli coinvolti ha inneggiato all'Is o alla Jihad. L'unica cosa che può aver indotto qualcuno a fraintendere sono state le urla di qualche detenuto nord africano che da dietro le sbarre ha gridato in maniera evocativa un "Dio è grande" che non ha nessun incitamento alla guerra santa o al terrorismo religioso". La notizia arriva da una fonte confidenziale all'interno del carcere Due Palazzi in merito alla rissa che giovedì tra le 18 e le 21 si è scatenata all'interno della quarta sezione. "Nessun nordafricano è stato coinvolto nella rivolta, ma solo romeni, italiani e albanesi" prosegue il testimone che chiede di restare anonimo. Ma perché queste risse stanno diventando frequenti? "Ci sono troppi detenuti e servirebbero più guardie a sorvegliarli. Far vivere troppe ore al giorno tre o quattro persone in spazi stretti, fa nascere conflitti quotidiani, dove c'è quello che vuole comandare, l'altro che non si vuole sottomettere. Ricordiamo che questo è un ambiente di delinquenti e non di educande. Quindi si formano dei clan. Che poi in qualche modo passano all'azione. Non sarà l'ultima volta che accade. Spesso si feriscono tra loro dopo bisticci scaturiti anche da banalità. Ferimenti leggeri ma che accadono di frequente purtroppo. Pur restando in regime di detenzione, rimanere in due per cella aiuterebbe e favorirebbe la convivenza". Sono una trentina i detenuti indagati dal sostituto procuratore Sergio Dini che venerdì ha compiuto un sopralluogo in carcere dove tre agenti di Polizia Penitenziaria sono rimasti feriti. Le accuse per i carcerati sono di resistenza e violenza a pubblico ufficiale. La procura ha delegato gli interrogatori dei detenuti coinvolti, degli agenti presenti, per cercare di capire se la rivolta è nata per un motivo fortuito o se quell'azione era pianificata da tempo. Anche nel corpo degli agenti penitenziari sono in atto dei tagli e da parecchio tempo sono ben 18 le guardie che mancano da un contingente già all'osso. Pochi di quelli che vanno in pensione vengono sostituiti, inoltre quelli finiti coinvolti nell'inchiesta non sono stati sostituiti. Ma sospesi dal servizio, ovviamente sì. Il Due Palazzi infatti continua a far parlare di sé. Solo sei mesi fa era scattata un'inchiesta che aveva smascherato una corruzione senza precedenti all'interno del carcere padovano. Sei agenti di Polizia penitenziaria sono stati arrestati visto che ricevevano soldi da famigliari o amici dei detenuti per portargli dietro le sbarre droga, cellulari e persino dei dvd pornografici. Un'inchiesta che deve ancora arrivare a processo. "Troppi detenuti e pochi agenti" "Sovraffollato e sotto organico". Dopo gli scontri dei giorni scorsi, il sindaco Massimo Bitonci, ieri mattina, ha voluto visitare il carcere per rendersi conto di persona dell'attuale situazione al Due Palazzi. Dopo la visita di ieri, a cui ha partecipato anche l'assessore alla Sicurezza Maurizio Saia, Bitonci è tornato a chiedere un cambio di rotta al governo. "Il 50% dei detenuti condannati e reclusi al Due Palazzi, come ha confermato il direttore Pirruccio, proviene dall'est Europa o dell'Africa. Invece di mantenere queste persone a spese dei contribuenti, è giunto il momento di rimpatriarle, dopo aver stretto degli accordi con i paesi di origine. Chiedo ai parlamentari padovani che sostengono il governo, che finora non si sono visti in via Due Palazzi, di farsi portavoce di questa battaglia di civiltà e rispetto per chi paga le tasse e non trasgredisce la legge. L'Italia attrae delinquenti di mezzo mondo per le sue leggi troppo permissive - ha incalzato Bitonci. Se non ci sono risorse per costruire nuovi istituti di reclusione o assumere personale di custodia, l'unica strada percorribile è quella di rispedire a casa i condannati stranieri". Sulla situazione di vivibilità all'interno della struttura il sindaco ha sottolineato: "Ho visitato la casa di reclusione con il direttore e mi sono intrattenuto con alcuni detenuti al quarto piano, nello stesso braccio dove sono scoppiati i disordini. L'impressione che ho avuto è che la situazione in cui vivono sia certamente dignitosa. Il carcere è ben governato, anche se sono evidenti i problemi di sovraffollamento della casa circondariale e non può essere nascosto il fatto che il personale è sotto organico. Il governo deve intervenire, cambiando direzione: depenalizzare reati o scarcerare delinquenti è sbagliato e immorale". Infine un attacco al Pd. "Il Partito Democratico, che finora non si è visto qui in carcere, è d'accordo o preferisce avere carceri stracolme e cittadini tartassati per mantenere i delinquenti?". Intanto proprio ieri il consigliere regionale dei democratici, Piero Ruzzante, ha annunciato la sua visita di domani al Due Palazzi. Livorno: carcere delle Sughere, entro fine febbraio aprirà il nuovo padiglione di Lara Loreti Il Tirreno, 26 gennaio 2015 Dopo quasi otto anni, i giochi sembrano fatti: già arrivate le suppellettili, la struttura ospiterà detenuti di alta sicurezza. Sono arrivate tutte le suppellettili, dai letti ai televisori. E' pronta anche l'infermeria. Manca solo che qualcuno prema lo "start": sembra un sogno, eppure il nuovo (anche se ormai ha già qualche anno) padiglione delle Sughere sta per aprire. La data prevista - ma non ancora fissata ufficialmente - sarà tra metà e fine febbraio. La struttura, dopo un lungo dibattuto sulla destinazione, ospiterà i detenuti di alta sicurezza, che sono cioè in carcere per mafia e altri reati gravi e di lungo corso. Il padiglione, dotato di attrezzature moderne, docce automatiche e altre tecnologie, potrà ospitare 150 detenuti. Un caso, quello del nuovo padiglione delle Sughere, che va avanti da quasi otto anni, quando sono iniziati i lavori. La questione, ampiamente trattata dal Tirreno, è approdata anche in Parlamento, grazie all'interessamento del senatore Marco Filippi che in autunno aveva presentato un'interrogazione parlamentare, indirizzata al presidente del Consiglio e al ministro della Giustizia, sul perché dei ritardi nell'apertura della struttura. Genova: Sappe; maxi rissa nel carcere di Marassi tra detenuti albanesi e latino-americani www.liguriaoggi.it, 26 gennaio 2015 Maxi rissa tra detenuti al carcere di Marassi. A denunciarlo il Sappe, il Sindacato dei lavoratori della polizia penitenziaria. Un gruppo di detenuti di origine albanese ed uno di origini latino-americane ha ingaggiata una furibonda lite senza esclusione di colpi. Gli agenti di guardia hanno faticato non poco a riportare la situazione sotto controllo e due detenuti sono stati trasportati in ospedale per le ferite riportate. Hanno tagli su varie parti del corpo provocati con rudimentali armi che i carcerati si procurano chissà come o che fabbricano con mezzi di fortuna. Solo pochi giorni fa il suicidio in carcere, a Sanremo, del detenuto Bartolomeo Gagliano e oggi la rissa. Il segretario del Sappe - sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria - Michele Lorenzo evidenzia che Marassi a fronte di una capienza ottimale di 550 detenuti, ne "ospita" ben 705 dei quali 386, pari al 55%, sono stranieri e la Polizia Penitenziaria accusa una carenza che supera le 110 unità. Secondo il Sappe l'Italia dovrebbe rimandare i detenuti stranieri nei Paesi di provenienza e dovrebbe sottoscrivere specifici accordi. "L'evento odierno - continua il Sappe - avrebbe potuto avere serie conseguenza in quanto al momento della maxi rissa erano presenti nel cortile passeggi quasi 200 detenuti e l'organico della Polizia Penitenziaria vedeva poche unità presenti. Comunque il loro intervento è stato tempestivo e provvidenziale per aver evitato il peggio in quanto i "rissosi" alla vista dei poliziotti hanno subito interrotto la guerriglia". Il Sappe denuncia l'assenza di validi strumenti a disposizione della Polizia Penitenziaria, come ad esempio l'utilizzo di spray urticante, ma anche metal detector efficienti per il controllo dei detenuti. "È indispensabile - conclude Lorenzo - assicurare la sicurezza negli istituti della Liguria, e non sono bastati i circa 1.000 eventi critici che hanno segnato la Liguria nel 2014 per convincere la nostra Amministrazione ad abbandonare vecchi progetti come la sorveglianza dinamica che non può più essere applicata in un sistema penitenziario contrassegnato da continui episodi che ne mettono in discussione la validità. Attendiamo, fiduciosi, un intervento dei politici liguri sulle criticità delle carceri della Regione da noi più volte rappresentate". Siracusa: agente aggredito, ha riportato contusioni e ferite giudicate guaribili in 20 giorni di Maria Teresa Giglio La Sicilia, 26 gennaio 2015 Colpevole di aver segnalato alla direzione i comportamenti poco consoni al regime restrittivo cui è sottoposto. Di questo, un detenuto, ha ritenuto responsabile una delle guardie penitenziarie che lavorano a Cavadonna. E per questo era determinato a "punirlo". Con l'unico sistema che lui conosce: la violenza. E così ha atteso il momento più opportuno per agire. L'occasione si è presentata quando a quell'agente penitenziario è spettato accompagnarlo dalla cella fino al cortile del carcere. Giunti in uno dei corridoi che danno accesso al cortile, dove non c'era nessuno, il detenuto ha aggredito il "accompagnatore", afferrandolo al collo. La guardia si è naturalmente difesa: il trambusto della colluttazione ha attirato altro personale di sicurezza del carcere, i quali hanno bloccato il detenuto rendendolo inoffensivo. L'agente penitenziario ha riportato contusioni e ferite giudicate guaribili in 20 giorni. Per il detenuto è scattata una nuova disposizione disciplinare, in aggiunto a quella che era stata disposta nei suoi confronti proprio per la segnalazione alla direzione alla base dell'aggressione. Il recluso, peraltro, è un detenuto sottoposto già a regime di alta sicurezza, motivo per il quale anche per raggiungere il cortile per l'ora d'aria, deve essere scortato. Ovvio che la vicenda abbia, ancora una volta, riacceso i riflettori sulla situazione generale all'interno della casa circondariale di Cavadonna, dove il rapporto tra detenuto e personale di sorveglianza, è sempre più impari. E a nulla sono valse finora le richieste avanzate al Dipartimento penitenziario. Come sottolinea il vicesegretario regionale del Sinappe, Salvatore Alota. "Se già ora la situazione è così difficile, per non dire altro, figuriamoci come sarà non appena sarà aperto il nuovo padiglione che inevitabilmente comporterà un ulteriore divisione del già carente personale". Le paventate crescenti difficoltà nel garantire la sicurezza all'interno della struttura di reclusione sono state giù oggetto di segnalazioni al Dipartimento penitenziario da parte del Sinappe. Segnalazioni più che datate, e finora senza alcuna riposta, come precisa ancora Alota. Ma una nota positiva c'è: "Il personale della casa circondariale di Siracusa può tirare un sospiro di sollievo. Quegli agenti i quali, a causa di inspiegabili ritardi, non si erano visti recapitare in busta paga gli emolumenti accessori relativi alle attività lavorative svolte durante il mese di settembre. Della vicenda - prosegue il vicesegretario regionale - se n'era presa carico il Sinappe. Ascoltate le preoccupazioni degli agenti, e valutata l'anomalia, il sindacato ha alzato la voce, intimando all'amministrazione di fare chiarezza. Ed è di oggi l'importante passo in avanti, preludio di un rapido epilogo: l'Ufficio del trattamento economico ha dichiarato che ci sarà un "flusso straordinario" per rimediare al disguido avvenuto in busta paga". Stando alla circolare, le somme mancanti dovrebbero essere accreditate nell'arco della prossima settimana o al massimo entro febbraio. "Siamo riusciti a salvaguardare i diritti dei poliziotti", è il commento a caldo del rappresentante della polizia penitenziaria. Che aggiunge: "Ci auguriamo in futuro di raggiungere sempre risultati che diano riposte adeguate alle aspettative di una categoria di lavoratori che si distingue sempre e comunque per impegno e professionalità". Vasto (Ch): i liceali visitano il carcere, progetto del Pantini-Pudente su realtà dei detenuti di Simona Andreassi Il Centro, 26 gennaio 2015 Coinvolge il Polo liceale "Pantini- Pudente" e la Casa di lavoro di Torre Sinello il progetto "Uno sguardo sulla realtà: vigilando redimere" che coinvolge, attraverso degli stage, la V C del Liceo delle Scienze umane. "Gli studenti sono impegnati in un percorso pluri-disciplinare che li porterà ad approfondire le tematiche della marginalità sociale e della necessità dell'intervento rieducativo. Le attività programmate prevedono la conoscenza diretta della struttura e degli operatori, la realizzazione di interviste semi-strutturate agli ospiti e dei cineforum" spiega la referente Rosina Colella. "L'obiettivo è l'acquisizione e la padronanza di competenze operative che consentano ai ragazzi di effettuare ricerche sociali con la costruzione e l'utilizzo di strumenti tipici dell'indagine sociologica, psicologica e antropologica" aggiunge. "Questo progetto è importante anche per la promozione della legalità e della solidarietà sociale nei confronti dei detenuti, obiettivo che non può perseguirsi senza l'attivo coinvolgimento della comunità esterna al carcere e che è parte integrante del nostro mandato istituzionale" sottolinea il direttore della Casa lavoro Massimo Di Rienzo. "La scuola deve essere aperta al territorio, in tutti i suoi aspetti. Avvicinarsi alle persone che vivono in situazione di deprivazione, sia materiale sia psicologica, può davvero offrire alle classi di tutti gli indirizzi spaccati di autenticità e di vera validazione delle conoscenze" afferma Letizia Daniele, dirigente scolastico del polo liceale. Verona: incontro "Liberi dentro, testimonianze sulla vita nel carcere", parlano i volontari L'Arena di Verona, 26 gennaio 2015 Incontrare i detenuti come persone, con la consapevolezza che "nell'incontro vero non c'è giudizio". Incontrarli cioè con un'attenzione particolare a quello che sono, con le loro storie di vita spesso complesse, e a quello che sentono, senza la volontà di sapere quello che hanno fatto. Andare oltre la mentalità punitiva di cui è impregnata la società, per abbracciare invece l'intenzione rieducativa ed accompagnare i detenuti in un cammino spirituale che li metta nelle condizioni di tornare a vivere. Lunedì scorso, nella sala Noi di Palazzolo, padre Angelo, cappellano del carcere di Verona, e Fabio Mazzi, diacono di Sona che opera come volontario in carcere, hanno raccontato la loro esperienza di incontro ed ascolto dei detenuti. La serata dal titolo "Liberi dentro: testimonianze sulla vita nel carcere" è stata organizzata all'interno del ciclo di incontri "A proposito di...", promosso dal circolo Giustiniano della frazione. Padre Angelo, che ha aperto l'incontro, ha "lasciato sospese una serie di provocazioni". Ha invitato i presenti a ragionare su concetti come "detenzione", "reclusione", "punizione", "capro espiatorio" e a riflettere sui "veleni che ciascuno si porta dentro e per cui, spesso, dà la colpa agli altri". I due relatori hanno affrontato la questione del bene e del male, mettendo in luce quanto sottile può diventare, in determinate situazioni, la linea di confine fra l'uno e l'altro. Hanno parlato di persone che si sono trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato e che, per la pazzia di un istante, si sono rovinate la vita. Hanno parlato del senso di colpa che queste persone si portano dentro e che, molto spesso, non le lascia nemmeno dormire. Fabio Mazzi, ferroviere di professione, ha 55 anni, abita a Sona, è sposato, ha due figlie, e nel maggio del 2013 è stato ordinato diacono permanente. Per quattro anni, ha fatto volontariato con i cappellani camilliani dell'ospedale di Borgo Trento, accanto ai malati. Quando, a novembre del 2013, è venuto a mancare il diacono cappellano del carcere di Montorio, il vescovo gli ha chiesto se la sentiva di prestare servizio in carcere. "Il carcere", ha detto Mazzi, "è un posto dove il male che si è fatto non si può dimenticare: i detenuti hanno la possibilità di fermarsi a pensare e il senso di colpa non li abbandona mai. Noi incontriamo questi detenuti come persone, che piano piano ci raccontano le loro storie. A volte telefoniamo a casa, e ci rendiamo conto che alcuni di loro hanno alle spalle delle famiglie devastate". "Il nostro compito", ha aggiunto, "è quello di ascoltare le persone che sono in carcere, aiutandole a rielaborare il peso che si portano nell'anima, aiutandole cioè a diventare un po' più "libere dentro", per fare in modo che, una volta uscite, possano ritornare a vivere". Teramo: sfida di calcio in carcere, la squadra dei docenti contro quella dei detenuti di Giuseppina Pimpini (Docente della Scuola Media carceraria) Il Centro, 26 gennaio 2015 L'insegnante: vogliono sentirsi parte della società e non rifiuti da dimenticare Al fischio di un arbitro speciale, il dirigente scolastico dell'Istituto Alberghiero Di Poppa di Teramo, Caterina Provvisiero, ha avuto inizio la grande sfida di calcio che ha visto contrapporsi, sul campo da gioco, la squadra dei docenti contro quella dei detenuti alunni dell'istituto alberghiero carcerario. Un confronto vero con tanto di tifo proveniente dal bordo campo: urla e cori, un po' di incoraggiamento, un po' di sfottò da parte di un pubblico di prim'ordine, le docenti accompagnate dalla responsabile dell'area educativa Elisabetta Santolamazza. Persone e non reati che camminano, (ho letto tempo fa questa definizione e mi ha colpito molto)….che corrono dietro un pallone, che ascoltano attenti una spiegazione in classe, che si impegnano durante una verifica; per noi docenti è proprio così, ciò che arriva alla nostra sensibilità è il cuore, che si nasconde dietro un reato, ciò che ci spinge a sostenere iniziative come questa è la convinzione che in ogni individuo ci siano capacità da scoprire attraverso instancabili opportunità. Una partita di calcio allora aiuta a migliorare l'atmosfera, ad accorciare le distanze, a superare qualche pregiudizio, affinché in classe ci si possa sentire liberi di dar voce alle proprie opinioni, alle proprie emozioni, ad un confronto stimolante culturalmente, che aiuti a sviluppare senso critico e susciti riflessioni profonde. Il clima sereno, la cordialità, la passione nel gioco, il desiderio di dare il meglio di sé, è questo che oggi si è visto in tutta la durata del gioco, e, da parte dei detenuti la voglia di sentirsi ancora parte della società e non rifiuti da dimenticare, mentre, da parte dei docenti, l'amore per il proprio lavoro, e l'essere disposti ad essere un sostegno costante e a dare continue sollecitazioni per sviluppare quel positivo e buono che c'è in ogni persona. Oggi hanno veramente vinto tutti. Al fischio finale, terminata la sfida sul campo, è iniziato il "terzo tempo" con strette di mano, abbracci , foto ricordo e panettone. Libri: il procuratore Nordio e l'amaro fallimento della giustizia di parte di Giuseppe Pietrobelli Il Gazzettino, 26 gennaio 2015 La disincantata riflessione del procuratore Nordio che traduce, dieci anni dopo e con una nuova introduzione, "Crainquebille" di Anatole France. La maestà della giustizia risiede integralmente in ogni sentenza resa dal giudice nel nome del popolo sovrano. "Jerome Crainquebille, venditore ambulante, conobbe quanto la legge sia augusta quando fu portato in tribunale per oltraggio a un agente della forza pubblica". Inizia così la straordinaria vicenda originata da una banalissima contestazione nel traffico parigino di inizio Novecento, raffigurazione di una giustizia formalista, ingiusta, vendicativa e sostanzialmente inutile, narrata da Anatole France. Amarezza, ironia e disincanto si intrecciano in un passato attualissimo. E non è un caso che ad aver tradotto l'opera per Liberilibri - una dozzina d'anni fa - sia stato un magistrato in servizio effettivo, Carlo Nordio, oggi procuratore aggiunto di Venezia. Ora l'opera esce in una seconda edizione il cui valore va ben oltre quello della semplice ristampa. Perché il pm, a suo modo eretico per un radicale garantismo accompagnato da una convinta - e ahimè fondata - disillusione giudiziaria di cui è assertore, ha scritto una nuova introduzione, che accompagan quella del 2002. Il gioco di specchi delle riflessioni in tempi differiti dà vita a una lettura davvero provocatoria. Due lustri dopo Mani Pulite, di fronte a criminalità e malaffare, Nordio scriveva: "Per uno strano connubio di aspirazioni infantili, lotte politiche, protagonismo incontrollato ed esaltazione mediatica, è stata coltivata l'illusione che la doverosa opera della magistratura potesse risolvere questi annosi problemi". Un fallimento, ma non solo allora. Oggi, dopo aver disvelato lo scialo del Mose e le mani affaristiche su Venezia, Nordio ripropone la vicenda dell'ortolano Crainquebille - dedicandola a Marco Pannella - come denuncia non di una tragedia individuale, ma dell'italianissima incapacità della giustizia di assolvere al proprio compito. Per due motivi "più attuali che mai: la strumentalizzazione della legge e la sua sostanziale ipocrisia". Il primo: "Da vent'anni, e forse più, della giustizia si cerca di fare un uso politico". Un esempio: "L'informazione di garanzia, famigerata cartolina diventata un'anticipazione di processo e di condanna". Troppi cercano di appropriarsi della giustiza per proprio tornaconto. Il secondo "incurabile difetto è la nostra legislazione", tra Costituzione e legge ordinaria. "La madre di tutte le nostre sciagure giudiziarie, della corruzione come della lentezza dei processi e della carcerazione preventiva che ne è la figlia naturale, è la calamitosa confusione normativa derivata da un'insensata e ininterrotta produzione di precetti inutili e dannosi". Epitaffio: "Le troppe leggi non sono il rimedio, ma la causa dell'incertezza del diritto e della sua sostanziale impotenza". India: Tomaso Bruno lascia il carcere "grazie a tutti per l'affetto, la verità vince sempre" www.savonanews.it, 26 gennaio 2015 "Un ringraziamento, dal più profondo del cuore, da parte nostra per tutto l'affetto e la solidarietà ricevuti nel corso di questi cinque, lunghissimi, anni. Tante sarebbero le cose da dire ma l'emozione del momento e la distanza non aiutano. Tra qualche giorno saremo di ritorno in Italia e tutto sarà più semplice. Nel frattempo un virtuale ma non per questo meno caloroso abbraccio a tutti. Satyameva Jayate, la verità è sempre vincente". È il messaggio che Tomaso Bruno e Elisabetta Boncompagni hanno scritto stamani sulla pagina Facebook Tomaso Libero dopo la prima notte trascorsa fuori dal carcere di Varanasi, in India. I due ragazzi sono ora alloggiati presso il Centro risorse indiane, una casa per studenti diretta dal professor Marco Zolli dove resteranno fino a martedì. Poi una volta espletate le ultime formalità burocratiche raggiungeranno Nuova Delhi. L'arrivo in Italia è previsto per mercoledì prossimo. Francia: radicalismo islamico nelle carceri… parla un poliziotto penitenziario di Anna Villechenon Le Monde, 26 gennaio 2015 Dal 7 al 9 gennaio scorsi, il carcere di massima sicurezza di Condé-sur-Sarthe ha vissuto al ritmo delle crisi di gloria di alcuni detenuti esaltati dagli attacchi terroristici parigini. Tuttavia, secondo Emmanuel Guimaraes, da due anni poliziotto penitenziario nel carcere, "il rifiuto dell'autorità e dei valori della Repubblica" da parte di quei detenuti che si dicono musulmani è lungi dall'essere una novità. Questo tipo di incidenti sembra legato molto ai fatti d'attualità, come le tensioni scoppiate in occasione dell'ultimo conflitto israelo-palestinese a Gaza, spiega Guimaraes. Il resto del tempo, le tensioni tra detenuti, soprattutto negli spazi condivisi, sono diventate banali. In diverse prigioni francesi, gli agenti raccontano gli stessi aneddoti: le vessazioni inflitte a chi fuma o a chi ascolta la musica; gli appelli alla preghiera; gli incitamenti a leggere il corano; il proselitismo ai detenuti più isolati. A forza di vedere conversioni e radicalizzazione nel carcere, Guimaraes parla dell'islam in prigione come "una sorta di moda". "Alcuni ci dicono che Allah ci punirà, anche se non sono musulmani. Altri sono solo arrabbiati, altri ancora voglio avere dei privilegi", racconta l'agente. "Tuttavia, la maggior parte si converte per starsene in pace", dichiara l'agente con un tono d'ovvietà. Liberato da un anno, Franck Steiger ha scontato sei anni in otto diverse prigioni francesi. Ateo, ha detto di aver vissuto i suoi anni di detenzione "in minoranza". "I musulmani hanno il monopolio. Per non avere problemi, molti si convertono per far parte della banda", afferma. Secondo Steiger, le condizioni di prigionia sono determinanti: "La mancanza di rispetto, le violenze, le misure di ritorsione: tutto questo produce l'odio" e la voglia di fare ricorso alla religione, afferma con rabbia. Per Missoum Chaoui, cappellano carcerario in Ile-de-France, e per gli i poliziotti, il "pericolo" è l'assenza di un referente musulmano in un'istituzione che lascia aperta la strada agli "imam autoproclamati". La religione diventa per molti un mezzo per porsi al centro di un universo carcerario in cui molti detenuti non hanno alcun riparo. "Si trovano in uno stato di debolezza e precarietà, hanno bisogno d'ascolto e di disciplina per non andare alla deriva", commenta Chaoui. "Alcuni sono più psichiatri che islamisti. I radicali sono molto pochi" e non rappresentano affatto i musulmani di Francia. Secondo il ministero della Giustizia, gli effettivi sospettati sono 152, per la maggior parte in Ile-de-France. In quattro anni, Abdelhafid Laribi, cappellano permanente presso il carcere di Nanterre, dice di non essersi mai confrontato con nessuno di loro: "C'era un convertito che non aveva alcuna nozione di base dell'islam. Ho provato a parlare con lui, ma non ha voluto capire. Non è mai più venuto. In questi casi, non si può fare nulla, solo evitare che altri cadano in questo radicalismo", racconta. Quando invece incontra chi "vacilla", allora si tratta di "seminare il dubbio nello spirito, evocare altri punti di vista, con pazienza e pedagogia, per convincerli", spiega Laribi. A gennaio, i cappellani carcerari musulmani erano 182, contro 680 cattolici e 71 ebrei. La loro presenza è stata incrementata negli ultimi due anni "al fine di tranquillizzare la detenzione e diffondere un islam illuminato", ha indicato il ministero della Giustizia. Altri 60 cappellani verranno reclutati nell'arco dei prossimi tre anni. "Manca la volontà politica, mentre noi siamo là per evitare il radicalismo. Se la situazione non cambia, peggiorerà", lamenta Laribi.