La morte di un "matto" fra le sbarre di Carmelo Musumeci www.carmelomusumeci.com, 24 gennaio 2015 "Gelida desolata vuota vita piatta / Eternamente uguale / Che fare? / Morire o fare il pazzo / Elevarsi in volo per essere liberi?". (Diario di un ergastolano, www.carmelomusumeci.com). Non so perché, ma penso che le brutte notizie in carcere fanno più male che fuori. Oggi ho letto questa notizia sulla rassegna stampa: "Ha aspettato la fine dei controlli giornalieri. Ha scambiato due parole con un infermiere e ha guardato gli agenti e il personale allontanarsi dalla cella. Poi, una volta rimasto solo, si è tolto la maglietta intima e l'ha trasformata in un cappio da legare alle sbarre della cella. Così un uomo, un italiano di circa 50 anni, si è tolto la vita all'Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, dove era rinchiuso da tempo. È successo nei primi giorni di gennaio, almeno due settimane fa, anche se la notizia è emersa ed è stata confermata solo in questi giorni". (Il Fatto Quotidiano, G. Zaccariello). E chissà perché quando muore un "matto" in carcere, che le persone perbene chiamano ospedali psichiatrici, mi arrabbio di più. Forse perché nelle carceri ci si finisce perché lo vuoi tu o lo vuole la tua vita, invece nei manicomi ci vai da innocente, perché lo vuole Dio, o la natura per lui. Forse semplicemente quando muore un matto in carcere mi ricordo di quella volta, appena ventenne, che mi mandarono al manicomio di Montelupo Fiorentino dove mi riempirono di pugni nel cuore e calci nel corpo e mi legarono per lungo tempo al letto di contenzione. Fu lì che conobbi Concetto. Chissà se è ancora vivo. Non penso, almeno lo spero per lui. Probabilmente, a quest'ora, per sua fortuna, sarà nel paradiso dei matti. Spero solo che non sia morto legato nel letto di contenzione o con la camicia di forza. Mi ricordo che Concetto per il carcere dei matti era un osso duro. E gli operatori del manicomio potevano fare ben poco contro di lui perché lui non aveva più né sogni, né speranze. D'altronde non ne aveva quasi mai avuti. Non c'era con la testa. Era quasi tutto cuore e poco cervello, ma era buono e dolce come lo sanno essere solo i matti. Non parlava quasi mai con nessuno. Lo faceva solo con me. Mi ricordo che Concetto viveva di poco e di niente. Il mondo non lo interessava più. Il mondo lo aveva rifiutato e lui aveva rifiutato il mondo. Non gli interessava neppure più la libertà perché lui ormai si sentiva libero di suo. E non dava confidenza a nessuno, ma non gli sfuggiva niente. Concetto mi aveva raccontato che era cresciuto da solo. Senza nessuno. Prima in compagnia delle suore. Poi dei preti. La sua infanzia non era stata bella. Non aveva mai avuto famiglia. Nessuno lo aveva mai voluto. Nessuno aveva mai voluto stare con lui. Fin da bambino aveva imparato a tenersi compagnia da solo. Solo con il suo cuore. E con la sua pazzia. Neppure il carcere lo aveva voluto. E lo avevano mandato al manicomio. Si era sempre rifiutato di sottomettersi alla vita e al mondo. E dopo si era rifiutato di sottomettersi all'Assassino dei Sogni dei matti, per questo lo tenevano quasi sempre legato. Tutti pensavano che fosse pazzo da legare. Lo pensava pure lui. Io invece non l'ho mai pensato. E non l'ho mai dimenticato nonostante siano passati quarant'anni. Nel suo sguardo non c'era nessuna cattiveria come vedo spesso anche adesso nelle persone "normali". Spero che chiudano molto presto gli Opg perché non sono altro che luoghi di tortura. E chissà quanti Concetti ci saranno ancora dentro quelle mura. Giustizia: inaugurazione anno giudiziario; liturgia inutile, i magistrati si autoassolvono di Vincenzo Vitale Il Garantista, 24 gennaio 2015 E così, è andata anche quest'anno. L'Italia, pur sede del Vaticano - specialista in coreografie religiose dalle quali emerge comunque la presenza dello Spirito - si segnala per una particolare tenacia nella ripetizione ad oltranza di liturgie laiche (che è, si badi, una inutile ripetizione, poiché liturgia altro non significa se non "opera del popolo") tanto ostinate quanto inutili. Infatti, mentre la liturgia religiosa si offre quale mediazione necessaria con il divino, quella laica, consumata anche ieri per l'ennesima inaugurazione dell'anno giudiziario, si presenta del tutto priva di senso e perciò completamente autoreferenziale. Prova ne sia un esame anche superficiale delle argomentazioni svolte sia da Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, sia da Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione. Il primo, probabilmente per esigenze legate al ruolo ricoperto, ha svolto argomenti del tutto allineati con le prospettive tipiche delle correnti della magistratura, mettendo in primo piano l'esigenza di tutelare ed accrescere il prestigio della stessa, oltre che dei singoli magistrati. Ora, messa così, la cosa ha dell'incredibile. Ma davvero, per Legnini e per i suoi colleghi del Csm, oltre che naturalmente per i magistrati italiani - o meglio per le loro correnti (in quanto, grazie a Dio, c'è una bella differenza fra le persone concrete che esercitano la giurisdizione e le correnti in cui si organizzano) - ciò che occorre garantire in sommo grado sarebbe il prestigio dei magistrati e della magistratura nel suo complesso? Si trattasse solo di questo, sarebbe facilissimo ottenere lo scopo desiderato: basterebbe - che so? - nominare tutti i magistrati italiani cavalieri della Repubblica o, in alternativa, accademici della Crusca ad honorem. In questo modo, il prestigio sarebbe assicurato una volta per tutte e saremmo tutti contenti. Evidentemente, non passa per la testa di Legnini e dei suoi colleghi che il vero prestigio, anzi l'unico prestigio, lo si conquista sul campo; ed è quello di cui un magistrato giunge a godere dopo aver dato ad avvocati, colleghi e cittadini, ripetuta prova, negli anni, di possedere, equilibrio, buon senso e senso del diritto, coefficienti indispensabili per rendere giustizia. A ben guardare - e bisogna annotarlo con crescente preoccupazione - è proprio questa, la giustizia, ad essere tragicamente assente dalla discussione pubblica di queste liturgie laiche : nessuno se ne interessa, nemmeno per accennarvi, e credo il termine medesimo neppure compaia. La giustizia insomma scompare anche come concetto da pensare, sostituita da altri concetti oggi assai di moda, quali efficienza, tempestività, utilità: semplici sciocchezze, incidenti del pensiero, ma oggi tenuti in gran conto, perché non si capisce che se si fosse in grado di rendere giustizia, lo si farebbe celermente e che invece i deprecabili ritardi son dovuti alla reale incapacità di renderla come si dovrebbe. Accertato dunque ciò che Legnini ed i suoi colleghi non sanno, cioè che il prestigio dei magistrati è solo un traguardo (faticoso ed impegnativo) e non mai un punto di partenza, è il caso di prestare attenzione agli argomenti svolti da Santacroce. Il presidente della Cassazione ha mostrato certo maggior senso della realtà allorché ha invitato i pubblici ministeri a non litigare fra loro (con l'occhio rivolto alle recenti vicende che hanno contrapposto Robledo a Bruti Liberati) e ad evitare sovraesposizioni mediatiche, ma è incappato pure lui in uno scandalo (nel senso evangelico di "inciampo") del discorso, allorché ha esordito notando che dopo mani pulite la magistratura avrebbe dato inizio ad "una parabola discendente". Saremmo davvero curiosi di sapere di cosa si tratti e se per caso la parabola attuale - che si dice appunto discendente -possa mai sperare di tornare ad "ascendere". Forse si vuole alludere al consenso che i magistrati di mani pulite - con Di Pietro in testa - incontravano in quel periodo fra la gente. Meglio si farebbe allora ad affermare che i magistrati non debbono godere di alcun consenso perché non sono politici di professione e che fu invece proprio in forza di quel consenso anche mediatico (ma del tutto sprovvisto di elementari principi di diritto) che una modifica della custodia cautelare, che la vedeva limitata ai soli casi di delitti "di sangue," naufragò in poche ore: fu sufficiente che Di Pietro arringasse le folle dagli schermi riuniti di Rai e Mediaset per ottenere lo scopo desiderato, tanto che il governo di allora barcollò, per cadere dopo poche settimane. Come volevasi dimostrare: fra due forze politiche, una per natura - il governo - ed una contro-natura - la magistratura - a prevalere fu questa. Non basta. Santacroce si è anche addentrato nel merito di varie proposte di legge in tema di appello, ricorso per cassazione, ed altri simili intenti riformatori: è appena il caso di ricordare che chi è chiamato ad applicare la legge, cioè il giudice, farebbe bene ad evitare di concorrere direttamente o indirettamente alla sua formazione. O no? Se qualcosa è cambiato, che qualcuno me lo dica. La triste verità è che l'unica domanda che varrebbe davvero la pena di porsi - in modo martellante ed ostinatissimo, perché è la domanda dell'intera vita - viene accuratamente taciuta in queste liturgie. La domanda suona: noi tutti giudici italiani, con tutto l'ambaradan di risorse, personale, organizzazioni e polemiche di vario genere, siamo riusciti, in questo ultimo anno, ad assicurare agli italiani che hanno fatto ricorso alla nostra opera non dico tanto, ma almeno un tasso di giustizia pari al 20% di quello richiesto? E se non ci siamo riusciti, perché ciò è accaduto? E, se è accaduto, cosa fare per rimediare? Invece, nulla: silenzio assoluto. Della giustizia e del tasso di giustizia che ogni sentenza sia in grado di assicurare (o non assicurare) ai nostri simili non importa a nessuno, neppure al vicepresidente del Csm o al presidente della Cassazione. Ma non crediate sia una novità. Si va avanti così da decenni, e non sorprende perciò che le cose vadano di male in peggio: si parla del nulla e si tace l'essenziale. Da qui l'inutilità. Avanzo perciò una irriverente proposta: il prossimo anno, diamo da leggere a presidenti e vicepresidenti una relazione redatta tre, sei, dieci, vent'anni or sono. Scommetto che nessuno se ne accorgerebbe, nemmeno i giornalisti, tanto essa conterrebbe, più o meno, la medesima litania di geremiadi sulla mancanza di denaro, di personale, di mezzi e così via: come se a saldare il conto della giustizia fossero il denaro, il personale, i mezzi e non il senso di giustizia dei giudici, il loro esercitato equilibrio, il loro essere e mostrarsi esperti d'umanità. Preoccupati, come dev'essere, non solo di sbagliare il meno possibile: ma anche di saper rimediare agli errori commessi. Ma mi rendo conto: di questo è meglio tacere. Giustizia: inaugurazione anno giudiziario; i capi della Cassazione sgridano (un po') i Pm di Errico Novi Il Garantista, 24 gennaio 2015 C'è un passaggio della solenne cerimonia che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di "parabola discendente". Si riferisce ai suoi colleghi magistrati. E se pure parte dalla "campagna irresponsabile di discredito" condotta "per anni" contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a "una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l'alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata", appunto, "una parabola discendente", soprattutto, "i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell'esistente e portatori di interessi corporativi". Di più: devono superare i loro "arroccamenti", e il richiamo pronunciato "davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano" deve costituire per loro "un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi". Alla cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle "tensioni" e delle "cadute di stile" che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz'ora più tardi interviene a sua volta nell'aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm "troppo deboli alle lusinghe della politica". Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi. Più che in altre occasioni l'inaugurazione dell'anno giudiziario vede la magistratura indicata tra le componenti responsabili della crisi della giustizia. Alla fine, mentre il primo presidente Santacroce e il pg Ciani sono piuttosto severi con i colleghi, deve provvedere il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, che è un politico e non un giudice, a una difesa d'ufficio delle toghe. Dice che "una magistratura compressa dalle inefficienze del sistema, suo malgrado non viene percepita come autorevole". Certo, dopo di lui, e subito prima di Ciani, ci prova anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando a sussurrare qualche parola dolce. Oltre a definire i giudici "protagonisti del cambiamento" promette loro una mano un po' più delicata sulla spinosa questione dei pensionamenti: "Il governo si riserva un'ulteriore riflessione sull'applicazione della nuova disciplina" che abbassa a 70 anni l'età pensionabile dei magistrati, spiega il Guardasigilli. Ma cambia poco. Continuerà a percepirsi assai più l'eco delle parole di Ciani a proposito della "magistratura requirente" che "nell'anno appena decorso", in taluni dei suoi appartenenti, ha dimostrato "un eccesso di debolezza nei confronti delle lusinghe dell'immagine, della popolarità, e soprattutto della politica". E qui per giunta arriva un'altra stoccatina allo stesso Csm: sulla questione, dice ancora il procuratore generale della Cassazione, "è necessario un tempestivo intervento del legislatore per una più adeguata regolamentazione della materia: quella secondaria del Consiglio superiore si è rivelata insufficiente". Viceversa sia il pg che il primo presidente Santacroce promuovono seppur con riserva la riforma di Orlando. Plaudono soprattutto ad alcuni degli interventi sul civile, in particolare alla negoziazione assistita che dovrebbe aiutare ad alleggerire il carico dei tribunali. Un motivo di sollievo, per il ministro della Giustizia, in una fase in cui sul suo ruolo si allunga l'ombra di Nicola Gratteri, che pochi giorni fa ha annunciato la "sua" riforma del processo penale. Ma l'altro tema forte nel Palazzo di giustizia capitolino è quello delle carceri, e della condizione dei detenuti in particolare. "C'è ancora molto da fare", avverte Santacroce, "le misure prese vanno senz'altro nella direzione giusta ma non sono risolutive. Anche se il numero dei detenuti tende a diminuire, l'emergenza sovraffollamento, suicidi e tensioni nelle strutture penitenziarie non è ancora rientrata e non può protrarsi ulteriormente". Bisogna assicurare, ricorda il primo presidente della Suprema Corte, "il rispetto della dignità della persona nella fase dell'esecuzione della pena: le carceri sono lo specchio della civiltà di un Paese, sono la carta di identità dello Stato costituzionale di diritto. Se è legittimo toglier a un uomo la libertà, non è legittimo togliergli la dignità". Persino qui non mancano critiche alla magistratura: "Il problema dell'eccesso di carcerazione chiama in causa anche i giudici, che non possono limitarsi a sollecitare sempre e comunque l'intervento della politica e del legislatore", avverte Santacroce, "è necessario che assumano anche su di loro la responsabilità di rendere effettivo il principio del minimo sacrificio possibile, che deve governare ogni intervento, specie giurisdizionale, in tema di libertà personale". Un passaggio che riscuote il plauso dell'associazione Antigone ("Santacroce ha totalmente ragione, anche sull'illegittimità della pena per chi non se l'è ancora vista rideterminare dopo la bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Consulta") e dell'Unione Camere penali. "Siamo d'accordo sulla visione delle sanzioni penali e del carcere come extrema ratio" e sul "richiamo ad approvare il reato di tortura", dice il presidente Beniamino Migliucci. Una svolta c'è. Almeno sui limiti della magistratura e sul tema delle carceri. E un po' di merito, su questo, a Napolitano andrà dato. Giustizia: inaugurazione anno giudiziario; carcere e droghe restano "problemi irrisolti" di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 gennaio 2015 Duro discorso del presidente della Corte di Cassazione, Giorgio Santacroce, per l'inaugurazione. Assente non solo Napolitano: mancano Renzi e tutti i ministri, tranne Orlando. "Non ascoltate le richieste di intervento legislativo". Poteva sembrare un ringraziamento di rito, quello rivolto ieri durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario a Giorgio Napolitano, per la prima volta assente e sostituito da Pietro Grasso, per il suo "impegno straordinario" come "custode delle istituzioni repubblicane" e della Costituzione. Ma che non lo fosse, lo si è capito da come il presidente della Corte di Cassazione, Giorgio Santacroce, nel suo discorso alla presenza del Guardasigilli Andrea Orlando (assente invece il premier Renzi e tutti gli altri ministri) ha posto l'accento su quei nodi mai sciolti del sistema penale italiano sui quali tante volte negli ultimi anni il presidente uscente aveva richiamato l'attenzione, perfino con un messaggio alle Camere ma sempre inascoltato. Il sovraffollamento penitenziario e i diritti dei detenuti, per i quali "tutti gli allarmi lanciati restano drammaticamente attuali"; la mancanza del reato di tortura nell'ordinamento italiano; l'"eccesso di carcerazione", la "tendenza criticabile del legislatore a inasprire continuamente le pene detentive" malgrado "la gravità della sanzione non assicura un effetto di deterrenza"; i "problemi interpretativi sul trattamento dei reati" in materia di droghe dovuti alla mancanza di "un tempestivo e coerente intervento legislativo" che prenda "atto dell'inutilità dell'intervento sanzionatorio previsto dalla legge Fini-Giovanardi". La quale "non ha prodotto alcuna contrazione dei reati", fino a quando la Consulta non l'ha cancellata nel febbraio 2014. E poi, ancora, l'incredibile mole del contenzioso pendente, in particolare presso la Suprema corte e i processi lumaca che producono tra l'altro l'"estinzione dei reati per prescrizione", a fronte invece del "numero impressionante di avvocati, ben 58.542" che esercitano nel Paese. "Diciamo queste cose da anni" ma le richieste di intervento legislativo sono rimaste per lo più inascoltate, ha ricordato Santacroce. Solo su un punto il presidente della Cassazione non sembra in sintonia con Napolitano: la prospettiva di superare gran parte di queste problematiche ricorrendo a un provvedimento di amnistia, come chiederanno di nuovo oggi i Radicali intervenendo alle cerimonie presso tutte le Corti d'Appello (tranne Bologna e Trieste). Sul fronte della giustizia civile, secondo Santacroce "hanno lasciato il segno" le due norme volute da Orlando sulla semplificazione e trasparenza amministrativa (legge 90/2014) e sulla negoziazione assistita e l'arbitrato (L. 132/2014). E "per la prima volta dal 2009" il numero dei processi pendenti in primo grado è sceso "sotto la soglia dei 5 milioni", mentre in Appello c'è stata una flessione addirittura del 15,1%. Di tutt'altro avviso è però l'Unione nazionale giudici di Pace, che per protestare contro le riforme in materia civile del governo Renzi non ha partecipato alla cerimonia. Sul fronte penale invece, malgrado la situazione sia "lievemente migliorata", Santacroce fa notare che "non sono sufficienti riforme a costo zero", e che senza "investimenti in risorse umane e strumentali" non si riuscirà a smaltire le cause arretrate e così "assicurare l'uniformità della giurisprudenza". In particolare, è la Cassazione a soffrire di più: "ipotizzando l'impossibile sopravvenienza zero, occorrerebbero pur sempre tre anni e 4 mesi per azzerare le cause arretrate". Per Santacroce occorrono filtri per i ricorsi e per il giudizio di secondo grado anche se "l'appello è un istituto che risponde a una esigenza fondamentale, che è quella di correggere, ove necessario, l'errore del primo giudice". Eliminarlo "vorrebbe dire perdere una fetta importante di garanzia". Piuttosto la lotta al crimine - in particolare il magistrato ricorda il problema della corruzione che "offusca gravemente l'immagine del nostro Paese anche a livello internazionale", del riciclaggio dei capitali illeciti, della criminalità finanziaria, ambientale e a carattere transnazionale - "non sia soltanto di tipo repressivo" e si avvalga di "idonei strumenti di controllo", come le intercettazioni. In quest'ottica, è necessario, sostiene anche il Pg della Cassazione Gianfranco Ciani, "reintrodurre il falso in bilancio" e affrontare "il problema della prescrizione" che "non è tanto quello di aumentarne i termini, quanto quello di stabilirne la decorrenza". Ma una tirata d'orecchie va anche alle toghe: basta con le liti, gli eccessi di protagonismo, le "cadute di stile e le improprie esposizioni mediatiche", dice Santacroce che sembra riferirsi alla lunga diatriba Bruti Liberati-Robledo. Dopo Mani pulite la magistratura ha iniziato "una parabola discendente" e si è resa sempre più evidente "la disaffezione dei cittadini". Anche sull'eccesso di carcerazione i giudici non possono sempre "limitarsi a sollecitare l'intervento della politica. È necessario che si assumano anche essi la responsabilità di rendere effettivo il principio del "minimo sacrificio possibile" che deve governare ogni intervento, specie giurisdizionale, in tema di libertà personale". Giustizia: inaugurazione anno giudiziario; contro la crisi del penale serve un'etica pubblica di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2015 Si può immaginare una sopravvivenza accettabile della civiltà di un Paese a prescindere dall'accettabile sopravvivenza della sua giustizia penale? Se lo chiede il Procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani nella relazione integrale per l'anno giudiziario e la domanda, nella sua semplicità, è drammatica considerata la "profonda crisi in cui versa la giustizia penale" italiana ormai da anni. Una crisi "endemica" che però non sembra preoccupare la politica, altrimenti non si spiegherebbe perché, nonostante allarmi, segnalazioni ed evidenze oggettive, "si continui a dilazionare ogni intervento davvero incisivo e strutturale, accontentandosi di una mediocre, quotidiana sopravvivenza dello statu quo". La verità, osserva Ciani, è che la crisi della giustizia penale è frutto "anche di una crisi profonda della politica, delle formazioni sociali e delle classi dirigenti, che non sono state in grado di innalzare il livello della coscienza morale". Per cui sulla giustizia penale ricadono aspettative etiche e sociali, "il che costituisce una grave distorsione dell'assetto sociale". Peccato che il Pg della Cassazione non abbia letto queste pagine alle autorità presenti nell'Aula magna. Le sue riflessioni mettono a nudo l'inadeguatezza dell'approccio riformistico alla giustizia penale e dell'analisi sottostante. Nel dubbio che vengano lette, vale la pena sintetizzarle. Ciani prende le mosse da un recente lavoro del professor Massimo Donini, tra i maggiori studiosi di diritto penale, secondo cui "il diritto penale, in Italia, è diventato la nuova etica pubblica". Archiviate le ideologie, "le scelte etiche condivise sono solo quelle sancite dal diritto penale": una condotta è censurabile soltanto se è reato, "mancando altrimenti un sistema di valori davvero eloquente e condiviso". Non esiste "una terra di mezzo" tra ciò che è reato e ciò che è lecito perché non è reato. Non esiste un'etica non giuridica. La morale pubblica si identifica con il perimetro dell'incriminazione penale. È come se "il sentire sociale fosse mediato dalla giustizia penale, secondo modalità sconosciute, in questi termini, nelle democrazie occidentali avanzate". Di qui la sua progressiva centralità: ci si attende molto di più da una sentenza che da una (nuova) legge e non si pensa che ci sono forme diverse e alternative di controllo e di sanzione. Le aspettative vengono anche dal mondo economico. Ciani cita il documento di Confindustria del 14 dicembre 2014 sulla corruzione "zavorra per lo sviluppo", in cui si denunciano i ritardi dell'ordinamento sulla prevenzione e le carenze sulla repressione. Anche qui le aspettative riguardano risultati decisivi, come ipotizzare un aumento annuo del Pil dello 0,6% mediante l'intensificazione della repressione penale della corruzione (oltre che della prevenzione). Ovvio che di fronte a tali e tante "aspettative messianiche" il risultato sia "deludente". Si pensi all'evasione fiscale e ai reati tributari considerati una delle principali e più diffuse cause di comportamento antisociale, di disvalore endemico per i danni all'economia. Eppure, a novembre 2014 i detenuti per questi reati - come segnalato dal premier Matteo Renzi - si contavano sulle dita di due mani. Si pensi al settore edilizio-urbanistico, alle vite umane che pagano il prezzo del mancato rispetto delle regole: i processi sono tantissimi (spesso a persone anziane che non hanno nulla da perdere) eppure le demolizioni, eseguite a distanza di anni, sono rarissime se confrontate al dilagare dell'abusivismo. Anche qui, "l'aleatorietà della risposta statale all'illegalità finisce per convincere che ciò che è illecito è, se non consentito, blandamente perseguito". "Il messaggio che ne consegue - osserva Ciani - è che evadere può convenire. Del resto non c'è da stupirsi se si pensa che nel sentire comune l'evasione fiscale è sostanzialmente avvertita come un furto ma le pene edittali per chi sottrae una bicicletta sulla pubblica via sono ben superiori a quelle di chi oggi si sottrae fraudolentemente al pagamento di imposte di ammontare da 50mila a 200mila euro. E analoghe considerazioni potrebbero farsi per la corruzione". Se si avesse coscienza di questo scenario, l'approccio riformatore sarebbe diverso, mentre "il metodo è sempre uguale al passato: interventi episodici, legati a contingenze mediatiche e alle connesse emotività sociali piuttosto che a meditati interventi di struttura". A cominciare da una decisa (e non finta) depenalizzazione. Giustizia: inaugurazione anno giudiziario; contro la corruzione inutili pene più severe di Silvia Barocci Il Messaggero, 24 gennaio 2015 Inaugurazione dell'anno giudiziario, Santacroce avverte: "La prescrizione va modificata. E basta liti tra magistrati". Indagini come quelle su Mose, Expo e Mafia Capitale "gettano una luce sconcertante sulla capacità della criminalità di insinuarsi nelle istituzioni e nell'economia". Ma se si pensa, come ha immaginato il governo, di affrontare la lotta alla corruzione con un ulteriore aumento di pena, l'arma scelta è sbagliata e "inutile". Piuttosto, si deve puntare su "idonei strumenti preventivi di controllo" e sulla modifica della prescrizione, perché quella attualmente in vigore è "gravemente insoddisfacente". È un'analisi lucida, che richiama le responsabilità di tutti e la necessità di investimenti per la giustizia, quella che il primo presidente della Cassazione Giorgio Santacroce compie in apertura dell'anno giudiziario. Mai cerimonia è stata cosi sotto tono: per la prima volta non c'era il Presidente della Repubblica, rappresentato dal Presidente del Senato Pietro Grasso nel ruolo di "reggente"; assente il premier Renzi; molte le sedie rimaste vuote. È l'occasione per tirare le somme di alcune recenti riforme - il decreto per abbattere l'arretrato civile, l'auto-riciclaggio, le misure alternative al carcere - ma anche per dire cosa manca e che necessita di investimenti economici. Oppure, come fa il pg della Cassazione Gianfranco Ciani prossimo ad andare in pensione dopo aver esercitato l'azione disciplinare nei confronti del procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo, per dare un altolà a quei pm che "hanno dimostrato un eccesso di debolezza nei confronti delle lusinghe dell'immagine, della popolarità e soprattutto della politica". Che l'aria sia cambiata lo dice con chiarezza Santacroce: la magistratura dopo Mani pulite ha iniziato "una parabola discendente", con la "disaffezione" dei cittadini pelle "credenziali mortificanti" che esibisce, ma a questa crisi di fiducia concorrono anche "frequenti tensioni e polemiche" soprattutto tra pm. Il tutto - rileva il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini - è accompagnato da una gravissima crisi economico-sociale e dalla "crescente odiosità della corruzione" che "pongono al sistema giudiziario nuove domande ed acuiscono la percezione negative delle inefficienze della giurisdizione". Basti pensare - ricorda ancora Legnini - che "la misurazione più attendibile dell'economia sommersa, alimentata dalla criminalità organizzata, dalla corruzione e dall'evasione fiscale indica un'incidenza media della stessa economia sommersa e di quella illegale pari rispettivamente al 16,5% e al 10% del Pil". Per contrastare la criminalità economica - fa notare il ministro della Giustizia Andrea Orlando - il governo ha approvato il nuovo reato di auto-riciclaggio e ha proposto una serie di modifiche che vanno dalla riforma della prescrizione alla ridefinizione del falso in bilancio fino all'attenuante per l'imputato che collabora nelle inchieste di corruzione. Ma sull'aumento della pena della corruzione propria fino a dieci anni Santacroce prende le distanze: "È lecito dubitare che un ulteriore aumento della previsione sanzionato la sia uno strumento di qualche effetto dissuasivo rispetto a realtà criminali così spregiudicate". Infine l'allarme del primo presidente sulla "decapitazione" che la Cassazione subirà se il governo non graduerà l'abbassamento a 70 anni della pensione dei magistrati: "alla fine di quest'anno ci sarà un'uscita di scena in blocco di quasi tutti i presidenti di sezione (43 su 56)" con scoperture che raggiungeranno il 91,7%. Uno slittamento di un anno potrebbe essere previsto nel Mille proroghe. Diversamente il Csm dovrà procedere a tambur battente per la nomina di 483 nuovi capi di uffici direttivi e semi direttivi. Giustizia: anti-jihad in cella, gli 007 avranno mani libere di Damiano Aliprandi Il Garantista, 24 gennaio 2015 Se il Consiglio dei Ministri darà il via al decreto antiterrorismo, gli uomini dell'intelligence potranno agire in prigione sotto copertura. I servizi segreti potranno operare in carcere per fronteggiare il terrorismo islamico. Il decreto antiterrorismo oltre a provvedere all'aumento del contingente militare - circa di 5000 unità - che sarà a disposizione dei prefetti per la sicurezza nelle città, darà ampi poteri ai servizi segreti italiani. Soprattutto all'interno delle carceri. La legge di riforma dell'intelligence - la 124 del 2007 - definisce già oggi le garanzie funzionali per gli agenti, la possibilità cioè di compiere una serie di reati senza essere puniti, se ciò è indispensabile alle finalità istituzionali dei servizi. Queste condotte illecite devono essere però autorizzate dal presidente del Consiglio o dall'Autorità delegata. Ma ci sono reati che uno 007 può compiere: quelli che "mettono in pericolo la vita, l'integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute, l'incolumità di una o più persone". Il decreto consentirà di eliminare altri "paletti", consentendo così, ad esempio, ad un agente segreto sotto copertura di rispondere col nome falso in caso di procedimento avviato nei suoi confronti, in modo da poter mantenere la copertura stessa. Ma il "paletto" più ingombrante che sarà eliminato e quello che permetterà all'agente segreto di poter operare indisturbato in carcere. Se il Consiglio dei Ministri - previsto per il 28 Gennaio - darà il via al decreto antiterrorismo, i servizi potranno entrare nelle carceri e fare operazioni di intelligence sotto copertura. Decreto che trova l'approvazione di Gianluca Ansatone, esperto di strategia, sicurezza e intelligence. In un'intervista a Panorama, l'esperto dichiara che "è proprio all'interno del carcere che i terroristi riescono a compiere quel "salto di qualità" che si traduce in attentati sanguinari". Ansalone quindi si auspica un ritorno alla lotta al terrorismo come gli anni 70. "Gli investigatori italiani sono quelli che in assoluto, a livello mondiale, hanno sperimentato per primi il terrorismo - osserva Ansalone - e mi riferisco a quello degli Anni 70. Per questo motivo hanno maturato un'esperienza notevole in questo settore sviluppando tecniche investigative di altissimo livello. Sono stati i nostri investigatori a insegnare agli al uri che cosa sia il terrorismo e come combatterlo. Adesso, però, devono rispolverare il "vecchio manuale" e applicare le vecchie tecniche investigative". L'esperto spiega anche cosa dovrebbero fare: "E fondamentale che gli investigatori ricomincino ad ascoltare che cosa avviene in carcere, a infiltrarsi tra i detenuti per cercare di carpire informazioni e per "spezzare" dall'interno questi contatti che portano alla radicalizzazione. Devono essere adottate tutte quelle tecniche di ascolto che in passato sono state utilizzate per i mafiosi, per i pentiti". Ma poi ammette: "C'è un altro aspetto che potrebbe essere d'aiuto per ridurre i processi di radicalizza-zione in carcere: migliorare le condizioni di vivibilità dei detenuti". Peccato che il decreto antiterrorismo non contempli assolutamente l'ultima osservazione e si basi esclusivamente sulla repressione e poteri speciali per gli uomini dell'intelligence. Eppure proprio in Inghilterra si sono fatti studi interessanti proprio sul versante carceri. Un'analisi importante è stata redatta dalla Quilliam Foundation, una fondazione particolare, composta anche da ex appartenenti a gruppi estremisti islamici il cui scopo è oggi quello di combattere il radicalismo e promuovere una pacifica convivenza delle comunità musulmane in Occidente. Lo studio approfondisce un aspetto particolare del radicalismo islamico in Gran Bretagna, valutando come la terribile esperienza carceraria costituisca spesso il primo elemento nella catena del processo di reclutamento dei terroristi. Spiega che l'elemento psicologico ed emozionale di cui l'individuo è vittima entrando nel sistema carcerario è divenuto col tempo un fertile terreno per i reclutatori delle organizzazioni estremiste islamiche. Una considerevole parte del rapporto è stata realizzata sulla base di dati raccolti nelle carceri o su testimonianze di ex detenuti, ricostruendo per fasi e schemi gli elementi psicologici e di debolezza sui quali i reclutatori agiscono. Il dossier individua ed elenca con precisione una serie di elementi che contribuiscono all'incremento della pressione psicologica del detenuto e alla sua progressiva plasmabilità, individuando il modo in cui l'autorità deve potersi sostituire alle cellule radicali presenti nelle carceri provvedendo all'erogazione dei servizi altrimenti forniti dalle cellule stesse, come nel caso dei luoghi di preghiera. Al tempo stesso - spiega il rapporto - è necessario attuare programmi di de-radicalizzazione mediante l'adozione di strumenti psicologici e pratici che consentano di contrastare il radicalismo, attraverso l'offerta di servizi e programmi di re inserimento, evitando l'isolamento e la separazione delle comunità, e creando meccanismi virtuosi di cooperazione tra detenuti e società. Il dossier individua i tratti caratteristici di un regime carcerario nel tempo inadeguato alla gestione del fenomeno, ed anzi incline all'adozione di metodi e strategie rivelatesi nel tempo esplosive per la proliferazione del fenomeno di proselitismo. Lo studio prosegue poi con una coppia di capitoli dedicati rispettivamente ai fenomeni "pull" e "push" all'interno delle carceri. L'adesione alle cellule estremiste, secondo il dossier, avviene per la simultanea e combinata azione di due fenomeni, "pull" e "push", estremamente diversi tra loro ma funzionali l'uno all'altro nella trasformazione del detenuto e nella sua progressiva cooptazione. Con riferimento al fenomeno "pull", l'autore si interroga sul fenomeno del ricorso alla spiritualità ed alla religione nell'ambito dell'esperienza carceraria dell'individuo, indagando sul bisogno di fede, e studiando i meccanismi di avvicinamento dei detenuti musulmani ai gruppi religiosi presenti in carcere. Il fenomeno "pull" è quindi connesso alle pratiche di reclutamento dei gruppi estremisti attraverso la cooptazione dei detenuti di religione islamica, soprattutto quelli più giovani o alla prima esperienza carceraria, ritenuti più facilmente adescabili in conseguenza dell'inesperienza e dei timori all'ingresso nelle strutture penitenziarie. Il fenomeno "pull" è quindi frutto di un'azione positiva finalizzata all'attrazione dell'individuo attraverso pratiche di fraternizza-zione, familiarizzazione e inclusione nelle cellule islamiche, mediante indottrinamento. Il fenomeno "push", al contrario, è determinato dalla volontà dell'individuo di aderire alle cellule islamiche, ed è solitamente il prodotto delle condizioni di vita all'interno delle strutture carcerarie, dell'incapacità di attrazione verso i modelli neutri da parte dell'amministrazione di giustizia, e della ghettizzazione dei gruppi all'interno delle carceri, quale risultato di un'autonomia gestionale delle attività di convivenza. Maggiore è, quindi, la capacità delle strutture carcerarie di intervenire sui fenomeni "pull" e "push", minore è la capacità delle cellule islamiche estremiste di intervenire sui carcerati, limitando in tal modo la capacità di attrazione dei più deboli nelle maglie del radicalismo estremo. Il rispetto delle esigenze religiose basilari, la lotta alla violenza ed al sopruso, la sistematica abolizione dell'umiliazione e dell'insulto e la corretta e costante comunicazione dei principi giuridici alla base della detenzione, si sono dimostrati, nelle esperienze carcerarie modello, i più potenti antidoti alla proliferazione delle cellule estremiste. Emarginando i gruppi o gli individui più estremisti e determinando, al contrario, una convivenza pacifica ed interreligiosa con gli altri detenuti. Ancora una volta l'unico antidoto al terrorismo e alla criminalità organizzata in generale è esattamente il rispetto dello stato di diritto e non l'instaurazione di un regime poliziesco Giustizia: Enrico Sbriglia (Prap Triveneto); rischio reclutamento, istituti controllati di Nicola Munaro Corriere del Veneto, 24 gennaio 2015 "Monitoriamo le strutture. Ma non alziamo altre barriere". Enrico Sbriglia, 59 anni, provveditore alle carceri del Triveneto, è l'uomo che tira le fila dei penitenziari della regione. È lui che coordina ogni movimento, comprese le misure di sicurezza nei momenti caldi. Come quello che sta attraversando il Due Palazzi, il carcere di Padova di nuovo nell'occhio del ciclone. Lo abbiamo intercettato mentre, per sua stessa ammissione, lascia Torino per raggiungere Padova: "Voglio capire cos'è successo in carcere, non mi piacciono le generalizzazioni". Stiamo attraversando un momento in cui le tensioni sono a fior di pelle. Su tutte quella dettata dalla paura del confronto con il mondo musulmano, dopo la strage di Parigi: prefetti e questori hanno dato le loro linee guida per mantenere sicure le città, c'è un protocollo anche per l'amministrazione penitenziaria? "Il problema islamico lo sentiamo. Dal Dap (il dipartimento che governa le carceri d'Italia) sono arrivate disposizioni a monitorare ciò che accade negli istituti di pena, evitando così di permettere scenari di reclutamento e diffusione della cultura fondamentalista. Si è elevato il livello di sicurezza, ma non significa alzare alabarde o chiudere le porte e creare muri". E in Veneto avete mai discusso di come comportarsi? "Nei giorni scorsi c'è stata una riunione tra me e tutti i direttori delle carceri del Triveneto. Non nascondo che abbiamo affrontato i problemi legati alle attività di prevenzione di ogni istituto: il vero e primo principale presidio sono gli occhi e le orecchie del poliziotto. In un momento come questo serve stare di più in mezzo ai detenuti, notare i gruppi che si muovono, la loro "natura". Capire chi sono i capi, interpretare i cenni che si fanno, perfino le sigarette offerte o accese sono importanti. I poliziotti, lasciando liberi i detenuti di girare come facevano prima, devono specializzarsi nel vedere ogni minimo segnale e raccogliere i sintomi del cambiamento. Noi abbiamo invitato i direttori a contrastare il fondamentalismo senza alzare barriere". Come stanno le carceri venete? Gli ultimi numeri parlano di 2.543 detenuti a fronte di 1.957 posti, con un surplus di 586 detenuti. Ed è forte la presenza di magrebini ed europei dell'Est, soprattutto romeni e albanesi. Può essere un rischio? "Non meravigliamoci di questo, è la conseguenza inevitabile di una globalizzazione che prevede un mondo piccolo. Le nove carceri del Veneto credo soffrano della scarsità di risorse umane, dovuta al fatto che il nord, di regola, non è agognato dagli agenti della polizia penitenziaria, quasi tutti del sud e quindi costretti ad allontanarsi dalle famiglie. Dobbiamo però stare sereni, attenti e vigili. Soprattutto colpire chi sbaglia, non generalizzare. Anche col terrorismo". Giustizia: il Parlamento salva l'indennità agli arrestati di Sara Nicoli Il Fatto Quotidiano, 24 gennaio 2015 Bocciati a Montecitorio gli emendamenti presentati dai 5Stelle per bloccare l'erogazione, come nel caso Galan. Se ci fosse stata quella norma, sarebbe stato un Parlamento diverso. Con indagati e condannati costretti, anche in caso di voto contrario all'arresto delle rispettive aule, a rinunciare all'indennità parlamentare. Che, in alcuni casi, è addirittura doppia, visto che molti onorevoli sottoposti a misure cautelari sono anche presidenti di commissione, per cui percepiscono un'indennità in più. Peccato, però, che questa possibilità sia andata in fumo ieri nell'aula di Montecitorio, quando è stato approvato (con 330 voti favorevoli e 120 voti contrari) l'articolo 9 del ddl Riforme costituzionali che modifica l'articolo 69 della Costituzione e disciplina le indennità parlamentari. Durante le votazioni degli emendamenti, sono state respinte tutte le richieste di modifica avanzate dai 5Stelle, che miravano a introdurre una nuova disciplina per i deputati sottoposti "a misure cautelari personali o comunque privati della libertà personale o che siano in detenzione". In questi casi, si sosteneva la necessità di sospendere l'erogazione dell'indennità parlamentare. Se poi, nei vari gradi di giudizio, il parlamentare fosse risultato innocente, allora gli sarebbe stata restituita l'indennità. "In pratica - sostiene Vittorio Ferraresi dei 5Stelle, capogruppo in commissione Giustizia della Camera - avevamo calibrato la norma in modo graduale, a partire dall'avviso di garanzia fino ai domiciliari e al carcere, fattispecie queste ultime che impediscono di fatto al parlamentare di stare in aula. La misura cautelare, comunque, riguarda anche un discorso morale, perché chi è indagato dovrebbe autosospendersi e far sospendere, di conseguenza, l'erogazione economica. Siccome questo non avviene mai, sarebbe stato opportuno metterlo per legge". A sostegno della necessità di dare vita alla norma, in aula i grillini hanno sollevato il "caso Galan", presidente della Commissione Cultura della Camera, così come il caso Genovese (che però si è dimesso). Ma Giancarlo Galan (2 anni e 10 mesi per corruzione) è solo uno. Ce ne sono tanti altri. Come Roberto Formigoni, presidente della Commissione Agricoltura del Senato (a processo per tangenti) e l'alfaniano Antonio Azzollini, presidente della Commissione Bilancio del Senato, indagato per una presunta maxi-frode per la costruzione del porto di Molfetta. Oppure Altero Matteoli, indagato per corruzione e presidente della Commissione Lavori pubblici del Senato. E anche l'ex ministro Nunzia De Girolamo, vice della Giunta per le Autorizzazioni della Camera. Chiude la fila Donato Bruno, ex candidato di Forza Italia sfumato per la Consulta: è indagato per una consulenza, ma a Palazzo Madama presiede il consiglio di garanzia. Per non dimenticare il vicepresidente della Commissione Difesa del Senato, il "trattativista" Denis Verdini, seguito da Daniele Capezzone, presidente della Commissione Bilancio di Montecitorio, condannato per diffamazione a mezzo stampa (chiamò "teppisti" i giudici) e dalla vicepresidente della commissione Industria del Senato, Paola Pelino, condannata per non aver pagato 11mila euro di vestiti. Giustizia: chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, si va verso una nuova proroga? di Maria Antonietta Farina Coscioni e Valter Vecellio Il Garantista, 24 gennaio 2015 Dovevano sparire il 31 marzo del 2013. Gli Ospedali psichiatrici giudiziari, sono invece rimasti, grazie a una proroga, che ne fissava la chiusura per il 1 aprile del 2014. Una ulteriore proroga ha spostato la chiusura all'aprile del 2015. Manca poco. Non c'è tre, senza quattro? Si intende procedere, come del resto auspicano gli stessi ministri della Salute Beatrice Lorenzin e della Giustizia Andrea Orlando, nella loro relazione consegnata il 30 settembre scorso al Parlamento, a una ulteriore proroga? Lo chiediamo formalmente al presidente del Consiglio, ai ministri della Giustizia e della Salute, al presidente della Conferenza Stato-Regioni: dovremo prendere atto che ancora una volta non si è saputo/voluto predisporre le strutture "altre" necessarie per assistere circa un migliaio di persone malate, che continueranno così a restare in luoghi che il presidente della Repubblica Napolitano ha definito "orrendi, non degni di un Paese appena civile"? La legge che dispone la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari prevede la creazione in ogni regione di Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza sanitarie (Rems). A che punto siamo? Abbiamo un quadro al settembre del 2014 dove si "prevede"; e al termine delle "previsioni" si sostiene che non appare realistico che i progetti possano essere realizzati nei tempi fissati. Si sono individuate le responsabilità e le ragioni di questi ennesimi ritardi? Fino a quando permarrà questa incertezza? Chi e cosa impedisce che questa situazione sia finalmente sanata? Giustizia: Ugl; allarme per la chiusura degli Opg, non ci sono ancora strutture alternative di Claudia Sparavigna Roma, 24 gennaio 2015 "Mancano poco più di due mesi alla scadenza fissata per la chiusura definitiva degli Opg, Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ma le Rems non decollano e non c'è nessun progetto". È questo l'allarme lanciato dall'Ispettore Ciro Auricchio, segretario regionale Ugl Polizia Penitenziaria della Campania. Nella nostra regione il problema della chiusura degli Opg non è di poco conto perché le due strutture regionali, quella di Napoli e quella di Aversa, ospitano circa 250 internati, provenienti non solo dalla Campania, ma anche da Lazio, Molise e Abruzzo, regioni che fanno riferimento a Napoli per gli Opg. "Le leggi non sono cambiate - prosegue l'Ispettore Auricchio - quindi la Magistratura continua a mandare internati negli Opg, che alla data del 31 marzo dovrebbero cessare di esistere in favore delle residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, di cui ancora non si sa nulla". Eppure, proprio nei giorni scorsi, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è intervenuto alla Camera sollecitando tutti ad evitare ulteriori proroghe e ritardi nella chiusura degli Opg. D'altro canto, vista l'impreparazione ad affrontare il cambiamento, la Conferenza Stato Regioni vede la proroga come unica soluzione praticabile. "Credo che per sistemare la situazione, visto che sono anni ormai che si va avanti di proroga in proroga - afferma l'Ispettore Auricchio - ci voglia un commissario ad acta che da Roma coordini la dismissione degli Opg. Per come stanno le cose adesso, si rischia di chiudere gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari senza avere una valida alternativa, questo potrebbe portare all'utilizzo di strutture private come soluzione momentanea, e sappiamo cosa significa momentaneo in Italia. In strutture esterne non c'è la possibilità di sorvegliare gli internati e non c'è nemmeno l'ufficio matricole, dove c'è personale in grado di gestire gli incartamenti giuridici". Il timore dell'Ispettore non è infondato, visto che per legge prosciolti e provvisori non possono essere detenuti nel circuito ordinario. Anche se con lentezza, i lavori per il superamento degli Opg proseguono. Il 22 gennaio, a Roma si è svolto l'incontro al Ministero della Salute con il Sottosegretario Vito De Filippo, Presidente dell'Organismo di coordinamento per il superamento degli Opg, per fare il punto della situazione. È emerso, come già nella relazione del 2014, che la maggior parte degli internati negli Opg può essere dimessa, per cui, se regioni, Asl e Magistratura riuscissero a lavorare di concerto, la data di dismissione degli Opg potrebbe anche essere rispettata, anche se le Rems non sono pronte, garantendo assistenza socio sanitaria sul territorio. Il problema, però, è che mentre nel resto del mondo la permanenza nelle Rems e il grado di sorveglianza sono dati dal grado di pericolosità della patologia dell'internato, in Italia la permanenza all'interno degli Opg e delle future Rems dipende dalla pena detentiva per il reato commesso, così che persone socialmente pericolose potrebbero tornare libere senza la predisposizione delle adeguate misure sanitarie. Giustizia: Beneduce (Fi); finalmente fondi per la sanità penitenziaria, stanziati 165 milioni Ansa, 24 gennaio 2015 "Il governo centrale ha finalmente preso atto delle condizioni in cui versa la sanità penitenziaria. All'indomani del mio ultimo appello legato all'urgenza di un intervento per la medicina in carcere, arriva la notizia dello stanziamento di 165,424 milioni di euro, che saranno ripartiti tra le Regioni, tenendo conto della presenza degli Ospedali psichiatrici giudiziari e di Centri clinici, del numero di detenuti e dei minori a carico della Giustizia minorile". Si dice soddisfatta Flora Beneduce, consigliere regionale della Campania e vice presidente della Commissione Affari istituzionali, che, dopo un tour nelle case circondariali, aveva denunciato "l'insufficienza di personale medico e paramedico e l'inadeguatezza o, peggio, l'assenza delle strumentazioni". "Le difficoltà, la carenza di personale, la mancanza di strumentazioni sono problemi comuni all'intero del comparto sanitario, ma nelle carceri i problemi si acuiscono e diventano drammi che si aggiungono ad altri drammi personali - dice l'onorevole Beneduce. Non possiamo pensare che la dignità si annienti dietro le sbarre. La salute deve essere tutelata a prescindere dalla colpevolezza o meno. C'è un valore che è più alto di tutti: l'essere umano". "Alle criticità della sanità in carcere per i detenuti, si aggiunge lo stress di medici e paramedici, che vivono il disagio di un impegno oneroso, fisicamente ed emotivamente, e sostengono il peso psicologico di una condizione di precarietà", aggiunge. "Ora la Regione Campania si occupi del personale delle carceri e proceda alla stabilizzazione dei precari - conclude. Credo che sia il primo passo da compiere per umanizzare e migliorare una condizione lavorativa con troppe criticità. Le risorse umane impegnate nella sanità penitenziaria dovrebbero avere la tranquillità per poter operare al meglio e garantire soccorso, cura e assistenza ai detenuti. Il rispetto e la tutela del lavoro diventano ancora più decisivi in contesti difficili, dove anche il diritto alla salute è spesso negato per carenza di personale, apparecchiature e politiche di sostegno adeguate". Giustizia: se Fabrizio Corona fosse un "detenuto ignoto" la solidarietà sarebbe diversa Elisa Chiari Famiglia Cristiana, 24 gennaio 2015 Quando Fabrizio Corona è uscito dal Tribunale ha ricevuto l'applauso dei fan: ritengono che con lui siano stati troppo severi. Ma, a proposito di giustizia uguale per tutti, a uno qualunque, a parità di pena e di curriculum, riserverebbero la stessa solidarietà? Il cumulo, non c'è che dire, fa una pena complessiva di tutto rispetto: 13 anni e due mesi ridotti a nove anni per l'applicazione della continuazione. Il curriculum che l'ha prodotto registra: estorsione, corruzione, bancarotta fraudolenta e frode fiscale, possesso e spendita di banconote false, evasione fiscale, tentata estorsione. Cui va aggiunta, senza che rientri nel computo delle pene detentive, una spericolata serie di violazioni al codice della strada, compresa la guida senza patente a ripetizione. Se si trattasse di un uomo qualunque, italiano o magari immigrato, molti di coloro che ragionano di politica penale o criminale facendo leva sulla sicurezza, starebbero probabilmente gridando, all'estremo opposto, che bisogna buttare la chiave, ma il signore che detiene questo curriculum si chiama Fabrizio Corona e allora cambia tutto: ci sono fan che applaudono e scattano foto, che lo incitano a "non mollare", persone di spettacolo che si mobilitano per chiedere la grazia a suo favore, tanti sostenitori più o meno noti - a volte anche con fini strumentali, altre volte magari per provocazione, altre ancora per convinzione - che partecipano alle sue sofferenze, rispettabilissime, e probabilmente comuni a detenuti sconosciuti. Sarà anche vero, come molte delle persone che solidarizzando con Corona argomentano, che l'estorsione del picciotto che chiede il pizzo al commerciante colpisce l'immaginario (e ferisce la società) in modo diverso rispetto al ricatto del paparazzo che chiede soldi al calciatore per non divulgarne immagini rubate. Ma l'estorsione resta estorsione. Il Codice penale non a caso ne modula la gravità con una pena che varia da 5 a 10 anni e, forse per la differenza di cui sopra, Corona ha preso il minimo: 5 anni appunto. Il resto è venuto accumulando altri reati e relative condanne definitive. La sofferenza di Fabrizio Corona va rispettata, così come i suoi avvocati che fanno il loro lavoro chiedendone la scarcerazione per motivi di salute e l'affidamento a una comunità. I magistrati di sorveglianza faranno il loro valutando le perizie e decidendo di conseguenza. E andranno rispettati altrettanto. Ma ai tanti (non a don Mazzi che si occupa di tutti per vocazione), che in questi mesi hanno eletto Fabrizio Corona a esempio ritenendo di dimostrare, tramite il suo caso, che la giustizia non è uguale per tutti (dicono che con lui hanno esagerato) bisognerebbe chiedere se sarebbero disposti alla stessa solidarietà, agli stessi incitamenti, alla stessa mobilitazione, alle stesse richieste di grazia per il primo che passa (italiano, albanese, marocchino ecc. per niente bello e altrettanto dannato), ovviamente a parità di condanna e di curriculum. Giusto per capire che cosa si intende, comunemente, per giustizia uguale per tutti. Emilia Romagna: Garante Desi Bruno; sì a diritto affettività detenuti, ora gli spazi ci sono Ristretti Orizzonti, 24 gennaio 2015 Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale, torna a porre il tema del diritto all'affettività in carcere. "La riduzione del numero dei detenuti presenti e la contestuale apertura di nuovi padiglioni detentivi - afferma - rende oggi disponibili nuovi spazi all'interno delle carceri che possono essere utilmente messi a disposizione per gli incontri - anche intimi - dei detenuti con i propri cari, soprattutto nel caso di persone che non hanno la possibilità di uscire ricorrendo ai permessi-premio". A parere della Garante, affettività e relazioni familiari rappresentano dimensioni che vanno tenute il più possibile "fuori dal carcere", attraverso il ricorso a tutti gli strumenti che l'ordinamento penitenziario mette a disposizione. Tuttavia, esistono alcune fasce di detenuti (come gli ergastolani - specie se ostativi - e comunque le persone detenute con condanne a pene detentive molto lunghe) per le quali il ricorso ad appositi spazi riservati costituisce "l'unica alternativa percorribile". Garantire anche a costoro la possibilità di mantenere i rapporti con i propri cari è assolutamente fondamentale, perché - sostiene Desi Bruno - "la questione diritti umani in carcere non può fermarsi al sovraffollamento. Sarebbe assolutamente riduttivo ragionare in questi termini. Occorre invece ripensare la logica dei permessi, delle telefonate e delle opportunità trattamentali nei vari circuiti differenziati". Da questo punto di vista, la Garante esprime grande soddisfazione per il recente disegno di legge presentato in conferenza stampa al Senato il 21 gennaio scorso. L'atto (Ddl n.1587, primo firmatario il senatore Sergio Lo Giudice, co-firmatario il senatore Luigi Manconi insieme ad una ventina di colleghi di forze politiche trasversali) ripropone una proposta sostenuta nella scorsa legislatura da Rita Bernardini, attuale segretario nazionale dei Radicali italiani. Il testo prevede colloqui più lunghi e "senza alcun controllo visivo", sottolinea Desi Bruno, in "locali idonei a consentire ai detenuti e agli internati l'intrattenimento di relazioni personali e affettive" e la possibilità per i Magistrati di sorveglianza di concedere un permesso ulteriore (in aggiunta ai cosiddetti "permessi premio" e a quelli "di necessità") "da trascorrere con il coniuge, con il convivente o con il familiare". Infine, per i detenuti e gli internati stranieri viene introdotta la possibilità di effettuare telefonate ai propri parenti o conviventi residenti all'estero. Oltre ai senatori proponenti e alla stessa Desi Bruno, sono intervenuti alla conferenza stampa di presentazione del disegno di legge anche Rita Bernardini, Franco Corleone (Garante dei detenuti della Regione Toscana) e Ornella Favero (direttrice della testata giornalistica "Ristretti Orizzonti" e animatrice della campagna di sensibilizzazione "Per qualche metro d'amore in più"). Per tutti, l'auspicio è quello di non privare i detenuti del proprio diritto a mantenere rapporti affettivi, garantendo incontri più frequenti e consentendo spazio e tempo per i momenti con il proprio partner, coniuge o convivente. "Troppo spesso ci si dimentica che la carcerazione non punisce solo il detenuto, ma si riverbera in modo devastante sui familiari, in particolare sui figli. Tuttavia - prosegue la Garante regionale - per riconoscere pienamente il diritto all'affettività, è necessario poter disporre di periodi di incontro con i propri cari, liberi da controlli visivi, che impediscono di vivere con naturalezza anche le manifestazioni di affetto più semplici, come un bacio o un abbraccio, nonché di poter anche avere rapporti sessuali con il proprio coniuge o convivente. Il disegno di legge presentato si muove in questa direzione e credo, finalmente, che i tempi siano maturi per arrivare ad un suo positivo accoglimento". Emilia Romagna: in carcere detenuti imparano l'apicoltura, un lavoro da portare fuori Italpress, 24 gennaio 2015 In Emilia Romagna nelle carceri si produce miele. Da 7 anni i detenuti della casa circondariale di Piacenza, producono tra i 200 e i 250 chili di miele, all'interno di un progetto dell'Associazione Provinciale Apicoltori Piacentini. Nel 1996 ha preso per la prima volta avvio, in Italia, un progetto pilota destinato alla realizzazione di un corso di formazione professionale in apicoltura, rivolto ai detenuti delle case circondariali e realizzato grazie alla collaborazione tra il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) del ministero della Giustizia e la Fai - Federazione apicoltori italiani. "La Fai - raccontano Roberto Pinchetti e Riccardo Redoglia, presidente e vicepresidente dell'Apap, Associazione Provinciale Apicoltori Piacentini legata a Coldiretti - ci ha incaricato di svolgere i corsi nelle carceri di Piacenza, Modena e di Castelfranco Emilia". Il progetto è continuato negli anni e nel 2014 sono entrati in produzione 538 alveari, con una media di 14 alveari per ogni carcere coinvolto. A Piacenza il progetto è iniziato nel 2007. "Il miele rimane all'interno del carcere perché i detenuti stessi lo richiedono. L'etichetta è suggestiva e richiama un famoso film sulla vita in carcere, "Le api della libertà". "Il nome fu scelto dai primi corsisti: negli anni la produzione è stata variabile, ma sempre tra i 200 e i 250 chili. Due corsisti - racconta Redoglia - una volta usciti dalla prigione, sono rimasti in questo ambiente: uno fa l'apicoltore per una cooperativa di Brescia, ed un altro che era falegname, costruisce anche arnie". Il miele serve anche per sfuggire dalla routine del carcere. "L'esperienza è positiva - commenta Pinchetti - vediamo che i detenuti apprezzano il fatto di convivere con le api e le arnie. A Castelfranco Emilia, i detenuti si occupano, oltre alla gestione delle arnie, anche di curare diverse serre, i cui prodotti vengono destinati anche alla vendita al pubblico". Si producono mieli di tarassaco, di acacia, di tiglio, di castagno, di erba medica, di girasole, di melata, e il miele millefiori. L'Italia produce soltanto il 50% del miele, tra l'altro di alta qualità, che viene consumato e l'altra metà viene importata. L'apicoltura ha un futuro e ha anche effetti benefici sull'ambiente, rivitalizza le aree di collina e le api hanno un ruolo fondamentale nella difesa dell'ecosistema. Padova: "rivolta" dei detenuti; tre ore di paura al Due Palazzi, tre agenti feriti di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 24 gennaio 2015 Rissa tra le 18 e le 21 nel carcere padovano: secondini colpiti con la gamba di un tavolo, sequestrati coltelli rudimentali. Due agenti sono finiti al pronto soccorso. Il Sappe denuncia: "Molti detenuti inneggiavano ad Allah e all'Isis". Ma gli inquirenti smentiscono: la rissa ha coinvolto detenuti romeni e albanesi, nessun arabo. Rivolta nel carcere Due Palazzi di Padova. Tre ore di fuoco, tra le 18 e le 21 di ieri, quando con una violenta rissa una sessantina di detenuti, rinchiusi nella sezione del quarto piano del "grattacielo", ha reagito all'intervento delle guardie penitenziarie. Due agenti sono finiti al Pronto soccorso dell'ospedale di Padova, colpiti al basso ventre con la gamba di un tavolo. Un altro ha conseguenze minori. Sarebbero stati sequestrati dei coltelli rudimentali che i reclusi, spesso, ricavano dalle scatolette di tonno o da chiodi. Il falso caso degli inni a Allah e Isis. L'allarmismo di alcuni sindacati di polizia penitenziaria però ha poi "montato" un caso mediatico che ha fatto finire il carcere di Padova al centro dell'attenzione nazionale. Era stato infatti detto che i detenuti durante la "rivolta" avrebbero inneggiato ad Allah e a Isis. Circostanza che non vengono confermate dagli inquirenti: "non ha trovato riscontro il fatto che alcuni dei partecipanti ai disordini abbiano inneggiato all'Isis", spiegano. La rissa infatti è scoppiata nel settore in cui sono reclusi detenuti romeni, moldavi o albanesi. Che vengono tenuti separati da arabi e magrebini, reclusi in un altro braccio del carcere. Il bilancio del pm Dini. Il bilancio, è stato riferito al termine dell'ispezione compiuta dal pm Sergio Dini e dal capo della squadra mobile della Questura di Padova, è di due guardia ferite, con prognosi di 3 e 10 giorni, e di una terza con conseguenze ancora più lievi, ancora da refertare. Gli inquirenti hanno escluso nel modo più assoluto una matrice terroristico-sovversiva nella rivolta. Nei momenti della "rivolta" è stato subito informato il direttore del Due Palazzi, Salvatore Pirruccio, giunto nella struttura penitenziaria riservata ai condannati in via definitiva e sempre affollata oltre i limiti, con oltre 800 ospiti rispetto alla capienza di 430 persone. La ricostruzione della rissa. La sezione del quarto piano ospita i cosiddetti detenuti comuni. Intorno al tardo pomeriggio, una lite tra un gruppo di reclusi: non è chiaro il motivo. Tuttavia da quell'alterco limitato, la zuffa si amplia tanto che le guardie intervengono con decisione e provvedono a far scattare l'allarme interno per far arrivare rinforzi. A quel punto alcuni detenuti si sarebbero rivoltati contro gli agenti, presi di mira con il tavolo. Immediatamente sono arrivati i colleghi ma, a fatica, è stata contenuta l'esplosione dei reclusi già alterati. Solo verso le 21 è tornata la calma, mentre agenti a riposo sono stati richiamati da casa per dare sostegno ai colleghi già in servizio. Il Sappe: "Detenuti inneggiavano a Allah e Isis". Dal Sappe, sindacato di polizia penitenziaria arriva un racconto forte della rivolta tra le celle del Due Palazzi (poi smentito dagli inquirenti): "Quel che è accaduto giovedì sera nella è gravissimo, anche in relazione all'atteggiamento assunto da molti detenuti di nazionalità araba", spiega Donato Capece, segretario generale del sindacato. "Nella sezione detentiva regolamentata dalla vigilanza dinamica, che permette ai detenuti di girare liberi buona parte del giorno e che per questo presenta livelli minimi di sicurezza, si respirava alta tensione, con atteggiamenti palesemente provocatori da parte di buona parte dei detenuti verso i poliziotti. All'atto dell'ingresso nel Reparto detentivo di due poliziotti penitenziari questi sono stati aggrediti e feriti senza alcuna giustificazione e le cose sono drammaticamente degenerate con urla e grida. Molti dei detenuti, di origine araba, inneggiavano ad Allah e all'Isis". Solo l'intervento di altri poliziotti penitenziari in servizio in carcere ma anche liberi dal servizio e presenti nella caserma del penitenziario ha riportato la situazione alla normalità. "Era comunque qualcosa di organizzato - denuncia Capece - visto che sono stati rinvenuti bastoni e coltelli artigianali". Per il Sappe "le manifestazioni di solidarietà e sostegno al gruppo islamista dell'Isis da parte dei detenuti arabi sono inquietanti e preoccupanti". Al ministro della giustizia Andrea Orlando e al capo dell'Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo il sindacato chiede "urgenti provvedimenti a tutela dei poliziotti penitenziari che lavorano nella Casa di Reclusione di Padova e della stessa vivibilità nella struttura detentiva". Si ricorda peraltro che "indagini condotte negli istituti penitenziari di alcuni Paesi europei, tra cui Italia, Francia e Regno Unito, hanno rivelato l'esistenza di allarmanti fenomeni legati al radicalismo islamico, che il Sappe ha denunciato in diverse occasioni". Il ferimento di ieri, sottolinea Capece, segue gli episodi delle scorse settimane "che hanno visto poliziotti aggrediti e il rinvenimento di più telefoni cellulari nelle celle della Casa di reclusione patavina". Ulpa: "Sono quattro gli agenti feriti". Sarebbe avvenuta per "ragioni al momento ignote" la lite tra detenuti nel carcere di Padova che ha determinato l'intervento del personale di Polizia Penitenziaria. Lo sostiene la Uil-Pa Penitenziari, precisando che il bilancio degli scontro è di quattro agenti feriti: uno ha un braccio rotto e un secondo alcune costole incrinate. Entrambi si trovano ricoverati in ospedale, mentre altri due sono stati dimessi con una prognosi di 10 giorni. Il fatto è avvenuto nel quarto piano, dove le celle sono aperte e i detenuti liberi di girare all'interno della sezione. "In pratica è successo che per l'intervento del personale - dichiara Leonardo Angiulli, segretario regionale Uil Penitenziari - invece che calmare gli animi ha determinato una grave reazione dei confronti di essi stessi e a farne le spese sono stati quattro poliziotti che hanno riportato gravi conseguenze". Sappe: "C'è anche un'altra aggressione". In mattinata il Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria, ha fatto sapere che un detenuto di origine rumena armato di taglierino ha aggredito una guardia carceraria. La lama ha tagliato solo la divisa dell'agente, senza ferirlo. "Stavano spostando uno degli autori dell'aggressione di ieri - ha spiegato il responsabile del Sappe, Giovanni Vona - ma nel tragitto questo ha estratto una lametta e ha aggredito la scorta". Per immobilizzarlo, racconta, "è stato necessario uno sforzo mai visto". "È evidente a questo punto - accusa il Sappe - che i vertici stanno sottovalutando la situazione. Anche oggi si è sfiorato l'ennesima lesione grave ai danni dell'agente. Il timore a questo punto è che ci siano diverse regie dietro a queste aggressioni" I problemi del carcere Due Palazzi. Non è un periodo sereno per il Due Palazzi, al centro di un'inchiesta giudiziaria che, nel giugno scorso, ha provocato l'arresto di 15 persone, tra cui sei agenti di polizia penitenziaria, per un totale di 31 indagati . Un'inchiesta - coordinata dal pubblico ministero padovano Sergio Dini - che ha svelato come le celle di una sezione fossero permeabili a tutto (o quasi): dalla droga, alle chiavette usb, dai cellulari alle schede sim. Ha scritto il gip Mariella Fino nell'ordinanza di custodia cautelare che, in particolare nel quinto blocco, s'era instaurata "una spregiudicata complicità tra i vari agenti indagati dediti all'acquisto e al consumo di stupefacenti... privi di qualsiasi senso del dovere" e alcuni detenuti. I sindacati di categoria della polizia penitenziaria hanno denunciato tante volte la difficile situazione in cui si trovano a lavorare tra carenze di personale e strutture sovraffollate. Zan (Pd): "Il ministro Orlando apra un'indagine interna" Intervengono anche i Cinque Stelle con Rostellato: "Occorre incontrare i sindacati di polizia". E l'Udc De Poli: "Ispezione a tutela degli agenti". "Ho disposto un'interrogazione al ministro della Giustizia Andrea Orlando e al ministro dell'Interno Angelino Alfano affinché sia fatta chiarezza sulla rivolta che ha interessato il carcere Due Palazzi di Padova". Ad annunciarlo in una nota il parlamentare padovano Alessandro Zan, deputato del Partito Democratico e membro della commissione Giustizia. "Ho chiesto in particolare ai ministri" spiega Zan "di quali informazioni dispongano relativamente ai fatti riferiti e se non intendano avviare, nel rispetto e indipendentemente da eventuali inchieste della magistratura, un'indagine amministrativa interna per chiarire le ragioni della rivolta. Oltre al fatto che nei giorni scorsi sarebbero stati rinvenuti diversi telefoni cellulari nelle celle, c'è da chiedersi come i detenuti disponessero impunemente anche di bastoni e coltelli rudimentali che ieri sarebbero stati utilizzati nel corso dei disordini". "Infine - conclude il deputato - ho posto il problema del sovraffollamento della sezione dei condannati in via definitiva, dove per l'appunto, al quarto piano, si sono verificati gli scontri che hanno portato al ferimento di sei agenti, di cui due ricoverati in ospedale; sovraffollamento che a oggi conta oltre 800 detenuti rispetto alla capienza di 430 persone, e che inevitabilmente può essere considerato una condizione che frustra le aspettative di migliori condizioni di vita dei reclusi e di conseguenza una probabile causa, almeno indiretta, di quanto avvenuto. Del resto, lo stesso presidente uscente Napolitano, nel suo messaggio alle Camere, ha ricordato quanto il sovraffollamento cronico cui sono soggette le nostre carceri sia incostituzionale poiché mina alla base la stessa finalità rieducativa della pena". Rostellato (M5S): "Incontrare i sindacati di polizia". "I campanelli d'allarme che continuano a suonare dal Due Palazzi hanno ormai una frequenza molto preoccupante: quasi ogni settimana si registrano episodi di tensione che non possono che essere collegati alla difficile situazione logistica ed organizzativa di quel carcere. Purtroppo i segnali giunti dal Governo non sono affatto buoni, come dimostra la recente, incomprensibile, decisione di non avvalersi più delle cooperative sociali almeno per svolgere una parte dei lavori interni. Tornando al punto però, credo sia ormai necessaria la convocazione, in tempi rapidissimi, di un tavolo attorno al quale far sedere tutti i soggetti interessati alla gestione del carcere, ad iniziare naturalmente dai sindacati di polizia che più di ogni altro conoscono la realtà delle cose ed i veri problemi cui si deve metter mano", è il commento della deputata padovana del Movimento 5 Stelle Gessica Rostellato. "Il carcere non deve essere visto come una vendetta, la pena per chi ha sbagliato consiste nella privazione della libertà: non è ammissibile che ci sia una pena aggiuntiva costituita dalla permanenza in un carcere in cui mancano le condizioni minime di dignità - conclude la parlamentare pentastellata. Proporre soluzioni demagogiche o che potrebbero essere realizzate nel giro dei prossimi anni, adesso non ha senso: la situazione al Due Palazzi è grave oggi, ed è oggi che si deve intervenire prima che accadano cose irreparabili". De Poli (Udc): "Serve un'ispezione a tutela degli agenti". "Un fatto increscioso sul quale mi auguro si faccia chiarezza. Chiederò al ministro della Giustizia Andrea Orlando di avviare subito un'ispezione con la quale accettare quanto accaduto". Anche il senatore vicesegretario vicario dell'Udc Antonio De Poli commenta la denuncia del Sappe sulla rissa al Due Palazzi. "Non ha senso lanciare strumentalizzazioni politiche parlando di rischi terrorismo in maniera avventata. Di certo - commenta De Poli - vanno individuate eventuali responsabilità delle aggressioni ai danni degli agenti penitenziari e reagire di conseguenza valutando le azioni opportune per aumentare il livello di sicurezza degli agenti di polizia penitenziaria". Il Sindaco Bitonci: rimandiamo a casa i detenuti stranieri Il sindaco dopo il caso Due Palazzi: "C'è un clima incandescente, anche per colpa del sovraffollamento della struttura". "Le carceri italiane sono delle vere e proprie scuole di criminalità. Questo vale sia per i delinquenti comuni, sia per gli aspiranti terroristi. I due episodi di violenza che si sono registrati al Due Palazzi confermano un clima incandescente, anche per colpa del sovraffollamento della struttura - dichiara Massimo Bitonci, sindaco di Padova. Esprimo la mia solidarietà agli agenti aggrediti. Trovo molto preoccupante per la loro incolumità e per quella di tutti i padovani che alcuni detenuti arabi abbiamo inneggiato all'Isis durante la rivolta di ieri. Spero siano presto individuati a rispediti a casa. La nostra comunità non può permettersi di mantenere soggetti pericolosi in attesa del rilascio. Un accordo, anche economico, con i Paesi di origine, che preveda il rimpatrio e la carcerazione nello Stato di provenienza, consentirebbe maggiore sicurezza per tutti, garantirebbe un enorme risparmio per l'erario e sarebbe una soluzione definitiva al sovraffollamento delle strutture carcerarie, occupate in gran parte da stranieri". Rissa tra le 18 e le 21 nel carcere padovano: secondini colpiti con la gamba di un tavolo, sequestrati coltelli rudimentali. Due agenti sono finiti al pronto soccorso. Il Sappe denuncia: "Molti detenuti inneggiavano ad Allah e all'Isis". Ma gli inquirenti smentiscono: la rissa ha coinvolto detenuti romeni e albanesi, nessun arabo Fedriga (Lega): "Un fatto gravissimo la rivolta" "A Padova carcerati immigrati scatenano l'inferno inneggiando ad Allah e all'Isis, i servizi segreti israeliani dicono che il 70% delle moschee è a rischio terrorismo, ma Alfano sminuisce il problema con affermazioni irresponsabili. Per lui è tutto a posto e per il suo governo il decreto antiterrorismo può aspettare. Con Renzi e Alfano alla guida del Paese è una pacchia per i terroristi". Il capogruppo leghista alla Camera Massimiliano Fedriga lancia l'allarme dopo la rivolta nel carcere Due Palazzi. "Fatti gravissimi e allarmanti. Il governo continua a ignorare il rischio terrorismo. Torniamo a chiedere che i detenuti stranieri - di cui le carceri sono piene - scontino la pena a casa loro. E contro il terrorismo, che sembra proliferare anche nelle case di detenzione: subito blocco delle frontiere, stop Triton, moratoria sulle moschee e controlli serrati su quelle presenti. Intercettiamo gli Imam, servono controlli continui nei luoghi di culto". Caon (Lega): "Espulsione per i rivoltosi" "Subito espulsione per i detenuti che hanno scatenato la rivolta al Due Palazzi di Padova". Lo chiede il deputato leghista Roberto Caon, dopo la sommossa esplosa ieri nella casa di detenzione. "Il governo deve spingere sulla strada degli accordi con i Paesi di provenienza per far scontare ai detenuti stranieri la pena a casa loro. Le strutture di detenzione straripano anche per la mancata attuazione, da parte degli ultimi governi, del piano carceri sul quale, ai tempi della Lega Nord al governo, erano stati investiti 500milioni di euro. Non è liberando i criminali, come hanno fatto Renzi e Alfano, che si risolve il problema del sovraffollamento". Caon rilancia inoltre l'allarme terrorismo: "Preoccupante che, nel corso della rivolta, ci sia chi ha inneggiato all'Isis: è chiaro che il rischio è elevatissimo, per stessa ammissione del ministro Gentiloni. Il governo sta facendo melina sul decreto antiterrorismo, assumendosi tutte le responsabilità del suo menefreghismo. Mentre la Francia vara un pacchetto di 736 milioni di euro per prevenire e combattere le pericolose cellule jihadiste, il governo Renzi sta a guardare mentre i suoi stessi esponenti lanciano l'allarme. Un pericoloso dilettantismo che sta esponendo l'intero paese al rischio. La nostra ricetta è pronta da sempre: stop immigrazione, stop Triton, moratoria su nuove moschee e controlli ferrei su quelle esistenti, pene severissime e confisca del passaporto per chi fa apologia di terrorismo". Padova: il carcere delle iniziative d'eccellenza, ma anche degli scandali e dei suicidi di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 24 gennaio 2015 Il sindaco leghista: "È jihadismo". In vent'anni, al Due Palazzi è successo di tutto: carcere modello che sforna i panettoni destinati al papa, fa lavorare al call center dell'Azienda ospedaliera e riceve le visite dei Vip al seguito delle coop sussidiarie. Ma anche la lunga scia di suicidi, autolesionismo, patologie. Tre ore di rivolta "islamista" e il carcere Due Palazzi torna sotto i riflettori. Dalle 18 alle 21 di giovedì alcune decine di detenuti hanno costretto agli straordinari il direttore Salvatore Pinuccio. Al quarto piano, si è scatenata una rissa presto degenerata in aperto scontro. Da una parte gli agenti di Polizia penitenziaria, dall'altra un gruppo di detenuti comuni "armatisi" di suppellettili e oggetti taglienti. L'iniziale tensione è degenerata per ore, al punto che sono arrivati rinforzi per normalizzare la situazione. Il bilancio è di due agenti ricoverati al Pronto soccorso, colpiti con le gambe di un tavolo. "Quel che è accaduto è gravissimo, anche in relazione all'atteggiamento assunto da molti detenuti di nazionalità araba" tuona Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo. "Nella sezione detentiva regolamentata dalla vigilanza dinamica, che permette ai detenuti di girare liberi buona parte del giorno e che per questo presenta livelli minimi di sicurezza, si respirava alta tensione, con atteggiamenti palesemente provocatori da parte di buona parte dei detenuti verso i poliziotti. Due poliziotti penitenziari sono stati aggrediti e feriti senza alcuna giustificazione. Molti inneggiavano ad Allah e all'Isis". L'episodio rimette comunque in primo piano la gestione di una struttura - costruita insieme all'aula bunker del processo 7 aprile - concepita per 430 detenuti, ma che di fatto ne contiene più di 800. Un carcere super-sicuro, da cui alle 4.30 del 14 giugno 1994 era evaso Felice Maniero, il boss della Mala del Brenta. In vent'anni, al Due Palazzi è successo di tutto: carcere modello che sforna i panettoni destinati al papa, fa lavorare al call center dell'Azienda ospedaliera e riceve le visite dei Vip al seguito delle coop sussidiarie. Ma anche la lunga scia di suicidi, autolesionismo, patologie. È il carcere che produce la rivista "Ristretti Orizzonti" o che ha messo in scena "Experti" grazie al laboratorio di Maria Cinzia Zanellato e Loris Contarini. E Padova ha saputo perfino dribblare le pene con una squadra di calcio speciale: "Palla al piede" che gioca fuori classifica (sempre in casa…) in Terza Categoria grazie all'ostinazione alternativa della Polisportiva San Precario. Ma al Due Palazzi sembra di casa lo spettro dell'anomalia. Il pubblico ministero Sergio Dini ha chiuso in autunno il fascicolo d'indagine con 48 capi d'accusa: 5 agenti, un avvocato, 18 detenuti e sette tra parenti e amici devono rispondere delle attività di una sorta di gang al soldo della criminalità organizzata. Droga, smartphone, film porno e traffici vari all'interno delle celle con clamorose complicità dei "controllori". Una vicenda inquietante che ha alimentato tragiche conseguenze e interrogativi irrisolti. E proprio il Due Palazzi è stato sanzionato in base all'articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo. Federico Tommasin ha ottenuto la libertà con venti giorni d'anticipo e 2.700 euro di risarcimento grazie al ricorso presentato al magistrato di sorveglianza Linda Arata. Aveva dormito mesi per terra in una cella con undici detenuti invece dei sei previsti… Ma da giovedì sera il carcere di Padova fa notizia solo grazie alla "rivolta jihadista". Il sindaco leghista Massimo Bitonci getta benzina sul fuoco: "Trovo molto preoccupante per l'incolumità dei padovani che alcuni detenuti arabi abbiamo inneggiato all'Isis. La nostra comunità non può permettersi di mantenere soggetti pericolosi in attesa del rilascio". Ristretti Orizzonti: troppi i problemi, tra cause travaso persone da Opg (Ansa) Detenuti che dal mattino alla sera non svolgono alcuna attività, nè di studio nè lavorativa, il forte sovraffollamento, e il travaso di soggetti problematici mandati via dagli Opg, gli ospedali psichiatrico giudiziari in fase di smantellamento: sono queste le concause della rivolta scoppiata nel Due Palazzi di Padova, secondo la denuncia di Ristretti Orizzonti, il giornale della Casa di reclusione che ha la propria redazione all'interno della struttura detentiva. "Il disagio psichiatrico in carcere sta crescendo - spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti - perché c'è un travaso continuo di soggetti, più o meno problematici, provenienti dagli ospedali psichiatrico giudiziari che secondo il progetto di riforma dovrebbero presto chiudere". Ma al Due Palazzi c'è, come in molte altre strutture, anche il problema del sovraffollamento: 800, talvolta 820 Detenuti per una capienza che dovrebbe essere di 400 persone. In questo modo, aggiunge Favero, non più della metà dei carcerati riesce a svolgere attività lavorative o rieducative, "gli altri non fanno niente dalla mattina alla sera, e in questo modo i conflitti, i momenti di tensione aumentano. Per questo diciamo che bisogna dare, invece, un senso alla carcerazione, lavorare sulla mediazione, sul rispetto delle persone, degli affetti". Belluno: detenuto transessuale denuncia un agente "mi ha violentato" di Simona Pacini Il Gazzettino, 24 gennaio 2015 L'episodio al centro di una delicata indagine: un fatto analogo era già stato denunciato qualche anno fa. Ieri l'incidente probatorio. Violenza dietro le sbarre. Un trans detenuto nel carcere bellunese di Baldenich ha denunciato una guardia carceraria. Sull'episodio, al centro di una delicata della procura di Belluno, vige il più assoluto silenzio. Ieri pomeriggio, in camera di consiglio, così come stabilito dalla procedura penale, si è tenuto l'incidente probatorio. La presunta vittima dovrebbe essere stata messa a confronto con l'agente di polizia penitenziaria perché potesse riconoscerlo e confermare così che era proprio lui l'autore delle violenze sessuali denunciate. Alcuni anni fa il carcere bellunese fu scosso da un altro episodio simile. Un trans allora denunciò una guardia per contatti sessuali. La prova allora fu un sacchettino nel quale la "vittima" aveva conservato lo sperma dell'agente che si approfittava di lui. Torino: il buon pane fatto in carcere, inaugurazione punto vendita in via Massena 11 di Moreno D'Angelo www.nuovasocieta.it, 24 gennaio 2015 Si chiama "farina nel sacco". Pane, grissini, pizza e anche pasticceria di alta qualità che arrivano dal forno della Casa circondariale Lorusso e Cutugno. Prodotti che da sabato 24 gennaio saranno acquistabili presso il punto vendita di via Massena 11. Molto soddisfatto Alessandro Fioretta, presidente della cooperativa Ecosol, da tempo impegnato in progetti che uniscono impegno sociale e produzioni di alta qualità. Progetti in cui i detenuti possono iniziare percorsi di formazione professionale, affiancando panettieri professionisti, per poi essere regolarmente assunti. "È da dieci anni che siamo impegnati nelle carceri nella gestione della cucina per i detenuti e nella produzione del cibo per un servizio catering esterno con la cooperativa Liberamensa". Il progetto è partito da zero, con vari e complessi passaggi per la costruzione del capannone, il bando per l'acquisto dei macchinari e da sei mesi è in marcia quest'idea di produrre del pane di altissima qualità che domani vedrà finalmente l'avvio dei punti vendita all'esterno del carcere. Oltre che per i successi sul piano della produzione gastronomica di prodotti di qualità, Fioretta precisa: "Si tratta di importanti iniziative che fino a ora hanno coinvolto circa 200 detenuti. Un'opera preziosa di reinserimento misurabile dal dato della recidività che scende al 10% tra chi finisce la detenzione imparando un mestiere mentre è drammatico il dato dell'85% di detenuti che una volta usciti ritornano dietro le sbarre". Tornando alla qualità del pane prodotto, dentro il carcere torinese questa è figlia di un approccio che prevede la lievitazione naturale con l'uso di lievito madre e non chimico e l'utilizzo di farine pregiate prodotte in modo artigianale da un mulino a pietra tradizionale della Val Maira. Anche mangiando una pizza si può entrare in contato con la difficile realtà carceraria che è prima di tutto una realtà di persone. In questo progetto si è riusciti a sposare discorsi di qualità delle materie prime, ricerca, formazione e occupazione. Certamente un gran risultato che è marciato nonostante la mannaia dei tagli che mette in discussione la sopravvivenza di questi importanti laboratori. L'appuntamento è per sabato in via Massena 11 , dove sono previsti assaggi per tutti. Como: il Centro Servizi per il Volontariato organizza un incontro dedicato al carcere Ristretti Orizzonti, 24 gennaio 2015 L'istituto penitenziario Bassone di Como con il Centro Servizi per il Volontariato intende promuovere la partecipazione delle associazioni e dei cittadini perché propongano e realizzino attività dedicate ai detenuti. Per questo le organizzazioni di volontariato, le associazioni e i singoli volontari sono invitati a partecipare ad un incontro di presentazione della proposta mercoledì 4 febbraio 2015 alle ore 18.00 nella sede del Csv in via Col di Lana 5 a Como. Sarà presente Giovanbattista Perricone, responsabile dell'area educativa della struttura detentiva. La struttura penitenziaria spesso è percepita come entità diversa e separata dal territorio mentre, nel concreto, ne è parte integrante e ne è profondamente correlata. Di più, è altresì uno spaccato della stessa società: la realtà esterna si riverbera all'interno dell'istituto con le stesse problematiche e fatiche. È necessario operare perché la comunità senta come parte di sé anche una verità sociale come quella del Bassone, affinché l'inclusione delle persone a fine pena nel loro ritorno sul territorio sia meno difficoltosa. Il volontariato è l'elemento che può creare questo legame e può costruire un vero e profondo dialogo con la società. Alcuni volontari operano già all'interno: alcuni si occupano delle prime necessità, altri di offrire accoglienza e ascolto, altri ancora donano spazi trattamentali e occasioni di interesse ricreativo/culturale (per es. corso di inglese, yoga, ballo, spettacoli teatrali, incontri su temi filosofici, ecc.). Queste azioni contribuiscono a vivere meglio e più proficuamente la detenzione: se la sentenza ne dà la ragione, la ricerca del significato e delle possibilità di riscatto personale sono affidate agli interventi rieducativi e alla capacità della persona di costruirsi un percorso utile e positivo. Moltissimo dipende dalle occasioni che vengono offerte loro ed è in questo ambito che le opportunità proposte dai volontari possono fare la differenza. I volontari possono contribuire ad una visione costruttiva della pena attraverso attività che spaziano dal puro svago, che ha lo straordinario valore di stemperare le tensioni, ad attività rieducativo/formative per porre le basi di una professionalità spendibile in futuro, ad iniziative culturali che aiutano la riflessione su se stessi e la propria vita. Le associazioni e le organizzazioni che già svolgono nella loro attività ordinaria azioni di formazione, svago, sport o percorsi culturali possono declinarle nella dimensione dell'Istituto detentivo di Como: è una sfida ma anche una grande possibilità per sviluppare e far crescere la propria mission. Quale che sia l'attività proposta, i detenuti - anche attraverso i volontari - ricominciano ad entrare in relazione con il mondo aldilà delle sbarre, respirano "l'aria del territorio", si concentrano su un tema e spesso riempiono il vuoto della solitudine carceraria che interrompe i legami, toglie autonomia e lascia spesso nell'incertezza del futuro. Da un punto di vista economico, inoltre, il volontariato consente di avviare per i detenuti attività che l'istituto, altrimenti, non sempre è in grado economicamente di offrire. Inoltre, il valore di una nuova e costruttiva relazione con persone che con gratuità si rendono disponibili, non è certamente quantificabile in termini economici ed è sicuramente insostituibile. L'esperienza insegna che quando un istituto è isola, corpo a sé stante, le sue difficoltà vengono comunque riversate su quello stesso territorio che lo ha escluso. Se invece le attività e le azioni finalizzate all'inclusione funzionano, le persone al termine della loro condanna riescono a gestire al meglio la loro nuova vita sociale. Chiedere il coinvolgimento dei volontari e in particolare delle organizzazioni e associazioni aiuta a rendere più consapevole anche la cittadinanza della necessità di rendersi accogliente. Nell'incontro previsto per il 14 gennaio al Csv si cercherà di costruire percorsi e proposte efficaci: sarà l'occasione per comprendere le necessità dell'Istituto, i bisogni e i vincoli del contesto e, nel contempo, cominciare a immaginare quali risorse le organizzazioni e associazione del territorio posso offrire. L'invito è aperto a tutti: prenotazioni al numero 031.301800 e via email a info@csv.como.it. Droghe: Fini-Giovanardi, una legge da macelleria di Patrizio Gonnella (Presidente dell'Associazione Antigone) Il Manifesto, 24 gennaio 2015 Iqbal Muhammad ha da poco compiuto cinquantasette anni. Il 20 settembre del 2014 viene arrestato e portato nel carcere romano di Rebibbia. Che ha fatto? Diciannove anni fa - non diciannove giorni fa né diciannove mesi fa ma addirittura diciannove anni fa - era stato coinvolto in un traffico internazionale di droga. Era il lontano 1995 quando Iqbal Muhammad viene condotto in carcere con l'accusa di avere violato la legge sulle droghe. Viene detenuto in custodia cautelare per undici mesi, poi ne trascorre cinque agli arresti domiciliari, infine recupera la libertà. Una libertà incondizionata durata diciannove anni. Il tempo passa e il processo procede tragicamente e pericolosamente lento. Per ben due volte la Cassazione annulla la sentenza di condanna rinviando gli atti alla Corte d'Appello. Iqbal Muhammad nei diciannove anni intercorsi tra il fatto commesso e la condanna ricevuta non ha mai avuto problemi con la giustizia. Si è impegnato come volontario presso alcune Parrocchie romane. Ha cresciuto una figlia. La giustizia nei suoi confronti si è bendata gli occhi. Lo ha inchiodato per sempre a un fatto di diciannove anni prima. Ora Iqbal Muhammad è in galera dove deve scontare nove anni e quattro mesi di carcere. Possiamo chiamare questa giustizia? Questa è macelleria. Le arretratezze culturali della giustizia penale sono state fotografate in modo impietoso ieri dal primo presidente della Suprema Corte di Cassazione in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. La relazione del giudice Santacroce contiene analisi e proposte che in parte coincidono con quelle di Antigone. Non male! In sequenza ha ricordato come non sia superato ancora il sovraffollamento delle carceri, come andrebbe trovata una via meno repressiva per affrontare la questione complessa delle droghe, come andrebbe introdotto il delitto di tortura nel codice penale. Sono stati questi i tre temi su cui Antigone, insieme a tante altre organizzazioni di società civile, ha raccolto decine di migliaia di firme nella lunga e entusiasmante campagna per le tre leggi di iniziativa popolare per la giustizia. La tortura però in Italia non è ancora un crimine. La legislazione sulle droghe è ancora ispirata a logiche proibitive e punitive, nonostante la sentenza della Corte Costituzionale che ha quasi cancellato la Fini-Giovanardi. Il sovraffollamento è meno grave di un anno fa ma ancora persiste a causa di resistenze nella maggioranza di governo. Affinché però la riforma della giustizia possa dirsi piena e non parziale - oltre a quanto detto dal giudice Santacroce - andrebbe approvato un nuovo codice penale che mandi in soffitta il codice Rocco risalente all'era fascista. Un codice nuovo, autenticamente liberale e democratico, che riduca il numero di reati, abbassi le pene, abolisca l'ergastolo, rinunci al doppio binario e introduca la riserva di codice (una clausola che impedisca la proliferazione di nuovi delitti sull'onda delle emergenze). Affianco a una riforma di questo genere ben si accompagnerebbe un provvedimento universale di amnistia-indulto (quello per cui si batte incessantemente e coraggiosamente Marco Pannella) che consentirebbe al sistema della giustizia di ripartire senza intoppi. Il Parlamento non sembra però avere particolari slanci di progresso. Nei prossimi giorni le Camere saranno impegnate nell'elezione del Presidente della Repubblica. Speriamo sia un o una Presidente che come il precedente metta al centro la questione della dignità umana dei detenuti. Abbiamo già una lista di cose da chiedergli. Due per tutte: la nomina di un garante delle persone private della libertà esperto e indipendente. La grazia per Iqbal Muhammad. Stati Uniti: la costituzionalità delle nuove combinazioni di farmaci letali sotto esame Ansa, 24 gennaio 2015 La Corte Suprema degli Usa ha deciso di riesaminare la costituzionalità delle nuove combinazioni di farmaci per l'iniezione letale che alcuni Stati utilizzano per le esecuzioni. La Corte Suprema degli Usa ha deciso di riesaminare la costituzionalità delle nuove combinazioni di farmaci per l'iniezione letale che alcuni Stati utilizzano per le esecuzioni. La decisione è stata presa in seguito al ricorso di tre condannati a morte in Oklahoma. L'Alta Corte, che proprio la settimana scorsa ha permesso l'esecuzione di un detenuto con lo stessa combinazione di farmaci, dovrà decidere se l'uso del cocktail viola il divieto della Costituzione Usa di infliggere punizioni crudeli. In particolare, i giudici hanno deciso di verificare se il sedativo midazolam possa essere utilizzato nelle esecuzioni a seguito dei timori che non produca un profondo stato comatoso e di incoscienza. Dovranno inoltre assicurarsi che il detenuto non sperimenti un dolore intenso e inutile quando gli vengono iniettati altri farmaci per ucciderlo. La decisione giunge otto giorni dopo che la Corte Suprema si si è rifiutata di bloccare l'esecuzione di un detenuto in Oklahoma dove viene usato lo stesso tipo di cocktail. Oltre al midazolam viene utilizzato un farmaco per paralizzare il detenuto e un terzo per bloccarne il cuore. Il caso alla Corte Suprema sarà probabilmente discusso ad aprile con una decisione attesa per la fine di giugno. Corte Suprema Usa esaminerà casi di 3 condannati La Corte Suprema degli Stati Uniti esaminerà il caso di tre detenuti rinchiusi nel braccio della morte che contestano - in quanto incostituzionale perché rischia di causare sofferenze e dolore - l'uso di determinati farmaci nel cocktail usato per le esecuzioni con l'iniezione letale. La Corte aveva precedentemente deciso di non posticipare l'esecuzione di 4 detenuti in Oklahoma, una delle quali è stata eseguita il 15 gennaio: Charles Warner è stato il primo la cui esecuzione è stata portata a termine nello Stato americano dopo quella che nell'aprile 2014 si risolse in un'agonia di tre quarti d'ora per il condannato, Clayton Lockett. Stati Uniti: settantenne scagionato dopo 40 anni di carcere, era innocente www.articolotre.com, 24 gennaio 2015 Quarant'anni. Questo il tempo trascorso dietro le sbarre da innocente. È quanto avvenuto a Joseph Sledge, uscito oggi di prigione, dopo aver trascorso oltre metà della propria vita in carcere, condannato ingiustamente all'ergastolo con l'accusa di aver ucciso, nel 1976, una donna e sua figlia. Entrambe vennero trovate morte nella sua abitazione nel North Carolina. Un'ingiustizia enorme, che si è risolta soltanto adesso, grazie a nuove testimonianze che hanno riaperto il caso. I periti, riprese le indagini, hanno scoperto come i capelli rinvenuti sulla scena del delitto non appartenessero a lui e, così, è stata finalmente riconosciuta la sua innocenza. "Voglio fare una bella dormita in un letto vero letto e anche un bagno in piscina", è stato l'unico commento di Sledge appena riavuta la libertà. Arabia Saudita: il buco nero dei diritti umani, tra decapitazioni e frustate di Viviana Mazza Corriere della Sera, 24 gennaio 2015 In un video diffuso online la scorsa settimana, e girato con un cellulare alla Mecca, si vede una donna in nero seduta sull'asfalto. Condannata a morte per l'omicidio della figliastra di 7 anni, la donna protesta la propria innocenza. "Non ho ucciso! Non ho ucciso!". Ma un boia vestito di bianco la colpisce al collo, per tre volte, con un spada che poi pulisce con un panno, mentre il cadavere viene portato via. La diffusione di quel filmato e la fustigazione pubblica (recentemente rimandata dopo gli appelli di Usa e Onu) del blogger Raif Badawi, condannato a 1.000 frustate per "offesa all'Islam", hanno portato nuova attenzione sull'interpretazione della sharia e l'applicazione della pena capitale in Arabia Saudita. All'indomani della morte di re Abdullah, Amnesty International ha condannato "l'assenza totale di diritti umani" nel Paese, e ha denunciato un aumento degli arresti "di attivisti, blogger e di chiunque critichi la leadership politica e religiosa saudita", anche sui social network. Qualche giorno fa il sito web "Middle East Eye" ha pubblicato un confronto tra le pene inflitte dall'Isis in nome della legge islamica nei territori dell'autoproclamato "Califfato" e quelle corrispondenti applicate da Riad: in casi di blasfemia, omicidio, omosessualità è prevista la morte; l'adulterio è punito con la lapidazione se sposati, altrimenti con 100 frustate; l'amputazione è contemplata per i ladri, e così via. Anche se "l'applicazione effettiva di queste pene è in realtà diversa - riconosce lo stesso sito - poiché l'Arabia Saudita raramente, se mai, arriva a giustiziare per blasfemia o adulterio" e molto dipende dalla discrezionalità dei giudici, diversi studiosi notano il legame "teologico" basato sulla rigidissima interpretazione wahhabita dell'Islam. Il paragone con la morte di giornalisti come James Foley è evocato dal direttore di Amnesty, Salil Shetty: "Critichiamo l'Isis, ma a Riad c'è un governo che ha effettuato più di 60 decapitazioni pubbliche negli ultimi mesi". Secondo "Human Rights Watch" le esecuzioni sono state 87 nel 2014 e 11 finora nel 2015, per crimini come stupro, omicidio, traffico di droga. Spesso si tratterebbe di decapitazioni, ma il governo tende a non pubblicizzarlo (e l'autore del video della Mecca è finito in manette). Nel frattempo il Paese fa parte della coalizione Usa contro l'Isis. La preoccupazione per l'ascesa del "Califfato" è genuina, come dimostra il muro di 600 miglia in costruzione lungo il confine con l'Iraq, dove tre guardie sono state di recente uccise. L'Isis, come già Al Qaeda (a partire dal saudita Bin Laden), disputa la legittimità, basata sulla religione, del potere della famiglia Al Saud. Ma l'atteggiamento dell'élite saudita - osserva tra gli altri l'ex agente dell'intelligence inglese Alastair Crooke - è ambivalente: alcuni appoggiano i miliziani sunniti perché combattono gli sciiti, altri ne hanno paura.