Finalmente una proposta di legge sull'affettività in carcere di Francesco Lai (Componente della Giunta dell'Unione Camere Penali) Il Garantista, 23 gennaio 2015 L'espiazione della pena non può essere sinonimo di negazione di ogni relazione affettiva. Parrebbe essere questo uno dei principi sottesi al disegno di legge n. 1587 presentato in Senato alcuni giorni fa dal senatore del Partito democratico Sergio Lo Giudice, che vede tra i firmatari vari altri suoi colleghi. Si muove dalla constatazione che il nostro ordinamento non prevede per i detenuti la possibilità di coltivare, all'interno delle mura carcerarie, dei rapporti con i propri cari che non siano sottoposti al rigido controllo visivo del personale penitenziario e che, in quanto tali, si esauriscono negli ordinari colloqui nel corso dei quali è certo possibile scambiare qualche parola, ma si è privati di quella intimità che connota ogni legame affettivo. L'argomento è senza dubbio complesso e per affrontarlo, sia sul piano politico-legislativo che su quello morale ed etico, si dovrebbero anzitutto trovare soluzioni mediane tra due fondamentali esigenze tra loro contrapposte: da un lato quella di garantire al detenuto un contatto anche solo di poche ore al mese con il proprio coniuge o il proprio partner in un locale non controllato, di modo da eliminare la censura assoluta della sfera sessuale; dall'altro l'esigenza di un controllo degli incontri da parte degli agenti con la finalità di garantire la sicurezza all'interno degli istituti penitenziari. L'evidente conseguenza è che la vigilanza costituisce ostacolo all'esercizio del diritto alla sessualità e, più in generale, a coltivare legami affettivi all'interno del carcere. L'esistenza di questa (in apparenza) insanabile dicotomia veniva segnalata alcuni anni fa dalla Corte costituzionale, che ravvisava un vuoto normativo sul punto e, nei fatti, invitava il legislatore a colmarlo. Non solo. La stessa Corte europea dei diritti umani, in diverse sentenze (tra tutte, sent. 4 dicembre 2007, Dickson c. Regno Unito), constatato che un sempre maggior numero di Stati, seppure con varie limitazioni, è incline al riconoscimento del diritto del detenuto ad una vita affettiva e sessuale intramuraria, ha manifestato apprezzamento al processo riformatore in atto, invitando i vari legislatori, tra cui quello italiano, ad essere conseguenti. Svolgendo un sommario studio di carattere comparatistico, rileviamo che Paesi come la Croazia, l'Olanda, la Norvegia, la Danimarca, consentono colloqui non sorvegliati di alcune ore. O addirittura predispongono dei mini appartamenti, come in alcuni Lander della Germania, dove i detenuti che devono espiare lunghe pene possono incontrare, in piena intimità, i propri cari. Sperimentazioni analoghe sono in corso in Francia ed in Spagna. L'Italia, come non di rado accade, è in ritardo. E non prevede nulla di tutto questo, nemmeno in fase embrionale. L'auspicio è che, dopo vari tentativi andati a vuoto negli anni, questa possa essere la volta buona, anche per l'attenzione mostrata dal ministro Orlando al tema della esecuzione della pena. Ogni persona è, infatti, titolare e portatrice di alcuni inalienabili diritti, tra questi, il diritto alla manifestazione della personalità nella sfera affettiva. Negare tutto questo comporta inevitabilmente annichilire la personalità del detenuto, con nefaste conseguenze psichiche e fisiche e ricadute negative nel percorso rieducativo che la nostra Carta costituzionale prevede. Significa applicare una pena accessoria al condannato e alla sua famiglia. Significa non interpretare correttamente il senso del recupero e della risocializzazione del reo. Ed invero la rieducazione passa non solo attraverso lo studio, il lavoro, ma anche attraverso la possibilità di mantenere e coltivare i propri affetti, con la consapevolezza che la società non intende attuare una vendetta nei confronti di chi ha sbagliato, ma che intende risocializzarlo e renderlo nuovamente pronto ad affrontare la vita fuori dal carcere. Un disegno di legge per proteggere l'affettività dei detenuti di Mario Di Matteo www.clandestinoweb.com, 23 gennaio 2015 Detenuti in cella senza alcuna affettività, senza poter abbracciare i propri amici e parenti, pagando non solo sul piano penale il reato commesso, ma aggiungendo a questo anche quello sentimentale e privato che non c'entra nulla con quanto commesso. Questo è quanto accade all'interno degli istituti penitenziari italiani. Proprio su questo punto si è interessato un gruppo di senatori, Sergio Lo Giudice e una ventina di cofirmatari, che hanno presentato un ddl presentato in una conferenza stampa presso la sala Caduti di Nassiriya di Palazzo Madama. Nello specifico il disegno di legge parte da una precedente proposta già depositata nella scorsa legislatura alla Camera da Rita Bernardini, segretaria di Radicali italiani. Nella sostanza l'obiettivo è quello di andare incontro al detenuto aiutandolo a "vivere e consolidare i propri rapporti affettivi, garantendo incontri più frequenti con la famiglia e intrattenendo relazioni intime con il proprio partner, sia esso coniuge o convivente". Sulla questione interviene anche la Bernardini che sottolinea: "Spesso questi disegni di legge sono degli atti che vengono messi lì. Sembra quasi che non ci sia spazio e che l'affanno delle Commissioni sia quello di stare dietro al provvedimento di governo che viene presentato. E questa è una cosa molto grave in termini di democrazia, in quanto si svilisce la funzione del parlamentare". Il segretario di Radicali italiani ha poi spiegato come "i contatti con la famiglia sono sacrificati con problemi serissimi di carattere psicologico che riguardano soprattutto i minori, figli di genitori detenuti. Per cui lunghi permessi sono assolutamente necessari. Negare a una persona detenuta una parte di se stessa che è la sessualità e l'affettività è una violazione di diritti umani fondamentali", aggiungendo infine: "Noi come Radicali italiani abbiamo deciso di fare nostro il messaggio alle Camere di Giorgio Napolitano, richiamando al senso di responsabilità soprattutto la classe politica italiana". Giustizia: che cosa si può fare per abolire il carcere di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 23 gennaio 2015 Il carcere non è semplicemente privazione della libertà, come nel caso di un sequestro di persona. È qualcosa di qualitativamente diverso. Il sequestrato sa che la sua condizione è arbitraria e deve cessare il più presto possibile e che, fuori, c'è chi si dà da fare a questo fine. La vita continua nell'attesa. Una volta c'erano i "canta-cronache". Un bellissimo testo di vita e d'amore del 1959 - autore Fausto Amodei, contiene una lezione di filosofia morale che nell'ultimo verso dice: "Basta che non ci debba mai mancare qualcosa d'aspettare". Ciò che possiamo aspettare è ciò che trasforma la mera esistenza biologica in vita. Vorrei ricordare una considerazione che viene da un uomo che il carcere l'ha conosciuto davvero e a lungo, Vittorio Foa. Per il detenuto comune non sorretto da una fede religiosa o politica, dice, "non c'è futuro. La speranza di salvezza viene meno. Il tempo si svuota. Si ripensa il passato o ci si rappresenta il futuro come in un'esteriore contemplazione priva di legami con la volontà ormai assente. (…) Le privazioni materiali del carcere sono poca cosa o comunque cosa alla quale l'organismo umano si adatta con facilità, (…) il peso reale della detenzione consiste solo nel progressivo svanire della volontà col decorso del tempo", cioè nella decomposizione dell'essere umano in conseguenza dell'espropriazione e della nullificazione del tempo (Psicologia carceraria, in il Ponte, 1949, pagg. 299 e sgg.). Il possesso del tempo della propria vita non è precisamente ciò che distingue gli esseri umani dalle cose che non hanno tempo e dagli animali la cui esistenza è ancorata agli istanti di un continuo presente privo di prospettiva? Per questo, la conciliabilità del carcere con la dignità umana appare un'illusione: una nobile illusione, ma pur sempre illusione. Si potranno mettere in atto tutte le misure possibili per alleviare le sofferenze e rendere sopportabile la condizione carceraria, ma non si potrà eliminare l'amputazione del primo diritto dell'essere umano: il diritto al proprio tempo. Nel nudo concetto del carcere percepiamo con turbamento questa mutilazione di umanità, ogni volta che mettiamo piede in uno "stabilimento penitenziario" o anche, soltanto, passiamo a fianco di muraglioni, grate e bocche di lupo (dove ancora esistono) e pensiamo al mondo che esiste al di là, fermo mentre tutto il resto scorre. Si dirà: ma le cose non stanno così. Il regime penitenziario è oggi molto più complesso di quello che prese corpo nelle politiche di ordine pubblico dell'Antico Regime e si è perfezionato nelle società borghesi dell"800. La condanna a pene detentive non esclude benefici che mirano al superamento della condizione di separatezza e di abbandono, e a promuovere il reinserimento sociale: dalla legge Gozzini del 1986 in poi, sono possibili, per chi le merita, varie "misure alternative" e "pene sostitutive" (affidamento in prova ai servizi sociali, semilibertà, liberazione anticipata, detenzione domiciliare, permessi-premio, ecc.). Questo è vero ma, a parte le umiliazioni cui talora ci si sottopone per ottenere il "rapportino" favorevole alla concessione del beneficio, si tratta per l'appunto di misure alternative al carcere, cioè di misure non carcerarie. Questa è la riprova d'una ovvietà: il carcere è il carcere e, per sfuggire alla sua logica, occorre il non-carcere. Per venire incontro a ciò che la dignità implica bisogna uscire dal carcere. Il carcere è la sanzione ufficiale dell'indegnità delle persone. Mentre tutto cambia, il carcere è ancora il centro del sistema delle sanzioni. La sua funzione è quella del capro espiatorio dei mali della società. Possibile che questo retaggio del mondo premoderno resti insediato al centro del rapporto - un rapporto la cui necessità non può negarsi - delitto- castigo, delinquente-sicurezza? Non ci sorprende che, su una questione cruciale come quella delle sanzioni penali, si sia fermi a una soluzione immaginata in una società dell'esclusione sociale come quella dello Stato assoluto, in cui ha svolto la funzione di simbolo di dominio? Cresce l'attenzione per il miglioramento delle condizioni nelle carceri e per l'attuazione e il sostegno delle misure alternative: enti locali, Università, associazioni di volontariato vi si dedicano a livello locale, nazionale ed europeo. Si vogliono riforme di contorno, ma il carcere resta ad occupare il centro della scena. Diciamo che la commissione d'un crimine fa sorgere nel colpevole il dovere di "pagare il suo debito" alla società. Il carcere è un modo efficace di saldare questo debito? Evidentemente no. È solo il modo di soddisfare una pulsione sociale che richiede segregazione ed espiazione attraverso il dolore. Che cosa ne ottiene la società, se non la moltiplicazione di figure come quella del folle geraseno che si chiamava "legione" (perché erano in molti) del racconto evangelico di Marco (5, 1-20), oggetto della magistrale interpretazione di Jean Starobinsky (Il combattimento con Legione, in Tre furori, SE, 2006, pagg. 66 e sgg.) e di René Girard (Il capro espiatorio, Adelphi, 1987, pagg. 257 e sgg.)? Non sarebbe più coerente una sanzione restitutoria e risarcitoria del danno commesso, con gravosi interessi che intacchino le stesse condizioni di vita del condannato il quale, dopo la condanna, non possa disporre delle medesime di prima? Che lo costringano a vivere, ma cambiando vita? Diciamo anche che il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prenda le distanze dall'idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare quella frattura? Da qualche tempo si discute di giustizia riparativa, restaurativa, riconciliativa. Studi sono in corso, promossi anche da raccomandazioni internazionali. Si tratta di una prospettiva nuova e antichissima al tempo stesso che potrebbe modificare profondamente le coordinate con le quali concepiamo il crimine e il criminale: da fatto solitario a fatto sociale; da individuo rigettato dalla società a individuo che ne fa pur sempre parte, pur rappresentandone il lato d'un rapporto patologico. Qualcosa si muove, nella giustizia minorile, nei reati punibili a querela. Ma molto resterebbe da fare. C'è una spiegazione del tradizionale insufficiente interesse della classe dirigente per questi temi. Nel nostro mondo gli status sociali sono aboliti, ma non rispetto al carcere. Il carcere è per chi, nella vita, ne ha già viste di tutti i colori, cioè per i predestinati, coloro che stanno ai margini. Ci immaginiamo uomini della grande finanza, della grande industria, della grande politica che dividono i pochi metri d'una cella con persone "comuni", che si arrampicano sulla brandina, che usano il bugliolo unico per ogni cella (dove ancora esiste), che tendono le mani fuori delle grate, che magari devono rivolgersi all'agente di custodia chiamandolo "superiore" (dove è ancora così)? Se ci sono, sono eccezioni che confermano la regola. Quando i legislatori legiferano, i governanti governano, gli amministratori amministrano vale una sorta d'implicita divisione psicologica: trattano di problemi estranei alla loro vita, che suppongono non possano riguardarli. Si spiega che non ci sia urgenza di affrontarli. Giustizia: pene alternative per i reati punibili fino a 5 anni? il governo fa scadere la delega di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2015 Superati i termini per il decreto che avrebbe sostituito il carcere con i domiciliari per reati fino a 5 anni. Il testo, inviato a Palazzo Chigi a dicembre, è stato bloccato di fronte agli attacchi di Lega e opposizioni contro le misure sul carcere. Allo studio una riscrittura della legge. Frenare, rinviare, far decantare. Almeno fino a dopo l'elezione del Presidente della Repubblica e dopo l'approvazione della "particolare tenuità del fatto". Raccontano che sia "solo politica" la ragione che ha indotto il governo a non esercitare la delega per l'introduzione delle "pene detentive non carcerarie" - reclusione e arresto domiciliare - che il giudice avrebbe potuto applicare direttamente con la condanna per reati oggi puniti con il carcere fino a 5 anni. E che avrebbe risolto il problema del sovraffollamento delle prigioni. Una svolta storica della politica penale, era stata giustamente definita la legge delega n. 67/2014, voluta dall'ex ministro della Giustizia Paola Severino, approvata da questo Parlamento il 2 aprile dell'anno scorso, entrata in vigore il 17 maggio e portata a Strasburgo dal governo Renzi come ulteriore prova tangibile della volontà politica di eliminare il sovraffollamento, imboccando, al contempo, la strada della decarcerizzazione. Entro otto mesi dal 17 maggio, il governo avrebbe dovuto tradurre i principi della delega in un articolato da inviare al Parlamento perii prescritto parere (non vincolante). Ma non lo ha fatto. Il termine è scaduto sabato 17 gennaio e il decreto non è stato approvato dal Consiglio dei ministri. Eppure il testo era pronto da settembre: 10 articoli frutto di mesi di lavoro della commissione presieduta dal professor Francesco Palazzo insediata al ministero della Giustizia, che si è occupata anche degli altri due decreti previsti dalla delega, su depenalizzazione e "tenuità del fatto". Anche per quest'ultimo il termine scadeva il 18gennaio (mentre per la depenalizzazione ci sono ancora sei mesi) ed è stato rispettato. Non così per le pene alternative. Non si conoscono le ragioni ufficiali di questa imbarazzante marcia indietro su un punto qualificante dell'azione del governo. Lunedì scorso, nella sua relazione alle Camere sull'amministrazione della Giustizia, il guardasigilli Andrea Orlando non ha detto nulla. Né qualcuno, tra deputati e senatori, gli ha chiesto nulla. Dallo staff del ministro fanno solo sapere che il testo del decreto è stato inviato a Palazzo Chigi il 16 dicembre ma da allora, nonostante tre Consigli dei ministri, non è passato. "Valutazioni di opportunità politica", spiegano, escludendo marce indietro. Anzi - e a Palazzo Chigi lo confermano - la Giustizia ha già chiesto al ministro dei Rapporti con il Parlamento di presentare un emendamento, in sede di conversione del decreto mille proroghe, con cui riproporre la delega scaduta. A bloccare il decreto non sarebbero state ragioni tecniche, anche perché da settembre c'era tutto il tempo per eventuali correzioni. Piuttosto, il governo ha ritenuto di far decantare - tanto più in questo momento politico-istituzionale - il clima di attacco sferrato dalla Lega e da altri partiti di opposizione contro le misure sul carcere adottate finora e, più di recente, contro il decreto sul l'archiviazione per "tenuità del fatto", bollato come "depenalizzazione di gravi reati" o "colpo di spugna". Non è un bel segnale. Se il governo avesse dato seguito alla delega sulle pene alternative, avrebbe eliminato nel giro di un mese il sovraffollamento, fonte principale (ma non unica) di quella carcerazione inumana e degradante a causa della quale l'Italia resta "sotto osservazione" a Strasburgo. Secondo calcoli effettuati al ministero risalenti asci mesi fa, con l'entrata in vigore della riforma la popolazione carceraria sarebbe diminuita di 14.054 unità e il totale dei detenuti (da mesi attestati a quota 53.600) sarebbe addirittura sceso al di sotto della capienza effettiva delle prigioni (45.135 posti). Tutto ciò - e non è irrilevante - senza conseguenze negative sulla sicurezza collettiva poiché i destinatari delle nuove norme (per lo più detenuti con 2 o 3 anni ancora da scontare) sarebbero transitati dal carcere ai domiciliari, quindi non sarebbero tornati in libertà. Ma l'attuazione della delega sarebbe stato soprattutto il segnale concreto - il più importante di tutti - di un'inversione di tendenza della politica del diritto penale. Giustizia: "Nessuno ha mai fatto quel che ho fatto io!"… ma la riforma che non si vede di Sergio Luciano Milano Finanza, 23 gennaio 2015 "Nessuno ha mai fatto quel che ho fatto io!", si vanta comprensibilmente Matteo Renzi. "In sei mesi, via le Province, via il Senato, via le Camere di commercio, via le banche popolari". Poi, a guardar bene, tutto è ancora esattamente al posto di prima, però è tutto anche un po' rottamato. Solo una cosa l'ha appena sfiorata, Renzi, ma proprio solo con una piuma: la magistratura, limitandosi a imporre il pensionamento a 70 anni. Chissà come mai: forse perché il terzo potere è quello che più fa paura agli altri due e più direttamente interviene quando e come vuole nel loro campo da gioco. Lo confermano due clamorosi casi di cronaca di queste ore: il teste chiave che aveva inchiodato alle accuse di corruzione l'ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati, cioè l'architetto Sarno, interrogato in aula nei processo, ritratta le accuse e afferma che gli erano state estorte dai pm attraverso la tortura della carcerazione preventiva. Risultato, sono vere queste ultime affermazioni: la carriera politica di Penati fu azzerata senza motivo, Contemporaneamente, a Salerno, il discusso ma popolarissimo sindaco-sceriffo Vincenzo De Luca viene condannato a un anno per abuso d'ufficio, e questo capita a un mese dalle primarie del Pd per la scelta del candidato governatore alle elezioni regionali di primavera, da cui così De Luca viene falciato via. Anzi, per gli effetti della legge Severino, De Luca dovrebbe addirittura lasciare il Municipio, salvo che il Tar accolga anche il suo ricorso come fece a suo tempo di fronte a un'analoga situazione toccata al sindaco di Napoli, De Magistris. Insomma, con o senza un sospetto tempismo (che in tanti casi analoghi ha fatto parlare di giustizia a orologeria) la magistratura imperversa sulla politica, protetta dal sacrosanto diritto di non subirne né i veti né le interdizioni né le rappresaglie, ma di fatto ne regola o ne inibisce molte iniziative. La carcerazione preventiva continua a far gridare allo scandalo. Il governo pensa a depenalizzare comportamenti anche gravi (l'evasione fiscale fino ai 3%) e, nel frattempo, le toghe non si peritano di sanzionare penalmente anche fatti vaghi come il cosiddetto abuso di potere. E intanto i vertici della Procura di Milano - il capo Edmondo Bruti Liberati e l'aggiunto Alfredo Robledo - restano al loro posto anche se sommersi dalle reciproche, discreditanti accuse senza che il Csm riesca a dirimere torto e ragione. Sarà interessante, molto interessante vedere se e come Renzi riuscirà a riformare questo disastro, in modo da renderne più trasparenti, garantisti e insieme efficienti istruttorie e sentenze. Allora sì: altro che riforma, potrà gridare al miracolo. Giustizia: il blitz di Gratteri "ho fatto io la riforma… 130 articoli, l'80 per decreto legge" di Errico Novi Il Garantista, 23 gennaio 2015 Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria e presidente della Commissione nazionale per la revisione della normativa antimafia, dà scacco matto al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "Ci stiamo lavorando". La frase di Nicola Gratteri viaggia in modulazione di frequenza, sulle onde di Radio Capital, dunque non può essere accompagnata da un ghigno di sadica soddisfazione. Ma ce lo si può immaginare. Non ci vuole molto. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, nonché presidente della Commissione nazionale per la revisione della normativa antimafia, dà scacco matto al governo. Al ministro della Giustizia Andrea Orlando, in particolare. Il quale ci starà pure "lavorando". Ma intanto lui, Gratteri, annuncia che il suo, di "lavoro", è già fatto. Avverte via radio che la "sua" riforma "è pronta". Fanno, per l'esattezza, "130 articoli, l'80 per cento dei quali può essere approvato subito con un decreto legge, 246 pagine". Un bulldozer. Nel mentre il Guardasigilli spacchetta gli interventi sull'immensa materia penale, e li incardina un po' al Senato (come emendamenti alla proposta Grasso nel caso dell'anticorruzione) e un po' alla Camera (nell'ampio ddl depositato in commissione Giustizia), Gratteri procede senza chiedere permesso. E non si limita a prescrivere "l'innalzamento delle misure per 416 bis dai 5 anni attuali a una pena tra i 20 e i 30 anni di carcere". No. Straborda anche nel campo delle misure contro i corrotti. Propone per esempio "di utilizzare gli agenti sotto copertura, come per il traffico di droga e di armi, per smascherare i reati contro la pubblica amministrazione". Ma non doveva occuparsi solo di antimafia? E non c'è già Orlando con le sue proposte, a "lavorare" sulla corruzione? Proprio questa "estensione di competenze" è duramente contestata dall'Unione camere penali, il solo soggetto politico ad accorgersi dell'enormità dell'iniziativa di Gratteri: "Preoccupa e stupisce l'inserimento di logiche repressive, autoritarie e illiberali all'interno dell'intero sistema processuale, e la loro applicazione erosiva ed indistinta a tutti i diversi aspetti dell'illecito". C'è un problema di merito, dicono dunque i penalisti. Che si aggiunge alla discutibilità del metodo: "Ci sembra francamente difficile condividere l'idea con la quale Gratteri lancia il suo progetto, affermando che l'80% delle nuove norme antimafia può essere varato con un decreto", si legge nella nota dell'Ucpi, "non solo perché, come affermiamo da tempo, e come ha più volte ricordato lo stesso ministro Orlando, la materia penale non si presta affatto alla decretazione d'urgenza, ma perché la delicatezza dello specifico settore sul quale si intende intervenire deve essere oggetto di una riforma meditata e condivisa". Riguardo all'innalzamento delle pene edittali, esso risponde a "una logica repressiva antiquata, fondata su strategie meramente simboliche, che mai hanno sortito effetti nella lotta al crimine e tanto meno nel contrasto alla criminalità organizzata". Si dirà: le proposte della commissione Gratteri sono proposte. Punto. Sono lontane dal tradursi in decreti legge, come vorrebbe il presidente della Commissione consultiva. Ma intanto c'è l'imbarazzo per la vivacità, diciamo così, di un organismo voluto da Renzi a Palazzo Chigi per occuparsi di questioni già in capo a un ministro, nello specifico quello della Giustizia. E poi c'è la seria possibilità che le tesi hard del gruppo di lavoro presieduto dal pm antimafia si insinuino come un cuneo tra le due diverse anime del Pd. Quella che non sa affrancarsi dalle battaglie ultra giustizialiste di questi ultimi vent'anni e quella più moderata. E questo, in Parlamento, dove c'è la fazione super-forcaiola rappresentata dai grillini, potrà creare problemi seri. Giustizia: così la Commissione voluta da Renzi infilza lo Stato di diritto di Maria Brucale Il Garantista, 23 gennaio 2015 Nicola Gratteri, a capo della Commissione nazionale per la revisione della normativa antimafia istituita dal premier. Matteo Renzi, annuncia che è pronto un progetto di riforma per combattere le organizzazioni criminali: 130 articoli e 246 pagine. Lo stato di diritto trema. Avrà messo nero su bianco le riforme prospettate in ottobre e riportate dal Garantista nei loro punti di devastante criticità per il giusto processo e per le garanzie ad esso connesse? Dalle anticipazioni offerte dal procuratore di Reggio Calabria in un'intervista a Radio Capital sembrerebbe di sì: l'innalzamento delle pene per il reato di associazione di stampo mafioso: da 20 a 30 anni per il partecipe! Una pena enorme, infinita, che sottrae al giudice la possibilità di apprezzare una partecipazione di minima entità e di valutarne con una pena mite la speciale tenuità. La contestazione di partecipazione non viene certo mossa soltanto ai boss ma più spesso a piccoli fiancheggiatori con una capacità criminale a volte infima che sarebbe quanto meno spropositato punire con sanzioni così follemente afflittive. Per smascherare i reati contro la pubblica amministrazione, Gratteri propone di "utilizzare gli agenti sotto copertura, come per il traffico di droga e di armi". Derive oscurantiste e strategia del terrore. Tutto per decreto La normativa antimafia, potrebbe, secondo Gratteri, essere introdotta all'80 per cento con la decretazione di urgenza. L'Unione delle Camere penali si infiamma. Come può uno strumento in sé eccezionale e teso a rispondere a situazioni di urgenza, entrare a pieno titolo quale metodo ordinario per la legislazione in materia penale coperta per volontà dei Padri Costituenti da riserva di legge ordinaria? Il fine giustifica i mezzi? Ma se anche il fine si perde di vista traducendosi nella negazione del diritto di difesa, nell'umiliazione del ruolo dell'avvocato difensore, nell'annichilimento delle garanzie del giusto processo e della certezza della prova, nella disattenzione alle logiche deflattive dei giudizi a vantaggio della celere definizione dei processi, nel superamento del principio del "favor rei" e perfino nella confusione tra i ruoli - e già ce n'è troppa - tra chi esercita l'azione penale e chi giudica? Le proposte Sperando di non ritrovarle nelle 246 pagine del progetto, vanno rievocate le proposte di riforma già presentate dal ministro ombra: caduta del divieto di reformatio in pejus in sede di appello proposto dal solo imputato e conseguente possibilità per il magistrato giudicante di ravvisare nuovi elementi di responsabilità dai quali far scaturire inasprimenti sanzionatori; abrogazione del rito abbreviato, della possibilità, cioè, per l'imputato di scegliere di essere giudicato con il materiale di prova raccolto nelle indagini rinunciando a un processo in aula nel quale confutare gli esiti istruttori raccolti dalla pubblica accusa con conseguente sconto di pena in caso di condanna, con la inevitabile, pedissequa paralisi definitiva dei tribunali; estensione dell'accesso al patteggiamento a tutti i reati subordinato, però, alla confessione, sulla bontà e pienezza della quale è ipotizzabile si preveda il parere del pm e il vaglio del magistrato - con inevitabili proiezioni incostituzionali di coazione psicologica all'accusato che sarebbe indotto a confessare e ad indicare i corresponsabili per accedere al solo rito che permetta uno sconto di pena. E ancora: condanna dei legali, in solido con i propri assistiti, al pagamento delle spese processuali in caso di ricorso dichiarato inammissibile. Una norma distruttiva del diritto di difesa e del ruolo del difensore che verrebbe ammutolito e spento nel suo rango di garante dei diritti, inibito nel prospettare questioni giuridiche talora innovative e creative dal rischio di subire un danno economico. Videoconferenze per tutti i detenuti per i reati di cui all'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario. Nessun imputato potrebbe più essere presente in udienza. Verrebbe meno radicalmente l'oralità del processo penale. La videoconferenza, infatti, già prevista per i soli detenuti in 41 bis, vanifica, di fatto, la possibilità di intervenire in aula in corso di giudizio. Mentre il detenuto in saletta video chiede il permesso di intervenire, o di comunicare telefonicamente con il proprio difensore in aula, il processo si svolge, va avanti e rende inutile la pretesa legittima del detenuto. Questa follia antigiuridica, finora accettata - seppur inaccettabile - per i 41 bis in ragione del prevalere di logiche di sicurezza, è già oggetto di un emendamento governativo che la estende ad una enorme categoria di detenuti che verrebbero di fatto estromessi dalla partecipazione attiva ai processi. Non solo. Sarebbe conferito ai giudicanti il potere di stabilire la videoconferenza anche solo in ragione di motivi di complessità e di durata del processo. Una norma di rango costituzionale, dunque, cederebbe il passo ad esigenze organizzative. Addio all'appello Ancora: abolizione dell'appello incidentale, ossia l'impugnazione proposta dall'imputato per contrastare quella del pm, con vistoso detrimento del principio costituzionale del favor rei; introduzione della declaratoria di inammissibilità delle impugnazioni in appello per manifesta infondatezza: soppressione, dunque, ancorata a parametri discrezionali, di un grado di giudizio di merito e insensata ed illusoria attribuzione ad un solo giudicante delle sorti dell'imputato; abolizione del ricorso per Cassazione per vizio di motivazione, che sottrarrebbe al giudice di legittimità il potere di annullare le sentenze illogiche o contraddittorie; militarizzazione degli istituti penitenziari che avrebbero, come direttori, non più civili bensì commissari di polizia penitenziaria. Un controllo interno, dunque, che non sfugge alle ansie di meccanismi corporativi. Oscurantismo e strategia del terrore. E lo Stato di diritto si dispera. Giustizia: gli errori dei magistrati dal 1991 a oggi ci sono costati 600 mln di euro di Damiano Aliprandi Il Garantista, 23 gennaio 2015 Seicento milioni di euro. È questa la cifra stratosferica che lo Stato italiano ha speso, dal 1991 a oggi, per gli errori causati dai magistrati. È un quadro drammatico che emerge, come riportato dalla Stampa, dalle statistiche elaborate dal ministero dell'Economia e recapitate al ministero della Giustizia sull'entità dei risarcimenti liquidati dallo Stato per il malfunzionamento della giustizia. Nel caso delle ingiuste detenzioni, vale a dire i cittadini che sono stati portati ingiustamente in carcere in custodia cautelare e dopo sono stati assolti o addirittura prosciolti, nel corso del 2014 sono state accolte dai giudici delle corti d'appello 995 domande di risarcimento e liquidati 35,2 milioni di euro. Un aumento del 41,3% rispetto al 2013, quando le domande accolte erano state 757, per un totale di 24,9 milioni di euro. Quasi mille persone, in altre parole, hanno vissuto nell'anno che si è appena concluso l'incubo di essere incarcerate ingiustamente, con una privazione della propria libertà personale. Una massa enorme ma silenziosa, destinata a crescere se si pensa che ancora oggi quasi la metà dei detenuti rinchiusi nelle carceri italiane è in attesa di giudizio. Se in termini democratici la situazione è impressionante, altrettanto lo è in termini economici. Dal 1991, lo Stato ha infatti speso circa 600 milioni di euro in risarcimenti per ingiusta detenzione, cifra che avrebbe potuto essere molto più elevata se la legge non stabilisse un tetto di circa 516mila euro per risarcimento (o, meglio, indennizzo). E il 2014 ha registrato un aumento anche per quanto riguarda i pagamenti per i casi di errore giudiziario, in cui cioè il condannato con sentenza definitiva si vede poi assolto dopo un processo di revisione: dai 4 casi del 2013 si è passati ai 17 del 2014, costate alle casse dello Stato 1,6 milioni di euro. "Sono numeri - commenta il viceministro della Giustizia Enrico Costa - che devono far riflettere. Si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l'errore, disponendo il pagamento di una somma a titolo di riparazione. Non limitiamoci al mero dato statistico: dietro ciascuno di questi numeri c'è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare. Fin tanto che ci sarà anche un solo caso di carcerazione ingiusta, illegittima o ingiustificata, dovremo batterci con forza: la civiltà giuridica di un Paese si misura anche, e soprattutto, da questi indicatori". Intanto se andiamo nel dettaglio a livello distrettuale, nel 2014, spicca ancora una volta la Calabria: ovvero Catanzaro con 6 milioni e 260 mila euro andati a 146 persone colpite da errori giudiziari. Giustizia: Pagano (Dap) "fondi per un anno ai progetti delle cooperative" di Ilaria Sesana Avvenire, 23 gennaio 2015 Chiuso definitivamente il capitolo "mense". Ora occorre lavorare per salvare le attività collaterali sviluppate nell'ultimo decennio dalle cooperative sociali che hanno gestito le cucine di altrettanti penitenziari italiani. È questo il compito assegnato a Luigi Pagano, già direttore del carcere di San Vittore e oggi vice-capo del Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria (Dap), che ha avuto l'incarico di coordinare le varie iniziative, facendo da collante tra il Dipartimento e le cooperative: "L'obiettivo è fare in modo che questi interventi non siano sporadici, ma arrivino a raggiungere obiettivi precisi". Pagano traccia un bilancio positivo dell'incontro che svoltosi mercoledì a Roma tra i funzionari del Dap e i rappresentanti delle cooperative: quasi tutti hanno già preannunciato di avere progetti da sviluppare. "Abbiamo il massimo interesse affinché continuino a lavorare con noi", aggiunge Pagano. Tutti i progetti presentati saranno sottoposti alla valutazione di Cassa delle Ammende (ente pubblico istituito presso il Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria, che stanzia fondi per sostenere programmi di riabilitazione e resinserimento dei detenuti, ndr) e, in caso di giudizio positivo, sarà lo stesso ente a erogare i fondi per avviare l'attività. "Attenzione - avverte Pagano - Cassa Ammende finanzia i progetti solo in fase di start-up. Una volta trascorso il periodo di lancio del progetto, questo deve camminare sulle proprie gambe. Le cooperative devono riuscire a stare sul mercato. Non può e non deve essere un finanziamento continuo". Per ogni progetto presentato, verranno valutati singolarmente sia i contributi economici, sia la durata del periodo di sperimentazione. "Ai fondi di Cassa delle Ammende si aggiungono poi altre provvidenze - sottolinea Pagano - ad esempio quelle della legge Smuraglia e la possibilità di avere in comodato gratuito l'uso dei locali: cucine o altri spazi del carcere per chi avesse bisogno di locali per avviare un impianto produttivo". I nuovi progetti, però, rappresentano solo un tassello degli sforzi che il Dap porterà avanti nei prossimi mesi per valorizzare il ruolo del lavoro all'interno degli istituti penitenziari. Anche grazie all'attivazione di una commissione interna istituita ad hoc da Santi Consolo, capo del dipartimento: "L'obiettivo generale è quello di migliorare le condizioni di vita all'interno delle carceri - spiega Pagano - e in questo quadro il lavoro ha un ruolo essenziale. Come elemento di spinta che ci permetta di incrementare le attività trattamentali e, allo stesso tempo, rimodulare la vita detentiva e i suoi tempi". Altro tassello importante per potenziare il lavoro in carcere, la legge Smuraglia che offre sgravi contributivi e fiscali a cooperative e aziende che portano lavoro in carcere. Un elemento imprescindibile, per incentivare gli imprenditori a entrare nei penitenziari, ma che oggi sembra non bastare più: "Uno dei temi su cui stiamo riflettendo è l'adeguamento del costo del lavoro - aggiunge Pagano. L'obiettivo è trovare una linea mediana per evitare, da un lato, lo sfruttamento; dall'altro la garanzia di un margine di guadagno all'impresa o alla cooperativa". I tempi e le esigenze di sicurezza del carcere - infatti - troppo spesso si scontrano con quelli di un'azienda, che ha bisogno di ritmo e puntualità nelle consegne. Per questi motivi - conclude Luigi Pagano - serve una riflessione seria e a 360 gradi del mondo del carcere "cercando soluzioni che si adattino a ogni singolo istituto, non possiamo pensare che esista una soluzione identica per tutti". Quel che è chiaro è l'obiettivo finale di questo processo: portare sempre più lavoro in carcere, perché è elemento essenziale per ridurre la possibilità che un ex detenuto torni a commettere nuovi reati. Giustizia: petizione per la nomina di Stefano Anastasia a Garante nazionale dei detenuti Ansa, 23 gennaio 2015 "Auspichiamo che la nomina" del Garante nazionale dei detenuti "sia nel segno della competenza, dell'esperienza, dell'impegno civico a sostegno dei diritti delle persone private della libertà, e che a ricoprire questo incarico sia chiamata una persona esperta in diritti umani così come la legge richiede". È quanto affermano i firmatari di una petizione a favore della nomina di Stefano Anastasia, ex presidente di Antigone, associazione che opera a favore dei diritti dei detenuti. I primi firmatari sono: Franco Corleone (Garante dei detenuti della Regione Toscana), Ilaria Cucchi, Alessandro De Federicis (Unione delle Camere Penali Italiane), Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone e della Cild), Elisabetta Laganà (Garante dei detenuti del Comune di Bologna, Presidente conferenza nazionale Volontariato Giustizia), Luigi Manconi (Senatore, Presidente della Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei Diritti Umani). "Più di un anno fa - affermano - è stata approvata la Legge che istituiva il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o comunque private della libertà. Si tratta di un organismo che esiste in tantissimi Paesi democratici e richiesto dalle Nazioni Unite. Nei giorni scorsi, intervenendo alla Camera dei Deputati in occasione della relazione annuale sull'amministrazione della giustizia, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha ribadito che presto verrà nominato il Garante". "Noi riteniamo - aggiungono - che questa persona possa essere Stefano Anastasia, presidente di Antigone ai tempi in cui fu elaborata dall'associazione nel 1999 la prima proposta di legge diretta alla istituzione dell'ombudsman, cioè il garante, direttore del primo ufficio locale di tutela dei diritti dei detenuti in Italia istituito dal comune di Roma nel 2003, promotore del Difensore Civico dei detenuti della stessa associazione che, dal 2008, ha seguito migliaia di casi, ricercatore in filosofia del diritto all'Università di Perugia, grande esperto e conoscitore del sistema penitenziario. Giustizia: per i Radicali Italiani un sabato nei tribunali, per denunciare l'ingiustizia di Radicali italiani Il Garantista, 23 gennaio 2015 Dirigenti e militanti del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito e di Radicali Italiani anche quest'anno saranno presenti all'inaugurazione dell'anno giudiziario presso le Corti d'Appello, in programma per sabato 24 gennaio. Nell'ambito della cerimonia i radicali chiederanno di leggere un testo, lo stesso in ogni Corte d'Appello, per denunciare lo stato della Giustizia e del sistema carcerario italiano, anche alla luce delle ispezioni che i militanti radicali svolgono regolarmente e che hanno intensificato nelle ultime settimane, nell'ambito dell'iniziativa denominata "Satyagraha di Natale", lanciata dal leader Marco Pannella. L'iniziativa è conseguente alle decisioni emerse nel corso dell'ultimo incontro del comitato nazionale di Radicali Italiani, tenutosi a Roma nei giorni 16, 17 e 18 gennaio, che ha rilevato il permanere dell'illegalità in cui versa il sistema giustizia, con le violazioni dei diritti umani nei confronti dei detenuti e la durata non ragionevole dei processi. Tutti punti oggetto del messaggio inviato alle Camere dal Presidente della Repubblica l'8 ottobre 2013, che gli organi dirigenti dei radicali si sono impegnati a perseguire come obiettivo. "Si tratta di un atto e di una iniziativa che riteniamo doverosa per corrispondere in una sede istituzionale all'unico messaggio formale, inviato alle Camere dal Presidente della Repubblica uscente, nel corso dei suoi nove anni di Presidenza - ha dichiarato la segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini - contestualmente denunciando il comportamento di quelle Camere alle quali il Capo dello Stato si è rivolto, che hanno platealmente e sistematicamente negato dignità alle parole del Presidente Napolitano, volte a richiamare gli improcrastinabili obblighi di riforma strutturale della giustizia, a partire da un provvedimento di amnistia e indulto". I radicali denunciano inoltre le responsabilità del sistema dell'informazione italiana, in particolare del servizio pubblico radiotelevisivo, colpevole, secondo gli esponenti radicali, di non fornire all'opinione pubblica un'informazione adeguata a comprendere e giudicare gli atti del Presidente della Repubblica, in particolare proprio rispetto alle posizioni da questi espresse nei confronti della giustizia e della condizione carceraria, nel corso dei nove anni del suo mandato. L'iniziativa, prevista presso le 26 Corti d'Appello, vedrà tra le altre la presenza della segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini a Catania, di Marco Perduca a Torino, di Lorenzo Strik Lievers a Milano e Giuseppe Rossodivita a Roma. Giustizia: Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dai Radicali otto domande al Governo www.radicali.it, 23 gennaio 2015 Farina Coscioni e Valter Vecellio: si va verso una nuova, ennesima proroga? Perché, per responsabilità di chi, non sono ancora state predisposte le strutture assistenziali previste dalla legge? Maria Antonietta Farina Coscioni, componente del Comitato Nazionale di Radicali italiani e Valter Vecellio, della Direzione nazionale hanno rilasciato la seguente dichiarazione. "Dovevano sparire il 31 marzo del 2013. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, sono invece rimasti, grazie a una proroga, che ne fissava la chiusura per il 1 aprile del 2014. Una ulteriore proroga ha spostato la chiusura all'aprile del 2015. Manca poco. Non c'è tre, senza quattro? Si intende procedere, come del resto auspicano gli stessi ministri della Salute e della Giustizia nella loro relazione consegnata il 30 settembre scorso al Parlamento, a una ulteriore proroga? Lo chiediamo formalmente al presidente del Consiglio, ai ministri della Giustizia e della Salute, al presidente della Conferenza Stato-Regioni: dovremo prendere atto che ancora una volta non si è saputo/voluto predisporre le strutture "altre" necessarie per assistere circa un migliaio di persone malate, che continueranno così a restare in luoghi che il presidente della Repubblica Napolitano ha definito "orrendi, non degni di un Paese appena civile"? La legge che dispone la chiusura degli Opg prevede la creazione in ogni regione di Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza sanitarie (Rems). A che punto siamo? Abbiamo un quadro al settembre del 2014 dove si "prevede"; e al termine delle previsioni si sostiene che non appare realistico che i progetti possano essere realizzati nei tempi fissati. Si sono individuate le responsabilità e le ragioni di questi ennesimi ritardi? Fino a quando permarrà questa incertezza? Chi e cosa impedisce che questa situazione sia finalmente sanata?". Giustizia: l'avvocato di Fabrizio Corona "chiederemo la grazia al nuovo Capo dello Stato" Adnkronos, 23 gennaio 2015 Fabrizio Corona chiederà la grazia al prossimo presidente della Repubblica. Lo afferma il suo avvocato Ivano Chiesa, dopo che questa mattina il sostituto procuratore generale Giulio Benedetti ha dato parere negativo alla richiesta di scarcerazione avanzata per l'ex fotografo dei vip. La prossima tappa, avverte Chiesa, "sarà probabilmente la revisione", ma prima "sicuramente presenteremo la domanda di grazia al nuovo presidente della Repubblica, sperando che ci dia una mano, perché alla fine si tratta di uno sconto di due anni e mezzo". Cosa che, spiega, "aprirebbe tutte le possibilità di detenzione alternativa", al momento precluse perché il reato di estorsione aggravata, attribuito per via delle foto con le quali Corona ha ricattato David Trezeguet, non consente la concessione di misure alternative al carcere. Si tratterebbe, ribadisce Chiesa, di "un gesto di clemenza che permetterebbe a Corona di diventare un detenuto normale, con la possibilità di presentare le istanze che fanno tutti i detenuti". A quel punto, "il tribunale potrà decidere. Se Corona verrà ritenuto un soggetto pericoloso, gli si dirà di no. Altrimenti gli diranno di si e il problema si risolverebbe da sé". Non una cosa semplice, sottolinea l'avvocato, ma "in questa situazione non c'è nulla di semplice. C'è un bravo ragazzo che avrà commesso delle stupidaggini, ma ha un cumulo di pene come se fosse un pericoloso criminale e questo rende tutto molto complicato". Lo psichiatra: molto perplesso sui domiciliari Avere una personalità narcisistica e borderline, con attacchi di panico e uno stato di sofferenza mentale, "non è un'indicazione per i domiciliari. Ero molto perplesso perché delle due l'una: o il soggetto presenta un'acuta sofferenza mentale, per il trattamento della quale il domicilio non è adeguato, oppure non lo è e dunque può essere curato nel luogo di pena dai medici del carcere". Lo afferma all'Adnkronos Salute Massimo Di Giannantonio, psichiatra dell'Università di Chieti, dopo la perizia depositata in Tribunale su Fabrizio Corona che aveva portato alla richiesta di scontare a casa o in una comunità di trattamento il resto della pena. Una richiesta che ha incassato il parere contrario del sostituto procuratore generale di Milano. Corona, a parere del perito, avrebbe una personalità narcisistica e borderline. "Ebbene, ritengo si debbano esaminare due aspetti - dice lo psichiatra - quello psichiatrico clinico e quello legale. Se nella sede di giudizio è stata esclusa una psicopatologia che prevedesse una totale o parziale incapacità di intendere e di volere, vuol dire che Corona per il Collegio giudicante poteva essere considerato responsabile delle azioni che ha compiuto, e che il suo comportamento è stato considerato volontario, non inficiato da una patologia. Se poi, come segnalato, il soggetto ora presenta attacchi di panico e ha sviluppato una notevole sofferenza mentale, non è detto che le cure in casa siano più indicate. In questi casi è meglio che il paziente sia seguito in una struttura psichiatrica territoriale in forma residenziale, strutture che hanno preso il posto degli ex Opg. Dunque in caso di bisogno il giudice può disporre l'allontanamento di Corona dal carcere e la sua allocazione in una struttura dove cura e pena possono continuare ad esercitarsi". "Ove siano riconosciute delle aggravate condizioni psichiatriche, è indicato poi il trattamento in comunità terapeutiche per pazienti con disturbi mentali gravi. Si tratta in entrambi i casi di luoghi in cui vengono garantite le terapie ma anche il controllo di eventuali reazioni. Insomma, sono molto perplesso di fronte alla richiesta dei domiciliari: o c'è una acuta sofferenza mentale, per cui il domicilio non è adeguato, oppure il problema può essere gestito dai medici nel luogo di pena", conclude Lettere: morti in carcere… di carcere di Fausto Cerulli Ristretti Orizzonti, 23 gennaio 2015 Si parla speso di persone che muoiono in incidenti stradali, di gente che si suicida pe una delusione amorosa, magari di persone che gli casca un albero in testa, ma i giornali non parlano mai delle persone che muoiono in carcere, per quella orrenda antica malattia che si chiama carcere. Eppure sono numeri che dovrebbero far riflettere e che rispecchiano la civiltà o meglio la mancanza di civiltà del nostro paese. Un paese in cui ufficialmente è sta abolita la pena di morte, recentemente anche dalla Città del Vaticano, ma cui tale pena viene ancora eseguita, come conseguenza di una pena comminata da un giudice o spesso come conseguenza di una pena che potrebbe essere comminata, se e quando la nostra giustizia lenta come un coniglio azzoppato emetterà il verdetto. Così, nella indifferenza assoluta del mass media o come cavolo si chiamano, troppa gente non resiste alla carcerazione, preventiva o definitiva che sia. Gli agenti penitenziari sono pochi, spesso avviliti dal loro mestiere di aguzzini per forza, ed intervengono soltanto a suicidio avvenuto. Dall'inizio dell'anno quasi cinquanta persone, perché sono persone, e non soltanto numeri in detenzione, si sono tolte la vita nelle carceri italiane. In carcere nessuno si uccide per rimorso, la morte viene dall'angoscia, dalle ristrettezze fisiche e psicologiche del carcere, dalla assoluta assenza di un'assistenza ai più deboli, ai più fragili. Spesso è ridicolo in numero degli assistenti sociali rispetto a quello della popolazione detenuta. Pensiamo bene alle parole, al loro cinismo consapevole o meno: "popolazione detenuta" quasi fosse un popolo nel popolo, ignorato dal popolo, una etnia dimenticata e trascurabile. Sono anni oramai, sono secoli forse (dal tempo di Cesare Beccaria) che si sproloquia su una riforma delle carceri. Per ultimo ci ha provato il buon Gozzini, il quale per qualche leggero beneficio concesso ai detenuti, si fece fama di garantista, nel senso meno nobile della parola: le sue modeste innovazioni passarono per favoreggiamento alla delinquenza, quasi un incitamento a commettere reati. Come avvenne per la legge Basaglia, che in una opinione pubblica forcaiola, significò slegare i matti da slegare. Non c'è governo, che appena partorito, non metta nel proprio bilancio preventivo una qualche riforma del sistema penitenziario, magari nel più ampio disegno di una riforma della giustizia; e non esiste governo che abbia provato a rispettare l'impegno. Ora abbiamo un Governo del fare, ossessionato dalle riforme, che ha esautorato il Parlamento e lo stesso Consiglio dei Ministri, ma a questo governo, a mezzadria tra Renzi e Berlusconi, non passa neppure per la testa la situazione carceraria, alla culla oscena di troppe morti volontarie. So già che i benpensanti, se e quando, raramente, vengono a conoscenza di un suicidio avvenuto in carcere, sono inclini a pensare che la gente si ammazza anche fuori del carcere, e che è colpa della depressione, di questo male oscuro curato a botte di pillole. A nessun benpensante viene in mente che un suicidio in carcere sia qualcosa di molto differente. Il depresso si uccide perché si sente solo, il detenuto si uccide perchè è condannato ad esser solo, nella propria condizione esasperata, nella propria folla indicibile di pensieri. Non credo che sarebbe una soluzione aumentare il numero degli psicologi incaricati di occuparsi dei detenuti; non credo che sarebbe rimedio aumentare il numero dei cosiddetti assistenti sociali. In Italia esiste, e quasi non esiste, un Garante regionale dei diritti dei detenuti: una figura che potrebbe essere determinante anche nel prevenire la piaga dei suicidi. Se soltanto il Garante fosse fornito dei poteri che dovrebbero spettargli… il che non accade, è solo una illusione che si trasforma in delusione. Esistono Tribunali di Sorveglianza, che dovrebbero avere il compito di sorvegliare quello che accade in carcere, ma che si limitano a concedere o negare permessi premio, liberazioni "anticipate", altro termine orrendamente tecnico. Alla piaga dei suicidi in carcere si può porre rimedio soltanto con una riforma della giustizia che garantisca un processo rapido e giusto, che proibisca la carcerazione preventiva, che applichi quella Costituzione che potrebbe essere la più bella del mondo, se soltanto venisse attuata; e nella quale si prevede che ogni individuo deve essere considerato innocente fino a condanna definitiva e che sancisce comunque che la pena debba avere come scopo la rieducazione del detenuto, il suo reinserimento nella vita civile. Ma il carcere aggiunge pena a pena, moltiplica le afflizioni, spesso è luogo di tortura: in un Paese che non vuole inserire in codice oramai quasi secolare, la figura del reato di tortura. Così la gente continua a morire di carcere, nella indifferenza generale. E suonano patetiche, nel loro non essere ascoltate, le parole precise di Pannella, della sguarnita pattuglia radicale, e di qualche giornale garantista non soltanto di nome. I detenuti continuano ad uccidersi, e il loro grido di agonia si perde nel chiacchiericcio osceno della politica politicante. Lettere: detenuti, anche loro hanno diritto a un sindacato di Cristina Cecchini Il Garantista, 23 gennaio 2015 La difesa dei diritti viene spesso demandata a coloro che entrano in prigione per fornire sostegno. Ma sarebbe giusto che si costituisse un'organizzazione autonoma. Ho iniziato la mia esperienza in carcere come operatrice nel 2001, attraverso un impegno di volontariato in una piccola e virtuosa cooperativa, nata per l'inclusione dei soggetti svantaggiati. Ho lavorato in seguito per diversi progetti finalizzati al reinserimento dei detenuti ed ex detenuti, oltre che dei tossicodipendenti, dei pazienti psichiatrici, dei senza dimora, delle donne vittime di tratta, dei rifugiati. Tante sono le persone che, a vario titolo, ogni giorno entrano da esterni nell'istituzione carceraria, per attività che vanno dall'assistenza base (vestiario, sostegno all'indigenza) agli studi universitari. Tante sono quindi le brecce aperte nell'istituzione: a Rebibbia Nuovo Complesso i permessi concessi agli esterni, negli anni, sono arrivati a un migliaio. Ora, la domanda che un operatore serio non dovrebbe mai smettere di porsi, verificando con costanza intellettuale le risposte che scaturiscono, confrontandole con la realtà che quotidianamente osserva e vive, è: quanto noi operatori siamo organici al sistema carcerario e quanto invece contribuiamo con efficacia a fornire strumenti per l'emancipazione dei ristretti? I detenuti sperimentano (ancor di più col sovraffollamento) la situazione paradossale di doversi costruire la propria autonomia e libertà partendo da uno stato di cattività, che dell'autonomia e della libertà è l'impedimento principale. Parlando dei detenuti comuni e tralasciando le "Sezioni Alta Sicurezza", ho sempre visto la categoria come un proletariato che doveva ancora costruirsi una coscienza "di classe". Non perché il "detenuto" sia più ignorante o più limitato o meno cosciente degli altri, ma per l'esistenza di limiti non derivanti dal detenuto stesso. Un limite molto forte è di tipo organizzativo: nell'idealtipo di lotta sociale lavorativa, gli operai lavoravano per tutta la vita in una fabbrica e lottavano in seno ad essa per il miglioramento delle condizioni e l'ottenimento dei diritti; invece il detenuto non è sempre lo stesso, sconta la pena ed esce da quella particolare fabbrica che vorrebbe solo dimenticare. E durante il periodo della pena non c'è uno spazio consolidato di confronto sulla propria condizione, come l'assemblea, base fondamentale delle rivendicazioni di qualsiasi tipo, Anche l'impostazione fortemente premiale dell'esecuzione penale e delle misuro alternative non aiuta, non è un caso che non esista un sindacato dei detenuti, dove per sindacato non s'intende un organismo analogo agli attuali sindacati, i quali evitano accuratamente di sollevare con forza il problema del lavoro e dei diritti in carcere, ma s'intende un organismo gestito dai detenuti stessi, che difenda veramente e dal basso i loro diritti e che abbia un effettivo potere contrattuale. Mi ricordo come frequente la misura dei trasferimenti di massa in seguito a proteste anche pacifiche. Difficilmente si creano azioni collettive che poi formano un sistema di rivendicazioni stabile, consolidato ed efficiente un po' com'è stato per lo sciopero e le assemblee durante l'epoca d'oro dei sindacati. L'entrata in carcere di tanti detenuti politici negli anni 80 merita di essere portata ad esempio come stimolo unico in tal senso, ma è una spinta a mio parere esaurita da anni, almeno a livello generale. Ci sono anche limiti prettamente teorici all'auto-organizzazione dei detenuti: il carcere è un'istituzione totale, la fabbrica no. In tal senso l'art. 27 della Costituzione italiana permette, anche se in modo forse volutamente ambiguo, questa totalità: la pena deve "tendere" alla rieducazione, e non "essere decisamente finalizzata" come piacerebbe a noi operatori. In quel tendere c'è, a monte, la possibilità per l'istituzione carceraria di essere totale, di anteporre il mantenimento dell'ordine e della sicurezza al (supremo) obiettivo della rieducazione. Tra questi profonde limitazioni si inserisce l'operatore, che ha la funzione generale di rivendicare questi diritti in loro vece, e la sua efficacia rivendicativa dipende da fattori che non discendono dal diritto, ma dalla forza dell'associazione/cooperativa/ente che si rappresenta, dal savoir faire dell'operatore stesso, dal comportamento del detenuto: la riuscita dell'intervento dipende, alla fine, e alla faccia della professionalità costruita con fatica e gavetta, dal buon cuore dell'interlocutore in seno all'istituzione. Il detenuto, che dovrebbe, secondo l'ottica rieducativa, sviluppare autonomia e senso critico verso se stesso, si trova invece a dover supplicare noi operatori "ad interessarci" per ottenere quello che gli spetterebbe. E tu che vorresti dire (e spesso lo dici!): "Ma che preghi!", rispondi che lo farai, e lo farai con tutto il cuore, ottenendo spesso nulla. È lì che la frustrazione cresce, e diventa insostenibile la consapevolezza che terresti anche tu quest'atteggiamento remissivo e all'apparenza poco dignitoso se fossi detenuta a tua volta. Dalla domandina parte tutto. La sua esistenza traduce nel quotidiano la totalità dell'istituzione carceraria. È un modulo che si compila per qualsiasi richiesta da fare all'amministrazione e anche per parlare con gli operatori esterni. La parola stessa spiega più di mille saggi sociologici. Domandina ha un suono da bambini, benevolo, all'inizio: ma poi rivela un fondo grottesco, con quella richiesta alla "Signoria Vostra" di poter "parlare con un operatore". Sembra uscita da un romanzo di Kafka, la domandina. A volte (ammetto che nelle carceri più "illuminate" questo succeda raramente, a Rebibbia per esempio c'è una lista gestita dallo scrivano, ma sono eccezioni che nel mare magno della situazione italiana rappresentano poco e comunque non cambiano la possibilità per l'istituzione di attuare giri di vite in senso opposto), anche quando segui un detenuto da tempo, e lo chiami per il colloquio solito settimanale, e non c'è la domandina, non te lo chiamano: ne hanno facoltà. Magari la domandina è scivolata via, o il detenuto era talmente depresso che non ce la faceva a scendere dallo scrivano per compilarla, o è stato punito e non ha potuto, o forse ha tentato il suicidio e tu vorresti vederlo, capire come sta per informare poi i familiari che non hanno notizie. Ma tu quella settimana non lo vedrai, non c'è la domandina. Ma non perché la guardia, che è poi quella che materialmente ti dice: "No, oggi no", sia sadica; a volte c'è una giornata di confusione, gli agenti sono pochi, poi la situazione si tranquillizza ma ormai sono le due, "abbiamo chiuso le celle". Allora vedi un altro detenuto che torna dal lavoro, o riprende servizio la guardia "gentile" dopo la pausa pranzo, e chiedi loro di accertarsi delle condizioni del Senza Domandina o di salutartelo che lo vedrai la settimana prossima. E sai che lo faranno, e alla fine, settimana dopo settimana, cambiano i detenuti, cambiano gli operatori e anche le guardie, cambiano i direttori e le leggi, ma la domandina sta sempre li, a ricordarti che lui è un emarginato senza diritti, tu e la guardia siete delle pedine, e che il carcere è senz'altro ancora, nel profondo, un'istituzione totale talmente potente che gli basta un foglietto che sparisce per annullare anche la semplice voce di chi ci ha a che fare. Lettere: gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari vanno chiusi di Paolo Signorelli www.lultimaribattuta.it, 23 gennaio 2015 Il problema delle carceri italiane persiste e la situazione, nonostante piccoli segnali confortanti, rimane allarmante. Sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie ai limiti della decenza, carcere preventivo, suicidi. Sono questi i principali problemi cui deve sottostare un detenuto italiano. Ma non solo, anche negli ospedali psichiatrici giudiziari (i vecchi manicomi per intenderci) del nostro paese, la situazione è imbarazzante. Sono sei in tutto e uno, probabilmente il peggiore, si trova a Reggio Emilia. Una struttura che, purtroppo, conosce bene la famiglia romana De Luca. Michele, infatti, 52 anni, è il padre di Daniele, un ragazzo di 29 anni del quartiere Tor Bella Monaca, internato all'Opg di Reggio e morto in cella il 12 gennaio 2013, soffocato da un pezzo di bistecca. Una storia terribile, riportata dal "Garantista", una storia di un padre e di una madre, che per anni hanno dovuto fare i conti con la difficile malattia del figlio: una schizofrenia paranoide che era capace di farlo diventare violento, aggressivo. Una lotta quotidiana che li ha esasperati al punto che un giorno la donna, all'ennesima aggressione, ha denunciato il figlio per maltrattamenti. Il giovane venne arrestato e portato nell'ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, ma genitori non abbandonano. Il 12 gennaio, però, Daniele muore in cella per asfissia. Il medico legale, in sede di autopsia, scopre subito la causa: asfissia dovuta ad un pezzo di carne di 10 centimetri. Il ragazzo, però, non poteva masticare perché aveva perso quasi tutti i denti. Parte così un'inchiesta giudiziaria a carico di ignoti per accertare le responsabilità. Ma un anno fa ci fu la richiesta di archiviazione del caso, alla quale i genitori della vittima si continuano ad opporre. Con ogni probabilità, però, dovranno arrendersi. "È da due anni che nostro figlio è morto. Io aspetto ancora di sapere la verità e che venga fatta giustizia. Almeno chiudessero questi manicomi, perché di veri e propri manicomi si tratta". Da anni, si parla della chiusura di queste strutture, del tutto inadeguate per gestire la situazione dei reclusi. Ma, nonostante la tragedia di Daniele e di altre persone, la situazione rimane invariata e questi ospedali continuano a "funzionare". Deve esserci per forza un altro caso come quello del giovane romano per prendere provvedimenti? Sicilia: denuncia dei Radicali Catania sulla mancata nomina del Garante dei detenuti www.radicali.it, 23 gennaio 2015 Dopo aver numerose volte sollecitato il presidente Rosario Crocetta a procedere alla nomina del Garante regionale dei diritti dei detenuti, l'Associazione Radicali Catania ha proceduto a presentare una denuncia per danno erariale alla Procura Regionale della Corte dei Conti. Ecco il testo integrale dell'esposto: "All'Ill.mo Signor Procuratore presso la Corte dei Conti di Palermo. Il sottoscritto Luigi Alfio Francesco Recupero, nato a Catania il 27 maggio 1971, residente in Catania in via M. La Rosa Buccheri 17, in qualità di segretario dell'associazione "Radicali Catania" di Catania aderente a "Radicali Italiani", ritiene doveroso sottoporre all'attenzione della S. V. quanto segue: La legge regionale siciliana del 19 maggio 2005 n.,5, ha istituito il garante per la tutela dei diritti dei detenuti e per il loro reinserimento sociale , per la Regione Siciliana; l'art. 33 è stato successivamente integrato e modificato dall'art. 23 commi 4 e 5 della legge regionale del 22 dicembre 2005 n.19. In virtù di detta norma, all' art.33 comma 2 l.reg. 5/2005 è demandato al Presidente della Regione il compito, con proprio decreto, di nominare il "garante". Sino al 16 settembre 2013, tali funzioni sono state svolte dal Dott. Salvatore Fleres, che in detta data ha cessato per scadenza del mandato. Era compito-dovere proprio del Presidente della Regione, pertanto, nominare altro garante, secondo i parametri specifici indicati dalla legge. Invero, il Presidente Crocetta, disattendendo un dovere impostogli dalla legge istitutiva dell'ufficio del garante, non ha proceduto ad alcuna nomina. Tale situazione, oltre a vanificare i principi propri della legge: di garanzia e, tutela delle persone detenute, attivandosi per il loro reinserimento sociale; attività alquanto importante sia dal punto di vista sociale, che politico, considerata la situazione di grave degrado e sovraffollamento delle carceri in Sicilia; ha creato e crea notevoli danni economici alle casse della Regione Siciliana. L'ufficio del garante dei detenuti, infatti, è costituto da uffici operativi sia a Palermo che a Catania con oltre dieci dipendenti (nelle varie qualifiche: dirigente, funzionari, istruttori, assistenti) pagati dalla Regione Siciliana. Il personale, regolarmente in servizio nelle due sedi, in mancanza del garante (unico titolare dell'ufficio) non può svolgere alcuna funzione. Dal settembre 2013 l'Ufficio, in mancanza di titolare, non può rispondere alle continue lettere dei detenuti o dei familiari, nessuno dei dipendenti può accedere agli istituti penitenziari per i controlli previsti dalla legge (mancando il garante che avrebbe dovuto delegare). Tale situazione è stata sottoposta costantemente alla attenzione del Presidente Crocetta, sia da parte dei Radicali, che da diverse Associazioni che operano nel settore. Posto quanto sopra, è evidente che quanto riferito, oltre ad integrare l'omissione di cui all'art. 328 c.p., ha provocato e provoca danni economici di rilevantissima entità per la Regione Siciliana, che dal settembre 2013 paga regolarmente stipendi a dipendenti che si trovano nella impossibilità di svolgere alcuna attività, nonché provvede al mantenimento di uffici regionali (in due sedi: Palermo e Catania) che, allo stato, nella mancanza del titolare, sono totalmente inattivi. Sanremo (Im): suicida in carcere il serial killer Bartolomeo Gagliano di Bruno Persano La Repubblica, 23 gennaio 2015 L'ultima fuga un anno fa. Arrestato in Francia e condannato a sei anni per evasione, era rinchiuso nella casa circondariale di Sanremo. Si è suicidato nel carcere di Sanremo Bartolomeo Gagliano il serial killer di Savona condannato di recente a oltre 6 anni di reclusione per l'evasione dal carcere di Marassi e il sequestro di un panettiere avvenuto durante la fuga verso la Francia. Gagliano si è impiccato con un lenzuolo alle sbarre della finestra della sua cella. "Il detenuto si è impiccato alle grate della finestra, presso l'infermeria del carcere, dove era stato ricoverato ieri sera" dopo che aveva tentato il suicidio con una lametta, fa sapere in una nota il sindacato autonomo della polizia penitenziaria Sappe. Dall'inizio dell'anno già 4 detenuti suicidi in carcere - Con la morte di Gagliano, ricorda l'osservatorio permanente sulle morti in carcere, salgono a quattro i detenuti che si sono tolti la vita dall'inizio del 2015. I precedenti tre casi sono avvenuti nelle case circondariali di Monza e Venezia e nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Lo scorso anno i carcerati suicidi furono 43. L'ultima fuga - Gagliano era rinchiuso nel carcere di Sanremo da poco più di un anno, da quando, a Mentone, la polizia francese lo fermò dopo tre giorni di latitanza. Allora il giudice di sorveglianza di Genova gli aveva concesso una licenza dal carcere di Marassi. Sequestrò un panettiere e con la sua auto passò la frontiera. Alle spalle tre omicidi - Gagliano, 55 anni, siciliano di origine, era considerato da polizia e carabinieri "individuo molto pericoloso". Oltre ai tre assassini, aveva alle spalle anche un tentato omicidio: quello della fidanzata, una ragazza toscana, ferita con un colpo di pistola al volto durante un gioco erotico. Era l'aprile del 1990, ma il primo delitto risale a nove anni prima quando Gagliano uccise a Savona, sfondandole il cranio con una pietra, Paolina Fedi, di 29 anni. Venne condannato a otto anni di manicomio criminale a Montelupo Fiorentino da dove evase però nel 1989, assassinando poco dopo, a colpi di pistola, una transessuale uruguayana e un travestito. Uccise a colpi di pietra una donna - Un colpo di pistola alla bocca era la sua "firma" sugli omicidi, ma fu sempre giudicato infermo di mente. Teatro degli omicidi l'autostrada Genova-Savona, e il quartiere di Carignano nel centro di Genova. Il primo delitto la notte del 15 gennaio 1981 quando Gagliano - aveva 22 anni - uccise a colpi di pietra una donna all'altezza del casello di Celle Ligure. 1989: un delitto e un tentato omicidio - Il giorno di San Valentino dell'89 la vittima fu il travestito Francesco Panizzi freddato nei giardini di Poggio della Giovane Italia, nel quartiere borghese di Carignano; il giorno dopo, in corso Aurelio Saffi, a poche centinaia di metri dal precedente omicidio, Gagliano sparò alla gola ad una donna rimasta in vita perché miracolosamente il proiettile sfiorò la colonna vertebrale. Quella volta che sparò tra la gente - E nell'83, sfruttando una breve licenza concessa dai medici, Gagliano sequestrò un'intera famiglia e da Massa Carrara raggiunse Savona, spianò la pistola alla tempia di un taxista e minacciò un vigile urbano. Infine, inseguito dai carabinieri, si mise a sparare a caso tra gli studenti e ferì una diciassettenne. E poi rapine, droga, armi, stupri - Finì in carcere dopo essere stato fermato ad un posto di blocco: in auto gli trovarono bossoli calibro 7.65 sparati dalla stessa pistola che aveva "firmato" i delitti. Ma la sua carriera criminale non si concluse qui: negli anni seguenti si susseguirono rapine, stupri, estorsioni, aggressioni, oltre a detenzione di droga, armi ed esplosivi. "Carcere di Sanremo ad alto rischio", di Paolo Isaia (Secolo XIX) Dieci giorni fa gli era piombata addosso l'ultima condanna, 6 anni e 10 mesi per rapina, sequestro di persona ed evasione, accuse legate alla rocambolesca fuga del dicembre 2013 durante un permesso premio dal carcere di Marassi, dov'era detenuto dal 2006 ancora per rapina, per aggressione e per detenzione di armi. Da Marassi, dopo la cattura a Mentone, Bartolomeo Gagliano, 56 anni, serial killer di origine siciliana, era stato trasferito a valle Armea. Dove, ieri mattina, si è tolto la vita. Gagliano si è impiccato alle sbarre della sua cella utilizzando le lenzuola. Il corpo è stato scoperto intorno alle 10.30 dagli agenti della polizia penitenziaria, che hanno subito avvisato il 118. Per l'uomo, però, non c'era più nulla da fare. Sul suicidio indagano i carabinieri di Sanremo, coordinati dal magistrato di turno, il pm Antonella Politi che, dopo la relazione del medico legale, valuterà se disporre o meno l'autopsia su Gagliano. Ma se la morte del cinquantaseienne non sembra nascondere misteri, ci sono altre circostanze da chiarire. Secondo quanto denuncia il sindacato di polizia penitenziaria Sappe, l'uomo sarebbe stato trasferito in una cella dell'infermeria dopo essersi procurato delle ferite sul corpo, mercoledì sera. E negli ultimi giorni avrebbe manifestato una sempre maggiore agitazione. Gagliano, del resto, era stato condannato a 10 anni di carcere psichiatrico perché ritenuto infermo di mente quando commise il suo primo omicidio; evaso sempre durante delle licenze premio, tornò a uccidere altre due volte, venendo assolto per vizio totale di mente, e quindi trasferito in un ospedale psichiatrico giudiziario, prima della condanna del 2006. Per il Sappe, il suicidio di Bartolomeo Gagliano è legato alle criticità del carcere di valle Armea denunciate a più riprese. "Purtroppo, nonostante il prezioso e costante lavoro svolto dalla polizia penitenziaria, pur con le criticità che lo caratterizzano, non si è riuscito a evitare in tempo l'insano gesto del detenuto - le parole del responsabile Donato Capece - avvenuto in una struttura più volte al centro delle nostre critiche per l'organizzazione del lavoro dei poliziotti, che sono quasi ottanta in meno rispetto all'organico previsto, e appunto per il reiterarsi di gravi eventi critici, evidente conseguenza di una disorganizzazione generale". Nel mirino c'è sempre Francesco Frontirrè, "un direttore a tempo determinato: considerando che da oltre venti anni dirige il penitenziario di Sanremo, e da tempo anche quello di Imperia, non ha evidentemente nuovi stimoli professionali e pertanto lo si dovrebbe assegnare ad una nuova sede di servizio. Stesso discorso vale per il comandante di reparto, se non organizza al meglio il lavoro dei poliziotti". Conclude il Sappe: "I costanti gravi eventi critici che si verificano nel carcere di Sanremo - devono fare riflettere seriamente". Bari: "Carcere Lab", il Laboratorio della Buona Notizia che dà voce ai detenuti www.notizie.tiscali.it, 23 gennaio 2015 È partito solo da qualche settimana, ma Carcere Lab, il Laboratorio della Buona Notizia in carcere, ha già dato voce e speranza a chi, da tempo, è recluso e troppo spesso non ha voce. Si tratta di uno spazio web, nato all'interno del sito www.buonanotizialab.it, dedicato a pensieri e parole dei detenuti della Casa Circondariale di Bari. Il "Laboratorio della buona notizia" - scrivono gli alunni della scuola carceraria - è per noi un'occasione di confronto dentro (e intendiamo dentro le mura, tra noi, così come dentro ciascuno di noi, in profondità) e fuori, per far arrivare la nostra voce dove non immaginiamo neanche. Questo Laboratorio è un tentativo di raccontare "la buona notizia" e non solo la sofferenza, il disagio, il dolore. Vogliamo esprimerci ma senza piangerci addosso, raccontare le nostre vite senza clamore, raccontare le nostre esperienze con semplicità, andando dritti al centro della notizia, perché il centro è sempre e solo la persona. Chi non ha mai messo piede qui dentro non può immaginare quello che significa. Per chi non ci ha mai incontrati siamo ‘solo' detenuti, un'etichetta, un marchio difficile da cancellare". "Ma noi, come gli altri, siamo prima di tutto persone. E, come gli altri, abbiamo i nostri pensieri, i nostri sentimenti. E anche qui c'è del buono". Carcere Lab, attivato nel capoluogo pugliese in via sperimentale per sei mesi, sarà poi diffuso tra i carcerati di tutti gli Istituti penitenziari della Puglia. Il progetto pilota fa parte della rete di laboratori della buona notizia che coinvolge scuole, oratori, associazioni, comunità, parrocchie. Promosso dall'Ucsi Puglia, associazione dei giornalisti cattolici presieduta da Enzo Quarto, è condiviso dall'Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. "Il punto di forza del nostro progetto è nella stessa parola laboratorio - spiegano dall'Ucsi. Un luogo che intende educare alla buona notizia, aperto al contributo di idee e azione di tutti, un tentativo di liberare chi osa raccontare il primato della persona sulla massa, del piccolo numero sui grandi numeri, dell'essere sull'avere dai ghetti delle rubriche buoniste, dagli spazi marginali riservati alle vicende edificanti, dalla quotidianità di un'informazione troppo urlata e omologante". Padova: rivolta all'interno del carcere Due Palazzi, due agenti della Penitenziaria feriti Corriere del Veneto, 23 gennaio 2015 La sommossa è stata sedata in un'ora. Il sindacato: o erano ubriachi oppure avevano assunto stupefacenti. Il pm aprirà un'inchiesta. Rissa al carcere Due Palazzi alle 18.30 di giovedì: alcuni detenuti stranieri si sono messi a litigare nell'area comune, uno di questi era riuscito ad entrare in possesso di un coltello o di un coccio di bottiglia, e ha ferito un altro straniero, marocchino. Quando due agenti della penitenziaria sono intervenuti per sedare la lite anche loro sono rimasti feriti con un bastone appuntito, forse proveniente da una sedia rotta. Sul posto sono giunte alcune ambulanze del 118 e hanno portato in ospedale il marocchino e i due agenti di polizia penitenziaria. All'interno del carcere c'è stata una agitazione generale quando tutti i detenuti, visto quello che stava accadendo, sono stati fatti rientrare nelle loro celle. La situazione è stata riportata alla normalità nel giro di una mezzora, del fatto è stato avvisato il direttore del carcere e il magistrato di turno. "I fatti sono ancora poco chiari - spiega Giovani Vona del Sappe, sindacato di polizia penitenziaria - i motivi del dissidio erano senz'altro futili, non escludo che qualcuno tra i detenuti fosse alticcio o addirittura drogato... tanto per far capire a tutti il clima che si respira qui dentro - racconta - non è la prima volta che accade una cosa simile, un paio di giorni fa nella stessa area quella con la vigilanza "dinamica" un agente era rimasto ferito, siamo al collasso". Il pm aprirà un'inchiesta. Sappe: i detenuti inneggiano all'Isis Resta alta la tensione nel carcere di Padova, dopo gli episodi delle scorse settimane che hanno visto poliziotti aggrediti e il rinvenimento di più telefoni cellulari nelle celle della Casa di reclusione patavina. Ma ad aggravare la situazione è anche l'atteggiamento di molti detenuti arabi, che hanno inneggiato all'Isis e al fondamentalismo islamico. "Quel che è accaduto giovedì sera nella Casa di Reclusione di Padova è gravissimo, anche in relazione all'atteggiamento assunto da molti detenuti di nazionalità araba", denuncia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria, per voce del leader Donato Capece. "Nella sezione detentiva regolamentata dalla vigilanza dinamica, che permette ai detenuti di girare liberi buona parte del giorno e che per questo presenta livelli minimi di sicurezza (ragione per cui il Sappe osteggia tale improvvida organizzazione detentiva), si respirava alta tensione, con atteggiamenti palesemente provocatori da parte di buona parte dei detenuti verso i poliziotti. Qualcosa "bolliva in pentola", tanto che all'atto dell'ingresso nel Reparto detentivo di due poliziotti penitenziari questi sono stati aggrediti e feriti senza alcuna giustificazione e le cose sono drammaticamente degenerate con urla e grida, evidentemente sintomo dell'avvio di una protesta dei ristretti. Molti di questi, di origine araba, inneggiavano ad Allah e all'Isis, il gruppo islamista tristemente noto, ed è un particolare, questo, assai preoccupante. Solo il massiccio intervento di altri poliziotti penitenziari in servizio in carcere ma anche liberi dal servizio e presenti nella caserma del penitenziario ha permesso di garantire l'ordine e la sicurezza ed ha impedito più gravi conseguenze. Era comunque qualcosa di organizzato, visto che sono stati rinvenuti bastoni e coltelli artigianali. Ai due colleghi feriti, ricorsi alle cure del Pronto soccorso, va la nostra piena solidarietà, ma il protrarsi di eventi critici nella Casa di reclusione di Padova sono un grave segnale di tensione. E le manifestazioni di solidarietà e sostegno al gruppo islamista dell'Isis da parte dei detenuti arabi sono inquietanti e preoccupanti". Il Sappe, che chiede al Ministro della Giustizia Andrea Orlando e al Capo dell'Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo "urgenti provvedimenti a tutela dei poliziotti penitenziari che lavorano nella Casa di Reclusione di Padova e della stessa vivibilità nella struttura detentiva", punta il dito contro la solidarietà dei detenuti arabi verso l'Isis e ricorda che "indagini condotte negli istituti penitenziari di alcuni paesi europei tra cui Italia, Francia e Regno Unito hanno rivelato l'esistenza di allarmanti fenomeni legati al radicalismo islamico, che anche noi come primo Sindacato dei Baschi Azzurri abbiamo denunciato in diverse occasioni. Questo fa comprendere il gravoso compito affidato alla Polizia Penitenziaria di monitorare costantemente la situazione nelle carceri per accertare l'eventuale opera di proselitismo di fondamentalismo islamico nelle celle, anche alla luce dei tragici fatti di Parigi. Ma per fare questo, servono anche fondi per la formazione e l'aggiornamento professionale dei poliziotti penitenziari nonché per ogni utile supporto tecnologico di controllo, fondi che in questi ultimi anni sono stati invece sistematicamente ridotti e tagliati dai Governi che si sono via via succeduti alla guida politica del Paese". Padova: appello di Pallalpiede Calcio "Occorrono 7.500 euro per finire il campionato" di Simone Varroto Il Mattino di Padova, 23 gennaio 2015 La squadra di calcio del carcere di Padova cerca sostenitori per continuare a giocare. L'iniziativa, illustrata ieri nella sede di Banca Etica, si chiama "Rimettiamoci in gioco" e punta a raccogliere entro settanta giorni i 7.500 euro necessari a concludere il campionato di Terza Categoria, a cui è iscritta la Polisportiva Pallalpiede, attraverso il sistema sempre più diffuso del crowdfounding. In sostanza, con una libera sottoscrizione attraverso il sito internet www.produzionidalbasso.com/project/rimettiamoci-in-gioco/ chiunque può versare un contributo per acquistare il materiale necessario a disputare partite e allenamenti e a coprire le spese di gestione (manutenzione del campo e borsa medica) di questa squadra dalle caratteristiche uniche. L'Asd Polisportiva Pallalpiede è nata lo scorso anno all'interno del carcere Due Palazzi grazie all'impegno dell'associazione Nairi Onlus e della Polisportiva San Precario, che hanno trovato subito grande collaborazione da parte della Direzione del carcere e della Figc, la quale ha consentito l'iscrizione in Terza Categoria (girone B) e ha messo a disposizione l'allenatore Valter Bedin, tecnico di grande esperienza. Ieri il presidente della società Paolo Piva ed alcuni dirigenti hanno presentato il progetto di raccolta fondi insieme a mister Bedin e ad alcuni dei giocatori della rosa, "liberi" di incontrare la stampa e il personale di Banca Etica grazie ad un permesso eccezionale. "L'esperienza in Terza Categoria finora è stata esaltante sotto ogni punto di vista", ha sottolineato Piva. "Pur non figurando in classifica, dato che possiamo giocare solo in casa, abbiamo vinto 8 partite su 11 e ci stiamo distinguendo per la grande disciplina, a dimostrazione dell'alto valore formativo di questo progetto, che punta a favorire il reinserimento dei detenuti nella società civile attraverso i valori dello sport. I soldi, però, non ci bastano". La squadra, formata selezionando 130 detenuti, è composta da 31 persone di svariate nazionalità, che riflettono la stratificazione etnica del carcere: gli italiani sono quattro, i restanti sono marocchini, tunisini, nigeriani, albanesi, macedoni e romeni. A rappresentarli ieri c'erano il capitano, Temple Ogadinna Onwukwe, e altri tre giocatori, Taib Jawad, Alexander Kostadinov e Lejdi Shalari. "È un'esperienza magnifica", hanno raccontato, visibilmente emozionati. "La squadra ci fa sentire pronti per riscattarci dalla realtà del carcere in cui ci troviamo per i nostri errori. La disciplina che ci ha dato il mister, la voglia di impegnarci insieme e di confrontarci con le altre squadre ci stanno facendo maturare tantissimo. Vogliamo onorare al massimo questa opportunità di sentirci "normali" e per questo chiediamo l'aiuto di tutti". Libri: "Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre", in uscita il 28 gennaio in tutte le librerie Dire, 23 gennaio 2015 Otto istituti di detenzione italiani, un viaggio attraverso le attività rugbistiche esistenti in Italia. Una ricerca appassionante su come la pratica sportiva incida nell'animo delle persone. Storie di detenuti che nel rugby cercano il riscatto personale, di operatori che impegnano il proprio tempo libero per andare a insegnare il rugby in carcere. Di uomini della Polizia che queste attività le hanno volute, permesse, promosse. Falda si è recato nel carcere minorile di Nisida e negli istituti detentivi di Terni, Torino, Monza, Frosinone, Porto Azzurro, Bollate e Firenze. Lì ha incontrato gli operatori esterni, gli educatori/allenatori, i direttori, i comandanti della polizia penitenziaria e naturalmente i detenuti, per vivere direttamente queste esperienze. Lo scrittore racconta ora un altro aspetto di questo sport che piu' di altre discipline insegna il rispetto per il proprio avversario e l'attenzione alle regole, "uno sport bestiale giocato da gentiluomini". "Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre" esce con il patrocinio del ministero della Giustizia, dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, della Federugby e del Club Italia Amatori Rugby. Un libro che vuole essere "non solo un'opera di narrativa pura e semplice ma anche un mezzo utile a promuovere un'attività che sonda dal suo alveo sportivo per diventare strumento di sostegno sociale". Il libro è pubblicato da Absolutely Free Editore, 254 pagine per un costo di 14 euro. Cinema: nuove date a Bologna per "Meno male è lunedì", regia di Filippo Vendemmiati www.cinemaitaliano.info, 23 gennaio 2015 Quasi 1.500 persone hanno assistito in questi giorni a Bologna alle proiezioni del film "Meno male è Lunedì", prodotto da Tomato Doc&film, regia di Filippo Vendemmiati. Il film, che racconta dell'inedita "officina dei detenuti" all'interno del carcere della Dozza di Bologna e dell'incontro umano e professionale tra detenuti ed ex-operai in pensione, è stato premiato dal pubblico che ne ha apprezzato lo sguardo profondo ma anche ironico, dal quale emerge con forza il tema del lavoro come libertà e riscatto sociale. La direzione del Cinema Nuovo Nosadella di via Berti ha deciso pertanto di proseguire le proiezioni secondo questo calendario: venerdì 23 alle ore 20,00, sabato 24 e domenica 25 alle ore 17,25. "Non saremmo sinceri, dice Simone Marchi della Tomato Doc&Film, se non ammettessimo che forse ce l'aspettavamo, magari non in queste proporzioni, perché "Meno male è Lunedì" è un film che emoziona ma fa anche sorridere, mentre parla di dignità e di lavoro. Ora la vera sfida distributiva è portare il film in tutta l'Emilia Romagna e nelle principali città italiane". "La partecipazione travolgente da parte del pubblico, racconta Filippo Vendemmiati, mi regala una speranza che vorrei trasmettere a tutti coloro che in Italia realizzano documentari". Arabia Saudita: nuovo rinvio fustigazione blogger per ragioni mediche Adnkronos, 23 gennaio 2015 "Ragioni mediche" hanno spinto le autorità saudite a rinviare per la seconda volta la fustigazione del blogger Raef Badawi, al centro di un caso internazionale. Lo ha annunciato in una nota Amnesty International, spiegando che la fustigazione di Badawi, prevista domani, "è stata sospesa dopo che una commissione di medici ha stabilito che non può essere sottoposto alla seconda tornata di frustate". Badawi, 30 anni, era stato condannato il 5 novembre a dieci anni di carcere e a mille frustate per aver insultato l'Islam e per reati informatici. Le autorità della monarchia del Golfo avevano anche messo al bando il sito web da lui creato, Liberal Saudi Network. Il 9 gennaio il blogger saudita ha ricevuto in pubblico a Gedda la prima tranche di frustate, ben 50, subito dopo la preghiera del venerdì. Per espiare la pena l'uomo dovrebbe essere sottoposto alla stessa punizione per altre 19 volte. Stati Uniti: il giornalista di Anonymous Barrett Brown condannato a 5 anni di carcere Askanews, 23 gennaio 2015 Barrett Brown, un giornalista americano considerato come una sorta di portavoce del gruppo di pirati informatici Anonymous, è stato condannato a 63 mesi di carcere e a restituire 890.000 dollari. Trentatré anni, Brown era stato arrestato nel 2012. In una sarcastica risposta alla sentenza Brown ha commentato: "Buona notizia! Il governo americano ha deciso che siccome ho fatto un ottimo lavoro nell'investigare sul settore dell'industria informatica adesso mi stanno mandando ad indagare sull'industria delle carceri". Barrett, che scriveva anche per Vanity Fair e per l'Huffington Post, avrebbe postato dei link contenenti informazioni rubate alla società di sicurezza Stratfor Global Intelligence nel 2011. El Salvador: il Parlamento ha concesso la grazia a donna condannata a 30 anni per aborto La Presse, 23 gennaio 2015 Il Parlamento di El Salvador ha concesso la grazia a una donna accusata di aver abortito e condannata a 30 anni di carcere per omicidio. I 69 deputati presenti in aula hanno approvato la grazia con 43 voti a favore e 26 contrari. A favore hanno votato soprattutto i membri del Fronte Farabundo Martí per la liberazione nazionale, partito di sinistra al governo, mentre si è schierata contro l'Alleanza repubblicana nazionalista, di destra. Da diversi mesi le organizzazioni femministe e per il diritto all'aborto chiedevano la grazia per la donna, Carmen Guadalupe Vásquez Aldana, la cui gravidanza era stata interrotta a causa di gravi complicazioni. La donna è in carcere da sette anni ed è una delle 129 persone accusate nel Paese tra il 2000 e il 2011 di aver violato la legge sull'aborto. Ventinove di loro restano in prigione. Turchia: detenuto transessuale autorizzato a cambiare sesso, è il primo caso nel Paese www.cdt.ch, 23 gennaio 2015 Per la prima volta in Turchia un detenuto transessuale è stato autorizzato dalla giustizia a sottoporsi a una operazione di cambiamento di sesso mentre si trova in carcere, riferisce la stampa di Ankara. Il detenuto aveva già ottenuto nel 2013 di poter cambiare nome, adottandone uno femminile, Asli, secondo Milliyet. Un tribunale ha ora ordinato all'amministrazione del carcere di consentire l'intervento di cambiamento di sesso, ritenendo che altrimenti potrebbe subire seri danni psicologici. I costi dell'operazione saranno però a carico di Asli o della sua famiglia. In Turchia, paese prevalentemente musulmano sunnita, la situazione di omosessuali e transessuali è spesso ancora problematica e si registrano frequenti episodi di intolleranza o violenza nei loro confronti. Egitto: la Corte penale del Cairo ordina rilascio dei figli di Mubarak Nova, 23 gennaio 2015 La Corte penale del Cairo ha ordinato il rilascio dei figli dell'ex presidente Hosni Mubarak, in attesa di un nuovo processo a loro carico in un caso di corruzione. Il loro avvocato Farid al Deeb ha dichiarato che Alaa e Gamal Mubarak possono lasciare il carcere perchè hanno scontato il periodo di custodia cautelare e non ci sono motivazioni per tenerli in prigione. Gamal e Alaa erano stati condannati rispettivamente a 3 e 4 anni di prigione il 21 maggio scorso, ma il 13 gennaio la corte ha accettato un ricorso contro la sentenza. Questo significa che anche Mubarak potrebbe essere presto liberato per gli stessi capi di imputazione. A maggio la Corte penale del Cairo aveva infatti riconosciuto l'ex presidente e i figli colpevoli di aver sottratto fondi pubblici per un valore di 100 milioni di lire egiziane, circa14 milioni di dollari, destinati alla ristrutturazione dei palazzi presidenziali.