Presentato in Senato disegno di legge su diritto affettività per i detenuti Ansa, 22 gennaio 2015 Colloqui più lunghi e "senza alcun controllo visivo", momenti di intimità con i propri familiari in "apposite aree presso le case di reclusione", possibilità per i magistrati di sorveglianza di concedere permessi, oltre a quelli premio o per motivi gravi, anche per trascorre il tempo con la moglie e la famiglia, e per i detenuti stranieri telefonate anche con i parenti all'estero. Questo prevede un disegno di legge per l'affettività in carcere presentato dal senatore Sergio Lo Giudice e firmato da una ventina di colleghi, in maggioranza del Pd, che riprende per intero quello presentato nella passata legislatura da Rita Bernardini, segretario dei Radicali. L'idea è non privare i detenuti del diritto di mantenere rapporti affettivi, garantendo incontri più frequenti e consentendo spazio e tempo per i rapporti con il proprio partner, coniuge o convivente. "Affettività e sessualità in carcere - nota il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani, tra i firmatari del ddl - sono sempre visti con uno sguardo morboso" e "come se l'interdizione dal sesso fosse una parte della pena". Secondo Rita Bernardini "negare un diritto inderogabile come quello alla sessualità e all'affettività rientra tra i trattamenti inumani e degradanti vietati dalla Costituzione". Franco Corleone, garante dei detenuti della Toscana, parla di "un'inadempienza che viene da lontano" e ricorda che negli anni 80 le detenute mettevano in atto la protesta del "salto del banco" per reclamare "il diritto all'amore", ma "ancora in una ventina di carceri - dice - esistono i banconi di separazione per i colloqui". "Siamo in presenza di ostilità particolarmente tenaci - aggiunge Manconi che si è impegnato a portare in discussione il testo - ma non è un buon motivo per non provarci". Con le "stanze dell'amore" il carcere diventa più umano per i detenuti Redattore Sociale, 22 gennaio 2015 Presentato il disegno di legge sulle relazioni affettive e familiari. Bernardini (Radicali Italiani): "Questione di diritti umani inalienabili". Lo Giudice (Pd): "Alti contagi da Hiv perché oggi preservativi in carcere illegali". Favero (Ristretti Orizzonti): "Questione poco affrontata". Realizzazione di "stanze dell'amore" in carcere, ovvero locali idonei all'interno della struttura penitenziaria dove i detenuti possano intrattenere rapporti affettivi senza controllo visivo; permessi fino a 15 giorni per ogni semestre di carcerazione; possibilità di incontri con i propri familiari in aree all'aperto nelle strutture carcerarie mezza a giornata al mese; concessione di telefonate più lunghe di quelle attuali per i detenuti che hanno i propri familiari all'estero: sono le novità contenute nel ddl 1587 "Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni in materia di relazioni affettive e familiari dei detenuti", presentato questa mattina al Senato. Obiettivo espresso dal disegno di legge è: "Rendere più umano il periodo di detenzione, affinché alla fine della pena, sia più facile il reinserimento nella famiglia e nella società". Per Sergio Lo Giudice senatore Pd, primo firmatario del disegno di legge è necessario affrontare "il dramma di una sessualità estirpata, di atti rubati di autoerotismo illegale - poiché in carcere sono atti osceni in luogo pubblico", "di un'omosessualità oltraggiata dall'essere oggetto di costrizione, di un alto tasso di contagi da Hiv perché i preservativi in carcere sono illegali", "di un'astinenza che produce rotture di rapporti e di chi finisce una pena trovandosi completamente solo". "Mettere in cattività, negare una sfera che è parte integrante dell'essere umano è una lesione dei diritti umani inalienabili" ha affermato Rita Bernardini Segretaria di Radicali Italiani. Per Bernardini la negazione della sessualità costituisce "un trattamento inumano e degradante punito da nostra costituzione e della corte europea diritti dell'uomo". La segretaria dei Radicali ha evidenziato come non si tratti solo dei diritti del detenuto ma anche di quelli del coniuge o convivente e dei figli minori. Il dramma dei detenuti che si trovano a dover scegliere quale familiare chiamare durante l'unica telefonata di 10 minuti che gli viene concessa ogni settimana è stato affrontato da Ornella Favero, giornalista direttrice della Rivista Ristretti Orizzonti che al tema dell'affettività e della sessualità in carcere ha dedicato l'intero ultimo numero del periodico, titolato "Condannati a non amare". Favero ha raccontato che in un recente seminario per giornalisti in carcere, le testimonianze drammatiche dei figli dei detenuti avevano sconvolto non solo gli operatori dei media, ma anche gli stessi operatori della struttura penitenziaria, sottolineando quanto poco la questione - e le sue conseguenze - venga trattata dal dipartimento per l'amministrazione penitenziaria. Desi Bruno, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale dell'Emilia Romagna, ha affermato come i luoghi per l'affettività in carcere siano "necessari proprio per coloro, come gli ergastolani, sono lontani da possibilità di permessi per uscire", "mentre attualmente è esattamente il contrario". "Per umanizzare la pena non basta essere sopra i 3mq, ha detto Bruno, superato il sovraffollamento serve sollevare la necessità di attività altre, come il lavoro, l'affetto". "Gli spazi ci sono e la tecnologia può aiutare". "Più umanità in carcere": ai detenuti tempo libero col proprio partner La Repubblica, 22 gennaio 2015 Tre ore al mese in un locale non controllato: è il cuore del ddl presentato dal senatore dem Lo Giudice. "Non restituiamo alla società uomini e donne incattiviti da privazioni dolorose". Un incontro al mese di tre ore con il proprio coniuge o partner in un locale non controllato; mezza giornata con i propri cari in apposite aree; qualche giorno di permesso in più da trascorrere in famiglia: sono queste le proposte contenute nel disegno di legge che il senatore del Pd Sergio Lo Giudice ha presentato oggi " per riportare l'umanità in carcere e non restituire alla società donne e uomini incattiviti da privazioni così dolorose. Il benessere affettivo e sessuale e il mantenimento dei rapporti familiari sono bisogni fondamentali che appartengono anche alle persone ristrette e ai loro cari". "La censura assoluta della sfera sessuale in ambito penitenziario rimanda a un'idea di persona detenuta non-uomo o non-donna", commenta Luigi Manconi (Pd), che ha firmato il ddl. Rita Bernardini, segretaria di Radicali Italiani e depositaria nella scorsa legislatura dello stesso disegno di legge auspica "tempi e spazi che permettano ai detenuti di coltivare i rapporti con i familiari, aprendo anche alla possibilità di avere rapporti intimi con coniugi o conviventi". Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti Orizzonti che da tempo solleva il tema anche con iniziative dentro le carceri, suggerisce la "liberalizzazione delle telefonate": "Questo Natale un detenuto ha dovuto scegliere tra telefonare alla madre o alla figlia. In carcere gli affetti si curano con i colloqui e con le telefonate: quale prevenzione dei suicidi è migliore di una telefonata a casa?". Giustizia: misure alternative, la statistica "gonfiata" del Ministro Orlando di Riccardo Arena www.ilpost.it, 22 gennaio 2015 Qualche giorno fa, il Ministro Andrea Orlando si è rivolto alle Camere per fare il punto sullo stato dell'amministrazione della Giustizia. Ebbene, in quella relazione è stato fornito ai parlamentari (e quindi a noi cittadini) un dato che non corrisponde a verità, quello relativo al numero delle persone sottoposte a misura alternativa alla detenzione. Un dato definito importante dallo stesso Ministro, tanto da porlo in stretta correlazione con il calo delle persone detenute nelle carceri italiane. E infatti il Ministro, dopo aver sottolineato che l'emergenza carceraria è stata superata (anche se chi sta in carcere non se né accorto), ha affermato che contemporaneamente al calo dei detenuti: "Sono aumentate le misure alternative alla detenzione fino ad arrivare, al 31 dicembre 2014, a 31.962". Una "bufala". Un dato statistico gonfiato e quindi falso. Una falsità che viene smentita dagli stessi dati presenti proprio sul sito del Ministero della Giustizia. Dati che svelano come si è giocato con i numeri. Ecco il trucco: tra coloro che sono stati ammessi a una misura alternativa, sono stati aggiunti altri soggetti che nulla hanno a che vedere con tale beneficio. E così, tra le 31.962 misure alternative di cui ha parlato il Ministro Orlando, ci ritroviamo: 5.606 persone che svolgono un lavoro di pubblica utilità (che è una pena e non una misura alternativa), 3.541 persone sottoposte a libertà vigilata o controllata (che è una misura di sicurezza), oltre a 6 persone in semidetenzione. Totale: 9.153 persone in più, che non sono poche. Ma non finisce qui. Infatti, guardando sempre i dati presenti sul sito del Ministero della Giustizia, ci si accorge che non è neanche vero che le misure alternative sono aumentate così tanto, come ha detto il Ministro della Giustizia. Invero, nel 2014 solo 82 persone in più hanno ottenuto tale beneficio rispetto al 2013. Non proprio quel che si direbbe un risultato lusinghiero. Churchill diceva: "Le sole statistiche di cui ci possiamo fidare sono quelle che noi abbiamo falsificato". Personalmente, non credo che il Ministro Orlando sia in cattiva fede. Anzi credo che abbia solo riportato dei dati che qualcuno del suo staff gli ha confezionato. Ma domando: chi è che fornisce dati falsi al Ministro della Giustizia? E infine, se si alterano i dati sulle misure alternative, perché fidarsi dei dati sulle presenze in carcere forniti dal Ministero? Giustizia: considerazioni sull'intervento del guardasigilli Andrea Orlando alla Camera di Anna Muschitiello* Ristretti Orizzonti, 22 gennaio 2015 Il Ministro Andrea Orlando nel riferire al Parlamento sullo stato della Giustizia e sulle strategie attivate dagli ultimi Governi e dal Parlamento, per andare incontro alle Raccomandazioni del Consiglio d'Europa che raccomanda ai Governi nazionali e in particolare all'Italia di favorire le sanzioni di comunità, pene che non contemplano soltanto la segregazione del condannato dal consorzio civile, ma che hanno anche l'obiettivo di recuperare il rapporto e la relazione tra l'autore del reato e il contesto sociale, ha dichiarato di aver"…rafforzato e ampliato le misure alternative alla detenzione e, per sostenere tale evoluzione, gli uffici che si occupano dell'esecuzione penale esterna, nell'opera di riorganizzazione avviata, saranno collocati in un nuovo Dipartimento, insieme agli uffici della giustizia minorile, che hanno già maturato, sul terreno della probation, una grande esperienza e notevoli capacità di attuazione concreta di percorsi alternativi alla detenzione". I 948 funzionari di servizio sociale che nel 2013 nel settore adulti si sono occupati di dare esecuzione a 68.200 sanzioni e misure alternative alla detenzione (con un rapporto procedimenti/risorse umane di 66:1), oltre a prestare consulenza ai Tribunali di sorveglianza per le richieste di ammissione alle misure alternative e alle sanzioni sostitutive e agli Istituti Penitenziari per l'osservazione e il trattamento dei detenuti, ritengono opportuno informare il Signor Ministro che, da circa 40 anni gestiscono le misure alternative al carcere e per questo ritengono di aver maturato una qualche esperienza, infatti, ci sono stati anni in cui il numero di soggetti ammessi alle misure alternative equiparavano i soggetti detenuti e nonostante le scarse risorse umane e materiali messe a loro disposizione gli operatori degli Uepe hanno raggiunto risultati, dimostrati anche da diverse ricerche sui tassi della recidiva. (19% per i soggetti ammessi all'affidamento al servizio sociale e 68% per i dimessi dal carcere). Nel 2014 l'insieme dei casi trattati è quasi raddoppiata e pur non avendo i dati definitivi basta citare la situazione al giugno 2014 con oltre 50.000 sanzioni /misure alternative. Se ciò non bastasse, nel 2014 con l'approvazione della legge sulla messa alla prova, gli UEPE sono stati interessati da 6.052 richieste, alle quali, sempre gli stessi funzionari di servizio sociale stanno dando risposte, maturando anche in questo campo esperienza e capacità di attuazione, pur in assenza di formazione specifica e supporto. Pur condividendo lo spirito della riorganizzazione degli uffici con l'accorpamento di giustizia minorile ed esecuzione penale esterna per adulti, affermiamo, senza timore di smentita, che tale operazione se non governata adeguatamente potrà avere conseguenze, che non è esagerato definire "devastanti", con buona pace delle Raccomandazioni europee e del rafforzamento del ricorso alle sanzione di Comunità. *Funzionario della professionalità di servizio sociale Giustizia: Rita Bernardini; i trattamenti inumani e degradanti nelle carceri sono cessati? di Vittoria Dolci www.clandestinoweb.com, 22 gennaio 2015 La piaga che da tempo affligge l'Italia in tema di carceri, quella relativa al sovraffollamento, sembra essere stata debellata, stando a quanto affermato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "Siamo in una stagione cupa, nella quale la crisi economica fa crescere la paura e c'è chi utilizza la paura per comprimere i diritti. Essere riusciti ad affrontare il tema del sovraffollamento "contromano" e già una conquista e un approdo importante", ha spiegato il Guardasigilli in aula al Senato nella sua replica al dibattito sulla relazione dell'amministrazione della giustizia. Intanto a commentare l'intervento che il ministro della Giustizia è il presidente dell'Organismo Unitario dell'Avvocatura, Mirella Casiello, che attraverso una nota: "Importante il riconoscimento del ruolo dell'Avvocatura, ma molto c'è ancora da fare. Purtroppo, negli ultimi 20 anni, abbiamo assistito a causa di una visione distorta ed economicista della Giustizia a uno svilimento del ruolo dell'avvocato con gravi conseguenze per i cittadini si è addirittura teorizzato, di fatto, una giurisdizione di seria A per le imprese e una di serie B per tutti gli altri. Con questo ministro si è avviata un'inversione di rotta, ma ora è necessario proseguire con decisione tenendo la barra dritta su alcuni principi: universalità del sistema e modernizzazione della macchina giudiziaria". In merito poi ai numeri sulle carceri italiane, Orlando ricorda che "al 31 dicembre del 2014 erano 53.623, un numero che si è stabilizzato negli ultimi mesi" e ha aggiunto come nel mese di dicembre del 2013 i detenuti "erano 62.536 e nel momento della condanna da parte dell'Europa 66 mila", sostenendo che tali risultati sono stati "ottenuti senza il ricorso a misure straordinarie come amnistia o indulto". Su questo punto interviene la segretaria di Radicali Italia, Rita Bernardini, che sulla propria pagina Facebook scrive: "Quel che non dice Orlando (e non solo lui) sulle carceri: i trattamenti inumani e degradanti sono cessati? Chi è stato sottoposto in passato a trattamenti che vanno sotto il titolo di tortura, ha la possibilità di essere risarcito come richiesto tassativamente dalla Corte di Strasburgo? Le risposte sono "no" e "no", in spregio al messaggio costituzionale di Napolitano. E la riforma della giustizia tanto proclamata, ‘ndo sta?". Giustizia: mense in carcere, coop incontrano Dap. Apertura per salvare commesse esterne di Ambra Notari Redattore Sociale, 22 gennaio 2015 Nel giorno degli incontri individuali con il capo del Dipartimento Santi Consolo, si discute sul futuro delle coop dopo il mancato rinnovo del finanziamento da parte della Cassa ammende (circa 6 milioni di euro). Sono le dieci realtà che gestiscono le mense di nove delle maggiori carceri italiane. Dalle 9.30 fino alle 18.45 di oggi, 21 gennaio, al Dipartimento amministrazione penitenziaria il capo Santi Consolo incontra la cooperativa Ecosol di Torino; la Divieto di sosta di Ivrea; la Campo dei miracoli di Trani; L'Arcolaio di Siracusa; La Città Solidale di Ragusa; Men at Work e Syntax Error di Rebibbia; Abc di Bollate (Milano); Pid di Rieti e la Giotto di Padova. Sono le dieci realtà che gestiscono le mense di nove delle maggiori carceri italiane. A dicembre la Cassa delle ammende non ha rinnovato il loro finanziamento (circa 6 milioni di euro). È il giorno dei colloqui individuali per stabilire il futuro delle cooperative. Gli ultimi a parlare saranno Syntax Error e Men at work, le due cooperative romane. "Annunceremo la nostra chiusura: questo incontro non servirà a nulla", dichiara Maurizio Morelli di Syntax Error. Proprio a febbraio Syntax error avrebbe potuto cominciare a lavorare con i cinema romani per una commessa di quattro mesi. Obiettivo del progetto (lanciato ormai dieci anni fa) era proprio rendere autosufficienti dal punto di vista economico le cooperative. "Sarebbe stata un'occasione - dice Morelli - avevamo bisogno di più tempo per consolidare ciò che abbiamo cominciato". Non tutte le cooperative sono nella stessa situazione. A Bollate, per esempio, il fatturato viene per il 70% da commesse esterne e per il 30% dal lavoro nella mensa del carcere. Il Dap ha giustificato la decisione di incontrare singolarmente le cooperative proprio per valutare "caso per caso" le situazioni. "Non mi costa fare autocritica: non abbiamo avuto lo stesso spirito imprenditoriale di altri - aggiunge Morelli - ma al Dap per mesi lo scorso anno è mancata una guida che potesse puntare sul progetto. Non ci hanno aiutato". Apertura del Dap per salvare le commesse esterne Nasce una collaborazione diretta tra la direzione del penitenziario di Bollate e cooperativa Abc. Lo conferma il direttore Parisi: "Importante salvare quest'esperienza". Boscoletto (cooperativa Giotto, Padova): "Registriamo l'impegno del Dap a salvare le attività esterne per mantenere i posti di lavoro". Il carcere di Bollate mantiene in vita la mensa a gestione della cooperativa Abc - La sapienza in tavola, una delle dieci a rischio chiusura dopo il niet del Dipartimento di amministrazione penitenziaria ad un rifinanziamento per il 2015, tramite Cassa delle ammende. Lo afferma il direttore del carcere di Milano Bollate, Massimo Parisi, il quale ha già cominciato questa nuova sperimentazione a partire dal 15 gennaio, data in cui si è esaurito il fondo della Cassa delle ammende per il progetto. "Al momento i detenuti trovano la stessa situazione che c'era prima del 15 gennaio", afferma il direttore del carcere. Per poter salvare l'esperienza Parisi ha stretto con la cooperativa "una collaborazione" per impiegare i detenuti a mercede nella cucina. In sostanza, quindi, Abc mantiene la commessa della mensa a cui somma quelle esterne costruite in questi anni, che ormai pesano per il 70% del fatturato. "Per noi è un percorso di grande importanza per la vita all'interno del carcere", continua Parisi. Un dato che è dedotto dall'esperienza perché, conferma il direttore di Bollate, "non esistono studi sull'impatto di questo progetto nelle carceri". Secondo Parisi, i detenuti dipendenti di Abc "hanno avuto un graduale inserimento nella società", dato che merita almeno una nuova sperimentazione per salvare l'esperienza. Positivo è anche l'atteggiamento di Nicola Boscoletto, presidente della cooperativa Giotto, appena uscito dall'incontro a Roma con il capo del Dap Santi Consolo. "Registriamo - spiega - una grande disponibilità a fare in modo che nessuna attività sviluppata collateralmente debba chiudersi. Anzi, da parte del Dap c'è stato l'impegno al massimo sforzo per implementare le attività aprendo nuovi posti di lavoro". Obiettivo quindi è conservare almeno il personale al momento impiegato dalle cooperative per poi allargarsi. L'impegno del Dap però fa seguito alla pubblicazione in data 29 dicembre del documento in cui si legge un taglio del 34% dei fondi alla Commissione Smuraglia (6 milioni di euro contro i 9 richiesti dalle associazioni) con cui si finanziano tutti i progetti in carcere. Iori (Pd): rinnovare gli appalti alle cooperative La proposta della deputata Pd Vanna Iori in un'interrogazione al ministro Orlando che dice: "Proporremo altre soluzioni". Desi Bruno (Garante detenuti Emilia-Romagna): "I detenuti che lavorano retribuiti si reinseriscono nella società una volta fuori". "La possibilità di formarsi e di lavorare in carcere è uno strumento potentissimo per allontanare le persone dalla criminalità: in 10 anni, negli istituti penitenziari dove si è applicata la sperimentazione, il tasso di recidiva è crollato dal 70 al 2 per cento": forte di questi dati, la deputata reggiana Vanna Iori (Pd) ha presentato un'interrogazione alla Camera. Un'interrogazione per chiedere al ministro della Giustizia Andrea Orlando di rinnovare gli appalti in carico alle cooperative per la gestione delle cucine all'interno degli istituti penitenziari. "Il ministro Orlando ha spiegato che proseguire su questa strada è impossibile per impedimenti tecnici, ma che saranno proposte altre soluzioni. Quindi non chiudere questi appalti, ma ripensarli, magari anche ampliarli". Immediata la contro-risposta di Iori, anche membro della commissione Giustizia della Camera: "Sono parzialmente soddisfatta, ma ora è bene chiarire cosa si voglia fare e con che tempistiche, perché la questione è urgente". Secondo la deputata, i detenuti che lavorano nelle carceri, con stipendi regolari allineati ai contratti collettivi nazionali, possono pagarsi il soggiorno in carcere, le spese legali, le tasse e i risarcimenti alle vittime dei reati, determinando un risparmio per le casse dello Stato. "Non solo: nei 10 penitenziari che hanno aderito alla sperimentazione, è migliorata di molto la qualità dei pasti e dell'igiene". Iori chiede anche al ministro un punto su questi primi 10 anni di sperimentazione, affinché le esperienze migliori siano mandate avanti: "Tutti gli studi, italiani e non, indicano che la logica della responsabilizzazione dei detenuti attraverso il lavoro è positiva; l'idea di punizione, invece, causa disagio, violenze e recidiva". Completamente d'accordo Desi Bruno, Garante dei detenuti dell'Emilia-Romagna: "Lavorare è il fondamento dell'attività penitenziaria, e non solo perché lo dice la legge, ma perché è davvero così. Perciò, ben venga l'interrogazione della parlamentare Iori - spiega -. I detenuti che lavorano retribuiti riescono a trovare la motivazione, a riprendere le relazioni con i famigliari, a reinserirsi nella società una volta fuori. Non sentono di avere perso tempo, ma di averlo investito in qualcosa di buono". Purtroppo, non si tratta certo di una prassi, ma di sperimentazioni fin troppo isolate, e cita l'officina meccanica Fare impresa in Dozza a Bologna e la Pasticceria Giotto del carcere di Padova: "Sono interventi di nicchia, che non rispondono se non in minima parte alle effettive necessità". Bruno sottolinea con forza la diversità tra lavori socialmente utili e lavori retribuiti, spesso confusi e citati a sproposito: "I lavori socialmente utili sono un'attività riparatoria, quelli retribuiti sono una possibilità di reinserimento. Vogliamo uno stipendio diverso rispetto a quello normale? Più basso? E sia. Ma non possiamo togliere anche quello ai detenuti: significherebbe togliere loro la speranza". Quanto all'intervento di Orlando, "avrei preferito che le sperimentazioni avessero potuto proseguire ed essere, anzi, estese. Ovunque, in tutti gli istituti penitenziari italiani sarebbe necessario affidare la gestione del cibo alle cooperative: in un colpo si risolverebbero i problemi legati alla qualità e al sopravvitto (le spese extra, quando il vitto che passa il carcere non è sufficiente, a carico del detenuto, ndr). Non solo: si responsabilizzerebbero maggiormente i detenuti, chiamati a prendersi cura del proprio corpo e dell'alimentazione. Purtroppo, sull'onda di altri avvenimenti, si mette in crisi tutto…". Giustizia: carceri, situazione leggermente migliorata negli istituti penitenziari italiani di Lorena Cacace www.nanopress.it, 22 gennaio 2015 La giustizia italiana ha problemi endemici che da decenni attendono una soluzione, a partire dallo stato delle carceri e dei detenuti. Siamo stati a un nulla dal pagare una maxi multa imposta dall'Europa per il sovraffollamento, cosa che ha portato gli ultimi governi a correre ai ripari con decreti che riducessero la popolazione carceraria. Qual è allora lo stato attuale degli istituti di pena italiani? Si sta risolvendo il problema delle carceri e delle condizioni di vita dei detenuti? Cosa si sta facendo perché il nostro Paese rientri negli standard richiesti dalla legge e dalla Convenzione Europea per i Diritti Umani? A fare chiarezza ci sono i numeri evidenziati dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Il dato da cui sono partite le istituzioni europee è quello della sovrappopolazione carceraria in Italia. Da anni, se non decenni, sappiamo che le prigioni nostrane scoppiano di detenuti, con condizioni di vita al limite della dignità umana. Qualcosa si sta muovendo: il timore di essere di nuovo nell'occhio del ciclone ha portato la politica a occuparsi del problema, come spesso accade, sotto la minaccia di maxi multe. Alla legge 9 agosto 2013, n. 94, che ha convertito il decreto legge 1 luglio 2013, n. 78, contenente "Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena", è seguita la legge 11 agosto 2014, n. 117 che ha reso esecutivo il decreto Carceri. In questo caso, si è agito per andare a colmare i vuoti sul risarcimento ai detenuti per le condizioni considerate "inumane" dopo la nota sentenza "Torreggiani" con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo aveva condannato l'Italia per la situazione delle carceri. A fronte di questi interventi normativi, lo stato delle carceri nostrane è in leggero miglioramento: vediamo quali sono i numeri ufficiali e cosa non torna. Capienza e detenuti Secondo i dati ufficiali del dipartimento penitenziario ministeriale, il numero dei detenuti totali presenti nelle carceri italiane al 31 dicembre 2014 è di 53.623 persone, di cui 2.304 donne e 17.462 stranieri, ospitati in 202 strutture a livello nazionale la cui capienza è di 49.635 persone. Ci sono quindi 3.988 detenuti in più rispetto al massimo consentito. La situazione è però migliorata rispetto al recente passato. Al 30 giugno 2014, i detenuti totali erano 58.092 (quasi 5mila in più); esattamente un anno fa, al 31 dicembre 2013, erano 62.536, oltre 9mila in più. Il dato è ancora più confortante se paragonato al 2010, quando i carcerati totali erano 68.258, il picco raggiunto dal 1991 (anno in cui sono iniziate le rilevazioni del Ministero). A livello globale dunque, la popolazione carceraria è diminuita, ma se analizziamo il dato per singole Regioni, ci accorgiamo che alcune situazioni sono ancora oltre il limite consentito. Sono infatti sei le Regioni che hanno una popolazione carceraria inferiore alla capienza massima (Basilicata, Calabria, Piemonte, Sardegna, Toscana e Trentino Alto Adige); le restanti hanno ancora oggi prigioni sovraffollate, con più detenuti rispetto a quanto sarebbe possibile, con variazioni da oltre mille persone fino a 15 unità. Le peggiori sono la Lombardia (7.824 carcerati con 6.064 posti per un surplus di 1.760 persone) e la Campania (7.188 carcerati a fronte di 6.082 posti totali per un surplus di 1.106 persone), seguite da Puglia (3.280 carcerati con 2.377 posti), Umbria (1.404 carcerati contro 1.314 posti) e Veneto (2.475 carcerati con 1.956 posti). Detenuti stranieri Nel totale sono conteggiati al 31 dicembre 2014 anche i 17.462 stranieri presenti (in calo rispetto ai 21.854 registrati nel 2013), che equivalgono al 32,5% sul totale. Con la cancellazione del reato di clandestinità, la presenza straniera è dunque diminuita: sono 4.716 le persone che hanno beneficiato e oggi rimangono in prigione cittadini di nazionalità straniera che hanno commesso altri reati. Per la maggior parte, i detenuti stranieri arrivano dall'Africa (7.821 in totale), seguita dai paesi dell'area europea (7.414), Americhe (1.122) e Asia (1.094). I due paesi più presenti a livello di popolazione carceraria sono il Marocco e l'Albania rispettivamente con 2.955 e 2.437 detenuti, seguiti dalla Tunisia (1.950) e da altri paesi africani (1.803). La Regione che conta il maggior numero di detenuti stranieri è il Veneto con circa il 55% dei detenuti non italiani (1.361 su 2475 ), seguito dalla Toscana con il 48% (1.573 su 3.269), la Lombardia al 44% (3.459 su 7.824), Piemonte al 43,2% (1.551 su 3.589) e Lazio al 43% (2.417 su 5.600). La Campania invece vede la minor presenza di stranieri nella popolazione carceraria con il 12% del totale (887 su un totale di 7.358). Chi è il carcerato medio Licenza di scuola media, dai 35 ai 39 anni, celibe, campano: dai dati del dipartimento penitenziario è questo il ritratto del carcerato medio presente negli istituti di pena nostrani. Questo perché la maggior parte dei detenuti ha tra i 35 e i 39 anni, ha un diploma di scuola media e risiede in Campania. Partendo dal dato dell'istruzione, si nota che la popolazione carceraria vede maggiori percentuali tra chi ha un livello medio-basso di istruzione o non ne ha dato notizia: se del 44% dei detenuti non si conosce il tasso di istruzione, il 33% ha un diploma di licenza media e l'11,5% ha un diploma di scuola elementare, mentre i laureati sono lo 0,08% del totale (498 su 53.623). Tenendo conto della fascia d'età, i detenuti sono racchiusi per la maggior parte in quella che va dai 30 ai 40 anni che rappresenta oltre il 44% della popolazione carceraria; la seconda fascia più rappresentata è quella dei 50enni che sono il 14,9% del totale. A livello regionale emerge che quasi un quinto della popolazione carceraria nazionale proviene dalla Campania, seguita dalla Lombardia da cui proviene il 12,7% dei detenuti, più della Sicilia (6.852 i lombardi contro i 6.772 siciliani). Giustizia: le norme contro il terrorismo ci sono già, pericoloso crearne di nuove e inutili di Rinaldo Romanelli (Componente Giunta dell'Unione Camere Penali) Il Garantista, 22 gennaio 2015 I provvedimenti emergenziali distorcono lo stato di diritto e non risolvono il problema della lotta al terrorismo. Oggi sarà discusso in consiglio dei ministri, insieme ad altri testi normativi, tra cui un decreto legislativo sulle norme sanitarie che disciplinano lo scambio di cani, gatti e furetti nel mercato Ue, il decreto legge antiterrorismo i cui contenuti sono stati sommariamente anticipati alla stampa un paio di giorni orsono, che vorrebbe contrastare i cosiddetti "foreign fighters". In un contesto di pressoché unanime condivisione si impone una riflessione critica ed appare indispensabile, quantomeno, porsi qualche interrogativo. Siamo proprio sicuri che le annunciate modifiche siano effettivamente utili a contrastare eventuali fenomeni di terrorismo internazionale? Quali sono le reali ragioni sottese alla loro introduzione? Ed infine, quali saranno le conseguenze? Alla prima domanda crederei si possa rispondere con ragionevole serenità che no, queste annunciate misure non incideranno effettivamente in modo positivo nell'attività anti-eversione rendendola più efficace. La ragione è semplice: il nostro ordinamento prevede già un nutrito complesso di norme che puniscono le condotte tipiche delle associazioni eversive e sovversive in ogni loro possibile declinazione. Purtroppo il nostro Paese ha dovuto affrontare una lunga e buia stagione di terrorismo ed infatti il primo provvedimento organico in materia risale al 1979 e due nuovi ed incisivi interventi sono stati effettuati nel 2001 e nel 2005, mirati proprio alla prevenzione ed alla repressione delle attività eversive di matrice inter-nazionale. E sufficiente leggere le disposizioni che vanno dall'art. 270 all'art. 270 sexies del codice penale per rendersi conto che, ad esempio, non solo è punita la condotta di arruolamento per finalità di terrorismo anche internazionale, ma anche - ed aggiungerei ovviamente - di chi viene arruolato, posto che diviene parte dell'organizzazione eversiva alla quale aderisce. L'introduzione di una nuova fattispecie che punisca anche l'arruolato è dunque, nella migliore delle ipotesi, inutile. La medesima considerazione vale per la previsione che dovrebbe punire chi organizza, finanzia o propaganda viaggi con finalità di terrorismo, trattandosi di condotta già riconducibile nell'ambito di applicazione delle disposizioni vigenti in materia. Si potrebbe continuare nell'esame delle altre annunciate nuove fattispecie di reato formulando per tutte pressoché le medesime conclusioni, con l'ulteriore considerazione che si creeranno, in fase applicativa, non pochi problemi di sovrapposizione che necessiteranno di una difficile attività esegetica per delineare i rispettivi ambiti di applicazione, anche perché, come d'abitudine, le nuove norme prevedono pene edittali ritoccate verso l'alto. Anche le modifiche annunciate in materia di armi ed esplosivi si inseriscono in una normativa vigente molto articolata e severa, più che idonea a prevenire e punire ogni condotta deviante. Restano i profili amministrativi che dovrebbero consentire l'immediato ritiro del passaporto a chi è sospettato di terrorismo. L'utilizzo del mero sospetto, quale presupposto della limitazione della libertà personale, non può che creare un senso di forte disagio e ripulsa in chiunque non abbia dimenticato quali sono i pilastri sui quali si fonda un moderno stato repubblicano e democratico. Si ritrovano nel pensiero di Locke e poi di Kant, per i quali l'uomo nasce libero, secondo il suo diritto naturale ed inalienabile. Pensiero tradotto nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti di America del 1776 e principi solennemente affermati poco dopo in Francia nel 1789 nella Dichiarazione dei Diritti dell'uomo e del cittadino, nonché con buona pace dei rappresentanti del pensiero unico della legalità, secondo i quali il procedimento penale dovrebbe essere uno strumento di repressione, cui tutto è consentito in nome della ricerca della verità, garantiti quali diritti fondamentali ed inviolabili anche dalla Costituzione della Repubblica Italiana. Prima di trarre le conclusioni in merito alle conseguenze dell'ennesimo intervento volto all'introduzione di nuove fattispecie sanzionatorie, all'inasprimento delle pene ed alla previsione di nuovi strumenti sommari di limitazione della libertà personale, è però opportuno soffermarsi brevemente sulle ragioni che animano il legislatore. Qui l'analisi diviene oggettivamente semplice. L'attentato di Parigi alla sede del settimanale satirico Charlie Hebdo ha destato, giustamente, in tutto il mondo sentimenti di indignazione e di commozione per le povere vittime, per la violenza cieca degli attentatori ed anche perché l'obbiettivo era colpire la libertà di manifestazione del pensiero, altro diritto fondamentale su cui si posano le democrazie occidentali. A questi sentimenti si accompagna però anche un diffuso senso di insicurezza, perché il messaggio che è stato comunemente recepito è che chiunque potrebbe diventare vittima del gesto violento di un manipolo di esaltati o addirittura del "terrorista solitario". Poco importa che qualunque esperto di antiterrorismo, sia esso magistrato o investigatore, ove gliene venisse concessa l'occasione, ci direbbe che in Italia non c'è alcuna reale minaccia del genere (lo ha fatto da par suo il dottor Dambruoso, qualche giorno fa, su un noto canale satellitare dedicato all'informazione, ma non pare che questo abbia scalfito minimamente il ritmo della gran cassa dei catastrofisti). Ed ecco allora il provvido intervento del legislatore, che assecondando le paure della piazza introduce nuove ipotesi di reato (inutili), aumenta le pene (ancor più inutilmente) e fornisce nuovi strumenti repressivi non troppo attenti, per usare un eufemismo, a profili di garanzia per chi ne sia il destinatario. L'obbiettivo reale non è la lotta al terrorismo, per la quale non basta modificare un comma, una norma e aggiungere una qualche nuova e fantasiosa fattispecie di reato, ma bisognerebbe semmai fornire finanze alle anemiche casse delle forze dell'ordine. L'obiettivo è, molto più semplicemente, intercettare il consenso popolare. Le reali conseguenze? Abbiamo purtroppo grande esperienza di legislazione emergenziale e sappiamo che se non serve quasi mai a risolvere il problema che ne è stato occasione, produce sistematicamente distorsioni e ricadute negative sulla vita dei cittadini. In questo caso si realizza addirittura un paradosso che ha, a tratti, dell'ossimoro grottesco: si inasprisce la normativa, come sempre senza attenzione alle garanzie, limitando le libertà personali che sono il senso ed il fondamento stesso della nostra democrazia perché qualcuno - terroristi, integralisti, illiberali - ha attentato appunto, ad un nostro diritto fondamentale, ovvero la libera manifestazione del pensiero. Nel frattempo pare che la popolarità del Presidente francese sia salita del 21% ed è probabile che una fortuna analoga sia toccata a molti dei Capi di Stato che si sono accalcati in prima fila alla Marcia Repubblicana di Parigi. C'è da augurarsi che all'odierno consiglio dei ministri, quando si discuteranno questi temi, lo si faccia con qualche profilo di attenzione in più e con una diversa sensibilità rispetto a quella che sarà dedicata all'argomento delle norme sanitarie sui cani, i gatti e i furetti nel mercato Ue. Giustizia: disegno di legge contro la corruzione, previsti sconti di pena per chi collabora di Simona D'Alessio Italia Oggi, 22 gennaio 2015 Uno "sconto" di pena (grazie a un emendamento da inserire nel testo di riforma del processo penale, al vaglio del parlamento) per chi collabora nelle inchieste su casi di corruzione. È la novità, sulla scorta di quanto previsto dalla legislazione antimafia, annunciata da Andrea Orlando, ministro della giustizia, intervenuto ieri mattina, in aula a palazzo Madama (24 ore dopo averlo fatto a Montecitorio), per riferire sullo stato dell'amministrazione giudiziaria nell'anno appena trascorso. Una strada che colmerebbe una lacuna e si rivelerebbe efficace, dice, giacché una simile misura sarebbe "in grado di rompere la logica di omertà che, spesso, caratterizza le organizzazioni corruttive". Il provvedimento nel quale il guardasigilli punta a immettere la correzione che consentirà un abbassamento della condanna dei collaboratori di giustizia che sveleranno episodi di corruzione, ha appena iniziato l'iter di esame da parte dei deputati della II commissione: si tratta del disegno di legge governativo C 2798, presentato il 23 dicembre 2014, sulle "Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del fenomeno corruttivo, oltre che all'ordinamento penitenziario per l'effettività rieducativa della pena". Nel corso delle repliche ai senatori Orlando rivendica l'introduzione del reato di autoriciclaggio e del meccanismo di confisca dei beni per sproporzione, finalizzato, spiega, ad "aggredire i patrimoni illeciti, anche quando si sono allontanati molto da chi li ha generati". E, sollecitato dal M5s, affronta il tema del falso in bilancio, sostenendo che nella stesura estiva del provvedimento "non avevamo previsto soglie", poi a seguito di una "consultazione nella quale forze sociali ci hanno posto il tema di distinguere tra aziende quotate e non quotate, e di tener conto che alcune aziende hanno strumenti diversi per fare il bilancio", sono state introdotte. Ciò non equivale, chiarisce, a essere "amici dei criminali". Gratteri: pronta riforma antimafia, sono 130 articoli "La riforma antimafia è pronta, sono 130 articoli, l'80% dei quali può essere subito approvato con un decreto. Proprio oggi ho stampato il lavoro definitivo: 246 pagine. Un progetto di riforma a tutto campo per combattere le organizzazioni criminali". Così il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, a capo della Commissione nazionale per la revisione della normativa antimafia, in una intervista a Radio Capital. Ad esempio, prosegue Gratteri, "c'è la proposta di alzare le pene per il 416bis, dai 5 anni di carcere attuali a una pena tra i 20 e i 30 anni. Come per il traffico di droga". E sulle misure contro la corruzione, ha spiegato, "si sta lavorando: io, ad esempio, nella mia commissione ho proposto di utilizzare gli agenti sotto copertura, come per il traffico di droga e di armi, per smascherare i reati contro la Pubblica amministrazione". Giustizia: Cassazione; atti giudiziari fuori dai giornali per evitare condizionamenti giudici di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2015 La Cassazione stringe le maglie sulla pubblicazione degli atti giudiziari. Anzi, a dire la verità, la esclude proprio. Almeno nel settore penale. La Corte, con la sentenza n. 838 della Terza sezione civile depositata ieri ha accolto parzialmente il ricorso presentato dalla difesa di Fedele Confalonieri contro la pronuncia della Corte d'appello di Milano che aveva negato il risarcimento danni per alcuni articoli apparsi sul "Corriere della Sera" nel 2005, nei quali si faceva riferimento al coinvolgimento del manager nelle indagini svolte dalla Procura sui fondi neri del gruppo Mediaset. Due dei motivi di impugnazione facevano leva sulla (asserita) violazione dell'articolo 684 del Codice che sanziona la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale. Nell'affrontare la questione, che comunque riguardava atti depositati dalla Procura che non erano più coperti da alcuna segretezza, la Corte d'appello aveva affermato la legittimità della pubblicazione, dopo avere osservato che il divieto del Codice penale ha come obiettivo la tutela delle regole del dibattimento, con la necessità che il giudice formi le sue convinzioni esclusivamente sugli atti introdotti nel processo e non al di fuori di questo attraverso l'eventuale conoscibilità di atti diversi attraverso i media. Nel caso esaminato, sempre per la Corte d'appello, andava esclusa un'indebita influenza esterna sulla formazione della prova e che la citazione testuale di alcuni atti estendesse, anche per la sua esiguità complessiva, la conoscenza del lettore oltre il contenuto degli atti stessi. La Cassazione ha invece scelto una linea assai più severa, annullando il giudizio su questo punto e rinviando alla Corte d'appello per un nuovo esame: per i giudici va ricordato innanzitutto l'articolo 114 del Codice di procedura penale che ammette sì la pubblicazione, ma solo del contenuto di atti non coperti da segreto, ribadendo comunque, anche con riguardo a questi ultimi, un divieto nel caso di procedimenti ancora in corso. Detto ciò, la Cassazione ricorda che non si può ritenere che la limitatezza della trascrizione possa fondare la legittimità della pubblicazione: si tratta di un requisito del tutto estraneo all'articolo 114. Nella lettura della Corte anche una pubblicazione parziale e limitata nell'estensione, tenuto conto del fondamento del divieto, può comunque avere un "rilevante significato" e contribuire a un condizionamento dell'autorità giudiziaria. Come pure non ha molto senso sostenere che in ogni caso le trascrizioni di brani assai brevi non estendeva la conoscenza oltre il contenuto (questo sì lecito) degli in questione. "Si tratta, a ben vedere - osserva la Cassazione, di caratteristiche proprie di qualunque trascrizione a prescindere dall'estensione, che non possono pertanto valere a derogare dalla previsione generale" e a individuare ipotesi di atti che possono, comunque, essere parzialmente pubblicati. Neppure l'esercizio del diritto di cronaca può giustificare una forma di deroga, dal momento che è comunque assicurata la libera pubblicazione del contenuto degli atti non più coperti da segreto. Non militano in senso contrario a questa conclusione alcuni precedenti della Cassazione stessa, che, per esempio, hanno considerato legittima la pubblicazione di un titolo che sintetizzava il contenuto delle dichiarazioni rese nel corso del procedimento oppure hanno affrontato la questione sotto i diversi profili della diffamazione oppure della violazione del diritto alla privacy. La sentenza depositata ha invece confermato il giudizio della Corte d'appello che aveva negato l'esistenza di una forma di responsabilità per diffamazione a carico dei giornalisti che non trova fondamento nella violazione dell'articolo 684 del Codice penale. Troppo generici i motivi di ricorso e centrati sulla riproposizione di elementi che in punta di merito erano già stati esaminati e respinti nel grado precedente di giudizio. Lettere: atti giudiziari pubblici… vietato scrivere il vero di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2015 È più fedele alla realtà una citazione testuale o un riassunto? Un virgolettato o una perifrasi? Dovendo raccontare un atto giudiziario, il buon senso suggerisce che la precisa citazione virgolettata dovrebbe garantire le persone citate più di una libera sintesi del giornalista. Ma da oggi, attenti: la perifrasi è obbligatoria, i virgolettati proibiti. Tutta colpa di una sentenza della Cassazione contro tre giornalisti del Corriere della Sera - Paolo Biondani, Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella - che avevano scritto, nel 2005, alcuni articoli sull'inchiesta che riguardava i diritti tv Mediaset, citando anche poche frasi tratte dagli atti processuali. Se ne dolse il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, che intentò contro i cronisti due cause, una penale e una civile. Le perse entrambe, in primo grado e in appello. I giornalisti avevano infatti raccontato l'inchiesta senza diffamare nessuno e rispettando le tre condizioni canoniche: avevano scritto notizie vere, di interesse pubblico ed esposte con continenza. Le avevano ricavate da atti non più coperti da segreto, il cui contenuto, dice la legge, può dunque essere reso pubblico. I giudici avevano inoltre ritenuto che le citazioni testuali erano così poche, rispetto alla mole degli atti, da "non estendere la conoscenza del lettore oltre il limite del contenuto degli atti". Ora la Cassazione cambia musica. Confalonieri, attraverso i suoi avvocati Stefano Previti e Alessandro Izzo, aveva chiesto 200 mila euro di risarcimento per diffamazione, violazione della privacy e pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale. La suprema corte, esclusa la violazione della privacy, ha ribadito che non c'è diffamazione, vista "la pacifica aderenza" dei resoconti giornalistici "al contenuto degli atti". Ma afferma che pubblicazione arbitraria c'è stata: perché un paio di articoli del codice vietano la pubblicazione "di atti o documenti di un procedimento penale di cui sia vietata per legge la pubblicazione" (articolo 684) e "di atti non più coperti da segreto" (articolo 114), di cui può essere raccontato solo "il contenuto". Chi trasgredisce se la cava con una contravvenzione, così è prassi comune che i giornalisti raccontino le inchieste pubblicando anche citazioni testuali, di cui di solito non si duole nessuno. Ma ora la terza sezione civile della Cassazione ha annullato la sentenza che aveva rigettato la pretesa risarcitoria di Confalonieri: dovrà essere riesaminata in un nuovo appello. Ha sancito che la pubblicazione dei virgolettati è illegittima: "Fatta salva la possibilità di pubblicare il contenuto di atti non coperti da segreto, non può derogarsi al divieto di pubblicazione (con riproduzione integrale o parziale o estrapolazione di frasi)". Non ammessa neanche la "modica quantità": perché, "quanto al dato quantitativo, non si rinviene nella norma alcuna deroga che consenta la trascrizione di brani di limitata estensione ". Le conseguenze per la libertà di stampa paiono enormi. Se passa il principio sostenuto dalla Cassazione, d'ora in avanti non potrà più essere pubblicata sui giornali e sul web o letta in tv neppure una parola degli atti giudiziari, che dovranno essere raccontati con incerte e più insicure perifrasi. Altrimenti, chiunque sia citato, anche correttamente, potrà chiedere un risarcimento, ben più pesante della oblazione fin qui possibile. La situazione è aggravata dal fatto che ci sono cinque anni di tempo per aprire una causa: dunque da oggi potrebbero essere avanzate centinaia o addirittura migliaia di richieste di risarcimento per tutti gli articoli e i servizi su giornali, web e tv negli ultimi cinque anni. Un super bavaglio. Napoli: il carcere di Poggioreale si è svuotato, ma cinque infermi sono rimasti in cella di Luigi Nicolosi Roma, 22 gennaio 2015 I detenuti sono affetti da gravissimi problemi psichici e sono in isolamento all'interno della struttura carceraria. La denuncia del presidente di Antigone: "Una vergogna". Cinque detenuti affetti da infermità o seminfermità mentale reclusi in isolamento nel penitenziario di Poggio-reale. Il tutto in spregio al più elementare buon senso ma anche, e soprattutto, alle disposizioni impartite del ministero della Giustizia. "Oggi Poggioreale non è più quel monumento all'inciviltà che è stato per anni. Persistono però ancora delle criticità. Alcune estremamente gravi. Su tutte le condizioni di detenzione all'interno del padiglione Avellino destro". A lanciare l'allarme è l'avvocato Mario Barone, presidente di Antigone-Campania, che in occasione della presentazione di "Carceri. 1 confini della dignità", l'ultimo libro di Patrizio Gonnella, fa il punto sui passi in avanti, e indietro, compiuti dal sistema penitenziario campano. Stando a quanto emerso nell'ambito dell'ultimo sopralluogo effettuato dall'associazione Antigone, nell'Avellino destro sarebbero ancora oggi recluse almeno cinque persone affette da disagi di natura psichiatrica, "detenzione che continua ad avvenire in condizioni di totale isolamento", denuncia Barone. Già nel 2013, proprio sulla scorta dei report di Antigone, era stata posta all'attenzione della Camera dei deputati un'interrogazione. In sostanza, si richiedeva al ministero della Giustizia di far luce e fornire spiegazioni circa la presenza di detenuti isolati proprio nell'Avellino destro. Una forma di detenzione vietata tra l'altro proprio dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria per scongiurare, nei limiti del possibile, episodi di autolesionismo e suicidio. Ad oggi, almeno sotto questo aspetto, le cose a Poggioreale non sembrano essere cambiate più di tanto. Non manca però anche qualche spiraglio di luce: "Sul fronte del sovraffollamento, grazie alla riduzione di circa mille unità, c'è stato deciso miglioramento. Lo stesso si può dire per quel che concerne i rapporti fra detenuti e agenti, più distesi rispetto al recente passato, e la cura degli spazi comuni", prosegue Barone. Che subito apre però un altro fronte: "Il 31 marzo chiuderanno gli Opg, ma il nuovo sistema, basato su articolazioni aperte all'interno delle strutture carcerarie esistenti, non va affatto bene. Di fatto stiamo aprendo le porte degli istituti penitenziari anche ai disagiati psichici". Insomma, il pantano in cui versa il sistema penale italiano sembra ancora ben lungi dall'essere ripulito. Una battaglia che, dati e sentenze alla mano, non è risolvibile solo sul piano degli spazi. Per Patrizio Gonnella, presidente nazionale di Antigone, "la questione non può essere ridotta al dubbio che tre metri quadrati per ogni detenuto siano sufficienti o meno. Il punto è che questi spazi devono essere "riempiti" con nuove occasioni di riscatto. Senza queste è inimmaginabile qualsiasi ipotesi di reinserimento sociale del detenuto. Serve una regia forte di sistema, al più presto". Alla presentazione del libro di Gonnella, cui hanno preso parte anche il senatore Giuseppe De Cristofaro (Sel) e Raffaele Cimmino, coordinatore provinciale di Sel, ha lasciato il segno l'intervento di Domenico Ciruzzi, vicepresidente dell'Unione delle Camere penali italiane, quanto mai perplesso di come "oggi si continui a parlare solo di incremento delle pene. L'ennesima scorciatoia con cui lo Stato vuole coprire le proprie mancanze. E mi riferisco, ad esempio, all'introduzione del reato di omicidio stradale o alla criminalizzazione dell'immigrazione clandestina. Il fine rieducativo della pena oggi è completamente venuto meno". Reggio Emilia: comunicato Cisl sulla situazione dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario www.modena2000.it, 22 gennaio 2015 "Opg, se la direzione del carcere latita sui problemi di ordine quotidiano, la direzione dell'Ausl non predispone una turistica e un organico adeguato". Questa la posizione della Cisl all'indomani della recente discussione sull'ospedale psichiatrico giudiziario. "Finora sui problemi dell'Opg - spiega il segretario della Cisl Funzione Pubblica Davide Battini - abbiamo assistito soprattutto alle gravi carenze dell'amministrazione penitenziaria per quanto riguarda i problemi materiali e la soluzione delle problematiche legate alla struttura. Mentre da parte dell'Ausl il personale e la sua turnistica non sono adeguati. Ancora oggi con reparti aperti dove sono presenti tra i 25 e gli oltre 30 pazienti psichiatrici troppo spesso sono presenti solo due operatori invece dei tre previsti". "Inoltre - prosegue Battini - nonostante si sia più volte sollecitati Azienda Usl e Direzione dell'Opg continua a mancare la stanza di decompressione (dove accogliere i pazienti in crisi, ndr). Questa carenza mette gravemente a rischio sia i pazienti che gli operatori. Ora, in vista del superamento di queste strutture che cederanno il passo alle Rems, speriamo che la responsabilità diretta dell'Ausl cambi una situazione insostenibile". Negli ultimi 12 mesi l'Opg è stato al centro di ripetuti incontri tra sindacati e Ausl. "Abbiamo denunciato ripetutamente, anche nell'ultimo anno, all'Ausl i problemi che ogni giorno i professionisti sanitari che lavorano nella struttura di via Settembrini ci segnalano - spiega Battini -. Sono praticamente gli stessi sollevati anche da Don Simonazzi: in primis carenze di igiene e sicurezza ma anche assenza di strumenti da lavoro e gestione dei pazienti in crisi". Soprattutto riguardo il primo punto, le carenze igieniche e di sicurezza, Battini ricorda che "quando avevamo posto il problema alla direzione dell'Ausl, questa aveva risposto che ‘trattasi di materie di competenza dell'Amministrazione penitenziaria e sottolineando, sempre nello stesso documento, anche che ‘laddove le carenze, in particolare sugli aspetti igienici, determinano situazioni di emergenza sanitaria configurando veri e propri bisogni assistenziali, l'azienda ha provveduto e continuerà a provvedere garantendo gli interventi e forniture necessarie. È vero che l'Azienda interviene ma, anche dopo anni di esperienza, l'intervento non sempre è tempestivo ma avviene solo a seguito di situazioni di emergenza". A primavera, su richiesta dei sindacati, era stato organizzato un incontro congiunto tra sindacati e le direzioni dell'Ausl e del carcere. Nonostante questo continuano a ripetersi gli stessi problemi. "Speriamo che il prossimo futuro sia di segno opposto, - riprende Battini, per questo vediamo con favore che il tema venga discusso in Comune, come evocato dal consigliere comunale Daniele Marchi, ma soprattutto che si proceda celermente al superamento, speriamo questa volta senza proroghe, degli Opg". Reggio Emilia: nota dell'Ausl in merito alle dichiarazioni sull'Opg del segretario Fp-Cisl www.modena2000.it, 22 gennaio 2015 Alcune considerazioni in merito alle dichiarazioni rilasciate dal segretario della Cisl Funzione Pubblica reggiana, Davide Battini, sulla situazione dell'Opg. Nel 2008, quando le competenze sanitarie degli Opg sono passate alle Aziende Usl, il personale medico dipendente era costituito da tre persone (il direttore, uno psichiatra, un igienista). Il personale infermieristico dipendente da 8 unità. A questi si aggiungevano medici e operatori del comparto con diverse tipologie professionali. Nel 2015 il personale dirigente dipendente è composto da 7 psichiatri (di cui un Direttore) e 3 psicologi. Il personale infermieristico e tecnico mediamente presente nell'anno 2014 è risultato essere così composto: 34.5 infermieri, 23 operatori socio sanitari e di supporto all'assistenza, 4 tecnici della riabilitazione psichiatrica. Come è noto uno dei maggiori problemi dell'Opg era il sovraffollamento; il grande lavoro di dimissione di ricoverati ha permesso oggi di avere una situazione del tutto differente: i pazienti il 1 gennaio 2009 erano 275, son diventati oltre 300 nell'anno successivo per poi diminuire costantemente. Il 1 gennaio 2015 i ricoverati in Opg erano 143. Da ciò consegue che il rapporto operatori-pazienti, già molto aumentato nel 2008 rispetto alla gestione precedente, è più che raddoppiato nel corso di questi anni, in seguito al dimezzamento dei numero dei pazienti. La tabella sotto riportata indica il numero dei pazienti presenti il 31/12 di ogni anno e il corrispettivo numero di infermieri, personale di supporto e tecnici sanitari presenti nella medesima data. Dai dati esposti in tabella si evince che nel 2009 ogni operatore aveva in carico mediamente 5.5 pazienti, mentre nel 2014 ogni operatori aveva invece in carico 2.3 pazienti. Le eventuali variazioni di organico che si possono essere presentate sono state valutate dal coordinatore infermieristico e tecnico, in rapporto con le condizioni dei pazienti e, se ritenute compatibili, autorizzate. Inoltre, il personale dell'Opg, dietro autorizzazione della Regione Emilia-Romagna, non è stato soggetto ad alcun tipo di blocco del turnover, in deroga alle recenti normative sulla spending review ed è stata sempre garantita la sostituzione del personale. Per migliorare la gestione delle emergenze, e superare l'utilizzo della stanza di contenzione di cui veniva fatto un uso massiccio, l'Azienda USL ha previsto l'allestimento di una camera di decompressione, in cui la crisi possa essere gestita con umanità e in sicurezza (sono già stati effettuati i sopralluoghi e i lavori inizieranno il giorno 22 gennaio 2015). Per quanto attiene alle carenze logistiche, strutturali e alberghiere ribadiamo che l'Azienda Usl non solo non ha il mandato per intervenire ma neanche la discrezionalità per farlo, trattandosi di interventi di stretta competenza della amministrazione carceraria. Nonostante questo, come emerso in diverse occasioni, anche in sede di confronto sindacale, l'Azienda Usl di Reggio Emilia, con l'assenso dell'Amministrazione penitenziaria, è intervenuta in situazioni d'emergenza anche in settori non di sua competenza per ovviare a carenze strutturali. La Direzione generale Asti: "Botte in cella all'islamico", due agenti condannati a 32 e 26 mesi di carcere di Andrea Giambartolomei Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2015 Un detenuto musulmano picchiato perché ha reagito agli insulti rivolti da un agente a Maometto. Calci alle gambe e alla schiena, pugni al petto e altro ancora. È il trattamento subito il 27 maggio 2010 da un trentenne italiano di origini brasiliane convertito all'islam, all'epoca detenuto nel carcere di Asti dove - fino a pochi anni fa - c'era una squadretta di agenti-torturatori, salvati solo dalla prescrizione vista l'assenza del reato di tortura. Per questo pestaggio il 5 dicembre scorso il Gup Giulio Corato ha condannato due agenti, Carmelo Rositano e Nicola Sgarra, rispettivamente a due anni e otto mesi il primo e due anni e due mesi il secondo. L'accusa formulata dal pm Isabella Nacci era di lesioni aggravate, violenza privata, ingiuria e vilipendio alla religione. Nelle motivazioni, depositate martedì, emergono i dettagli di questo "pestaggio assolutamente gratuito" (parole del gup) raccontato in una lettera inviata dalla vittima, Mohammed Carlos Eduardo Gola, al suo avvocato Guido Cardello, e poi vagliata da Procura e Tribunale. Alle 10:40 di quel giorno Gola, convertito all'islam poco prima di finire in carcere nel 2008, deve andare in infermeria e viene accompagnato da un agente che inizia a rivolgergli domande sulla sua religione e sulla sua barba, domande sempre più insistenti e provocatorie. "Allora il brigadiere tormentatore di musulmani mi fa: "Il vostro Profeta puzzava e ci puzzava anche quella cazzo di barba". A quel punto io ho tirato un calcio alla scrivania perché qualunque musulmano non sarebbe stato zitto e fermo". Quella "reazione scomposta provocata ad arte dal Rositano mediante un'affermazione blasfema", come scrive il giudice, è la sua fine. L'agente e un collega aggrediscono il detenuto, lo bloccano e lo picchiano. "Musulmano di merda", gli viene detto. "Il fatto a mio dire più umiliante è stato quando mi hanno tenuto e un appuntato…gridava: "Collega prendi un paio di forbici che tagliamo la barba a sto stronzo", scrive il ragazzo che ricorda anche un'altra frase: "Guarda, hai pure il trattamento dei tuoi fratellini di Abu Ghraib". Bologna: Mirko Gadignani, uno chef tra i detenuti del carcere minorile del Pratello di Ambra Notari Redattore Sociale, 22 gennaio 2015 Il cuoco del Bologna Football Club tiene un corso di cucina per i ragazzi del Pratello. "Mi piace aiutare i ragazzi che partecipano a trovarsi un lavoro una volta fuori". Tra gli alunni c'è anche un giovane senegalese: "È molto bravo, ha il permesso per uscire per andare a lavorare all'Antoniano". Un corso di cucina per studenti molto particolari: i giovani detenuti del Carcere minorile del Pratello di Bologna. I piatti che vanno per la maggiore? Pasta, pane e pizza. Soprattutto pizza: "Quando la facciamo è davvero una festa", spiega lo chef, pasticcere, cuoco del Bologna football club, Mirko Gadignani, tra i docenti del corso. Già, perché Gadignani non si accontenta di nutrire i campioni rossoblù. Vuole ancora di più, vuole offrire una seconda possibilità ai ragazzi del Pratello. "Ormai sono 3 anni che lavoro con loro, ma tutto è cominciato tempo fa". Prima, con la collaborazione con un'azienda di ristorazione molto grande che offriva svariati tipi di corsi; poi con Fomal, la Fondazione opera Madonna del lavoro che propone scuola di cucina e attività di inserimento lavorativo per persone disagiate. Fomal cura anche il corso al Pratello: "Sono qui da 3 anni. Sono uno dei docenti e mi piace aiutare i ragazzi che partecipano a trovarsi un lavoro una volta fuori. Alcuni sono già pienamente inseriti: qualcuno lavora nelle mense, altri mi aiutano nella banchettistica. Compiti che possono tranquillamente affrontare anche con una preparazione non proprio approfonditissima: il corso è di formazione e vuole incentivare il recupero insegnando loro come muoversi in cucina, tutti il resto arriva piano piano". Il corso si svolge in una cucina apposita: partecipano una decina di ragazzi (la metà dei detenuti totali: il Pratello a pieno regime ospita 22/23 persone), preventivamente selezionati. "Lavoriamo con i ragazzi più tranquilli: i ferri del mestiere possono essere anche molto pericolosi". Lezioni tutti i giorni, dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 12, per un totale di 200 ore o anche di 500, a seconda del finanziamento che arriva: "Facciamo tutto quello che si fa fuori, preparazione e pulizia cibo, cottura, pulizie - a turno - incluse. Voglio trattarli bene, far loro mangiare cose buone. I pasti veicolati non sono esattamente ottimi: la ditta appaltatrice ha costi ridicoli, e va avanti a forza di carote lesse e pasta al pomodoro. E allora noi prepariamo le lasagne, la pizza". Gadignani racconta che il 90 per cento dei ragazzi che prendono parte al corso sono sinceramente contenti, quelli che vengono sollecitati un po' meno. "Dopo le lezioni, mangiamo quanto cucinato. Purtroppo non possiamo condividere anche con gli altri ragazzi, per precise ragioni di sicurezza. Una pizza potrebbe scatenare un litigio, e non scherzo. Bisogna capire che la giornata di un detenuto - minore o adulto che sia - ruota attorno a 3 momenti: colazione, pranzo e cena. Il cibo gioca un ruolo fondamentale, non vanno sottovalutate le conseguenza della sua gestione". Oggi, tra gli alunni di chef Gadignani, c'è anche un ragazzo senegalese: "È molto bravo, ha il permesso per uscire per andare a lavorare all'Antoniano. Mi piacerebbe riuscire a portarlo con me allo stadio, quando lavoro per il Bologna. Non è facile, ma lui è pronto. E poi ad agosto sarà fuori, dopo avere scontato i suoi 18 mesi". Giovani chef crescono. Roma: Sippe; carcere di Velletri… sarà stata forse un'ispezione annunciata? www.romatoday.it, 22 gennaio 2015 Si tratta forse di un'ispezione annunciata?! Si chiede Carmine Olanda segretario locale del Sippe: "È doveroso rilevare che stranamente dalla sera del venerdì precedente a tale visita sarebbero state attivate tutte le procedure per rendere più puliti e ordinati i luoghi di lavoro e quelli detentivi. Sarà forse stata una visita annunciata?!" L'ispezione sarebbe avvenuta presso la casa circondariale volsca la mattina del 19 Gennaio da parte degli uomini del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. La visita "ispettiva" giungerebbe comunque alcuni giorni dopo la diffida inoltrata dal Segretario Generale del Sippe Alessandro De Pasquale al Direttore del Carcere di Velletri in merito ad una non equa gestione di quelle poche risorse umane presenti nell'istituto e al pericolo a cui è esposto il personale di polizia penitenziaria, vittima di un traballante coordinamento dei piani per la sicurezza, che potrebbe essere una delle cause dei continui eventi critici. La visita è stata anche preceduta da una nota del Provveditore dell'Amministrazione Penitenziaria per il Lazio, inviata al Sippe il 15 gennaio scorso, che risponde alla diffida del sindacato con parole a difesa dell'operato della direzione del carcere. Il Sippe, nonostante la nota del Provveditore, rimane fermo nelle sue posizioni ribadendo che il direttore del carcere, in qualità di garante dell'istituto carcerario, dovrà attivare tutte le misure idonee e conformi al D.lgs 81/08, per il ripristino delle condizioni di salubrità e sicurezza di tutti i luoghi di lavoro, specie quelli inseriti all'interno dei reparti detentivi. "In caso contrario - conclude il Segretario Generale del Sippe Alessandro De Pasquale -promuoveremo ogni utile azione innanzi alla competente Autorità Giudiziaria, abbiamo comunque già dato mandato al legale del sindacato, Avv. Francesco Pandolfi del foro di Latina." Frosinone: Fsn-Cisl; aggressione nel carcere, feriti due agenti con prognosi di alcuni giorni Ansa, 22 gennaio 2015 L'aggressione a uomini della polizia penitenziaria avvenuta ieri sera nel carcere di Frosinone dove un detenuto ha ferito due agenti che sono stati portati al pronto soccorso, e che ha provocato varie reazioni sindacali, è stato accertato essere avvenuta ad opera di un detenuto albanese. L'uomo, 42 anni, trasferito di recente dall'istituto di Trapani a Frosinone, ha aggredito i due agenti che sono stati portati all'ospedale Spaziani del capoluogo ciociaro, dove hanno avuto una prognosi di alcuni giorni. Sono seguite reazioni sindacali. La Fns Cisl Lazio, che ha denunciato la vicenda, ha chiesto urgenti interventi agli uffici dipartimentali per potenziare gli organici della polizia penitenziaria del carcere: "La Fns Cisl Lazio - evidenzia il segretario regionale Massimo Costantino - chiede urgenti interventi agli uffici dipartimentali affinché si invii subito personale di polizia penitenziaria di rinforzo, e allo stesso tempo chiediamo al governo che introduca pene detentive ulteriori per gli autori di detti eventi". Reggio Calabria: Sippe; caos nel carcere di Laureana, un detenuto aggredisce due agenti di Danilo Loria www.strettoweb.com, 22 gennaio 2015 Detenuto aggredisce un ispettore e un assistente capo della polizia penitenziaria presso il penitenziario di Laureana di Borrello. Il fatto è accaduto ieri alle ore 11.00 circa, a seguito di una contestazione disciplinare fatta al detenuto presso l'ufficio matricola. Il detenuto, infatti, ricevuta la contestazione, colpiva improvvisamente con calci e pugni i poliziotti spedendoli al pronto soccorso. Ne da notizia il Segretario Regionale del Sippe (Sindacato Polizia Penitenziaria) Angelo Macedonio, il quale dichiara: "Il penitenziario di Laureana di Borrello è un istituto a custodia attenuata ma per la carenza di personale non si riescono a gestire adeguatamente tutte le attività istituzionali". Secondo il Sippe, i poliziotti penitenziari vengono impiegati contemporaneamente su almeno 5 posti di servizio (rilascio colloqui, preposto colloqui, ufficio servizi, conti correnti, sopravvitto. mof.), con grave pregiudizio all'ordine e alla sicurezza interna. L'ufficio matricola, centro nevralgico di ogni istituto penitenziario, rimane aperto per uno o due giorni la settimana, in quanto il responsabile viene impiegato anche al penitenziario di Palmi. Appare assurdo, afferma Macedonio, che un carcere debba essere gestito solo da 18 unità che svolgono attività per almeno 60 poliziotti, a questo punto, conclude Macedonio, invieremo subito una lettera al Provveditore e al DAP affinchè provvedano, ognuno per competenza, ad inviare nuovo personale, per scongiurare eventi critici ingestibili". Saluzzo (Cn): agente penitenziario rubava soldi ai detenuti, condanna a 3 anni e 9 mesi di Barbara Morra La Stampa, 22 gennaio 2015 È accusato di aver rubato soldi dalle lettere che i parenti indirizzavano ai detenuti nel carcere di Saluzzo. Per questo l'assistente capo di Polizia penitenziaria Massimo Concu - in tribunale a Cuneo - era a processo per peculato. I giudici lo hanno condannato a 3 anni e nove mesi di carcere con l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Dovrà anche pagare i danni ai tre detenuti che si sono costituiti parte civile: 1.000 euro ciascuno. I carcerati, nel 2012, lamentavano di non ricevere una parte della posta. Vennero fatti controlli interni e i dubbi caddero su Concu. "Non aveva il compito di controllare la posta - ha spiegato un collega ai giudici - ma poteva chiedere ai sottoposti di consegnargliela". "In realtà - ha aggiunto - i detenuti non possono ricevere e maneggiare denaro contante. Se un agente ne trova nelle lettere deve aprirle in presenza di un collega e depositare il denaro su un conto apposito. Il problema è nato quando i detenuti hanno lamentato di non ricevere proprio la corrispondenza, cioè le missive che gli venivano inviate dall'esterno". Per smascherare il responsabile, nell'ufficio del casellario le buste venivano fotocopiate: un modo per capire quali, poi, sarebbero mancate all'appello. L'ex comandante della casa circondariale: "Mettendole vicino a una lampada si evidenziava, in trasparenza, quali buste contenessero denaro. Senza aprirle prendevamo nota di quali erano e le rimettevamo nel mucchio: erano proprio queste a sparire". Roma: intervista a Mimmo Sorrentino, fondatore della Cooperativa "Teatroincontro" di Giulia Esposito www.quartaparetepress.it, 22 gennaio 2015 Continua la nostra inchiesta finalizzata a raccontare coloro che operano, attraverso il teatro, in realtà fortemente caratterizzate dal disagio: in vista del suo nuovo spettacolo Adesso che hai scelto in programmazione dal 24 al 26 febbraio al Teatro Due di Roma, abbiamo intervistato il fondatore della cooperativa Teatroincontro. Mimmo Sorrentino è nato a Salerno nel 1963. Laureatosi in Scienze Politiche all'Università degli studi di Urbino, è docente di "Teatro partecipato" presso la scuola "Paolo Grassi" di Milano e ad oggi, con il suo metodo di lavoro ispirato ad un criterio proprio delle scienze sociali, ovvero "l'osservazione partecipata", numerosi sono gli spettacoli realizzati partendo da una personale e profonda osservazione della società italiana: Nel libro di Mastronardi (premio drammaturgia in\finita Teatrorizzonti Urbino), Bingo (Selezionato al festival Opera Prima Festival di Rovigo), Il messaggio (Selezionato a Scena Prima), Quesalid, I Serbi vogliono la rivincita, Salmo 130, Da Mistretta a Godel, La storia di Carlo e Luigia, Case Popolari, Ave Maria per una gattamorta (segnalato al Premio Ater Riccione. Finalista al Premio UBU 2008, tradotto e pubblicato in Francia), L'Infinito viaggiare, Fratello Clandestino, Sono Aperta ( Testo finalista nel 2009 al Premio Ater Riccione), Vigili del fuoco, Vado Via (testo tradotto e rappresentato in Francia). Nel 2009 vince il Premio Enriquez per l'impegno civile, a cui fa seguito, nel 2014, il Premio Anct - Teatri delle diversità. Attualmente è in tournée con Adesso che hai scelto, raccolta dei monologhi interpretati precedentemente nel programma di Radio Tre Piazza Verdi, nei quali il drammaturgo racconta la straordinaria vita delle persone incontrate durante il suo percorso teatrale, dai detenuti ai rom, dalle casalinghe agli attori, dagli studenti ai commercianti ambulanti. Come e quando ha iniziato a fare teatro? Quando ha iniziato a lavorare con le persone disagiate e, in particolare, con i detenuti? Ho iniziato a fare teatro all'Università di Urbino nell'ormai lontano 1988 con uno spettacolo dal titolo Contro con la voce. Non avevo nessuna conoscenza teatrale né di scrittura e né di regia ma molta incoscienza. E come me tutti quelli che mi seguirono nell'impresa. Studenti di sociologia, filosofia, giurisprudenza, dell'Isef, i cuochi delle mensa. In scena eravamo più di trenta. Lo spettacolo era di tre atti. Eravamo incoscienti però coscienti che ci si stava divertendo tanto e che valeva la pena continuare. Lo spettacolo fu un successo per cui continuammo. Il secondo spettacolo, inserito in una rassegna ufficiale, fu un fiasco e ci divertimmo molto di meno perché ci scontrammo con problemi più grandi di noi. Nonostante ciò continuammo lo stesso. Mi trasferii a Vigevano, città all'epoca con il più alto tasso di giovani suicidi in Europa. Una città più disagiata non potevamo cercarla per cui è stato quasi naturale iniziare a occuparmi di persone in difficoltà. Io non lavoravo con attori, che poi non sono tanto meno disagiati degli altri, ma con amatori. Quindi mi sono specializzato a far sì che dei non attori fossero credibili in scena. Con i detenuti ho iniziato a lavorare solo nel 2012. Nel 2009 ha insegnato "Teatro partecipato" presso la scuola Paola Grassi di Milano, oltre ad aver scritto un libro su questo tema. Può spiegare cosa intende per "Teatro partecipato"? In che modo adopera questa metodologia nel suo lavoro in carcere? Il Teatro partecipato è sempre, come dico nel mio programma radiofonico a Radio Tre Piazza Verdi, una storia d'amore tra l'ascolto e la parola. Ti invitano in un contesto, ti fai riconoscere, citando un'espressione di Lacan, come soggetto supposto sapere, e per farlo metti in atto le tue competenze. Poi inizi a proporre dei temi su cui scrivere o raccontare oralmente, li trascrivi, fai leggere al gruppo quello che hai scritto a partire dalle loro storie e gli chiedi se sono intenzionati a recitarlo. Se lo sono li porti in scena. Prima nel contesto dove è nato il lavoro. Ad esempio se sono studenti, a scuola. Se sono stranieri ospiti di comunità, in comunità. Se ritieni che il lavoro possa interessare anche un pubblico generico, allora ti metti alla ricerca di un produttore. Con i detenuti è stato lo stesso. Li ho invitati a scrivere preghiere, non perché sono credente, non lo sono, ma perché volevo fare un lavoro sulla libertà e quindi mi è sembrato furbo partire dal linguaggio e la preghiera è il linguaggio, almeno secondo me, più libero che gli uomini si siano inventati. Quali sono gli obiettivi che si propone quando inizia un'attività con i detenuti? Conoscere. Conoscere cosa di loro c'è in me ma che io non so di avere. Ma questo accade con tutti i gruppi con cui lavoro, compreso i malati di Alzheimer. Come viene strutturato il laboratorio? Di solito propongo degli esercizi teatrali molto difficili così loro non riescono a farli e io gli spiego il perché e, nel capire perché non riescono, posso aiutarli a capire le loro difficoltà emotive ed espressive. Poi faccio scrivere dei testi., ci lavoro e proviamo a recitarli. In verità, in carcere non è che vi sia un programma preciso perché bisogna adattarsi alle varie esigenze della struttura: non vi è mai la certezza della prova così quando riesci a farne una buona ti senti felice come quando arrivi su una cima ai quattromila. Lei afferma che quando ha iniziato a lavorare in carcere si è accorto di non conoscere la "grammatica del carcere". Com'è riuscito a superare questa sorta di limite? Facendomela spiegare. Era importante conoscerla. Non per parlarla. Io non parlo la lingua del carcere, io parlo la lingua di chi vive altrove ma conoscerla mi permette di tradurre loro la mia di lingua, oltre che comprendere quella dei detenuti. Di recente ha portato in scena all'Elfo Puccini di Milano lo spettacolo Terra e acqua in cui è riuscito a coinvolgere attori-detenuti, politici, studenti e agenti di polizia penitenziaria. Può spiegarci le tappe che hanno portato alla realizzazione di questo spettacolo? I risultati ottenuti sono stati soddisfacenti? Nel corso del laboratorio con i detenuti spesso mi è capitato di raccontare ciò che provano in carcere. Ad esempio, a un certo punto, ho raccontato ciò che provano nei colloqui: li aspettano con ansia. Si preparano ma poi quando sono davanti alle persone care, quelle che li fanno stare in piedi, la tensione si fa così forte che non vedono l'ora di rientrare in cella. Allora uno di loro mi ha chiesto come facessi a saperlo, se ero stato in carcere o se ci fosse stato un mio parente. Ho risposto che non ero mai stato in carcere prima di allora e che se lo sapevo era perché c'era un carcere in ognuno di noi, altrimenti non avremmo potuto inventarlo. Ho esteso la riflessione alla città attraverso una rubrica che conduco sul giornale locale e così la città si è interrogata sul carcere che ognuno ha dentro di sé compreso il vescovo, i politici ecc. Poi il progetto prevedeva una apertura del carcere verso la città e viceversa per cui ho chiesto a politici, studenti e agenti di polizia penitenziari se volevano recitare con i detenuti: hanno accettato. Non è stato facile costruire un gruppo unico, ma il risultato sembra sia stato molto apprezzato come lo spettacolo. Come viene recepita l'attività teatrale dentro e fuori le mura del carcere? Sia dentro che fuori dal carcere il tutto viene recepito come una possibilità di crescita personale prima ancora che comunitaria. Secondo Lei, cosa possono fare le istituzioni per migliorare questo tipo di attività? Investire più soldi. Trasformare il carcere in un luogo di formazione e non solo di detenzione. Paradossalmente una volta dissi ai detenuti che loro dovevano avere nostalgia del carcere. Chi ha nostalgia spesso ritorna nei luoghi della nostalgia, come le città o i paesi in cui si è nati, ma poi va via. Perché ci sia nostalgia bisogna che abbiamo un buon ricordo del luogo che abbiamo abbandonato. Quindi, perché ci sia nostalgia è necessario che in carcere accadano cose interessanti, belle. Ma ciò che invece accade è che i detenuti vogliono scappare. Comprensibile. Ma chi scappa, come insegna la tragedia greca, vedi Edipo, ritorna sempre nel luogo da cui scappa. E non è un caso se il 90 per cento dei detenuti è recidivo. Ecco, bisognerebbe che in carcere accadessero cose belle. Mondo: diritti umani; Israele, Egitto e Afghanistan nel mirino di Human Rights Watch La Repubblica, 22 gennaio 2015 Sfruttamento dei lavoratori, decessi in carcere e media sotto attacco. Sono queste le accuse dell'organizzazione internazionale che con tre diversi report mette sotto accusa i governi di Israele, Afghanistan ed Egitto, Stati che appaiono indifferenti davanti alle gravi violazioni che si compiono nel loro territorio. Morti sospette nelle carceri egiziane, violenze e minacce contro i giornalisti afghani e lavoratori thailandesi sfruttati nelle piantagioni israeliane. Tre realtà distanti che hanno in comune la costante violazione di diritti umani, denunciata da Human Rights Watch (Hrw) di fronte all'indifferenza degli stati che ne dovrebbero garantire il rispetto. Israele Nel 2011 Israele e Tailandia hanno firmato un accordo bilaterale che permetteva ai migranti dello stato del sud est asitiaco di ricevere permessi di lavoro con tasse agevolate per limitare il lavoro irregolare. Un accordo che, secondo i dati raccolti da Hrw nel report "Un brutto affare: gli abusi sui lavoratori tailandesi nel settore agricolo d'Israele", non è bastato a tutelare i diritti delle persone occupate nel settore agricolo. Un fallimento dovuto, stando ai dati, ad un controllo superficiale e inappropriato da parte dello stato. Hrw ha intervistato 173 dei 25mila thailandesi impiegati nel settore agricolo. Quasi nella totalità dei casi, le condizioni lavorative sono illegittime e violano i diritti umani. Orari di lavoro infiniti, paghe non conformi agli standard fissati dallo stato e sicurezza pressoché inesistente. Dal 2008 al 2013, 122 lavoratori hanno perso la vita per cause riconducibili, anche se non ancora accertate, alle condizioni disumane in cui sono costretti a vivere e lavorare senza - nella maggior parte dei casi - aver accesso alle cure mediche necessarie. "Il successo del settore agricolo israeliano - afferma Sarah Leah Whitson, responsabile Hrw di Medio Oriente e Nord Africa - dipende in larga misura dal lavoro dei migranti thailandesi, ma Israele sta facendo troppo poco per difendere i loro diritti e proteggerli dallo sfruttamento". Afghanistan Il governatore davanti a tutti mi ha detto: "Perché hai scritto questo? Ti metterò in prigione, per me la tua vita non vale niente". Questa minaccia, ricevuta da un giornalista di Paktika che ha denunciato un attacco a una base della polizia afghana, è solo un esempio dei ricatti e violenze subiti dai media afghani. Una pressione sempre più forte sulla stampa locale che sta mettendo in pericolo la fragile libertà d'espressione riconquistata a fatica negli ultimi anni. I più colpiti sono le donne sottoposte anche da un punto di vista sociale a violenze e ritorsioni e i media che lavorano lontani dai grandi centri, più esposti alle minacce di signori della guerra, talebani, ma anche dalle autorità statali. Hrw nel report "Non raccontarlo o uccideremo la tua famiglia: minacce alla libertà dei media in Afghanistan" ha raccolto le interviste di trenta persone tra giornalisti, fotoreporter ed editori che denunciano un incremento delle violenze nei confronti dei media afghani. "Dal 2002 funzionari afghani, signori della guerra e talebani - sottolinea Phelim Kine, vice direttore Hrw per l'Asia - hanno minacciato, aggredito e ucciso decine di giornalisti senza temere ripercussioni legali. Il presidente Ashraf Ghani dovrebbe mantenere la promessa fatta durante la campagna elettorale di proteggere la libertà dei media e assicurare alla giustizia tutti coloro che la minacciano". Egitto C'è l'inferno nelle carceri egiziane. Morti sospette, cause da accertare. Sono sempre di più i prigionieri che perdono la vita dietro le sbarre egiziane, la maggior parte di questi sono sostenitori dei Fratelli musulmani, partito politico bandito dal governo di Al Sisi e riconosciuto come organizzazione terroristica. Nonostante la costituzione egiziana vieti la violenza nei confronti dei detenuti, la tortura è ancora diffusa. Molte delle persone decedute, secondo Hrw, mostrano evidenti segni di percosse e maltrattamenti. In alcuni casi invece le morte è stata causata da condizioni igieniche inadeguate e dalla mancanza di cure mediche anche per i pazienti gravemente malati. "Le prigioni e le stazioni di polizia - afferma Sarah Leah Whitson - sono piene di sostenitori dell'opposizione arrestati durante i rastrellamenti. Le persone sono detenute in situazioni disumane di sovraffollamento. Le morti sono una conseguenza prevedibile di queste condizioni". Ancora non è chiaro quanti detenuti siano morti nel 2014 nell'intero territorio nazionale. Secondo un rapporto di una Ong egiziana, durante i primi cento giorni del governo di Al-Sisi 35 persone sono decedute in carcere, mentre secondo le statistiche dell'autorità medica forense del ministero della Giustizia nei primi dieci mesi del 2014 almeno 90 persone hanno perso la vita mentre si trovavano in custodia a Giza e Il Cairo. Stando a questi numeri, rispetto al 2013 le morti in carcere sarebbero aumentate del 40 per cento. "Le autorità egiziane - conclude Whitson - sembrano incredibilmente compiacenti di fronte alla morte di tanti detenuti. Al contrario il governo dovrebbe investigare su ciascuna di queste morti e sulle accuse di abusi per garantire e mettere in pratica le leggi dello Stato". India: Tomaso Bruno è libero. La mamma "è il giorno più bello della mia vita" di Ambra Notari Redattore Sociale, 22 gennaio 2015 Dopo 5 anni in un carcere indiano, Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, i due giovani condannati all'ergastolo per l'omicidio di Francesco Montis, sono stati assolti dalla Corte Suprema indiana. Marina Maurizio, la mamma di Tomaso: "Non ci sono parole". "È una cosa incredibile, non ci sono parole. Con Tomaso abbiamo immaginato tante volte questo momento, e finalmente è arrivato. Credevamo l'avremmo vissuto vicini, invece eravamo lontani. Ma ora non importa, importa solo che possa finalmente tonare a casa": è incontenibile la gioia di Marina Maurizio, la mamma di Tomaso Bruno, il giovane di Albenga che per quasi 5 anni (è entrato in carcere il 7 febbraio 2010) è stato detenuto nel carcere di Varanasi, nel nord-est dell'India, condannato all'ergastolo per avere ucciso, insieme con Elisabetta Boncompagni, l'amico Francesco Montis. Questa mattina, alle 6.30 ora italiana, la Corte Suprema indiana ha ribaltato la sentenza, assolvendo i due giovani: "L'ambasciatore Daniele Mancini ieri ci aveva detto che la sentenza sarebbe uscita oggi. Io e mio marito Euro non l'abbiamo detto a nessuno, abbiamo sofferto in silenzio. Ci ha chiamato stamattina appena letto la sentenza, è stato lui a dirlo anche a Tomaso. Ora non sappiamo che faremo, stiamo aspettando istruzioni dall'ambasciata. Forse ce lo portano subito a casa, ma se ci sono pratiche burocratiche da sbrigare siamo pronti a partire. Mancini si è limitato a dirmi: "Stia lì, calma". Al momento sono detenuti illegalmente, devono essere scarcerati al più presto". Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha twittato: "Soddisfazione per decisione Corte Suprema indiana di annullare condanna ergastolo Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni", mentre Albenga si riempiva di striscioni per festeggiare una notizia attesa troppo a lungo. Anche Paola Moschetti, compagna del marò Massimiliano Latorre, si è complimentata su Facebook (per un periodo Tomaso ed Elisabetta sono stati seguiti dallo stesso studio legale di Latorre e Girone): "Ciao Marina, ho appena saputo, sono felice per te e per voi. Un abbraccio, e goditi la gioia per cui hai tanto lottato". "Dico solo Tommi libero": Adriano Sforzi, giovane regista bolognese, amico d'infanzia di Tomaso, prova a riassumere tutta la felicità in un messaggio. Sforzi è al lavoro sul documentario "Più libero di prima", dedicato alla storia dell'amico. "II finale del film esiste già?", gli avevamo chiesto lo scorso settembre. "Certo. Sono le immagini di Tomaso che scende la scaletta dell'aereo a Milano, finalmente tornato libero". La pellicola è pronta. Belgio: le carceri? La migliore scuola per il fanatismo islamico di Cristina Barbetta e Sophie Blais Vita, 22 gennaio 2015 Intervista a Jean- Marc Mahy, ex detenuto, per 19 anni, e ora educatore, sull'emergenza terrorismo in Belgio, e su quanto il carcere sia una buona soluzione per i giovani jihadisti provenienti dalla Siria. L'emergenza terrorismo in Belgio, con la scoperta della cellula jihadista a Verviers, pone il problema della presenza nelle carceri belghe dei giovani terroristi che tornano dalla Siria. Lo spiega a Vita Jean- Marc Mahy. Ex detenuto, ha passato 19 anni in carcere, di cui 3 in isolamento. Da quando è stato rilasciato, nel 2003, all'età di 36 anni, si occupa di aiutare i giovani a non cadere nella spirale della delinquenza, e a provare che reinserirsi all'interno della società è possibile. È educatore presso le Ippj, gli istituiti pubblici di protezione della gioventù. E attore. Nello spettacolo "Un homme debout" ("Un uomo in piedi"), che ha avuto un grande successo anche all'estero, parla della sua esperienza carceraria. Cosa pensa della radicalizzazione dei terroristi nelle prigioni? Non è un fatto nuovo. Vi ho assistito personalmente a partire dagli anni ‘90, quando nella prigione di Liegi c'era un predicatore che faceva proselitismo e obbligava tutti i musulmani a pregare. Il problema di questi terroristi, dei jihadisti, è che non sono inseriti nella società. Vengono mandati in galera, ne escono dopo un anno e poi ritornano all'interno della società. Questo non ha senso. Per le esperienze che hanno avuto sono delle persone molto violente che pongono un problema alla società. Queste persone si radicalizzano in prigione, dove gli estremisti inculcano loro l'odio nei confronti dell'occidente. Come è accaduto a Amedy Coulibaly. Nel 2008 è uscito un documentario diffuso su France 2, nella trasmissione Envoyé Spécial: "Prison de Fleury-Merogis - Les images interdites". È un film girato per 6 mesi con videocamera nascosta da 5 detenuti ed ex detenuti della prigione di Fleury Merogis, che denuncia le orribili condizioni delle carceri francesi. Tra loro c'era anche Amedy Coulibaly. Coulibaly quindi si radicalizza in carcere e sviluppa un sentimento di odio nei confronti della società. Ritiene quindi che il carcere non sia una buona soluzione per gli jihadisti che tornano dalla Siria? Penso che quando qualcuno ha commesso un reato debba essere punito in base alla legge. Però nella società occidentale si pensa che la punizione debba essere la prigione. Invece le prigioni sono luoghi di esclusione: "luoghi di stoccaggio", dove la gente viene parcheggiata , e non ne esce migliore di prima. È necessario un nuovo percorso di giustizia che sia in grado di comprendere la storia personale di ciascun individuo. Una volta uscite dal carcere, bisogna preparare queste persone ad un nuovo inserimento perché la maggior parte della gente che è in prigione non è inserita nella società. Qual è la sua opinione sull'enorme campagna che si è diffusa in Francia in favore della libertà di espressione in seguito all'attentato al settimanale Charlie Hebdo e alle violenze che sono seguite? Oggi tutti sono Charlie. 3 milioni 700 mila persone hanno manifestato a Parigi e vogliono tutti essere Charlie. Io invece non sono Charlie. Ma in cosa consiste la libertà di espressione? Che se io voglio esprimermi contro qualcuno uso il disegno come strumento di derisione? Dove stiamo andando? Che valori inculchiamo ai giovani che saranno la nuova generazione di domani? Faccio fatica a comprenderlo. C'è una banalizzazione della violenza e non c'è invece la costruzione di valori condivisi nella comunità e nella società intera, come la giustizia e la libertà. Io credo nella sensibilizzazione e nella prevenzione dei giovani. Il problema della società oggi è che i politici non sanno quello che succede sul campo perché non lavorano con la gente che sta sul campo. C'è un divario sempre più grande e radicale tra coloro che vivono nella società, tra coloro che vanno in galera, e che cercano di uscirne, e la gente che è al potere e che prende le decisioni. Io non sono Charlie e continuerò a lavorare sul campo coi giovani per costruire valori e credo che cambiare la gente che è stata in Siria e in Iraq sarà molto complicato. Perché un detenuto è più propenso ad ascoltare discorsi radicali in prigione? Per alcuni la prigione è la migliore università della manipolazione, per altri la migliore scuola delle criminalità . In Belgio la percentuale di coloro che hanno il diploma della scuola primaria nelle carceri è molto basso . Nelle prigioni gli analfabeti sono tra il 60 e il 70% . Quindi non è complicato convertire persone di questo tipo a delle idee estreme . Durante il mese del ramadan i musulmani sono obbligati ad osservarlo perché ci sono diverse comunità nelle prigioni, come quella degli italiani, degli albanesi e anche dei musulmani, e queste comunità impongono dei comportamenti. Dunque chi non osserva il ramadan è molto mal visto dagli altri. C'è però una grande differenza tra un musulmano che fa il ramadan in prigione e un islamista radicale che cerca di fare proseliti… La maggior parte della gente che arriva in prigione non pratica il ramadan. Sono persone che praticano in famiglia un islam moderato, così come i cattolici che vanno a messa la domenica. In prigione invece apprendono il fanatismo, l'estremismo. Perché nove persone su dieci in prigione sono vittime di questo fanatismo? Non basta dire che la colpa è della famiglia, della prigione, della comunità, della scuola. Quello che conta è il riconoscimento della responsabilità individuale. Svizzera: personale delle carceri ticinesi a rischio burnout, ricerca Università di Berna www.cdt.ch, 22 gennaio 2015 Il personale carcerario in Svizzera è in genere soddisfatto del proprio lavoro, in media addirittura più di altre categorie professionali. Tuttavia circa il 10% di chi lavora nelle prigioni presenta un rischio di burnout. È quanto emerge da un'indagine condotta da un team dell'Università di Berna, stando alla quale questo rischio è nettamente superiore in Ticino e Romandia (oltre il 18%) rispetto alla Svizzera tedesca (6-7%). Il team dell'Istituto di diritto penale e criminologia - sostenuto dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica (FNS) che riferisce oggi in una nota dei risultati - ha condotto tra il 2010 e il 2012 la prima inchiesta rappresentativa sul personale penitenziario in tutta la Svizzera, inviando un questionario a 1880 persone che lavoravano i 84 istituti di privazione della libertà. Sorpresa: l'82% degli interpellati si è detto soddisfatto del suo lavoro, un valore molto alto, superiore alla media del 77% circa rilevato nel 2012 dal "barometro HR (Human Relations)" dell'Università e del Politecnico di Zurigo, inchiesta rappresentativa condotta regolarmente dal 2006 fra i lavoratori di tutti i settori in Svizzera. Soltanto il 3% del personale carcerario si è detto insoddisfatto della sua attività. Inoltre il 90% degli interpellati si è dichiarato in buona salute, contro l'85% generale rilevato dal barometro HR. Solo il 2% del personale penitenziario ha definito cattivo il suo stato di salute. Tuttavia, il 10% di esso presentava un "alto rischio" di burnout. Questi dipendenti "soffrivano già di un esaurimento emotivo al momento dell'inchiesta", si legge nella nota. Inoltre, le assenze prolungate per motivi di salute sono relativamente frequenti: il 39% degli interpellati ha risposto di essersi assentato dal lavoro per più di tre giorni "negli ultimi tempi", contro il 33% nel barometro HR. Il responsabile dello studio Ueli Hostettler rileva tuttavia "differenze regionali sorprendenti": "nella Svizzera romanda e in Ticino in particolare, il sovraffaticamento e il rischio di burnout sono nettamente più alti che nella Svizzera tedesca", afferma l'antropologo sociale, secondo il quale "urge intervenire". Nella Svizzera latina - ha precisato Hostettleer all'ats - i soddisfatti sono solo il 78,5%, contro l'84,4% della Svizzera nordoccidentale e l'83,6% di quella orientale. Più preoccupante è il rischio di burnout, che arriva al 18,3% nei penitenziari del concordato romando-ticinese, contro rispettivamente il 7 e il 6% in quelli dei due concordati svizzerotedeschi. Secondo Hostettler nella Svizzera latina il personale giudica in modo più negativo l'ambiente di lavoro (rapporti con i superiori, partecipazione alle decisioni, possibilità di iniziative autonome sul lavoro). Per contro la collaborazione con i colleghi è vista in modo più positivo. Secondo studi internazionali il personale carcerario si sente spesso mal compreso dal mondo esterno. È il caso anche in Svizzera: il 61% degli interpellati ha detto di non avere l'impressione che il suo lavoro sia riconosciuto e ha menzionato al riguardo i resoconti dei media, giudicati ancora più negativamente dell'assenza di appoggio da parte degli ambienti politici. Ueli Hostettler spiega i risultati tutto sommato positivi - nonostante le citate differenze regionali - dell'inchiesta rilevando che il personale penitenziario si compone principalmente di persone di una certa età, che hanno avuto un percorso professionale solido e che hanno esercitato in precedenza un'altra professione. Inoltre, il loro campo di attività restringe le alternative professionali, "il che rafforza manifestamente la loro fedeltà verso il datore di lavoro". Arabia Saudita: è stretta sugli attivisti, pene esemplari come quelle dell'Isis Adnkronos, 22 gennaio 2015 Il caso dell'attivista saudita Raif Badawi, condannato a 10 anni di carcere e a mille frustate, che tanto ha scosso l'opinione pubblica mondiale, è solo uno degli innumerevoli casi di attivisti puniti con durezza nel regno del Golfo. Secondo molte organizzazioni per i diritti umani, la campagna del governo saudita contro attivisti, blogger o chiunque sfidi la leadership politica e religiosa del paese sta andando intensificandosi. E alcune analisi dimostrano che le sanzioni inflitte dalle autorità di Riad equivalgono in tutto a quelle che lo Stato islamico (Is) esegue nel suo califfato. "Il governo vuole far arrivare al popolo un messaggio: se pensate come loro, se parlate come loro, passerete tutta la vostra vita in carcere - ha dichiarato Samar Badawi, sorella di Raif, anche lei attivista per i diritti umani e moglie di un altro attivista, Waleed Abulkhair, in carcere da aprile 2014 - Vuole che le pene inflitte a questa gente siano da esempio". Nel 2012 Samar Badawi è stata insignita dell'International Women of Courage Award da parte del Dipartimento di Stato americano. Suo marito è finito in prigione per aver detto che le autorità religiose del paese hanno troppa influenza. Per questo è stato condannato a 10 anni di carcere e 250.000 dollari di multa. La scorsa settimana la sua condanna è stata elevata a 15 anni perché si è rifiutato di chiedere perdono e di promettere che non avrebbe più manifestato il suo dissenso. In Arabia Saudita si applica un'interpretazione molto rigorosa della sharia, il diritto islamico, e dall'inizio dell'anno almeno 10 persone sono già state decapitate. Secondo un'analisi del sito Middle East Eye, le punizioni che l'Arabia Saudita infligge ai suoi cittadini (frustate, decapitazione, lapidazione, taglio delle mani o dei piedi e altre) equivalgono quasi del tutto a quelle applicate dallo Stato islamico (Is) nel suo autoproclamato califfato. Sudan: partiti e Ong chiedono al governo liberazione politici arrestati lo scorso sttembre Nova, 22 gennaio 2015 Partiti politici e Ong sudanesi stanno esercitando forti pressioni sul governo di Khartoum per ottenere la liberazione di una serie di esponenti politici arrestati dal regime del presidente Omar al Bashir. In particolare sono 16 i partiti che hanno accettato il dialogo nazionale col governo i quali hanno deciso di congelare la loro partecipazione alle sedute per chiedere la liberazione dei politici in carcere senza processo da mesi. Tra i detenuti c'è anche l'avvocato Faruq Abu Isa e Amin Mekki detenuti dal 6 settembre. Fyrom: detenuti minacciano rivolte se c'è scarcerazione Vescovo ortodosso Vraniskovski Nova, 22 gennaio 2015 Alcuni detenuti delle prigioni di Idrizovo e Sutka a Skopje, nell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom) sono pronti alla rivolta, qualora il vescovo ortodosso Jovan Vraniskovski venisse rilasciato dalla prigione. Lo riferisce il quotidiano macedone "Lokalno". Secondo la testata, i prigionieri pensano che non ci dovrebbero essere privilegi verso nessun detenuto. Il rilascio è stato approvato dalla direzione del carcere dove il Vraniskovski è in carcere, ma la Procura della Repubblica ha presentato ricorso contro di essa. Dopo la minaccia dei detenuti, la direzione del carcere ha sostenuto la decisione della procura. La settimana scorsa, il Tribunale penale di Skopje, dopo il via libera della Procura di Stato per la criminalità organizzata, ha optato per il perdono di Vraniskovski. Descrivendolo come una persona di "immacolata condotta", il giudice ha osservato che era "diabetico e quindi con un bisogno di una dieta particolare, che il carcere non può fornire". Vraniskovski è stato condannato a cinque anni e mezzo di carcere nel 2012 per essersi appropriato di circa 250 mila euro dalla Chiesa ortodossa macedone. Il sacerdote ha già scontato tre anni di pena, cioè più della metà della sua condanna. Per quasi un decennio, il religioso "ribelle" è stato al centro di una controversia tra la Chiesa ortodossa macedone e quella serba, che non riconosce l'indipendenza ecclesiastica di Skopje. La più influente Chiesa ortodossa serba ha offerto ai macedoni l'autonomia, ma non la totale indipendenza. Per risolvere la controversia è intervenuto anche il vescovo ortodosso russo Ilarion Alfeev di Volokolamsk, che ha offerto una mediazione per arrivare a un compromesso. A dicembre, infatti, Alfeev ha invitato i leader macedoni a liberare Vraniskovski per l'apertura di colloqui, mediati dalla Russia, tra le comunità ortodosse di Fyrom e Serbia. La Chiesa serba non riconosce la sua controparte macedone, considerata come scisma, perchè si è staccata unilateralmente nel 1967. Il religioso russo ha detto che la Chiesa russa non poteva "riconoscere unilateralmente" la Chiesa macedone, decisione che dovrebbe essere presa su spinta di tutti gli ortodossi. "Siamo però disposti a fare da mediatori", ha detto il vescovo russo. Vraniskovski, in realtà, è da tempo al centro di una grave disputa tra la chiesa ortodossa macedone e quella serba, che non riconosce l'indipendenza dell'altra. Alcuni anni fa, infatti, egli ha abbandonato la chiesa macedone per tornare sotto l'ala di quella serba, causando forti polemiche nel suo paese. Le autorità macedoni avevano condannato il religioso a due anni e mezzo di prigione. Nel 2012, dopo la condanna del religioso macedone, il presidente serbo Tomislav Nikolic aveva proposto di risolvere i problemi esistenti con la chiesa ortodossa macedone, partendo da un'amnistia per il vescovo "dissidente" Zoran Vraniskovski, noto come vescovo Jovan, e in un decreto speciale sull'indipendenza della chiesa ortodossa macedone. Il prelato era stato arrestato nel novembre 2010 in Bulgaria in base ad un mandato di cattura dell'Interpol e le autorità della Fyrom avevano chiesto la sua estradizione perchè scontasse una pena detentiva inflittagli nel 2009 da una corte macedone per appropriazione indebita. "Suggerisco di sederci e di parlare su tutto. Mi riferiscono all'atteggiamento della Macedonia sulla chiesa ortodossa serba e all'atteggiamento della Serbia sulla chiesa ortodossa macedone. Posso risolvere tutto questo, se intendono parlarmi. In caso contrario, questo problema non sarà mai risolto", aveva dichiarato Nikolic. "La Macedonia non è riuscita a risolvere questo problema. Forse non aveva interlocutori. Oggi in Serbia c'è qualcuno con cui parlare e io sono uno di loro. Rispetto la chiesa ortodossa serba e la chiesa ortodossa serba rispetta me: siamo in grado di risolvere questo problema", aveva aggiunto il presidente serbo.