Giustizia: il paradosso della libertà limitata per difenderla di Massimo Villone Il Manifesto, 21 gennaio 2015 Lotta al terrorismo. La risposta efficace non è in tecniche orwelliane di spionaggio e controllo di massa. La lotta al terrorismo approda in consiglio dei ministri. Sanzioni penali per i foreign fighters, gli organizzatori e fiancheggiatori, misure di sicurezza, ritiro del passaporto, disciplina rigorosa per esplosivi e sostanze pericolose, oscuramento dei siti web che inneggiano al terrorismo, forse procura nazionale dedicata. Nel complesso, limature delle leggi esistenti senza novità eclatanti. E non si parla della questione Pnr (passenger name record), su cui discute l'Europa. Il Pnr non è una mossa banale e scontata. Si raccolgono e scambiano i dati di tutti i passeggeri, su tutte le aerolinee, per tutte le destinazioni. Possono essere compresi anche dati per altro verso sensibili. Ad esempio, dati su condizioni fisiche particolari, stati di salute, malattie, che in un contesto diverso sono e rimangono riservati, e che diventano visibili quando si sale su un aereo. È un controllo di massa. E perché poi limitarsi agli aerei? E gli autobus, i treni, le navi? Nel 2011 il Parlamento europeo aveva adottato sul Pnr una risoluzione (2012/C 74 E/02) in cui definiva i principi di necessità e di proporzionalità come fondamentali per la lotta al terrorismo. In specie, si chiedeva che la raccolta dei dati fosse limitata a quanto necessario per raggiungere obiettivi dei trattati Ue. E si invitava la Commissione ad esaminare alternative meno invasive. Proprio per la violazione del principio di proporzionalità la Corte di giustizia Ue (C-293/12 e C-594/129, 8 aprile 2014) ha censurato la direttiva 2006/24/Ec sulla conservazione dei dati personali nelle comunicazioni elettroniche. Tuttavia, oggi da più parti si chiede al Parlamento europeo di superare la risoluzione del 2011, in cui null'altro si chiedeva che il rispetto dei principi costituzionali Ue. I singoli Stati già si muovono. La legge francese 2014-1353 del 13.11.2014 prevede il divieto di espatrio, il ritiro del passaporto e della carta d'identità nazionale qualora ci siano "des raisons sérieuses" di ritenere che si intenda partecipare ad attività di terrorismo o che comunque possono comportare rischi per la sicurezza pubblica al ritorno. In Gran Bretagna è in discussione un Counter-Terrorism and Security Bill (Hl Bill 75), che prevede il sequestro del passaporto per impedire l'espatrio, e il divieto di ingresso salva autorizzazione del Segretario di Stato. Si aggiungono limitazioni sulla residenza, e richiesta ai vettori di informazioni sui passeggeri di aerei, navi o treni. Si prevedono altresì interventi repressivi sui siti internet nella legge francese prima citata, e l'obbligo per i gestori di servizi di telecomunicazione di raccogliere e conservare dati su richiesta dell'esecutivo nel Data Retention and Investigatory Powers Act 2014 britannico. La tendenza è chiara: per combattere il terrorismo si abbassa la guardia su libertà e privacy. È nella linea del Patriot Act Usa, che ha previsto tra l'altro si procedesse in segreto a raccolte di dati, intercettazioni, perquisizioni delle abitazioni e dei luoghi di lavoro, anche in assenza di specifici sospetti di coinvolgimento in atti di terrorismo. Eppure, rimane isolata la dichiarazione di incostituzionalità di un giudice federale (Mayfield v. United States, 504 F. Supp. 2d 1023 (2007)). La stessa Corte Suprema non ha alzato barriere (Holder v. Humanitarian Law Project, 561 U.S. 1 (2010). I guasti prodotti vanno in profondità, come dimostra il rapporto - solo in parte desecretato il 3 dicembre 2014 - del Select Committee del Senato Usa sui metodi usati dalla Cia, pudicamente definiti come tecniche rafforzate di interrogatorio (enhanced interrogation techniques). Ci consegna una galleria degli orrori. Forse non tutti sanno che il Patriot Act ha trovato opposizione da sinistra, in nome della libertà, e da destra, per l'ingerenza governativa nel privato. È una scelta bipartisan che viene dal centro dello schieramento politico. Un estremismo di centro nato dalla paura. Tuttavia, quale risposta da sinistra per la lotta al terrorismo? È un terreno difficile. Ma un punto va in ogni caso tenuto saldo: che la risposta efficace non è in tecniche orwelliane di spionaggio e controllo di massa. Del resto, proprio la Francia dimostra che Charlie Hebdo si poteva evitare già con la legge del novembre 2014. Invece, migliaia di cittadini europei reclutati per l'Isis, e un numero indeterminato di simpatizzanti, si spiegano più con il degrado e la desolazione di periferie abbandonate a se stesse - moderna forma di segregazione - che con l'eccesso di libertà di qualche sito internet o la predicazione di un imam radicale. È in quelle periferie la culla della rabbia e dell'estremismo di tanti giovani, che si sentono esclusi ed emarginati dalla società in cui vivono. Per questo qualunque politica di repressione può essere in ultimo efficace solo se unita a interventi inclusivi e di integrazione sociale ed economica. Di tali interventi non v'è traccia nelle iniziative dei governi europei. A proporli, ci sentiremmo probabilmente dire che mancano - oggi, e per un tempo non breve - le risorse necessarie. Qui vorremmo le istituzioni ampiamente rappresentative che non abbiamo, e che ancor meno avremo se le riforme in discussione andranno in porto. Lasciandoci nell'insolubile paradosso che la storia ha spesso posto alle democrazie: se la libertà si difende davvero limitandola. Giustizia: carcere, Napolitano vive e lotta con noi di Franco Corleone Il Manifesto, 21 gennaio 2015 Giorgio Napolitano è noto per l'estrema prudenza che lo contraddistingue nelle scelte politiche e anche nei nove anni di presidenza della repubblica ha esercitato in molte (troppe secondo i critici) occasioni questa virtù che gli deriva da una cultura politica costruita sul senso di responsabilità. In rare occasioni ha rotto questo incantesimo e ha scelto un piglio radicale. Se non, come ha ricordato Stefano Anastasia su queste pagine (il manifesto, 7 gennaio 2015), sulla questione delle carceri e sul tema dell'Ospedale psichiatrico giudiziario. Vale la pena ricordare le sue parole pronunciate il 28 luglio 2011 in un convegno del Partito Radicale: quella carceraria è "una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile" che ha raggiunto "un punto critico insostenibile", "una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all'impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell'estremo orrore dei residui psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile". Ribadiva la sua denuncia sottolineando "l'abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona. È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita". Quel documento costituì la spinta per una lettera aperta al Presidente della Repubblica, primo firmatario il prof. Andrea Pugiotto, in cui si chiedeva l'invio di un Messaggio alle Camere. Fu sottoscritta da 139 giuristi e da alcuni Garanti dei diritti dei detenuti e indirizzata al Quirinale il 3 luglio 2012. Finalmente l'8 ottobre 2013 l'appello fu raccolto. Una scelta meditata e sofferta, tenendo conto che è stata l'unica volta che è stato utilizzato l'art. 87 della Costituzione per sollecitare una assunzione di responsabilità da parte del Parlamento. La delusione per l'inadeguatezza della politica rispetto agli obiettivi di riforma della giustizia è sconfinata. Patrizio Gonnella, Luigi Manconi e chi scrive hanno inutilmente lanciato un appello per consentire al presidente Napolitano come ultimo atto del suo mandato la nomina del Garante nazionale dei diritti dei detenuti. Così non è stato, purtroppo. Ma ora il timore è che la scelta del nuovo Presidente non sia all'altezza della crisi dello stato di diritto; una condizione che è resa drammaticamente emblematica anche dal fatto che migliaia di detenuti condannati dalle norme della legge incostituzionale Fini-Giovanardi stanno scontando una pena illegittima. È davvero inquietante che si avanzi la candidatura di Paola Severino che da Ministro della Giustizia in Senato durante la discussione della legge anticorruzione non si peritò di tessere l'elogio di Alfredo Rocco, autore del codice del regime fascista, architrave dello stato etico. È ancora più grave un ministro della Repubblica ignori che Rocco concepì il regolamento carcerario del 1931 funzionale alla concezione della pena della dittatura. Questa presa di posizione allucinante non suscitò scandalo e sdegno per distrazione o non consapevolezza dei valori della Costituzione. C'è bisogno che l'attenzione di Napolitano al carcere diventi una tradizione istituzionale della Presidenza della Repubblica. C'è bisogno di una personalità che non firmi leggi incostituzionali, che sia garantista e abbia come faro i diritti e la dignità dei cittadini, tutti, anche quelli privati della libertà. Esiste? Forse più di uno, a me non dispiacerebbe un ex presidente della Consulta che, addirittura, fuma la pipa come Pertini. Giustizia: Lo Giudice (Pd); oggi la presentazione del ddl sull'affettività in carcere La Presse, 21 gennaio 2015, 21 gennaio 2015 "Presento oggi alle 12 presso la Sala Caduti di Nassirya del Senato il ddl 1587 in materia di relazioni affettive e familiari dei detenuti. La privazione dell'affettività, la lacerazione delle relazioni familiari e l'innaturale rimozione della sessualità sono oggi delle crudeli pene accessorie per chi vive in carcere: è urgente riportare la questione in Parlamento". Così il senatore del Partito democratico Sergio Lo Giudice, primo firmatario del ddl n.1587 ‘Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni in materia di relazioni affettive e familiari dei detenutì. Il ddl vede tra i cofirmatari anche le senatrici e i senatori Manconi, Bencini, Cirinnà, Dalla Zuanna, Di Giorgi, Favero, Fedeli, Filippi, Rita Ghedini, Guerra, Idem, Margiotta, Mastrangeli, Pagliari, Palermo, Pezzopane, Ricchiuti e Spilabotte. Interverranno nel corso della conferenza Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani in Senato; Rita Bernardini, già parlamentare Radicale nella 16a legislatura; Desi Bruno e Franco Corleone, rispettivamente garanti per i diritti delle persone detenute in Emilia Romagna e Toscana, e Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti. Giustizia: il ministro Orlando; i processi si prescrivono per carenze amministrative Ansa, 21 gennaio 2015 La riorganizzazione e la razionalizzazione sono state la bussola dell'attività del ministero in questi mesi. Lo ha sottolineato il Guardasigilli Andrea Orlando, nella replica al Senato nel dibattito parlamentare sulla relazione del funzionamento della giustizia. Orlando ha risposto alle critiche definendo "ingiusto che l'attenzione sia rivolta solo alle modifiche di carattere normativo e processuale. È vero che quello di cui si parla sono le modifiche che noi proponiamo, modifiche di carattere processuale e sostanziale". "Ma non è questo - ha continuato Orlando - l'aspetto al quale abbiamo dedicato la maggiore attenzione: ci siamo preoccupati soprattutto di organizzazione, fotocopie, computer e personale. È inutile discutere dei tempi della prescrizione se i processi si prescrivono perché non c'è chi svolge le funzioni amministrative necessarie a istruire i processi, é inutile continuare a discutere di esecuzione della pena conforme se non abbiamo il personale per assicurare il trattamento, se non abbiamo gli educatori o gli psicologi". "Di tutto questo non si parla, perché è più facile parlare di un anno in più o in meno, previsto in una proposta che viene avanzata o della circolare che il ministero fa per provare a raddrizzare una situazione. Di tutto questo, le forze politiche non discutono. Sono passati undici mesi da quando si è insediato questo governo, mentre sono 25 anni - ha concluso Orlando - che non si interviene sull'assetto dell'organizzazione. Credo sarebbe un punto sul quale riflettere attentamente". Mussini (Misto): ok plauso orlando nostra risoluzione "Dal superamento reale degli Opg alla nomina del Garante dei detenuti, dall'abolizione del reato di clandestinità all'istituzione di quello di tortura. Fa piacere constatare che il ministro Orlando abbia riconosciuto la concretezza della nostra risoluzione". A dirlo è la senatrice del gruppo Misto, Maria Mussini, membro della commissione Giustizia di Palazzo Madama e tra i primi firmatari del documento approvato a larghissima maggioranza dal Senato. "Il nostro auspicio, a questo punto - prosegue Mussini - è che possa crearsi davvero una sinergia per migliorare il sistema della giustizia in Italia, attraverso un potenziamento dell'organico e delle risorse. Occorre puntare subito sulla piena informatizzazione della macchina giudiziaria e, al tempo stesso, su una rapida attuazione delle riforme in campo. A cominciare dall'approvazione dei disegni di legge in materia di diritti civili". Secondo la senatrice del Misto, infine, "la bussola dovrà essere, da un lato, il superamento delle norme che avallano comportamenti non virtuosi quali condoni ed elusione fiscale e, dall'altro, misure volte a realizzare sul serio il percorso rieducativo della pena". Giustizia: responsabilità civile e impunità dei magistrati di Valter Vecellio Notizie Radicali, 21 gennaio 2015 Abbiamo ascoltato l'altro giorno l'appello lanciato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando ai partiti di partiti di maggioranza e opposizione, perché si sappia e voglia superare quello che ha definito uno scontro politico "ventennale", capace di produrre "uno dei più grandi macigni per la crescita". Bene, bravo. Dunque signor ministro Orlando? Tra i parametri per valutare lo stato di salute del pianeta giustizia, il ministro cita anche il nodo mai sciolto sulla responsabilità civile dei magistrati: solo 4 casi di condanna su 400 cause da quando la legge Vassalli è in vigore; se consideriamo che la legge è del 1988, si può dire che è come non ci fosse; e non si può davvero dire che in tutti questi anni, di errori giudiziari non se ne siano fatti, e anche di gravissimi; ci sono persone che ne sono morte. Il ministro Orlando arriva così alla conclusione, bontà sua, che quella norma "non tutela i cittadini"; ne ricava che va cambiata; ma tranquilli, senza comunque intaccare l'indipendenza dei giudici. Bene, bravo. Dunque signor ministro Orlando? La magistratura associata è mobilitata per scongiurare che possa accadere d'essere chiamati a rispondere direttamente degli errori commessi per dolo o colpa grave. Scambiano indipendenza per impunità. Silenzio, assoluto, invece per una situazione gravissima e che emerge dai dati ufficiali diffusi dallo stesso ministero di giustizia. E cioè che negli ultimi dieci anni oltre un milione e mezzo di processi sono andati in fumo per prescrizione: centocinquantamila l'anno, più o meno. Una situazione che non è dovuta a manovre ostruzionistiche o dilatorie degli avvocati difensori; di quel milione e mezzo di prescrizioni oltre un milione e centomila, il 73 per cento, sono andati in fumo quando il procedimento è ancora in fase di indagine preliminare, archiviati dal Giudice delle Indagini Preliminari. Altri sessantamila circa, sono andati al macero per prescrizione disposta dal Giudice per l'Udienza Preliminari. Dunue, signor ministro Orlando? Venerdì prossimo a Roma si aprirà l'anno giudiziario 2015, e sabato analoghe cerimonie si terranno in tutti i capoluoghi di regione; è l'occasione per tracciare uno stato di salute della Giustizia italiana. Vedremo cosa verrà detto, quale sarà il quadro che sarà tracciato, i giudizi che verranno dati sulle riforme di cartone del governo Renzi. A quanti sbuffando dicono che barba questi radicali con il loro chiodo fisso sulla giustizia, si può per ora rispondere citando alcuni dati ricordati ieri da Francesco Manacorda su "La Stampa": "L'Italia è in una umiliante posizione, 247esimo posto su 198 paesi, nella classifica stilata dalla Banca Mondiale, quando si parla di esecuzione forzoso di un contratto per via giudiziaria. 147esimi nell'ultima rilevazione, 147esimi nella precedente, con un progresso dello 0,00 per cento 1.185 giorni per chiudere un procedimento, contro una media di 540 giorni degli altri paesi Ocse… È innegabile che il mix di tempi della giustizia lunghi e scarsa certezza del diritto sia una miccia esplosiva per qualsiasi operatore economico". Dunque, signor ministro Orlando? Giustizia: la giurisprudenza può cambiare… lo dice la Cassazione di Sergio e Matteo Polisicchio Il Garantista, 21 gennaio 2015 È legittima la sentenza che disattende la pronuncia del giudice di prima istanza se nelle more del processo interviene un mutamento giurisprudenziale riguardante norme di natura sostanziale. Questo è quanto afferma la Corte di Cassazione, sesta sezione tributaria, nella sentenza n. 174/2015 depositata il 9 gennaio 2015. L'ordinamento processuale italiano, non contemplando il principio del "precedente vincolante", garantisce che l'attività interpretativa di un giudice non costituisce mai limite all'attività esegetica di un altro giudice. Ciò non significa che ogni giudice è libero di interpretare le norme a suo piacimento e senza considerare le pronunce di altri suoi colleghi. Il principio del precedente vincolante infatti, seppure non essendo contemplato nel nostro ordinamento processuale, è riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, oltre che dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo, quale "direttiva di tendenza immanente all'ordinamento, in base alla quale non ci si può discostare da una interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione nomofilattica, senza forti ed apprezzabili ragioni giustificative" (v. Cass. SS.UU. 13620/2012). In sostanza ogni giudice si può discostare da interpretazioni normative fornite da altri giudici, purché ne fornisca adeguata motivazione, se ritiene che una difforme e nuova interpretazione sia più idonea a definire in modo corretto la controversia cui è chiamato a dirimere. Alla luce di questi principi, e non solo, deve ritenersi legittima la sentenza del giudice di seconde cure che annulla la pronuncia precedente fondata su un nuovo indirizzo giurisprudenziale difforme dal filone interpretativo su cui era fondata la sentenza di primo grado. Ma una simile conclusione è lesiva del principio del legittimo affidamento e del principio della certezza del diritto di una delle parti processuali? Cioè: è legittimo tutelare "l'autonomia interpretativa" dei giudici della Repubblica (di merito e di legittimità) in spregio alle aspettative riposte (affidamento) da una delle parti processuali nell'orientamento giurisprudenziale vigente all'epoca in cui si svolgevano i fatti di causa e magari anche il primo grado del processo? Secondo quanto afferma la sentenza qui commentata, no. Il mutamento giurisprudenziale avente ad oggetto l'interpretazione di una norma sostanziale ha infatti, secondo la Corte, portata retroattiva. Le pronunce che generano un mutamento giurisprudenziale, anche se pronunciate dalla Suprema Corte, rimangono sempre suscettibili di essere disattese in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica per i principi sopra esposti. Dunque l'affidamento di una delle parti processuali all'interpretazione normativa precedente non può trovare tutela in una simile circostanza dato che "l'aspettativa" della parte è riposta in un dato, le sentenze della Corte di Cassazione, sempre potenzialmente esposto a modifiche interpretative; inoltre tali sentenze, per natura, non hanno forza di legge in quanto trattasi di fonti atipiche del diritto. È evidente quindi che non si assiste ad alcuna lesione del principio del legittimo affidamento dato che di "legittimo", fonti aventi forza di legge, non c'è nulla. Solo il mutamento giurisprudenziale avente ad oggetto l'interpretazione di norme processuali non può esplicare, a determinate condizioni, i suoi effetti in maniera retroattiva e precisamente non perché violi il principio del legittimo affidamento o il principio della certezza del diritto, ma perché lederebbe il diritto al giusto processo costituzionalmente tutelato. Tutt'al più, nella materia tributaria, il mutamento giurisprudenziale può, in alcuni casi, essere riconosciuto quale condizione per la non applicazione delle sanzioni per "obiettive condizioni di incertezza" ai sensi dell'art. 10 dello Statuto del contribuente (L. 212/2000). La pronuncia in commento, ricca di spunti e di interessanti riferimenti a sentenze della Corte di Strasburgo, è a parere di chi scrive assolutamente condivisibile. Giustizia: decreto sui "foreign fighters", carcere fino a dieci anni per chi si auto-addestra Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2015 Punire non solo chi arruola e addestra i terroristi, ma anche chi si mette a disposizione della "causa", chi si auto-addestra e chi organizza i viaggi all'estero dei foreign fighters. Estendere ai potenziali combattenti la possibilità di applicare le misure di prevenzione personali, tra cui il divieto di espatrio. Aumentare la pena del carcere per i reati di istigazione e apologia del terrorismo quando sono commessi attraverso il web. E istituire una "black list" dei siti internet, continuamente aggiornata. Sono questi i principali contenuti del "disegno di legge recante misure per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale", che il Sole 24 Ore è in grado di anticipare e che è arrivato oggi a Palazzo Chigi. Dal primo giro di tavolo il Governo ha però deciso di agire per decreto legge, rinviando l'esame dell'intero pacchetto a giovedì unendolo a quello per le missioni. Espulso studente turco della Normale di Pisa Le norme messe a punto dal ministero dell'Interno intervengono su diversi articoli del Codice penale "per attualizzare - si legge nella relazione illustrativa - la vigente disciplina degli strumenti normativi in materia di prevenzione e repressione dei fenomeni terroristici, in particolare quelli di matrice internazionale". E proprio oggi è trapelata la notizia che a fine dicembre uno studente turco, iscritto a un corso della Scuola Normale di Pisa, è stato espulso dall'Italia: avrebbe postato messaggi anti-occidentali su blog e siti islamisti monitorati dalla polizia. Una corsia preferenziale per chi agisce sotto copertura Il Governo è intenzionato a intervenire per aumentare la protezione degli informatori. Si prevede la possibilità, per il questore, di rilasciare permessi di soggiorno a fini informativi anche a chi è ritenuto un informatore necessario per la lotta alla criminalità transnazionale. Si va poi dalla possibilità di rilasciare documenti di copertura (e relative garanzie) anche a soggetti che non appartengono ai servizi segreti ma che si muovono in concorso con loro alla possibilità, per gli agenti dei servizi, di deporre in sede testimoniale mantenendo le generalità di copertura. Un'altra proposta prevede di consentire ai servizi di ricevere da Bankitalia gli esiti delle analisi effettuate sulle operazioni sospette trasmesse da banche e professionisti. Foreign fighters nel mirino Ma la vera stretta sui "combattenti" passa per la previsione di nuovi reati. All'articolo 270-quater del Codice penale si ipotizza di aggiungere un secondo comma che recita: "Fuori dei casi di cui all'art. 270-bis, e salvo il caso di addestramento, la persona arruolata è punita con la pena della reclusione da tre a sei anni". Un nuovo articolo 270-quater 1 dovrebbe punire, sempre con il carcere da tre a sei anni, "chiunque organizza, finanzia o propaganda viaggi finalizzati al compimento delle condotte con finalità di terrorismo di cui all'articolo 270-sexies". Con l'articolo 270-quinquies ("Addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale") si propone di punire invece con la reclusione fino a dieci anni non solo chi addestra al combattimento o all'uso di armi ma anche chi "acquisisce, anche autonomamente, le istruzioni" per combattere o utilizzare armi ed esplosivi. Le pene previste "sono aumentate se il fatto è commesso attraverso strumenti informativi e telematici". Il giro di vite sul web Anche le pene per i reati di istigazione a delinquere (articoli 302 e 414 Cp) sono aumentate "se è il fatto è commesso attraverso strumenti informatici e telematici". Il provvedimento punta inoltre ad affidare all'organo del ministero dell'Interno per la sicurezza e la regolarità dei servizi di telecomunicazione l'aggiornamento di un elenco di siti usati per finalità terroristiche. Su richiesta dell'autorità giudiziaria si prevede che i provider "inibiscono l'accesso ai siti" inseriti nella black list. La stretta sulle armi fai-da-te Dopo l'articolo 678 del Codice penale il Governo propone di inserire un articolo 678 bis che punisce con l'arresto fino a 18 mesi e con l'ammenda fino a 247 euro la "detenzione abusiva di precursori di esplosivi", le sostanze usate per fabbricare "bombe" in casa. Un altro articolo, il 679-bis, è previsto per punire con l'arresto fino a 12 mesi o con l'ammenda fino a 371 euro anche chi omette di denunciare il furto o la sparizione dei "precursori" e con la sola sanzione da mille a 5mila euro chi non segnala "transazioni sospette". Il ddl allenta poi le maglie del trattamento dei dati personali da parte delle forze di polizia e inserisce i nuovi reati tra quelli per i quali possono essere autorizzate "condotte previste dalla legge come reato" per le quali non è opponibile il segreto di Stato. Giustizia: la radicale Donatella Corleo rilancia su Facebook la grazia a Toto Cuffaro Adnkronos, 21 gennaio 2015 Parte dal profilo Facebook della militante radicale Donatella Corleo il rilancio della grazia all'ex governatore della Sicilia Totò Cuffaro. "In nome della madre Ida, rilancio: sì alla grazia per Totò Cuffaro" scrive Corleo che aggiunge: "Non sono stata mai una sostenitrice né una elettrice di Totò Cuffaro, ma al suo "disubbidisco" alla richiesta di grazia presentata circa un anno fa dalla madre Ida, sia pure inchinandomi, ragionevolmente commossa ed emozionata per le ragioni che l'ex presidente della Regione adduce nel suo "non voglio fatta la carità", non sono d'accordo". Cuffaro si trova oggi nel carcere romano di Rebibbia dove ha già scontato quattro dei sette anni della condanna per favoreggiamento a Cosa Nostra. "La grazia, politicamente, - aggiunge la militante siciliana dei Radicali - non è la carità cristiana e chi, come Cuffaro cittadino-detenuto nel carcere di Rebibbia, con grazia, carità e speranza vive, "disubbidendo" alla madre e richiamando i legislatori affinché a tutti coloro che condividono il suo stato attuale siano garantiti trattamenti umani, merita attenzione e dovrebbe indurre, a chi ne ha o avrà facoltà, a rispondere alla richiesta di una madre". Sicilia: il Garante dei detenuti manca da quasi due anni, presentata interrogazione all'Ars www.extraquotidiano.it, 21 gennaio 2015 A firmarla i deputati della Lista Musumeci per chiedere come mai il governo regionale non abbia ancora provveduto alla nomina. Si tratta di "una figura importantissima per la riabilitazione sociale dei carcerati". Un'interrogazione parlamentare è stata presentata all'Ars dai deputati della Lista Musumeci, Gino Ioppolo primo firmatario, Nello Musumeci e Santi Formica, per chiedere come mai il governo regionale non abbia ancora nominato il "Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale". La carica, istituita presso la presidenza della Regione, è vacante da oltre un anno e mezzo, da quando cioè, scaduti i sette anni all'ormai ex garante Salvo Fleres, il governatore Crocetta non ha né riconfermato l'incarico, che è a titolo gratuito, né provveduto a una nuova nomina. La legge regionale stabilisce infatti che la nomina avviene con decreto del presidente della Regione. "Ci chiediamo quali siano i motivi del ritardo - dicono i parlamentari - e se il presidente della Regione non ritenga urgente e indifferibile procedere a tutela e promozione di inviolabili diritti umani. Il Garante, osservano i deputati - oggi è una figura importantissima per la riabilitazione sociale del detenuto, visto che tra i suoi compiti rientrano la promozione e l'agevolazione dell'inserimento lavorativo, il recupero culturale e sociale, la formazione scolastica e universitaria, il sostegno alla famiglia e ai figli minorenni, la vigilanza sull'esercizio dei diritti fondamentali dei detenuti e dei loro familiari". Reggio Emilia: Ospedale Psichiatrico Giudiziario, detenuto si toglie la vita in cella di Giulia Zaccariello Il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2015 Ha aspettato la fine dei controlli giornalieri. Ha scambiato due parole con un infermiere e ha guardato gli agenti e il personale allontanarsi dalla cella. Poi, una volta rimasto solo, si è tolto la maglietta intima e l'ha trasformata in un cappio da legare alle sbarre della cella. Così un uomo, un italiano di circa 50 anni, si è tolto la vita all'Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, dove era rinchiuso da tempo. È successo nei primi giorni di gennaio, almeno due settimane fa, anche se la notizia è emersa ed è stata confermata solo in questi giorni. Un caso che va allungare una lista nera, composta di suicidi e tentativi di togliersi la vita, ma anche di gesti di autolesionismo, aggressioni e incidenti, nel peggiore dei casi mortali. Proprio mentre il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, assicura la chiusura di tutte gli ospedali psichiatrici (ne sono rimasti sei in Italia, per 780 persone), entro marzo 2015. In quest'ultimo suicidio di Reggio Emilia, a fare la differenza è stata una manciata di minuti. Quando l'uomo si è legato la maglietta intorno al collo era sera e il personale si era appena allontanato dalla cella. Sono stati chiamati medici del 118, che però non hanno fatto in tempo a salvarlo e a rianimarlo. Secondo Michele Malorni, segretario provinciale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, si tratta di "sfortuna, non di sconfitta". Oggi nei sei reparti dell'Opg di Reggio Emilia sono ricoverate 142 persone (fino a qualche anno fa erano più del doppio), tutti uomini. Ma di questi sono trenta quelli sistemati nel reparto di stretta sorveglianza, guardati a vista 24 ore su 24, e sempre accompagnati negli spostamenti anche dalla polizia. "La struttura del carcere, con le inferriate e le celle, non è adatta a tutti. Alcuni di loro, quelli che si dimostrano più aperti al dialogo e più collaborativi, dovrebbero essere sistemati in ambienti diversi, dove possano essere curati e riabilitati. Vanno pensate soluzioni alternative". Spesso, chi lavora dentro l'Opg deve gestire situazioni al limite, momenti complicati e delicatissimi. Dentro ci sono persone che non solo soffrono di disagi psichici, ma spesso hanno un passato di reati, talvolta violenti, alle spalle. Lo stress è tanto. Chi sta dentro deve far fronte a gesti di autolesionismo, occuparsi di pazienti che ingeriscono oggetti o prendono a testate le pareti della cella. Aggressioni ed esplosioni di rabbia sono all'ordine del giorno. Il Sappe da tempo chiede il superamento del sistema dell'Opg, ma anche strumenti più adatti all'interno degli istituti e maggiori tutele per gli operatori. "Per i soggetti più pericolosi è necessaria la contenzione fisica e chimica, con i sedativi. Abbiamo bisogno di una camera di decompressione, con pareti morbide. E di un letto di coercizione per coloro che danno in escandescenza. Questo anche per il loro bene, e per tutelare gli operatori e chi lavora". L'episodio di Reggio Emilia riapre la finestra sul caso degli Opg, una storia tutta italiana, fatta di rinvii e continue proroghe. Nel 2012, dopo che un'inchiesta dell'allora senatore, Ignazio Marino, aveva rivelato le condizioni di vita disumane all'interno degli Opg italiani, la commissione giustizia aveva dato il via libera alla chiusura definitiva entro primavera del 2013. Al posto degli Opg dovevano essere realizzati le Rems , ossia residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, in capo alle Asl regionali. Strutture di cui per ora non si vede nemmeno l'ombra. Anche perché dal 2013 a oggi, ogni anno, il termine è stato spostato di 12 mesi, con relativi promesse e annunci. L'ultimo è di pochi giorni fa. Quando il guardasigilli Orlando ha assicurato il "superamento del sistema del Opg" entro cento giorni. Reggio Emilia: non ha i denti, ma all'Opg gli danno la carne, muore da solo di asfissia di Damiano Aliprandi Il Garantista, 21 gennaio 2015 La struttura emiliana è in abbandono: bagni luridi, cibo in piatti sporchi, persino un ricoverato senza gambe che mangia per terra come i cani. Aveva passato la mattinata con lo psichiatra e lo psicologo, poi ha pranzato e si è accasciato a terra. Venne notato riverso a terra dentro la sua cella dal personale dell'Opg dove era rinchiuso e dai medici che quel giorno erano in struttura perché si stavano recando da un altro internato. Gli praticarono le prime manovre rianimatorie. Poi, chiesero l'intervento del 118. Ma nulla da fare: quel maledetto 12 gennaio del 2013, il ragazzo era morto. È la tragica storia di Daniele De Luca, un ragazzo romano di 29 anni internato all'ospedale psichiatrico giudiziario perché era affetto da schizofrenia paranoide. Una patologia che lo rendeva violento e aggressivo. I suoi genitori non poterono altro che denunciarlo per maltrattamenti, sperando che potesse essere quello un modo per salvarlo. E questa la vicenda giudiziaria che lo fece invece finire in comunità e ospedali psichiatrici da un capo all'altro dell'Italia, fino al suo arrivo, nell'ottobre 2012, all'Opg di Reggio Emilia. I genitori però non lo abbandonarono mai. "Lo venivamo a trovare spesso. L'ultima volta, il giorno prima della Befana" confida il padre. Il 12 gennaio 2013, però, accadde la tragedia. E stato l'esame autoptico a chiarire le cause del decesso: asfissia. Il medico legale incaricato dalla procura, la dottoressa Barbara Collini, in sede di autopsia trovò la causa dell'asfissia: un pezzo di carne di 10 centimetri per 6. Partì un'inchiesta giudiziaria a carico dì ignoti per accertare varie responsabilità, ma un anno fa ci fa la richiesta di archiviazione alla quale i genitori della vittima si opposero. Troppe cose non quadrano. A partire proprio dalla dieta alimentare riservata a Daniele. "Il giovane era quasi completamente senza denti e i farmaci che prendeva provocano ovviamente problemi alla masticazione e alla deglutizione - fa notare l'avvocato della famiglia Rossi Albertini. Una bistecca evidentemente non era adatta alla sua condizione. E le "Linee guida nazionale per la ristorazione ospedaliera ed assistenziale" riportano che in caso di pazienti con disturbi del genere e necessario prevedere a cibi adeguati". Ma c'è anche un altro punto oscuro da chiarire. La famiglia - attraverso una approfondita relazione redatta dal perito di parte - espone dubbi anche sulla correttezza delle manovre di soccorso prestate al giovane. Ci si domanda come mai non si siano accorti di un pezzo di carne in gola di quelle dimensioni. Se l'avessero rimosso, molto probabilmente il ragazzo poteva essere salvato. Per far luce su tutte queste anomalie, il giudice delle indagini preliminari, un anno fa, ha respinto la richiesta di archiviazione e ha chiesto ulteriori accertamenti. Nel frattempo sono passati due anni dalla morte di Daniele, e i familiari attendono ancora giustizia e verità. Ma in quale situazione è maturata la morte del ragazzo? In una struttura infernale e da denuncia. A dirlo è don Daniele Simonazzi, esattamente il cappellano del carcere psichiatrico di Reggio Emilia. Il sacerdote non ha peli sulla lingua e fa una descrizione allucinante della struttura: il 70% dei servizi igienici è incrostato, tubature in evidente degrado, vestiti sporchi, vetri mai puliti, mancano detersivi e saponi, viene servito il cibo nei piatti sporchi del giorno prima, per non parlare di un ricoverato senza gambe che mangia per terra ("Come i cani..."). Il perché è presto detto: "Manca coordinamento fra la parte amministrativa e quella sanitaria dell'opg - spiega il sacerdote - con accuse reciproche. Dei cinque settori in cui è diviso l'Opg, uno è seguito dagli agenti penitenziari, gli altri quattro dall'Asl, Eppure non ho mai visto i dirigenti dell'Asl venire a vedere di persona cosa accade nella struttura. Il 50% delle celle fanno schifo! Ma tanto prima o poi lo chiudono. E, senza risorse, si va avanti grazie alla buona volontà degli operatori, ma c'è tanta frustrazione fra il personale". Nel frattempo ancora rimane il dubbio - e più passa il tempo diventa sempre più concreto - se gli Opg verranno chiusi entro il 31 Marzo. La legge parla chiaro: o le regioni provvedono a chiudere le strutture entro tale data, oppure arriva il commissariamento. Ma si potrebbe prospettare anche una terza ipotesi che creerà forte imbarazzo alle istituzioni e al futuro presidente della Repubblica: l'ennesima proroga. Nel frattempo gli internati continuano a vivere negli Opg. Abbandonati, prigionieri e non di rado lasciati morire. Reggio Emilia: morti sospette, suicidi, situazioni al limite… e li chiamano Opg La Gazzetta di Reggio, 21 gennaio 2015 Sono sei gli ospedali psichiatrici giudiziari in Italia, più noti come Opg. Uno dei sei si trova a Reggio Emilia. Da anni, si parla della chiusura di queste strutture, del tutto inadeguate a gestire in modo adeguato i reclusi. A fine marzo ci sarà l'ennesima scadenza e, con ogni probabilità, l'ennesimo rinvio. Una volta chiusi, i "manicomi criminali" - perché di questo si tratta - dovrebbero lasciate spazio alle Rems, residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza. Ogni Regione è chiamata a creare e gestire le proprie Rems, per gestire in loco gli ex reclusi. I quali, di fatto, passano dal ministero della Giustizia a quello della Salute, dallo Stato alle Regioni. Una serie di gravissimi fatti accaduti all'Opg di Reggio Emilia ha riacceso i riflettori su questa vergogna d'Italia, che qui proviamo a raccontarvi. "È da due anni che mio figlio è morto. Io aspetto ancora di sapere la verità e che venga fatta giustizia". Michele De Luca, 52 anni, è il padre di Daniele: un ragazzo di 29 anni di Roma quartiere Tor Bella Monaca, internato all'Opg di Reggio e morto in cella il 12 gennaio 2013 soffocato da un pezzo di bistecca. È una storia dolorosa quella che racconta l'uomo. La storia di un padre e di una madre, che per anni hanno dovuto fare i conti con la difficile malattia del figlio: una schizofrenia paranoide che era capace di farlo diventare violento, aggressivo. Una lotta quotidiana che li aveva esasperati al punto che un giorno la donna, all'ennesima aggressione, aveva denunciato il figlio per maltrattamenti. Sperando che potesse essere quello un modo per salvarlo. È questa la vicenda giudiziaria che lo fece invece finire in comunità e ospedali psichiatrici da un capo all'altro dell'Italia, fino al suo arrivo, nell'ottobre 2012, all'Opg di Reggio. I genitori però non lo abbandonarono mai. "Lo venivamo a trovare spesso. L'ultima volta, il giorno prima della Befana" confida il padre. Quel maledetto 12 gennaio 2013, però, successe qualcosa. È il legale della famiglia, l'avvocato Flavio Rossi Albertini, a raccontare: "Daniele viene notato riverso a terra dentro la sua cella da personale dell'Opg e medici che sono quel giorno in struttura perché si stanno recando da un altro internato. Gli praticano le prime manovre rianimatorie. Poi, chiedono l'intervento del 118". Fu il personale medico di Reggio Soccorso a rilevare che Daniele aveva un primo pezzo di carne in bocca e a rimuoverlo. Poi, nonostante i tentativi di rianimazione, il 29enne morì. È stato l'esame autoptico a chiarire le cause del decesso: asfissia. E il medico legale incaricato dalla procura, la dottoressa Barbara Collini, a rilevare e a rimuovere in sede di autopsia un "bolo carneo in regione sovraglottica": un pezzo di carne, dunque, la bistecca del pasto appena consegnato, di dimensioni 10 centimetri per 6. L'inchiesta per omicidio colposo a carico di ignoti, coordinata dal sostituto procuratore Valentina Salvi, un anno fa è arrivata a una richiesta di archiviazione. A cui, però, il legale della famiglia si è opposta. "Per noi esistono invece più profili di responsabilità" evidenzia l'avvocato Rossi Albertini. A partire da una questione: la dieta alimentare riservata a Daniele. "Il giovane era quasi completamente senza denti e i farmaci che prendeva provocano ovviamente problemi alla masticazione e alla deglutizione - fa notare - Una bistecca evidentemente non era adatta alla sua condizione. E le "Linee guida nazionale per la ristorazione ospedaliera ed assistenziale" riportano che in caso di pazienti con disturbi del genere è necessario prevedere a cibi adeguati". In modo, dunque, che non rischino di soffocare solo per colpa di un grosso pezzo di bistecca. Ma la famiglia attraverso una approfondita relazione redatta dal perito di parte, il dottor Natale Mario di Luca, espone dubbi anche sulla correttezza delle manovre di soccorso prestate al giovane. "Come è possibile che non si siano accorti di un pezzo di carne in gola di quelle dimensioni? Senza la sua rimozione ogni tentativo di rianimazione si è rivelato vano: non passava aria. Noi riteniamo che non tutto sia stato svolto correttamente" conclude Rossi Albertini. Il giudice per le indagini preliminari, un anno fa, ha respinto l'archiviazione rimandando al pubblico ministero ulteriori accertamenti: chiarire chi dovesse decidere la dieta alimentare dell'internato, un approfondimento sulle linee guida alimentari e ha chiesto di sentire il personale del 118 intervenuto. "Ho pensato anche di venire a Reggio, di incatenarmi. Son due anni che aspettiamo la verità. Per Daniele e per gli altri ragazzi internati" conclude il padre. Reggio Emilia: Regione pronta a chiudere l'Opg, in allestimento residenza per gli internati di Luciano Salsi La Gazzetta di Reggio, 21 gennaio 2015 "Entro il 31 marzo i pazienti per i quali non sono previste le dimissioni saranno trasferiti, come prevede la legge, nelle cosiddette Rems, le residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza attualmente situate nell'azienda Ausl di Bologna e Parma, in attesa del completamento dei lavori della struttura di Reggio Emilia. In questi giorni sono già stati attivati i contatti con le altre Regioni, che dovranno farsi carico dei pazienti non residenti in Emilia-Romagna e attualmente ospitati a Reggio". Dopo la relazione alla Camera del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è il sottosegretario alla presidenza della Regione, Andrea Rossi, a tracciare le tappe che potrebbero portare nell'arco di poco più di un mese alla chiusura dell'Opg di via Settembrini, l'unica struttura presente nella nostra regione. Sei strutture in Italia. L'Emilia-Romagna sta arrivando quasi puntuale all'appuntamento del 31 marzo, data fissata dalla legge 9 del 2012 per la chiusura dei sei ospedali psichiatrici giudiziari esistenti in Italia. Oltre a Reggio, infatti, le strutture sono presenti soltanto in altre cinque città italiane: Castiglione delle Stiviere (nel Mantovano), Barcellona Pozzo di Gotto (in provincia di Messina), Montelupo Fiorentino (in provincia di Firenze), Napoli e Aversa (nel Casertano). Le Regioni devono adeguarsi. Se tutto dipendesse soltanto dalla nostra Regione, non ci sarebbero problemi ad abolire l'Opg di via Settembrini, la cui inadeguatezza è sottolineata dai due recentissimi casi tragici, la morte del ventinovenne soffocato da una bistecca, e il suicidio di un cinquantenne. Il fatto è, però, che sui 146 detenuti che vi erano rinchiusi alla fine del 2014 (ora sono 141) meno di una trentina sono destinati ad essere presi in carico dal servizio sanitario dell'Emilia-Romagna, dove sono residenti, per i quali sarebbero già stati predisposti piani di assistenza individuali. Degli altri internati - dai quali bisogna escludere anche una cinquantina di detenuti che verosimilmente verranno trasferiti in carcere o in altre strutture dove scontare la pena - devono prendersi cura le altre regioni in cui risiedono, che però non sono tutte ugualmente pronte. E già da due settimane da viale Aldo Moro sono partite lettere indirizzate alle altre Regioni per portare avanti un progetto che vede l'Emilia-Romagna pronta al cambiamento. Nuove proroghe? È possibile, quindi, che il reparto di via Settembrini continui ad ospitarli, se il Parlamento approverà una nuova proroga della chiusura degli Opg, già destinati alla soppressione il 31 marzo 2013 e poi entro il 31 marzo dell'anno scorso. Lavori in via Montessori. "La Regione - spiega Daniela Riccò, direttore sanitario dell'Ausl - sta predisponendo quanto serve per attuare in ogni caso le disposizioni di legge. Anche oggi (ieri per chi legge, ndr) Gaddomaria Gaddi, direttore del dipartimento di salute mentale e dipendenze patologiche, si è recato a Bologna per mettere a punto il piano. La volontà generale è quella di rispettare la scadenza, poiché gli Opg sono realtà indegne. I trenta reclusi verranno provvisoriamente sistemati nelle province di Bologna e Parma, in attesa che venga realizzata a Reggio in via Montessori, in un'area di proprietà dell'Ausl, la nuova Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza". StopOpg dice "no". Non è questa, tuttavia, una soluzione da tutti condivisa. L'associazione Stopopg, che si ispira integralmente alle teorie di Franco Basaglia, il padre della riforma psichiatrica e dell'abolizione degli ospedali psichiatrici, vi si oppone, considerando le Rems una sorta di minimanicomi. A loro avviso i reclusi dovrebbero essere immediatamente trattati come gli altri malati psichiatrici, che vivono in famiglia o nelle comunità. La Regione, pur mirando a perseguire questo risultato, si propone di arrivarci gradualmente. "È dal 2008 - riferisce la dottoressa Riccò - che la legge affida la cura dei reclusi alle Ausl anziché ai medici dell'Opg. Il nostro personale psichiatrico interviene da allora con la sua professionalità, consentendo un numero rilevante di dimissioni e un miglioramento delle condizioni di vita". Sempre meno affollamento. I numeri lo dimostrano. All'inizio l'Opg era sovraffollato. Oggi ospita un numero di persone quasi pari alla capienza di 131 posti letto. Nel 2008 aveva 275 reclusi, divenuti 295 nel 2010 e poi calati a 276, 224, 173 e a 171 un anno fa. Le dimissioni, dovute peraltro anche a ritorni in carcere, sono state 227 nel 2010 e poi 205, 245 e 156 nel 2013. Di questo passo l'Opg si sarebbe estinto spontaneamente. Purtroppo, però, vi sono stati portati detenuti da altre regioni. "In teoria - rileva la dottoressa Riccò - vi dovrebbero trovare posto soltanto quelli dell'Emilia- Romagna e delle altre tre regioni del bacino di pertinenza. Di fatto ce n'erano e ce ne sono molti provenienti dal resto d'Italia". Tutta Italia a Reggio. Il primo gennaio 2014 se ne contavano in tutto 171. Ce n'erano 34 dell'Emilia-Romagna, che insieme ai 58 del Veneto, ai 6 del Trentino-Alto Adige, agli 8 del Friuli e ai 10 delle Marche completavano il bacino. Ce n'erano, però, anche 34 della Lombardia, 9 del Lazio e 30 di altre regioni. Per la nuova sistemazione di quelli dell'Emilia-Romagna erano stati stanziati un anno fa 17 milioni. "Inizialmente - spiega Daniela Riccò - si pensava a una struttura da 40 posti, oggi ridimensionata a 30. Una spesa da 8 milioni. Sette o otto milioni, quindi, serviranno per la Rems di via Montessori, gli altri per adeguare le strutture di collocazione temporanea nelle province di Parma e Bologna. I progettisti, con cui abbiamo avuto un incontro ieri, hanno 60 giorni di tempo per presentare il progetto. Poi si emanerà il bando per l'affidamento dei lavori, che dovrebbero incominciare dopo l'estate". Napoli: l'avvocato Attilio Belloni "c'è un abuso del carcere preventivo" di Dario Del Porto La Repubblica, 21 gennaio 2015 "È sempre sbagliato attribuire genericamente colpe ai magistrati. Ma l'ingiusta detenzione non può essere considerata un aspetto fisiologico del processo", dice l'avvocato Attilio Belloni, presidente della Camera penale di Napoli, che commenta i dati sul record di richieste di indennizzo, 308 in un anno, di cui 146 accolte, costate allo Stato 4,2 milioni di euro. Avvocato Belloni, dunque lei non è d'accordo con il presidente dell'ottava sezione penale della Corte di Appello, Giuseppe De Carolis, convinto che l'ingiusta detenzione non sia una "patologia", ma piuttosto "una falla del sistema "? "Credo che il problema vero sia rappresentato dall'abuso della custodia cautelare. Quello che doveva essere uno strumento eccezionale, è diventato un'anticipazione della pena che viola il principio costituzionale della presunzione di innocenza. Non lo sostengono solo gli avvocati, ma anche Papa Francesco: "La carcerazione preventiva - ha detto il Pontefice - costituisce un'altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di illegalità". Ecco perché sollecitiamo una riforma". Di che tipo? "Vanno introdotti limiti legali rigidi, in modo da ridurre sensibilmente la discrezionalità del giudice nell'applicazione delle misure cautelari. Basti pensare che un'alta percentuale di ordinanze viene annullata o riformata dal Riesame. Questo abuso, inoltre, contribuisce in maniera determinante al sovraffollamento e al trattamento disumano dei detenuti: al 31 dicembre 2014, su 7188 reclusi negli istituti della Campania, 1383 sono in attesa di giudizio di primo grado. In questo modo, la partita si gioca tutta nella fase cautelare, a discapito della inviolabilità della persona e della centralità del dibattimento". Che pensa della volontà del di introdurre nuove norme in materia di responsabilità civile dei magistrati? "L'avvocatura penale è favorevole a una riforma, sia pure in forma indiretta, come peraltro impone l'Unione Europea". Ma così non si rischia di condizionare negativamente la giurisdizione? "Purtroppo l'attuale sistema ha dimostrato di non funzionare. Dall'approvazione della legge Vassalli a oggi sono state emesse solo nove condanne per responsabilità civile dei magistrati. E non basta l'indennizzo per ingiusta detenzione a garantire il cittadino dagli errori". Pisa: ladri impuniti per legge…. l'amarezza del magistrato "ci sentiamo frustrati" di Pietro Barghigiani Il Tirreno, 21 gennaio 2015 Le nuove norme non prevedono la custodia cautelare per i reati sotto i 3 anni. Risultato: la lotta al crimine diventa quasi impossibile. Serve la flagranza. Se non lo beccano nella casa, già svaligiata o da ripulire, con gli arnesi del mestiere non c'è giustizia che tenga. Anche se lo scoprissero a distanza di tempo, bene che vada il ladro verrebbe denunciato, a meno che non sia un autore seriale e allora servirebbero indagini mirate e un'ordinanza di custodia cautelare chiesta da un sostituto procuratore e firmata da un gip. Procedure lontane dalla velocità di assicurare una risposta a chi si ritrova la casa sottosopra e la propria intimità violata. Impennata di furti. Dal 2009 al 2013 in Toscana i furti sono cresciuti del 60 per cento (da 11.993 a 19.203). Un boom esponenziale a cui si sono agganciati i dati su denunce e arresti: le prime schizzate a un più 106 per cento e i secondi al 129 per cento. Un fenomeno che avanza in progressione geometrica. "Liberi" di delinquere. Possono muoversi con la ragionevole certezza di non finire in carcere lo scippatore, il piccolo pusher, il truffatore di basso cabotaggio o chi spacca i finestrini delle auto per qualche spicciolo. Il copione. Entrano, senza manette, scortati dai carabinieri e si siedono accanto all'avvocato d'ufficio. In silenzio ascoltano la triangolazione di interventi tra pm onorario, legale e giudice. Arrestati per un furto su un'auto e processati per direttissima, due giovani marocchini dopo aver passato la notte nella cella di sicurezza della caserma arrivano in Tribunale. In una manciata di minuti il giudice convalida il fermo costato ai militari ore di appostamenti e un inseguimento concluso con qualche frizione fisica. Poi tocca al pm prendere la parola e chiedere la misura cautelare più idonea per i fermati. Quindi l'avvocato invoca i termini a difesa e il giudice aggiorna l'udienza per il dibattimento fissato di lì a qualche mese. Nel frattempo i due arrestati tornano liberi con il solo obbligo di firma. Fine della direttissima con i due marocchini che stringono la mano al legale, salutano i carabinieri che il giorno prima li avevano arrestati e si avviano in perfetta solitudine all'uscita del Tribunale: pronti a rubare di nuovo. Due detenuti in meno, così non si affolla il carcere, due ladri in più sulla strada Scene ordinarie nelle aule dove si celebrano le direttissime per quei reati di allarme sociale, dallo scippo al furtarello sull'auto o allo smercio di droga. Senso di frustrazione. "Di fronte a un simile scenario è inutile negare il senso di frustrazione della magistratura che si affianca a quello provato dalle forze dell'ordine". Antonio Giaconi, vice procuratore capo a Pisa, restituisce con efficacia lo stato d'animo dei protagonisti, a tutti i livelli, della battaglia quotidiana contro chi infrange il codice penale. "Come cittadino e come magistrato mi sento di dare la totale solidarietà alle persone vittime di furti o di reati in genere - aggiunge. Di contro non posso che evidenziare l'aspetto di un quadro normativo attuale che rende estremamente difficoltosa l'adozione di misure cautelari in carcere per la cosiddetta microcriminalità". La "svuota carceri". Con la consueta sintesi giornalistica è stata ribattezzata "svuota carceri". Di fatto la legge 92 del 2014, da un lato riduce gli ospiti dei penitenziari e dall'altro mostra il volto indulgente dello Stato verso chi commette reati. Il testo prevede il divieto di custodia cautelare in cella in caso di pena non superiore ai 3 anni. Tradotto: se il giudice ritiene che all'esito del giudizio la pena irrogata non sarà superiore ai 3 anni, per esigenze cautelari potrà applicare solo gli arresti domiciliari. La norma non vale però per i delitti ad elevata pericolosità sociale (tra cui mafia e terrorismo, rapina ed estorsione, furto in abitazione, stalking e maltrattamenti in famiglia) e in mancanza di un luogo idoneo per i domiciliari. Viene ribadito invece il divieto assoluto del carcere preventivo e dei domiciliari nei processi destinati a chiudersi con la sospensione condizionale della pena. E c'è da dire che tanti fascicoli sono spariti grazie all'abrogazione della parte della Bossi-Fini che prevedeva il reato di ingresso illecito in Italia. L'arresto viene mantenuto per gli immigrati che rientrano nel nostro Paese dopo un provvedimento di espulsione, ma non più come clandestini tout court. Torino: visita al carcere "Lorusso e Cutugno" di una delegazione mista Pd-Radicali www.radicali.it, 21 gennaio 2015 Si è svolta il 19 gennaio una visita al carcere Lorusso e Cotugno di Torino di una delegazione formata tra gli altri da Paola Bragantini (deputata del Pd) e Igor Boni (presidente dell'Associazione radicale Adelaide Aglietta). La delegazione, accompagnata dal direttore Domenico Minervini, ha visitato la parte della struttura dedicata alle donne. Ad oggi sono presenti 1240 detenuti. Il dato è in leggero aumento rispetto all'autunno del 2014 ma in netta diminuzione rispetto agli anni passati dove si sono toccate punte di oltre 1.500 presenze. La capienza regolamentare è di 1.125. Le donne attualmente presenti sono quasi 100. Il 38% dei detenuti non è "definitivo". Le celle contengono uno o due detenuti al massimo e l'apertura delle stesse è garantita per 8 ore giornaliere come previsto dalla sentenza europea. Dichiarazione di Paola Bragantini e Igor Boni: "Ringraziamo innanzitutto il direttore per la cortesia e lo spirito di iniziativa che ha consentito alla struttura di riaprire importanti attività come quella della panificazione che entro gennaio vedrà l'inaugurazione di un punto vendita in centro città. La diminuzione delle presenze rispetto al passato, pur se in percentuale minore rispetto ad altre strutture piemontesi, garantisce ad oggi una programmazione migliore delle attività e una migliore organizzazione. La disponibilità dimostrata dal direttore nell'aprire cantieri di utilità sociale, con l'utilizzo di detenuti a titolo gratuito in lavori di manutenzione del verde, meriterebbe una pronta risposta da parte delle istituzioni cittadine che auspichiamo. Il lavoro infatti resta l'elemento essenziale per garantire un vero processo di integrazione e reintegrazione sociale. L'apertura giornaliera delle celle (a parte la pausa dedicata al pranzo) consente una responsabilizzazione dei detenuti e un approccio più costruttivo nel lavoro degli agenti di Polizia penitenziaria i quali continuano ad essere sottorganico anche se i dati a tal riguardo sono in miglioramento rispetto alla carenza inaccettabile di alcuni anni addietro". "Nel complesso abbiamo trovato una struttura che, a parte alcune carenze che necessiterebbero di interventi di manutenzione (docce, impianti idrici), si trova in condizioni migliori rispetto alle ultime visite effettuate. Il sopralluogo all'interno dell'area dedicata alle donne ha consentito di verificare il cambio di tendenza in atto. La presenza dei figli, che oggi è limitata ai tre anni di età dei bambini, vedrà nell'immediato futuro l'apertura di un progetto (ICAM - Istituto di Custodia Attenuata Madri) che mira al mantenimento dell'unione con le madri recluse fino ai sei anni di età in aree aperte, dove poter svolgere attività ricreative senza presenza di sbarre". Salerno: carcere di Fuorni a "porte aperte", è rotto il cancello di Gaetano de Stefano La Città di Salerno, 21 gennaio 2015 Aumentata la sorveglianza notturna. Non ancora aggiustate alcune recinzioni divelte dal vento. Carcere a "porte aperte" a Salerno. Non è lo slogan di una nuova iniziativa ministeriale, alla stessa stregua di quella che vede coinvolti i musei, ma l'assurda condizione che vive la Casa circondariale di Fuorni. Che stavolta finisce nell'occhio del ciclone non per i problemi di sovraffollamento ma, piuttosto, per grattacapi legati a difficoltà di manutenzione ordinaria e straordinaria. Nell'istituto di pena salernitano, infatti, da diversi giorni il cancello principale d'accesso, da dove entra il personale e attraverso il quale vengono introdotti gli ospiti, è inutilizzabile. O meglio l'apertura automatica è completamente andata in tilt e, perciò, per non correre il rischio di restare chiusi all'interno e, presumibilmente, per difficoltà a farlo scorrere manualmente, si è preferito mantenere il cancello aperto per la metà. Uno stratagemma dettato dall'emergenza e che, probabilmente, durerà almeno fin quando non saranno definitivamente ripararti i guasti che hanno provocato l'inconveniente, anche se, a quanto pare, finora tutti i tentativi non avrebbero sortito gli effetti sperati. D'altronde sembra proprio che non si tratti di una novità assoluta, in quanto già durante le festività natalizie si sarebbe verificata qualche avvisaglia di rottura. Fatto sta che, giorno e notte, il cancello resta socchiuso, determinando un surplus di lavoro per gli agenti della polizia penitenziaria in servizio, costretti a presidiare la zona soprattutto durante le ore notturne e a mantenere ancora di più alta l'attenzione. Perché il disservizio è sotto gli occhi di tutti e, in particolar modo, dei familiari dei detenuti che nei giorni di visita, quando già di buon ora arrivano nel perimetro della struttura, si trovano d'avanti l'incredibile e inatteso scenario. Ma, purtroppo, i danni alle inferriate del carcere non s'esauriscono con il black-out del cancello d'ingresso. Da fine dicembre, infatti, sono divelte le recinzioni che costeggiano le abitazioni di pertinenza del penitenziario. I danni sono ben visibili e le sbarre divelte sono adagiate sul selciato da più 20 giorni. Precisamente dal 28 dicembre scorso, quando a causa delle violente raffiche di vento, un albero di grosse dimensioni si abbatté sul recinto in metallo, sfondandolo per circa trenta metri. Alessandria: detenuti e chef stellati... sotto la stessa cappa da cucina di Tatiana Gagliano www.radiogold.it, 21 gennaio 2015 "Pure ‘n carcere ‘o sanno fa". È questo il titolo della mostra che verrà ufficialmente inaugurata lunedì 2 febbraio all'Urp del Consiglio regionale del Piemonte a Torino. Una panoramica sui progetti nati dalla collaborazione tra l'Associazione "Sapori reclusi" con le carceri piemontesi e varie realtà associative e culturali del territorio. Frammenti di vita in cella, catturati anche grazie agli scatti del fotografo Davide Dutto che ha deciso di coinvolgere in speciali corsi di cucina diversi chef stellati e raccontare con immagini le storie e la quotidianità di alcuni detenuti, a partire dal "rito" della preparazione di una tazza di caffè, magistralmente descritto da Fabrizio De Andrè nella canzone "Don Raffaè", da cui è preso in prestito il verso che dà il titolo alla mostra. Tra le fotografie anche quella che ritrae un volto noto del territorio, lo chef alessandrino Andrea Ribaldone, intento a spiegare tutti i segreti per un perfetto risotto alla zucca ai detenuti del Don Soria di Alessandria. Nei mesi scorsi, ha raccontato a Radio Gold News, lo chef Ribaldone ha tenuto anche una lezione nel carcere di San Michele, dove ha insegnato le basi per una gustosa pasta al pesce e ha poi preso parte a una speciale cena di gala con 120 commensali all'interno della casa circondariale Santa Caterina di Fossano (Cn), preparata fianco a fianco con i detenuti e altri colleghi ‘stellatì, dal siciliano Pino Cuttaia, due stelle Michelin, al tristellato chef Enrico Crippa. "Dall'esterno qualcuno può pensare che chi sta scontando una pena abbia un'attenzione "relativa" rispetto a quello che avviene nel mondo esterno, ma in realtà non è così - ha raccontato ancora Andrea Ribaldone. I detenuti hanno dimostrato di avere una passione ‘visceralè per la cucina, che è una delle poche cose che riescono a fare tutti i giorni, arrangiandosi con quello che hanno a disposizione nelle celle. Anche per noi cuochi è stata una bellissima esperienza perché abbiamo dovuto cucinare "con poco", senza tutti gli strumenti che abbiamo quotidianamente a disposizione. Durante le lezioni abbiamo ad esempio dovuto tagliare con coltelli di plastica, perché ovviamente ai carcerati non è consentito utilizzare quelli in acciaio". Proprio sfruttando la cosiddetta "arte di arrangiarsi" un carcerato ha anche fatto assaggiare allo chef stellato Ribaldone una torta paradiso davvero "paradisiaca", cucinata utilizzando uno sgabello, trasformato con inventiva in un forno. "Praticamente mettono alcune piccole candele in un buco fatto su uno sgabello e poi utilizzano due leggere teglie di alluminio, la prima con dell'acqua cui appoggiano sopra l'altra con all'interno l'impasto. Coprono poi tutto con una coperta e vi assicuro che la torta viene fenomenale". Desiderosi di imparare, i detenuti di San Michele e del Don Soria nei mesi scorsi hanno anche raccontato le loro storie allo chef alessandrino. "La cosa che più mi ha colpito è stata la voglia di contatto umano dei detenuti, la necessità di raccontarsi e parlare con qualcuno che viene dall'esterno. Le persone che ho avuto modo di conoscere grazie a questo progetto hanno ammesso i loro errori, chiedendo solo la possibilità di fare qualcosa per sconfiggere il più grande nemico all'interno di una cella: quella noia/paranoia che ti pervade in un luogo chiuso. Al di là dei singoli giudizi, non dobbiamo mai dimenticare che i detenuti sono persone". Dopo aver messo sotto lo stesso tetto, o meglio sotto la stessa cappa da cucina, due mondi così diversi come quello dei detenuti e degli chef stellati, nella pentola dell'Associazione "Sapori reclusi" bollono ora altri progetti. "Oltre alla panetteria all'interno del carcere si sta pensando di realizzare anche un ristorante, sfruttando magari alcune delle ricette dei detenuti che il fotografo Davide Dutto ha già racchiuso nel libro "Gambero nero", progetto da cui si è poi sviluppata l'idea delle lezioni di cucina tenute dagli chef stellati". In attesa dei nuovi progetti, dal 2 febbraio e fino al 3 marzo sarà intanto possibile visitare la mostra fotografica "Pure ‘n carcere ‘o sanno fa. Immagini, parole e sapori reclusi", proposta dall'Ufficio del Garante regionale dei detenuti, all'Urp del Consiglio regionale del Piemonte di via Arsenale 14, a Torino, aperto dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13 e dalle 14 alle 16. Pesaro: l'Associazione "L'Officina" e le poesie dal carcere, nasce il libro "Pen(n)a di poeti" www.comune.pesaro.pu.it, 21 gennaio 2015 Giovedì 22 presentazione del volume scritto da alcuni detenuti e detenute a Villa Fastiggi. È il frutto di un corso di scrittura creativa curato dall'associazione culturale "L'Officina". Tutto si può affidare alla parola. In questo caso alla parola scritta, alle poesie, come ha fatto un gruppo di detenute e detenuti del carcere di Villa Fastiggi e raccolte in un libro dal titolo "Pen(n)a di poeti". Il volume è il risultato finale di un corso di scrittura creativa curato dall'associazione culturale "L'Officina" Onlus che, attraverso numerose iniziative culturali, si occupa del benessere delle persone in condizioni di disagio. La realizzazione del libro che l'Officina ha provveduto a stampare rientra nei progetti finanziati dalla Regione attraverso l'Ambito Territoriale Sociale n.1 coordinato da Roberto Drago. Giovedì 22 gennaio, alle 10.30 e alle 14.30, la raccolta di poesie "Pen(n)a di poeti" verrà presentata alla Casa Circondariale di Villa Fastiggi (accesso solo previa autorizzazione). Il libro è impreziosito dalla prefazione del poeta americano Jack Hirschman che, dopo aver letto le liriche dei detenuti, ha voluto dare un contributo scrivendone appunto, la prefazione. "In ogni poesia di questo libro, troverete un elemento della lotta per la libertà, perché che cos'altro, se non un cuore fisicamente imprigionato, può percepire la vera essenza di ciò che rappresenta un raggio di luna comparato al viaggio attraverso la notte della propria anima? Ci sono molte essenze svelate in questo libro. Il lettore frequenterà la scuola del cuore, dove l'unica lezione è la ricezione in sé" scrive Hirschman. All'interno anche le fotografie di Umberto Dolcini e una nota introduttiva degli studenti della V A dell'Istituto Bramante di Pesaro. La scrittura è veicolo di espressione e di liberazione - spiega Mario Casabona dell'Associazione L'Officina -. L'essenzialità della forma poetica ha tolto ogni velo d'ipocrisia, ogni paravento alla piena espressione di ognuno, mettendone a nudo i pensieri più intimi e reconditi; e in questo nessuno degli autori di questo libro ha mostrato ritrosie o pudori. È stato con questo spirito che abbiamo affrontato, insieme, il dolore, la nostalgia, la rabbia, la desolazione, la disperazione; ma anche la gioia, gli affetti, l'accostamento al divino secondo lo spirito di ciascuno, il coraggio, tutti aspetti che segnano, quasi come punti sulla cartina storica, umana e caratteriale del nostro essere, la diversità di ognuno di noi. Lo stare insieme in un confronto costante d'idee, e l'altro grande filo conduttore della nostra esperienza insieme - appunto - è stata proprio la diversità, intesa come multiculturalità, come espressione delle diverse anime che popolano un posto che non è altro dalla società, ma ne fa parte". Milano: viaggio tra le poesie e le emozioni dei detenuti della Casa di Reclusione di Opera di Alberto Figliolia www.ecosistema-magazine.it, 21 gennaio 2015 È una delle sette opere di misericordia corporale. Quelle che anche solo per una mera questione di coscienza potrebbe/dovrebbe praticare ogni laico: non sarebbe disdicevole. Visitare i carcerati. Anzi, le persone detenute. Perché la carcerazione e la privazione della libertà in conseguenza di un reato, di un processo e di una condanna non estinguono affatto la dignità di un essere umano (oltre a ciò che nel suo corpo con giustezza recita la Costituzione). Opera, alle porte di Milano, fra la scintillante metropoli, l'hinterland e le campagne periurbane. Una delle case di pena più grandi d'Europa, di certo la più grande d'Italia. Un immenso cubo di cemento gettato fra le risaie, urbanistica un po' disordinata e la Tangenziale. Brulicante di umanità: circa 1400 uomini, poco più di una ventina dei quali impegnati in un'attività che parrebbe cozzare contro la dura realtà che li circonda (e interiormente opprimente): il Laboratorio di Lettura e Scrittura Creativa della Casa di Reclusione di Milano-Opera. Perché la poesia è consolazione e catarsi, ri-scoperta di sé e, se necessario, dei sé che costellano la vita dataci in sorte, fra dubbio e scelta (per operare quella giusta, in rettitudine esistenziale), cifra razionale e sentimentale che attraverso una lingua arcana e una curatissima forma libera emozioni e pensieri in maniera feconda, utile. La poesia ricostruisce mondi, riscatta dal peso del ricatto e della colpa, ricrea itinerari dal tormento e dalla reità, aggiunge consapevolezza e rispetto per lo sgranarsi dei giorni; quei giorni tutti uguali nelle celle, all'ombra, fisica e ideale, delle sbarre e delle porte di ferro, con il dolore della lontananza da figli, madri, padri, amici, relazioni. La poesia può davvero salvare la vita, come recitava il titolo di un fortunato libro scritto tanti anni fa da Donatella Bisutti e sempre attuale, più che mai attuale. "Provate a pensare, cari Lettori, quando si chiude una porta, quando dietro di sé si sente chiudere una porta e non si sa quando si riaprirà. Pensate a che cosa si può provare al tonfo che fa un portone chiudendosi alle spalle, al rumore che fa una chiave che gira in una serratura definendo una interruzione di rapporti. Pensate a finestre che hanno sbarre davanti, finestre che anche aperte non allargano l'orizzonte, ma che danno sul cemento. Porte e finestre che interrompono la comunicazione anziché aprirsi a nuove relazioni. Sono le porte e le finestre delle nostre carceri […] Durante tutto l'anno, a ogni incontro, in Laboratorio si scrivono poesie per raggiungere prima di tutto se stessi, la profondità del proprio sentire - talvolta celata da strati di non consuetudine ad ascoltarsi - e poi per condividere pensieri ed emozioni con i compagni. La comunicazione è intensa - mai banale - il sentire forte, la conoscenza reciproca profonda, come solo la poesia, forse, permette. Poi a un certo punto dell'anno si comincia a pensare al Calendario, questo personaggio con la C maiuscola, che veicolerà verso la società esterna la voce, talvolta il grido, della persona detenuta". Sono parole di Silvana Ceruti, già insegnante, italianista e formatrice professionale, Ambrogino d'Oro, poetessa e tanto altro ancora, fondatrice tanti anni addietro del Laboratorio che tuttora opera con frutti fertili e tangibili, come il Calendario di Poesie e Fotografie 2015-Porte e Finestre, un magnifico mélange di versi e immagini. Le foto, che hanno ispirato le persone detenute e di cui abbiamo riportato una strofa nell'incipit del presente articolo, sono state donate da Margherita Lazzati, fotografa di superba creatività e di gran cuore. Un operare artistico, il suo, che si mescola alla perfezione con il lavoro che con esemplare regolarità si compie nel Laboratorio e che ha saputo ispirare e sollecitare tutti i partecipanti. Il Calendario, d'altra parte, è un vero prodotto editoriale in quanto stampato da La Vita Felice, casa editrice milanese che da anni supporta le attività del Laboratorio pubblicando le opere meritevoli, e posto in vendita (il ricavato finanzia le attività del Laboratorio stesso). Dispiace non poter citare tutti gli interpreti di questo straordinario manufatto, ma la condivisione e l'altruismo, sentimenti che felici allignano all'interno del Laboratorio, facilitano il compito, nel senso che ciascuno è rappresentato dal compagno, da ogni compagno, e il successo del singolo appartiene a tutti. Non paghi di ciò i poeti del Laboratorio hanno a un certo punto cominciato a scrivere, mossi da sincero empito, poesie in forma di preghiera o preghiere in forma di poesia. Nel giro di poche settimane i lavori erano tali e tanti, e di notevole qualità formale, da poter pensare di arrivare alla composizione di un libro. Il che è avvenuto nello scorso dicembre. Come detto, da questa poesia è divampato il fuoco o scaturita la cascata o venuto alla luce il fiume carsico: una bella ansia creativa, lieve e nel contempo ricca, si è impadronita del Laboratorio. Fino a giungere al presente Preghiere dal carcere (12 euro, 88 pagine), edito sempre da La Vita Felice. Il prezioso volumetto, nonostante la recentissima uscita, ha già conosciuto l'onore di una seconda ristampa. La prefazione, di grana culturale finissima, è stata stilata da Vito Mancuso, teologo, scrittore e giornalista di acuto ingegno e profonde visioni e, soprattutto, uomo gentile, qualità che non guasta nell'arduo mondo della contemporaneità. Eccone l'incipit: "Gli esseri umani fanno molte cose nella loro esistenza e tra queste, in ogni parte del mondo (carceri comprese), pregano. La preghiera è un fenomeno universale. Si può anche giungere al paradosso di uomini che non credono in Dio ma che pregano, che cioè almeno qualche volta nella vita si ritrovano a formulare parole o pensieri in forme non usuali rivolgendoli al mistero che avvolge la vita - esattamente nel senso richiamato da Norberto Bobbio quando diceva: Come uomo di ragione, non di fede, so di essere immerso nel mistero". Da segnalare, inoltre che per la prima volta in un libro concepito dal Laboratorio compaiono anche le poesie di volontari e amici. Un importante sigillo e un messaggio di speranza insieme. E, con ciò, lunga vita al Laboratorio di Lettura e Scrittura Creativa della Casa di Reclusione di Milano-Opera. Lo merita: per le idee che propugna; per il lavoro di recupero e sensibilizzazione (anche verso l'universo esterno); per l'umanità, non da dame del biscottino, che ne trapela, forte e invincibile. Non si può artatamente edulcorare la realtà, la prigione non è un giardino di delizie, va compreso anche il dolore e il disagio delle vittime. In ogni caso tutto il modello correzionale andrebbe ripensato. Ma non è questo pezzo la sede per discutere di tanto. Tuttavia le attività del Laboratorio dimostrano che lo spettro delle colpe può mutare in piena consapevolezza e nuova vita. Un arcobaleno di pace dopo la pioggia distruttiva. Grazie alla poesia e ai valori formali e contenutistici, empatici, che essa raffigura e promuove. Alberto Figliolia Già collaboratore di testate e quotidiani nazionali, per scelta è ora un free lance. Collabora da lunghi anni con il gazetin, periodico indipendente di cronaca civile, e tellusfolio, rivista telematica "glocal". Da sempre è attivo con e per la casa editrice Albalibri, girando per le più varie contrade con l'amico poeta-editore Çlirim Muça. Ha scritto numerosi libri di poesia e di sport. Crede fortemente nel martello gandhiano della poesia e nell'arte di strada. Da molti anni aiuta Silvana Ceruti nel Laboratorio di scrittura creativa del Carcere di Milano-Opera. Venezia: al carcere della Giudecca teatro con Ottavia Piccolo, organizzato da "Balamòs" www.estense.com, 21 gennaio 2015 Balamòs Teatro organizza un incontro di laboratorio con Ottavia Piccolo, venerdì 23 gennaio alle ore 16, nell'ambito del progetto teatrale Passi Sospesi alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, (ingresso riservato) in collaborazione con il Teatro Stabile del Veneto. L'attrice è presente a Venezia in questi giorni con lo spettacolo "7 minuti", regia di Alessandro Gassmann, che rievoca la storia di 11 operaie che rischiano di perdere il lavoro se non accettano di rinunciare a 7 minuti della loro pausa. La storia narrata è veramente accaduta a un gruppo di operaie francesi che si ritrovano nella situazione di dover scegliere tra i diritti acquisiti dei lavoratori, come il diritto alla pausa, e il bisogno di lavorare, tra urgenze individuali di sopravvivenza e dignità, tra la memoria delle lotte e delle conquiste e la paura e la povertà di un presente sempre più incerto. Uno spettacolo interamente al femminile che inevitabilmente si confronta con "Cantica delle donne", l'ultimo spettacolo realizzato dalle donne detenute della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, diretto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro con la collaborazione dell'attrice e musicista Lara Patrizio; uno spettacolo sulla violenza contro le donne che attraversa ogni ambito della vita pubblica e privata, luoghi, strade, lavoro e soprattutto famiglia. Come sostiene l'attrice in un'intervista "Il teatro è inevitabilmente politico, il suo compito principale è parlare di problemi attuali per una comunità che si riunisce per ascoltare, come è sempre stato dal teatro greco in poi". La visita di Ottavia Piccolo alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca è totalmente gratuita, fa parte del Protocollo d'Intesa tra Balamòs Teatro, Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, Teatro Stabile del Veneto e ha come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura teatrale dentro e fuori la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, attraverso un ricco e complesso programma di pedagogia teatrale che cura il regista e pedagogo teatrale Michalis Traitsis. Ottavia Piccolo è nata a Bolzano nel 1949. Ha esordito a 11 anni in Anna dei Miracoli di William Gibson per la regia di Luigi Squarzina. È comparsa in televisione ne Le notti bianche di Dostoevskij ed ha esordito sul cinema nel film di Luchino Visconti, ll Gattopardo nel 1963. Ha lavorato con Giorgio Strehler, Luca Ronconi, Mauro Bolognini e Pietro Germi, Ettore Scola, Felice Farina, Pierre Granier-Deferre. È stata apprezzata anche dal pubblico televisivo per i numerosi sceneggiati. Ferrara: "I volti dell'alienazione", mostra sul tema degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari di Anja Rossi www.estense.com, 21 gennaio 2015 L'arte a sostegno delle scelte sociali e politiche della collettività. È con questo spirito che inaugura oggi mercoledì 21 gennaio alle 17 la mostra "I volti dell'alienazione. Disegni di Roberto Sambonet", presentata da Leonardo Fiorentini dell'associazione "La società della ragione" e dall'assessore alla cultura Massimo Maisto, e visitabile presso il salone d'onore del Municipio di Ferrara fino al 2 febbraio. La mostra, inaugurata già a Milano, propone i disegni che il designer e pittore Roberto Sambonet fece tra il 1951 e il 1952 nel manicomio di Juqueri, vicino a San Paolo in Brasile. Questi disegni vogliono delineare il complesso fenomeno del disagio psichico partendo dalle tracce che la malattia lascia sui corpi degli internati. Nata dalla collaborazione dell'archivio pittorico Samboret, di StopOPG e della onlus "La società della ragione" impegnata sui temi del carcere, della giustizia e di diritti umani e sociali, la mostra è patrocinata dal Comune di Ferrara. "I volti dell'alienazione" ha una valenza sociale e politica anche attuale, collegandosi alla situazione di chi, con una malattia psichiatrica, è detenuto in istituti giudiziari. "La società della ragione - spiega Leonardo Fiorentini - promuove questa mostra per portare avanti una campagna per sensibilizzare la cittadinanza sulla questione degli ospedali psichiatrici giudiziari. Dopo gli scandali denunciati negli ultimi anni da parte della commissione Marino, il 31 marzo di quest'anno dovrebbero chiudere definitivamente questi luoghi. Noi come associazione chiediamo che, dopo questa chiusura, si trovino soluzioni alternative per queste persone e non vengano riaperti gli ospedali psichiatrici", smantellando quella riforma della psichiatria che negli anni ‘70 "ha fatto dell'Italia un paese civile". Per Massimo Maisto è importante il luogo in cui si è scelto di ospitare la mostra, poiché "non è un caso che sia nella casa dei cittadini ferraresi. Con questa esposizione vogliamo dare un segnale perché, anche se non strettamente legata al Giorno della memoria, vogliamo ricordare che tra tutte le vittime della follia nazista ci furono anche i malati psichiatrici". Il ricordo di Maisto va poi ad Antonio Slavich, storico collaboratore di Franco Basaglia che diresse i servizi psichiatrici a Ferrara negli anni ‘70. "Ricordiamo che Slavich vuol dire Ferrara. Per me la legge Basaglia è stata l'esempio più alto di avanguardia in Italia verso una democrazia inclusiva. La chiusura dei manicomi ha segnato un punto di non ritorno, e Ferrara ospitando questa mostra vuole ribadire il suo ancoraggio verso determinati valori di democrazia". Dopo la tappa ferrarese la mostra verrà ospitata anche a Roma e a Firenze. Cinema: intervista a Filippo Vendemmiati, autore del film "Meno male è Lunedì" di Marina de Ghantuz Cubbe www.articolo21.org, 21 gennaio 2015 Filippo Vendemmiati si definisce un professionista liberato: giornalista Rai da quasi trenta anni, spiega che i suoi documentari sono nati come riscatto rispetto al modo di fare cronaca in Italia. Tutto inizia da È stato morto un ragazzo sul caso Aldrovandi, per arrivare a Meno male è Lunedì attualmente in giro nelle sale e nelle carceri. Un rapporto da separato in casa con l'azienda che lo ha formato professionalmente. Filippo Vendemmiati è forse un giornalista disilluso ma non perde occasione per trasmettere l'alto valore etico e sociale che per lui ha il lavoro. La proiezione in anteprima di Meno male è Lunedì è stata un grande successo, la sala del Nuovo cinema Nosadella di Bologna era pienissima. Meno male è Lunedì a che genere appartiene? Sui generi non mi espongo perché anch'io non so cosa sia e perché oggi i margini tra documentario e film sono molto labili. In questo caso volutamente ho cercato, forse con un po' di presunzione, di tentare un linguaggio per me nuovo che sfrutta certamente quello del documentario, affiancandolo a quello della commedia brillante. È strano, si parla di carcere però il pubblico ride anche, ha applaudito a scena aperta per questo confronto di umanità che c'è tra operai e detenuti. Uno dei miei obbiettivi è stato raggiunto: parlare seriamente di carcere, libertà e lavoro in un modo anche leggero dove l'immagine del detenuto è quella di una persona, non di uno segregato solamente. Avere la sala piena è stata una grande soddisfazione non solo per me, per quelli che hanno lavorato con me, per questi splendidi venti detenuti. Tra l'altro in un momento non facilissimo per le sale italiane. Certo, giocavamo in casa perché ora siamo nella città dove questa esperienza è nata. La partita più difficile è stata nel carcere duro di Spoleto e prossimamente sarà all'interno della Dozza? Sul piano personale è proprio questa la partita più difficile: la proiezione nel carcere. A Spoleto c'è stato un dibattito vero, un confronto duro, non alla Nanni Moretti. Perché quello è un carcere di massima sicurezza, dove ci sono i detenuti al 41bis. Significa che quando entri nel cortile vedi le gabbie con le persone che fanno avanti e indietro come se fossero animali rinchiusi. Una di queste persone alla fine del film mi ha avvicinato e mi ha detto: "Io sono un fine pena mai e certo, il film è bello ma lei che cosa vuol dire? Che per lavorare bisogna prima venire in carcere? Io preferisco essere disoccupato tutta la vita piuttosto che essere qui". Lei cosa ha risposto? Che il nostro obbiettivo è diffondere questa esperienza positiva: laddove i detenuti lavorano il tasso di recidiva si abbassa dal 70 al 15%. Nel carcere si entra colpevoli, se non si è vittima di un errore giudiziario, e si deve uscire innocenti, con una prospettiva davanti. A Spoleto non ero sufficientemente preparato e anche io le prime volte che sono entrato nella Dozza ho avuto un po' di soggezione. Invece è il detenuto che cerca il nostro sguardo, che ha voglia di parlare con noi se solo capisce che non sei lì per fotografare un animale in gabbia. Se noi cominciassimo ad aprire le carceri alla società probabilmente aiuteremmo sia le carceri sia l'idea che la società ha del carcere. Se le scuole cominciassero ad andare dentro al carcere faremmo un lavoro grandissimo di formazione. Chissà forse anche di prevenzione. Questa idea com'è nata? Gian Guido Nardi, uno degli ideatori di questo progetto (FID, Fare Impresa in Dozza), allora consigliere regionale e mio piccolo fan oltre che amico, mi ha proposto di andare a dare un'occhiata nell'officina. Ho lasciato passare un po' di tempo ma un giorno l'ho richiamato: "Fammi entrare senza impegni, così vedo…". Ed è stato un amore immediato e addirittura doloroso. Ricordo che dopo pochi minuti che ero lì due detenuti si sono avvicinati ed abbiamo cominciato a parlare. Ho visto nei loro occhi la voglia di sapere perché fossi lì. Tanto è vero che una guardia ci ha diviso: non potevo parlarci. Lì ho sofferto molto. Quando ci hanno allontanati ho visto il loro dolore. Poi uscendo ci siamo salutati con l'occhio e allora… allora a quel punto ho capito: "Questa cosa si fa!". Così ho coinvolto il mio solito gruppo e aggiunto Stefano Massari che al di là del fatto di essere direttore della fotografia è in empatia intellettuale, emotiva e ideologica, se si può ancora usare questo termine, con me, è rimasto entusiasta subito dell'idea. Lo spunto inizialmente è stato quello delle mani collegate alla testa come simbolo di trasmissione del sapere, delle conoscenze, tanto è vero che il film inizialmente si doveva chiamare "Di mano in mano", poi ci siamo resi conto che era un titolo un po' troppo ecumenico. Donata che è la produttrice del film ha avuto questa idea meravigliosa secondo me di Meno male è Lunedì che coglie tutto, coglie tante cose anche sul mondo del lavoro. Io, forse questo mi deriva dalla schizofrenia del giornalismo, non posso tenermi una cosa quattro cinque anni. Devo farla. Infatti per un documentario i tempi produttivi sono stati tutto sommato veloci se tu pensi che le riprese sono iniziate l'11 novembre 2014 è meno di un anno fa. Complimenti, una squadra che lavora in maniera eccezionale perché altrimenti non sarebbe stato possibile! Ecco! Questo è un bel termine: lavora. Oggi si parla di una stagione d'oro del documentario in Italia. Premi vinti, una forte produzione ed una grande qualità di documentari. Il problema è che i documentari sopravvivono in condizioni di mercato quasi impossibili. Il fatto di avere un'idea, di realizzarla, di riprenderla e montarla è il minimo. È l'impegno minimo. Il problema poi è riuscire a dare visibilità, trovare esercenti disponibili, fuori dalle logiche di mercato, trovare canali televisivi che li trasmettano. Spesso, a proposito di lavoro, questi documentari si reggono su un'autoproduzione dei produttori e già è un grande risultato riuscire a pareggiare alla fine. Oggi in Italia i documentari si producono perché il lavoro intellettuale che sta dietro il documentario non viene pagato: l'autore, il montatore, lo sceneggiatore, chi scrive i testi, la regia, è un lavoro volontario, gratis. Per questo ci sono documentari di qualità perché molte di queste persone tra cui me, pur di farlo, accettano di non essere pagate. Io me lo posso permettere, un giovane non può permetterselo. Inoltre l'accesso ai fondi pubblici è impossibile per un documentario: i fondi del Mibac hanno delle regole burocratiche impossibili. Questo è il grosso equivoco che aleggia: vanno bene le recensioni, i complimenti, i premi ma poi l'autore va in giro a portarsi il documentario mano per mano, a vendere i Dvd. In questo i giovani sbagliano perché pur di avere visibilità accettano di distribuire gratuitamente ai cinema e alle TV i loro prodotti. Questo non si deve fare perché il lavoro va pagato. Torniamo al film. La presenza delle telecamere durante le riprese che effetto ha avuto? Un elemento toccante del documentario è che sembra non ci siano filtri tra voi e loro. Sembra di essere di fronte alla verità dei comportamenti, cosa da non dare per scontata. Questo è l'aspetto di cui sinceramente sono più fiero. E lo devo molto allo staff e al gruppo di amici che ha lavorato con me: Stefano Massari, Giulio Filippo Giunti e Simone Marchi. È soprattutto merito loro se c'è stato questo rapporto di empatia e fiducia reciproca, tra le telecamere e i personaggi del film. Inizialmente alcuni di loro erano molto restii poi quando abbiamo iniziato le riprese ci siamo subito resi conto che questo rapporto umano dentro all'officina aveva contagiato anche il set. Per cui loro facevano esattamente le stesse cose anche con le telecamere. Abbiamo deciso di non preparare nulla a tavolino, tutto è stato ripreso così come avveniva e là dove ci sono state alcune scene che sono avvenute a telecamere spente abbiamo deciso di non rifarle. Peccato, le abbiamo perse! Ma questo avrebbe inquinato la freschezza. Come viene vissuto questo particolare spazio da operai e detenuti? Per gli operai è un'officina, non è un carcere. E sono riusciti a trasmettere questa idea anche ai detenuti: sono in un'officina, questo è il miracolo che sono riusciti a costruire. La maggior parte dei tutor non ha chiesto di vedere le celle né il perché fossero in galera, a meno che questo non avvenisse per iniziativa del detenuto. Non c'è stata la curiosità un po' morbosa, un po' voyeuristica di sapere. Lì c'è gente che è stata condannata anche a venti anni per omicidio, che ha sequestrato 5000 tonnellate di hashish. Sono reati come minimo sopra i cinque anni. Ma loro pensano: "Se devo venire qui per stare in pace con la coscienza vado da un'altra parte perché non sono mica venuto per fare l'assistente sociale o il prete". Vengo qua per fare il mio lavoro e se loro vogliono imparare bene altrimenti peggio per loro. Molto laico come rapporto e per questo funziona. E non si fanno sconti tra loro. Se si devono dire qualcosa se la dicono. Poi c'è Valerio Monteventi, straordinario mediatore culturale che anche cinematograficamente ha una faccia che migliore non poteva essere, che è il vero tramite tra gli uni e gli altri. Insomma questa azienda ha un bilancio, ha degli utili, dà delle buste paga, dà lavoro a un indotto che trasmette ulteriore lavoro. I detenuti che poi sono usciti e sono stati impiegati, hanno avuto riscontri positivi, le aziende sono state molto soddisfatte, c'è un coinvolgimento economico vero, non è assistenza. In carcere ci sono già molte cose importanti che però appartengono tutte alla sfera del volontariato, dell'assistenza, della beneficenza, al buonismo. A questo proposito va ricordato il film Cesare deve morire. Rebibbia è un carcere all'avanguardia dal punto di vista della riabilitazione interiore, attraverso teatro e scrittura creativa ad esempio. Ma Cesare deve morire mostra come ciò non basti perché manca un ulteriore riscatto, quello nel reale e nella società, che solo il lavoro consente. Forse non è un caso che il suo documentario sia una quasi commedia mentre Cesare deve morire una tragedia. Non nascondo che io mi sono confrontato a lungo con Cesare deve morire. Cinematograficamente è un rapporto che non reggo, stiamo parlando di un capolavoro della cinematografia mondiale. Non nascondo però che mi sia detto "Io devo fare esattamente il contrario". La sensazione che a me ha trasmesso Cesare deve morire è una profonda sensazione di morte, di tragedia. C'è un riscatto interno che però muore. E io, visto che c'è questa esperienza della Dozza, ho sentito di fare esattamente il contrario: noi dobbiamo riuscire a descrivere il fatto che in carcere ci può essere anche la vita non c'è solo la morte. L'idea del lavoro che si portano dietro questi operai esiste ancora? Provi a rispondere ad un giovane precario. Spesso mi chiedo se la loro non sia un'idea antica del lavoro, costruita su una grande etica. Se esiste ancora o se è morta. Qualcuno mi ha chiesto: "Ma esistono ancora questi lavoratori?". Ad un giovane precario la prima cosa che si insegna è la flessibilità, a stare sei mesi da una parte sei dall'altra mentre questi hanno lavorato 40 anni nella stessa azienda e la cosa che mi ha colpito in loro è il senso di appartenenza. Loro ti dicono "Io sono uno della Gd, io sono uno dell'Ima" e lo rivendicano. Poi alcuni fanno attività sindacale anche dura, nella Fiom, fanno scioperi per il loro contratto. Le due cose non sono in contraddizione. Altro che Articolo 18, qui siamo oltre. Le tre aziende del progetto Fid hanno da sempre messo l'etica al centro dei loro valori. Io non so è un caso che queste tre aziende ricavino l'80% del loro fatturato esportando nel mondo e continuino ad avere indici economici straordinari, a fare investimenti milionari e ad aprire nuovi stabilimenti in Italia e all'estero. Mi piace pensare che anche da un punto di vista industriale queste siano industrie virtuose e che anche l'industria italiana dovrebbe prendere esempio; che l'etica è l'unica ancora di salvezza per l'economia italiana. Certo i tempi sono cambiati ma questa esperienza mi pare abbia funzionato, l'altra mi pare che non stia funzionando. Un giovane precario credo rimanga colpito da questa idea che loro hanno del lavoro: il lavoro fa davvero parte di te, ti crea la tua coscienza sociale, le relazioni umane, non è solo "una rottura di balle", quando lavori non devi toglierti il cappello davanti a nessuno. Spero di rivedere il documentario magari in Rai nel suo formato originale, così come ho avuto la fortuna di vederlo al cinema. Beppe Giulietti lavora in Rai come me. Credo che proviamo lo stesso amore profondo per la Rai che però è un amore fondato su una profonda disillusione. Questo credo di condividerlo con Beppe. Sono stato autorizzato dalla Rai per fare questi film e per tutti e tre i documentari ho chiesto alla Rai di farlo insieme, magari viene anche meglio. Riguardo il progetto di Meno male è Lunedì mi hanno detto: "Sì è bellissimo ma i fondi per il 2014 sono finiti". Nel caso di È stato morto un ragazzo, vincitore di un David di Donatello, la Rai non l'ha finanziato ma poi il film è stato comprato, a quel punto da terzi… A suo tempo, quando mi dissi qual era il budget mi risposero: "Così basso? E come facciamo a giustificare le altre produzioni?". Risposte surreali. Mi dissero: "Chi è questo Aldrovandi? A chi importa di un ragazzo di Ferrara?". Di Ingrao: "Ma ancora lui? C'ha quasi cent'anni, dobbiamo parlare ancora di Ingrao?". Non era parlare di lui, ma di cos'era la politica un tempo, di uno che ha vissuto tra mille contraddizioni ed errori. Non è l'elogio di un comunista è l'elogio di una persona che ha vissuto la politica con grande passione nel tentativo di cambiare il mondo. Ho fatto cronaca per 20 anni. Cronaca dura di brigantismo e di stragi da quelle ferroviarie e aeree all'inchiesta Biagi. L'ho fatto con grande impegno e devo essere grato alla RAI per essermi formato su queste storie. Però poi l'informazione è cambiata: ora tutto deve essere bruciato nel giro di trenta minuti, oggi fai una cosa e domani un'altra, c'è la perdita della memoria, non si tengono più gli appunti. Al tempo di Aldrovandi questa cosa mi è esplosa tra capo e collo perché è una storia che ho vissuto con grande coinvolgimento giornalistico-professionale ma, non lo nascondo, anche emotivo. Quindi in che modo viene vissuto il documentario da un giornalista? Qui c'è il tempo per scegliere, approfondire, per andare dietro una storia, per creare relazioni. C'è il tempo anche del dopo, per vedere se quello che hai fatto ha un riscontro, come viene recepito. Il documentario su Aldrovandi lo porto ancora in giro e visto che è migliorata la coscienza sociale però a livello legislativo siamo sempre a dieci anni fa, ogni tanto mi chiedono: "A cosa è servito se non è cambiato niente?" A sensibilizzare un milione di persone. Le prossime tappe di Meno male è Lunedì? Adesso rimane al Nuovo cinema Nosadella di Bologna per almeno una decina di giorni. Abbiamo già altre tappe in provincia di Bologna, speriamo di portarlo in tutte le città dell'Emilia. Andiamo a Roma, Torino. Poi abbiamo ricevuto un invito da parte di un'associazione culturale da parte di italiani che vivono a Bruxelles ed un altro quasi ufficiale da parte del Parlamento europeo per una proiezione a marzo. Credo che un po' faccia bene all'Italia anche se non vogliamo fare i promoter del Ministro Orlando: la situazione è migliorata in alcune circostanze ma siamo sempre sotto osservazione per quanto riguarda le nostre carceri. Proprio in questi giorni è stato tagliato il fondo per le cooperative di ristorazione all'interno delle carceri. Si parla di una cifra ridicola come 3 milioni di euro quando il tasso di recidiva costa allo stato 40 milioni di euro. Mondo: sono 3.100 gli italiani detenuti all'estero, tra processi-farsa e diritti negati di Nadia Francalacci Panorama, 21 gennaio 2015 La Corte Suprema indiana ha annullato l'ergastolo per due connazionali condannati per omicidio. Ecco gli altri che ancora rischiano la pena di morte. Tomaso Bruno e Elisabetta Boncompagni, torneranno a casa. I due italiani per i quali la Corte suprema indiana ha annullato la condanna all'ergastolo potrebbero rientrare in Italia già questo fine settimana. La telefonata tanto attesa è arrivata in Italia quando in India erano le 10,45 del mattino. È stato l'ambasciatore Daniele Mancini a chiamare i genitori di Tomaso Bruno e Elisabetta Boncompagni per informarli della decisione della corte. L'odissea di Tomaso, trentenne di Albenga, ed Elisabetta, quarantenne torinese, comincia nel febbraio del 2010. I due erano in vacanza in India con Francesco Montis, 30 anni, di Terralba, provincia di Oristano, amico di Tomaso e fidanzato di Elisabetta. Il 4 febbraio il giovane sardo si sente male: gli amici chiamano immediatamente i soccorsi e contattano l'ambasciata italiana. Francesco morirà poche ore dopo. La giustizia indiana comincia a indagare, e porta in cella a Varanasi Tomaso ed Elisabetta. Secondo gli inquirenti, sul corpo di Francesco ci sarebbero dei lividi, segno di una colluttazione. L'isolamento di Roberto in Guinea Roberto Berardi imprenditore italiano, 48 anni, è rinchiuso in una galera della Guinea Equatoriale, uno dei Paesi più repressivi del mondo, dove, circondato da assassini, ladri e banditi di ogni genere, vive in isolamento. Nessuno può andarlo a trovare, neppure i diplomatici italiani. L'incredibile e fumosa storia di Chico Negli Stati Uniti Enrico Forti sta scontando l'ergastolo con l'accusa di omicidio. La sua storia, pur essendo egli un produttore televisivo, non ha niente a che fare con gli effetti speciali dei film hollywoodiani. Il suo calvario inizia la mattina del 16 febbraio del 1998 quando, in una spiaggia della Florida, viene ritrovato il corpo senza vita di Dale Pike. Di questo omicidio viene accusato Forti, che era in trattativa con il padre di Dale per l'acquisto di un albergo. Nonostante si sia sempre dichiarato innocente e le prove a suo carico siano inconsistenti, la giuria americana lo ha condannato all'ergastolo affermando che "La Corte non ha le prove che Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ha la sensazione, al di là di ogni dubbio, che sia stato l'istigatore del delitto". La storia di Pino Lo Porto C'è un altro Chico Forti prigioniero in America. Come il velista italiano, arrestato con la dubbia accusa di omicidio e detenuto negli Usa da anni, così Pino Lo Porto, che si trova rinchiuso in un carcere dell'Alabama per altrettante fumose accuse di molestie sessuali. Con un'aggravante: Giuseppe Lo Porto ha 80 anni, è portatore di pace maker ed è stato operato di cancro. Il che non gli ha impedito di finire in carcere in Alabama, per le accuse della sua ex moglie americana, al termine di un frettoloso procedimento di estradizione precedentemente negato in Olanda e di cui anche il Tar del Lazio ha dichiarato la nullità. I nostri marò e non solo.. Non solo i marò. Tra processi farsa, abusi di potere e maltrattamenti sono oltre tremila gli italiani detenuti all'estero, circa 2.300 dei quali in attesa di giudizio. Quell'attesa che da ormai due anni accompagna i fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati di aver ucciso due pescatori del Kerala, in India, nel febbraio del 2012. Tutti i detenuti italiani all'estero 3.100 i nostri connazionali detenuti all'estero. In Medio Oriente sono imprigionati 43 italiani, 15 nell'Africa SubSahariana. 2.393 gli italiani in galera in attesa di un processo. La maggior parte si trova in Europa. India: forse una svolta per i marò italiani, spunta una mail che li salva di Michele De Feudis Il Tempo, 21 gennaio 2015 L'attacco dei pirati precede l'incidente che causò la morte dei pescatori. Lo conferma l'orario della comunicazione del comandante del cargo. L'attacco dei pirati alla Enrica Lexie, la nave su cui si trovavano in servizio il 15 febbraio 2012 i marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, è precedente all'incidente che ha causato la morte dei pescatori sulla barca indiana St.Antonhy: è questo il responso che emerge dalla lettura di una mail del comandante della nave italiana anticipata dal settimanale Oggi. Il comandante del cargo avvisò per posta elettronica di aver subito un attacco dai predoni alle 19.15, e l'orario dimostra l'estraneità dei fucilieri rispetto agli eventi legati all'uccisione dei pescatori. L'armatore del peschereccio S. Antony, infatti, ha sempre dichiarato che gli spari contro i suoi due pescatori si sono registrati alle 21.30. Si tratta di un documento inedito che da un lato evidenzia come siano avvenuti due episodi differenti e senza alcun legame, e dall'altro potrebbe avere una notevole rilevanza giudiziaria per l'innocenza di Latorre e Girone. Nella mail il comandante del cargo italiano scrive all'armatore Fratelli D'Amato, ma anche alla nave militare Grecale e al marittime Security Centre Horn of Africa e all'United Kingdom Marine Trade operations, e racconta di un incidente con un possibile barchino di pirati. "La mail - scrive Oggi - è stata spedita alle 19.15 (ora dell'India) e fa riferimento a un'aggressione operata da sei persone armate intorno alle 16. L'armatore del peschereccio S. Antony sul quale persero la vita i due pescatori, ha sempre raccontato che gli spari li colpirono alle 21.30 (sempre ora indiana)". Intanto le autorità governative italiane hanno accolto con misurata prudenza la decisione della Corte Suprema indiana che ieri ha annullato la condanna all'ergastolo ai due italiani detenuti a Varanasi, Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni: la scelta rientra in un orientamento diplomatico volto a non legare direttamente questo esito al caso marò, stante il dialogo tra i governi per addivenire ad una ricomposizione della vicenda. Nel primo caso, la querelle giudiziaria riguarda privati cittadini accusati dell'omicidio di un compagno, ed è stata dibattuta nei tre gradi della giustizia; nel secondo caso, invece, i protagonisti sono due militari impegnati in una missione internazionale, su mandato del governo italiano. Di certo è un dato positivo che la Corte Suprema abbia contribuito a sciogliere un nodo giudiziario che stava diventando sempre più confuso. Paola Moschetti Latorre, compagna del fuciliere tarantino Massimiliano (recentemente operato al cuore a Milano), ha scritto via Facebook un messaggio di felicitazioni alla mamma di Tomaso Bruno, appena appresa la notizia del rilascio del figlio: "Ciao Marina, ho appena saputo, sono felice per te e per voi. Un abbraccio e goditi la gioia per cui hai tanto lottato". La Moschetti Latorre e la famiglia Bruno, pur non conoscendosi personalmente, si conoscono da oltre un anno, condividendo le vicissitudini dei propri cari con la giustizia indiana. Massimiliano Latorre, sta proseguendo a Taranto le cure dopo l'ictus che lo ha colpito il 31 agosto scorso; Salvatore Girone, invece, è sempre in servizio presso l'Ambasciata italiana a Nuova Delhi. Stati Uniti: da Guantánamo parla Fahd Ghazi "ho 31 anni e da 13 sto in questo inferno" di Patricia Lombroso Il Manifesto, 21 gennaio 2015 "Avevo 17 anni quando sono arrivato a Guantánamo ed ora ne ho 31. Sono cresciuto in questo regime che incute soltanto paura. Qui a Guantánamo nessuno vuole ascoltarmi. In questi 13 anni di detenzione senza alcuna imputazione, né diritto ad un processo non ho mai avuto la facoltà di dire chi realmente sono. Per il governo americano sono soltanto il numero Isn026. Il mio nome è Fahd Abdullah Ahmed Ghazi. Sono un essere umano, un uomo. Vorrei avere l'abilità di descrivere questi 13 anni a Guantánamo. Ma la mia mente si chiude quando provo a pensarci. E non riesco ad avere parole adeguate che possano veramente farvi comprendere questa realtà". È questa l'apertura dell'appello di Fahd Ghazi, uno degli 86 detenuti yemeniti , prosciolti da ogni accusa dal Pentagono, dal presidente Obama, dal Review Board militare di Guantánamo ben cinque anni fa, in attesa di essere liberati o trasferiti da questo inferno vivente verso Paesi disposti ad accoglierli. Il video "Waiting for Fahd" del "Center for Constitutional Rights" su youtube annovera oltre 20mila persone e presentazione a New York, Washington e Chicago durante le dimostrazioni per la "chiusura di Guantánamo" indette dalle organizzazioni in difesa dei diritti civili "The world can't wait", Amnesty International, "Center for Constitutional Rights". Nel giro di vite della lotta al terrorismo a livello mondiale che si preannuncia dopo l'attacco a Parigi, che richiama l'attacco dell'11 settembre negli Usa, parliamo della speranza di chiudere la prigione di tortura di Guantánamo con il legale Omar Farah del "Center for constitutional Rights", che assiste il detenuto Fahd Ghazi e molti altri dei 137 condannati a "detenzione perpetua", anche se prosciolti da ogni impunità e in attesa dal 2006 di essere liberati appena rientrati da Guantánamo. Quali cambiamenti nel regime di Guantánamo ha potuto accertare, malgrado il trasferimento recente di alcuni detenuti in Uruguay, Slovakia, Kazakhstan e Usbekistan? Molti dei miei clienti detenuti continuano a subire la violenza delle celle di isolamento totale, la imposizione della nutrizione forzata già denunciata dal Comitato speciale contro la tortura delle Nazioni unite, la tortura psicologica della disperazione di non sapere se e quando tutto questo avrà un fine se non uscire in una bara da Guantánamo. Quanti detenuti continuano lo sciopero della fame, dopo la partecipazione collettiva della quasi totalità, spezzata con la punizione di trasferimento a celle di isolamento totale? Dal dicembre del 2013, il governo Americano, ha imposto il blackout a noi legali sul numero di detenuti che continuano a rifiutare il cibo e su quanti ancora subiscono la nutrizione forzata. Ritengo siano più o meno 24 coloro che resistono, malgrado il sistema vendicativo del regime. Durante le visite ai suoi assistiti a Guantánamo esistono controlli sulle note di scambio fra lei e quanto rivelato dai suoi clienti? Posso liberamente parlare con loro, ma quanto mi vien detto viene considerato materiale "classified", cioè segreto. Per conseguenza tutto deve passare attraverso il controllo di revisione del governo statunitense. E questo come avviene? Quando esco dal colloquio con il detenuto tutto quello che ho annotato viene consegnato e poi vidimato da un gruppo militare speciale, quindi viene inviato a Washington per controllo, revisione e censura da apporre su quanto detto dal detenuto. Le vostre note legali vengono inviate alla Cia? A un dipartimento speciale per la sicurezza nazionale nelle vicinanze di Washington. Quanto tempo, dopo il colloquio deve attendere? Dipende. Generalmente, un corriere da Guantánamo, due volte a settimana, viene inviato a Washington. Se sono fortunato ricevo le annotazioni dopo due settimane. Il suo cliente assistito Fahd e altri detenuti già prosciolti da ogni accusa sono in attesa di essere liberati o trasferiti. Recentemente alcuni detenuti sono stati trasferiti in paesi che li hanno accolti, ma perché Obama non esercita il diritto di "executive order" per la chiusura di Guantánamo, promessa dal 2009 e sua prerogativa, approvata nel dicembre 2013 dal Defence security act, senza attendere l'approvazione del Congresso Americano? Senza alcun dubbio, Obama potrebbe esercitare la prerogativa dell'executive order e chiudere Guantánamo. Non è così complesso come si vuol far credere. Allora qual è la vera motivazione di Obama per non chiudere il regime di Guantánamo, come promesso dal 2009? Da tempo Obama ondeggia nella valutazione da fare per questa decisione, non trovando il coraggio politico di chiudere Guantánamo. Così il contesto politico odierno indica "Guantánamo forever". Brasile: "Reembolso atraves da leitura", se leggi libri riduci il carcere di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 21 gennaio 2015 Già due Stati del grande Paese sudamericano hanno adottato la legge per cui vengono scontati 4 giorni di prigione per ogni libro letto. E in Italia? La proposta di legge c'è. La cultura rende liberi? Un libro vale quattro giorni di carcere in meno, con il limite di un testo al mese. È quanto prevede una legge già in vigore nello Stato brasiliano del Paraná e che viene ora estesa a quello del Ceará (capitale Fortaleza), dove l'amministrazione ha annunciato l'acquisto di 3.000 libri per un programma lanciato nelle scuole presenti dietro le sbarre. Scelto il libro, gli alunni detenuti avranno tempo 28 giorni per concludere la lettura; dovranno poi stilare una recensione e sostenere il colloquio con docente: per accorciare la pena, bisognerà ottenere un minimo di sei punti. Le regole per la valutazione sono scrupolosamente indicate: oltre alla comprensione del testo, "un uso corretto dei paragrafi, dell'ortografia, dei margini e una grafia comprensibile". Mafalda Correia Pires Viana, detenuta di 26 anni, studente universitaria di filosofia, commenta: "L'iniziativa apre la porta a un mondo pieno di opportunità". Lei ha già scontato oltre 5 anni di carcere e ora lavora presso l'Ufficio di arte ed eventi del Dipartimento statale incaricato di recuperare i libri. Il disegno di legge italiano Le misure adottate dal Ceará e dal Paraná si inseriscono in una cornice nazionale, il "Reembolso atraves da leitura" (Rimborso attraverso la lettura), approvato dal Governo nel giugno 2012 e particolarmente voluto dalla presidente Dilma Rousseff per spezzare l'immagine delle carceri brasiliane come le più dure al mondo. Lo sconto massimo è di 48 giorni in un anno, cioè un libro al mese; di volta in volta, i giudici devono comunque valutare, in base al reato, chi può usufruire di questa possibilità. E in Italia? Nel maggio 2014 ci ha pensato la Giunta regionale della Calabria, pochi giorni prima delle dimissioni del presidente Scopelliti, a proporre al Parlamento una misura ispirata proprio al Brasile. Uniche differenze: da noi un libro equivarrebbe a tre giorni, non quattro; la proposta non sarebbe valida per i condannati a una pena inferiore ai sei mesi; le verifiche sarebbero effettuate dagli educatori del carcere. "La lettura è uno straordinario antidoto al disagio. Favorisce la consapevolezza e il riscatto sociale e personale", ha detto l'allora assessore alla Cultura Mario Caliguri. Ora la proposta è stata sottoposta al Parlamento, dove la deputata Pd Daniela Sbrollini aveva già teorizzato la pratica brasiliana, da inserire in un progetto di legge a cui sta lavorando. Spiega: "La lettura amplia la mente, è utile per conoscere il mondo e imparare la lingua. Penso ai detenuti stranieri. Si tratta comunque di sconti di pena lievi, qualche giorno per ogni libro letto, con un tetto massimo di letture annuali". Ce ne sarebbe bisogno? Sicuramente il carcere italiano applica male la funzione assegnatagli dall'articolo 27 della Costituzione, la "rieducazione del condannato": produce il 68,5% di recidivi, cioè i detenuti che, usciti dal carcere, commettono nuovamente reati, mentre la percentuale scende al 19% per chi sconta la condanna con misure alternative alla detenzione. Lucia Castellano, ex direttrice di Bollate (Milano), prigione modello per le aperture all'esterno e per il conseguente calo della recidiva al 20%, ha spiegato nel libro "Diritti e castighi" come il sistema carcere sia divenuto ormai discarica del disagio sociale. "Sembra aver gettato la spugna sulla possibilità di trattare i detenuti con dignità e di "risocializzarli"", ha detto. "Continua a considerare la chiave il simbolo della sicurezza, ma più sono le mandate, più sale la recidiva. Ha rinunciato al cambiamento. Dai prigionieri pretende redenzioni miracolistiche, ma non fa alcuna "revisione critica" su se stesso, sulla propria cultura e sul proprio modo di agire. Progetta nuovi contenitori senza curarsi del contenuto, esibisce trionfalisticamente allevamenti di volatili o spettacoli canori, ma razzola nel quotidiano annientamento di corpi e delle menti dei prigionieri; perpetua la più conservatrice cultura carceraria e non cambia passo". Arabia Saudita: l'avvocato Al-Khai ha difeso detenuti torturati, condannato a 15 anni di Damiano Aliprandi Il Garantista, 21 gennaio 2015 "Disobbedienza al regno e tentativo di disconoscerne la legittimità", "offesa al potere giudiziario e messa in discussione dell'integrità dei giudici", "costituzione di un'organizzazione priva di autorizzazione", "minaccia alla reputazione dello stato attraverso comunicazioni a organismi internazionali" e "preparazione, detenzione e diffusione di informazioni atte a minacciare l'ordine pubblico". Questi sono i capi di imputazione che portarono alla condanna di Waleed Abu Al-Khair, uno dei più noti difensori dei diritti umani e avvocati sauditi. Sei mesi fa, la Corte penale speciale dell'Arabia Saudita, un tribunale incaricato di affrontare i casi di terrorismo controllato dal ministero dell'Interno e che agisce sulla base di procedure non pubbliche, lo aveva giudicato colpevole condannandolo a 15 anni di galera, di cui cinque sospesi. Ma il 12 gennaio scorso, a causa del mancato "pentimento" per i "reati" commessi, la stessa Corte penale speciale ha annullato la sospensione elevando dunque a 15 anni la condanna effettiva. Ma quali "crimini" avrebbe commesso il noto avvocato? Ce lo spiega Riccardo Noury, il portavoce di Amnesty International, tramite un suo appello ospitato sul Manifesto . Il "reato" sarebbe stato quello di aver fondato, nel 2008, un'organizzazione indipendente denominata Osservatori dei diritti umani in Arabia Saudita; aver criticato, nel 2011, l'arresto di 16 riformisti; non aver riconosciuto la legittimità della Corte penale speciale; aver difeso in tribunale numerose vittime di tortura e di altre violazioni dei diritti umani. Da ultimo, quello di aver avuto tra i suoi clienti Raif Badawi, il blogger dissidente condannato nel settembre 2014 a 10 anni di carcere e a 1000 frustate per aver "offeso l'Islam". Dopo la prima sessione di 50 frustate, l'esecuzione della pena corporale è stata provvisoriamente sospesa perché le ferito non si erano cicatrizzate. La gogna proseguirà per altre 18 settimane. L'esperienza delle frustate, oltre a essere degradante (a maggior ragione quando, come in questo caso, avviene in pubblica piazza, di fronte a una folla festante), è devastante dal punto di vista fisico. La pelle si apre e non basta una settimana a cicatrizzare le ferite. La prima serie di 50 frustate è stata oscurata dalla commozione mondiale per i tragici eventi di Parigi dove ha espresso ufficialmente rammarico e condanna anche l'Arabia Saudita, la stessa che ha condannato un uomo "colpevole" di aver offeso l'Islam coi suoi post. Dal Canada, la moglie del blogger - il governo canadese le ha concesso l'asilo politico - chiede al mondo di non dimenticare suo marito. Ha dovuto raccontare tutto ai figli, per evitare che venissero a sapere dai compagni di scuola che il papà viene frustato ogni settimana in un paese lontano. Ma non sono casi estremi, visto che negli ultimi anni sono state imprigionate decine di persone che avevano chiesto riforme, promosso dibattiti, fondato organizzazioni indipendenti per i diritti umani, difeso vittime di torture e processi irregolari. Intanto l'avvocato Waleed Abu al-Khair sì trova nella prigione Briman, a Gedda. Nelle settimane successive al suo arresto, nell'aprile 2014, è stato posto in isolamento nella prigione al-Hàir nella capitale Riad e sottoposto a tortura. Sul sito di Amnesty c'è la possibilità di firmare l'appello per chiederne la liberazione. Stati Uniti: Corte Suprema; un detenuto musulmano può portare la barba, purché corta Ansa, 21 gennaio 2015 Una sentenza unanime della Corte Suprema Usa ha dato ragione a un detenuto musulmano che aveva sporto denuncia contro il carcere dell'Arkansas perché gli vietava di portare la barba anche se corta. Il caso è stato denunciato da Gregory Holt, un musulmano conosciuto anche con il nome di Abdul Maalik Muhammad, noto alle autorità per aver minacciato le figlie dell'ex presidente Bush e poi condannato all'ergastolo nel 2010 per aver colpito la fidanzata con un coltello. Il carcere vieta di portare la barba lunga ma come compromesso, Holt aveva chiesto di poter avere una barba di pochi centimetri. In una lettera inviata alla Corte, Holt sosteneva che il rifiuto dello Stato di fare eccezioni è oppressivo e costringe i detenuti "a obbedire al loro credo religioso, affrontando un'azione disciplinare, o a violare quel credo". La Corte Suprema ha accettato il ricorso di Holt sostenendo che il divieto viola i suoi diritti e che comunque la barba non pone un rischio per la sicurezza.