Giustizia: intervista al Premio Nobel Desmond Tutu "no alla vendetta sì alla riconciliazione" di Umberto De Giovannangeli Left, 17 gennaio 2015 Ovunque c'è un popolo che soffre, un popolo oppresso; ovunque si fa scempio dei diritti umani, ovunque i poveri, gli indifesi, vengono depredati da poteri corrotti e senza scrupoli. Ovunque una comunità rivendica libertà e giustizia, lui è dalla loro parte. È una vita dalla parte dei più deboli quella di Desmond Tutu, 84 anni, premio Nobel per la Pace 1984, assieme a Nelson Mandela, per la sua lotta contro il regime dell'apartheid. Primo arcivescovo nero di Città del Capo, tra gli altri riconoscimenti internazionali ha ricevuto il premio Albert Schweitzer per l'Umanitarismo nel 1986; il premio "Pacem in Terris" nel 1987; il premio per la Pace di Sydney nel 1999; il premio per la Pace Gandhi nel 2007; la Medaglia presidenziale per la Libertà (Usa) nel 2009 e il premio Templeton nel 2013. Tutu è da sempre sostenitore del diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese. E oggi, in un Medio Oriente in fiamme e con il terrorismo qaedista che colpisce nel cuore dell'Europa con "l'11 settembre" francese, acquista ancor più valore, ciò da lui più volte ribadito pubblicamente: "Noi ci opponiamo all'ingiustizia dell'occupazione illegale della Palestina. Noi ci opponiamo alle uccisioni indiscriminate a Gaza. Noi ci opponiamo all'indegno trattamento dei palestinesi ai checkpoint e ai posti di blocco. Noi ci opponiamo alla violenza da chiunque sia perpetrata. Ma non ci opponiamo agli ebrei". Nel sostenere la campagna internazionale per il boicottaggio economico d'Israele, Tutu ha affermato: "Chi continua nei propri affari economici con Israele, contribuisce a perpetuare uno status quo assolutamente ingiusto. Coloro i quali contribuiscono al temporaneo isolamento di Israele stanno affermando che tanto gli israeliani quanto i palestinesi hanno lo stesso diritto a dignità e pace". Per le sue prese di posizioni a sostegno dei diritti del popolo palestinese, Lei è ritenuto dai falchi israeliani un nemico dello Stato ebraico... Trovo profondamente ingiusta questa accusa che provoca in me un sentimento di dolore. Per mia fortuna, posso annoverare tra i miei più cari amici persone di fede ebraica. E così vale per tanti cittadini israeliani. Io non ho mai messo in discussione il diritto di Israele a vivere all'interno di frontiere sicure. Ma questo non giustifica ciò che Israele ha fatto e continua a fare a un altro popolo per garantire la propria esistenza. Le mie visite in Terrasanta sono state per me un viaggio nel passato, un doloroso viaggio nella memoria, nel dolore. Ha riaperto antiche ferite. Nell'umiliazione dei palestinesi ai check point ho rivisto ciò che noi neri provavamo in Sudafrica quando un ufficiale ti impediva di passare. Un'umiliazione sistematica, quella praticata da membri delle forze di sicurezza israeliane, che non risparmia neanche le donne e i bambini. Ho visto madri pregare inutilmente per potersi recare in un villaggio vicino per poter assistere gli anziani genitori impossibilitati a muoversi. Quei check point, assieme al Muro, isolano villaggi, spezzano comunità; quei check point sono l'espressione di un dominio che segna la quotidianità di decine di migliaia di palestinesi. Li prostra, li umilia. Essi mi riportano indietro nel tempo, al Sudafrica dell'apartheid. Ai miei amici israeliani ed ebrei non mi stancherò di ripetere che Israele non potrà mai ottenere la sicurezza attraverso le recinzioni, i muri, i fucili. La sicurezza potrà essere realizzata solo quando i diritti umani di tutti saranno riconosciuti e rispettati. È una lezione della storia che viene dal mio Paese, il Sudafrica. Le autorità israeliane ribatterebbero che loro esercitano il diritto di difesa… In passato, anche recente, ho condannato chi in Palestina è responsabili dei lanci di missili e razzi su Israele. Costoro non fanno altro che alimentare il fuoco dell'odio e rafforzare gli estremisti che usano strumentalmente la causa palestinese per propagandare odio e seminare terrore. Io sono contro ogni forma di violenza. Ma occorre essere chiari, il popolo di Palestina ha tutto il diritto di lottare per la propria dignità e libertà. Penso alle sofferenze inflitte alla popolazione di Gaza, non solo con le armi ma anche con l'embargo che dura ormai da anni, una punizione collettiva contraria non solo al Diritto umanitario ma anche alla Convenzione di Ginevra. Penso al Muro in Cisgiordania, alle terre espropriate ai palestinesi per costruire insediamenti o ampliare il Muro. Lo Stato d'Israele agisce come se non esistesse un domani. Ma non esiste una sicurezza fondata sulla sofferenza inflitta quotidianamente a un altro popolo. Una lezione che i Grandi della Terra sembrano non avere inteso. Cosa si sente di dir loro? A loro, ma anche a ciascuno di noi, perché ognuno nel proprio ambito è padrone dei suoi atti e dei suoi silenzi, direi che chiudere gli occhi di fronte a ingiustizie come quelle perpetrate verso il popolo palestinese, vuol dire essere corresponsabili di quelle ingiustizie. Non agendo hanno scelto di stare dalla parte dell'oppressore. Oggi si torna ad agitare lo spettro della guerra al terrorismo. Una guerra che tutto giustificherebbe, anche l'uso sistematico della tortura. Ma la guerra al terrorismo non sarà mai vinta se continueranno a esserci persone, in ogni angolo della terra, pronte a commettere atti disperati a causa della povertà, della malattia e dell'ignoranza. Vorrei restare sul tema dell'uso della tortura nella lotta al terrorismo. Lei è stato promotore, assieme ad altri 11 Nobel per la Pace, di un appello al presidente Obama su questo delicatissimo tema... Va dato merito al presidente Obama di aver ammesso che gli Stati Uniti hanno fatto uso di tecniche di tortura negli interrogatori di presunti terroristi. Questa ammissione rappresenta il primo passo verso la fine di uno dei capitoli più tristi e inquietanti nella storia degli Stati Uniti. Ma la trasparenza da sola non basta. Vanno perseguiti i responsabili di quegli atti, così come il presidente Obama deve dar seguito alla promessa, finora inevasa, della chiusura di Guantánamo. Questo è un obbligo che l'America ha verso il mondo. Perché il suo cattivo esempio è stato utilizzato per giustificare l'uso della tortura dai regimi di tutto il mondo: se lo fa l'America perché non possiamo farlo anche noi? La tortura è sempre e comunque un atto spregevole, diabolico, ingiustificabile, contro cui è un dovere, oltre che un diritto, ribellarsi. Non c'è niente di peggio che rassegnarsi alle ingiustizie. Questi sono giorni di letizia e di festa per i cristiani nel mondo. Ma anche in questi momenti, bisogna chiedersi come si possa fare a credere in un messaggio così rivoluzionario come il Vangelo e restare indifferenti di fronte al dramma della povertà, della fame e della miseria, che investe centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. La speranza non deve abbandonarci mai, ma a essa deve accompagnarsi la determinazione ad agire per dare un senso concreto a parole come giustizia, fratellanza, solidarietà. E non c'è niente di più educativo che ascoltare la voce dei poveri. Il Summit mondiale dei Nobel per la Pace, svoltosi dal 12 al 14 dicembre scorsi a Roma, è stato dedicato a Nelson Mandela, a un anno dalla sua scomparsa. Se c'è un uomo che può rinverdirne la memoria, questo indubbiamente è Lei. Cosa ha reso davvero grande Nelson Mandela? Vede, non sono pochi nella Storia a essere ricordati come vincitori. C'è chi ha condotto rivoluzioni, chi ha sconfitto il nemico sul campo. Ma in pochi hanno saputo coniugare vittoria e giustizia. Nelson è tra questi pochi. Per questo, soprattutto per questo, è stato un grande. Non solo per come ha combattuto ma per come ha saputo vincere. Con lo spirito di giustizia, mai di vendetta. Non è da tutti riuscire ad essere, nell'arco di una vita, il leader amato, osannato di un movimento di rivolta e, successivamente, a essere visto, accettato, come il presidente di tutti i sudafricani, al di là del colore della pelle, dell'appartenenza etnica o religiosa. Nelson Mandela c'è riuscito. Con Madiba non ho condiviso solo la lotta contro il regime dell'apartheid. Ciò che ci ha ancor più legati è stata l'idea, dalla quale è nata "La Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana (istituita dall'allora primo ministro Nelson Mandela nel 1995, che operò dal 1996 al 1998, oggi presieduta da Tutu, ndf) è che fare giustizia significa risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare le vittime quanto i criminali, ai quali va data la possibilità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso. La riconciliazione non è qualcosa che ti mette comodo, non ti permette di fare finta che le cose siano diverse da come sono, la riconciliazione basata sulla falsità o sulla mistificazione della realtà non è vera riconciliazione e non può durare. Sono sempre stato convinto, e ciò non vale solo per il Sudafrica, che senza perdono non c'è futuro. Giustizia: ministero studia riforma organica della normativa sul lavoro dei detenuti Public Policy, 17 gennaio 2015 "Il Ministero della Giustizia sta comunque promuovendo specifiche iniziative finalizzate ad incentivare ulteriormente le opportunità di accesso al lavoro in ambito carcerario anche verificando la possibilità di riforma organica della normativa in materia". È quanto si legge in una risposta del dicastero guidato da Andrea Orlando a due interrogazioni, presentate nella II Commissione della Camera, dalle deputate Pd Anna Rossomando e Vanna Iori. Le interrogazioni prendevano le mosse dalla recente sospensione delle attività legate al servizio mensa carcerario affidate, in alcuni penitenziari, a diverse cooperative nell'ambito del Programma esecutivo d'azione (Pea) n. 14 del 2003. "Secondo quanto comunicato dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, il progetto prevedeva l'affidamento della gestione dei servizi cucina a cooperative, individuate dalle direzioni, che provvedevano alla formazione dei detenuti addetti ed alla supervisione nella preparazione dei pasti ed assumevano, secondo i contratti collettivi di categoria, i lavoratori così formati". E ancora, come si legge nella risposta di via Arenula, "i termini dell'iniziativa prevedevano che le cooperative ricevessero, a titolo di corrispettivo, un gettone giornaliero per ciascun detenuto presente in istituto, impiegando materie prime fornite dalla stessa amministrazione". Nel 2009, alla scadenza del progetto, il finanziamento della iniziativa fu trasferito alla Cassa delle ammende per poi essere sospeso a fine 2013 perché non di competenza della Cassa. "Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, preso atto della cessazione della erogazione del finanziamento da parte della Cassa delle ammende - aggiunge la risposta del ministero della Giustizia - ha comunicato che tutti gli istituti interessati al progetto hanno assicurato di poter proseguire il servizio in economia, con affidamento diretto e con impiego di egual numero di detenuti, ed hanno in tal senso già da tempo predisposto le necessarie misure organizzative". Inoltre "al fine di non disperdere il prezioso patrimonio conoscitivo sviluppato nel corso del progetto, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha intrapreso, all'esito di opportuna interlocuzione con il ministro, iniziative finalizzate a verificare la possibilità di prosecuzione del rapporto di collaborazione con le cooperative esclusivamente per attività diverse dal confezionamento dei pasti". Giustizia: Antigone al nuovo Capo dello Stato "urgente la nomina del Garante detenuti" Redattore Sociale, 17 gennaio 2015 Sarà indirizzata al nuovo Capo dello Stato la petizione lanciata dall'associazione. "È passato un anno da quando è stata approvata la legge che prevede l'istituzione di questa figura senza che si sia giunti alla sua nomina". Sarà indirizzata al nuovo Capo dello Stato la petizione, lanciata dall'associazione Antigone, per chiedere la nomina del Garante Nazionale dei Detenuti. A tal proposito l'associazione aveva lanciato, negli ultimi giorni del 2014, un appello al presidente dimissionario Giorgio Napolitano per arrivare alla nomina di una figura istituita ormai da un anno. Nonostante la questione sia rimasta tuttora irrisolta, Antigone ha voluto ringraziare il presidente uscente per l'attenzione dimostrata negli anni al tema delle carceri. "All'indomani delle dimissioni del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - afferma l'associazione - vogliamo ringraziarlo per la costante attenzione che, nel corso di questi 9 anni, ha messo sul tema delle carceri. Riconosciamo al Presidente di essere stato il principale stimolo al Governo e al Parlamento, affinché si ponesse rimedio alle gravissime inadempienze denunciate dalla Corte europea dei diritti umani". La petizione è stata lanciata sulla piattaforma change.org, e l'associazione Antigone si augura che il nuovo presidente della Repubblica raccolga la palla al balzo e metta tra i primi punti in agenda la nomina del Garante. "È passato un anno - afferma Antigone - da quando è stata approvata la legge che prevede l'istituzione di questa figura senza che si sia giunti alla sua nomina. La petizione oggi resta aperta e sarà indirizzata al nuovo Presidente della Repubblica al quale, non appena eletto, la presenteremo, chiedendogli di aprire il suo mandato all'insegna dei diritti e delle garanzie costituzionali. Nel frattempo, nei giorni scorsi, è stato presentato il lavoro dello European Prison Observatory, di cui Antigone è capofila, sulla presenza dei Garanti nazionali nei diversi paesi europei. Giustizia: giurisdizione incontinente e magistratura all'inseguimento degli allarmi sociali di Mauro Mellini Italia Oggi, 17 gennaio 2015 L'eccessiva, spropositata e spesso incomprensibile produzione di norme, produce l'ingestibilità del sistema. Oramai non si tratta più di "crisi della giustizia", né di rovina della giustizia. È dell'intero sistema giuridico-giurisdizionale che, in crisi da tempo, si profila una catastrofe. Si dirà che considerazioni simili sono quelle di un vecchio, tale non solo per il peso degli anni, ma per l'appartenenza ad un mondo del passato, incapace di vedere l'avvenire, il futuro, un sistema diverso, imposto dall'esplosione delle novità tecnologiche, dalle trasformazioni sociali, dall'omologazione economico-culturale in atto nel Pianeta. Vorrei tanto che fosse così. Vorrei, in sostanza, essere cieco per non dover prendere atto che è buio pesto e non si vede più luce. Per decenni ho predicato al vento l'incombere di una "notte della giustizia", che ho predetta, rilevando l'ineluttabilità della catastrofe di sistemi "provvisori" sempre più inestirpabili e "normali": il doppio binario di una giustizia "anti", "di lotta" contro questa o quella forma di criminalità "speciale" (di cui ve ne è sempre una incombente: il terrorismo, la mafia, la droga, la corruzione etc. etc.) convivente in uguale abitualità con la giustizia "ordinaria", col risultato dell'emergere della regola del bimetallismo monetario di cui si occupano gli illuministi italiani: quella per cui "la moneta cattiva caccia quella buona". Le garanzie della giurisdizione sono state condizionate alla "finalità", la salvaguardia della funzione giurisdizionale è oggi il fi ne primario (non era già accaduto questo con la giustizia dei parlamenti in Francia o altrove?). E la magistratura è divenuta corporazione-partito capace di anteporre la lotta alla legge ed al diritto e portata a mettere in atto perfezionate macchine di persecuzione del nemico del momento (ce n'è sempre uno da debellare) Obiettivo primario, davanti al quale cadono regole, tradizioni, senso della giustizia e delle proporzioni (chi potrebbe negare che la macchina della persecuzione si è scatenata contro Berlusconi, che non solo ne è stato sconfitto ma ne è stato messo in condizioni di non essere più nemmeno capace di denunciare come fatto politico centrale ciò che ha dovuto subire). La connessione tra sistema di diritto sostanziale ed ordinamento giurisdizionale e la propagazione delle situazioni di crisi dall'uno all'altro è evidente. Ma è ancora più evidente e grave quando l'esercizio delle giurisdizioni diventa cosa in potere di una casta e di una casta-partito, capace di determinare col suo peso e con i condizionamenti che impone al sistema politico e alle altre istituzioni, mutamenti di quel sistema di diritto cui dovrebbe obbedire nella funzione di applicarlo. Così tutto il sistema giuridico processuale ed anche quello sostanziale vengono assoggettati ad una evoluzione in funzione della casta esercente la giurisdizione e delle sue esigenze. In primo luogo quella di "alleggerirne" il lavoro, "smaltirlo", "semplificarlo" per arrivare ad un "prodotto" maggiore. Il che, poi, alla lunga distanza, produce l'effetto del tutto opposto: il deprezzamento qualitativo della funzione giustizia determina la sua inflazione ed un ulteriore impulso verso il moltiplicarsi dei giudizi ed il loro ulteriore intasamento. Al deterioramento per incontenibile gigantismo della giurisdizione, corrisponde una patologica elefantiasi del diritto sostanziale, che per la sua stessa mole e per il carattere intricato, approssimativo e disarmonico delle leggi che lo compongono, diventa incontrollabile e insopportabile dalle istituzioni e dai soggetti privati che dovrebbero osservarlo. L'elefantiasi è una malattia mortale per il diritto. L'accumularsi di norme disarmoniche ed inestricabili, che privati cittadini e pubbliche amministrazioni non sono in grado di osservare e far osservare e di cui l'apparato giudiziario non riesce esso stesso ad assicurare la certezza e l'applicazione, finisce per cancellare ogni criterio di legalità. La corruzione trova nell'elefantiasi e nell'inapplicabilità delle leggi la ragione primaria del suo diffondersi e radicarsi come "sistema alternativo" che nessuna campagna repressiva, nessun aumento spropositato delle pene riesce a reprimere e contenere. Il sistema penale italiano, che pure è stato considerato uno dei più perfezionali e meglio sistemati nella scienza del diritto da parte di studiosi di diversi paesi, è oramai scardinato per la rottura di alcuni suoi punti essenziali. La legislazione antimafia, fondata sulla assai labile definizione del reato di associazione mafiosa (che è piuttosto - art. 416 bis c.p. - il tentativo di una rappresentazione sociologico-criminale dei fenomeni esistenti) e sulle fantasie giurisprudenziali, con la lievitazione dei livelli delle pene e la dichiarata "finalità di lotta", con la creazione di un apparato giudiziario speciale, dalle competenze non troppo ben definite, ha fatto venir meno principi, modelli, proporzioni essenziali del sistema penale oltre che in quello processuale. Il modello antimafia riproposto ogni volta che un fenomeno criminale si presenta all'attenzione della pubblica opinione creando allarme e sdegno, si è esteso alla repressione del traffico di droga, ora si vuole estendere anche alla repressione della corruzione. Di contro il progetto, che tanto piace agli orecchianti di questioni giudiziario-penali, di introdurre il provvedimento di "non doversi procedere per ritenuta scarsa rilevanza del fatto", scardina definitivamente il principio di legalità, sostituendo quella dell'aleatorietà della repressione penale, determinata dagli umori dell'opinione pubblica e, soprattutto, dal maggiore o minor carico di lavoro nelle varie sedi giudiziarie (la "scarsa rilevanza" è sempre tale dove c'è maggior carico di lavoro). Ma, intanto, la Corte di Cassazione ci mette, ancora una volta, del suo nello scardinamento dell'architettura del sistema giuridico. Pensiamo all'affermarsi del principio dell'"abuso del diritto". Non è solo la violazione di un antico e collaudato principio della razionalità giuridica ("…qui suo iure utitur neminem laedit"). Affermare che si possa al contempo fruire della legittimità assicurata dall'ordinamento ed abusare di essa per un fi ne che criteri "legali ed extralegali" (così la Cassazione) considerano negativi, è una contraddizione in termini che distrugge ogni concetto di globalità ed armonia del diritto, per affidarne l'apparenza alle contraddizioni di spinte occasionali inevitabilmente arbitrarie. Si dirà che tutto ciò è semplicemente il prodotto di un diritto che si affanna a correr dietro all'evolversi turbinoso delle tecnologie, della società, della scienza. C'è qualcosa di vero in tale proposizione. È vero che la globalizzazione tende ad introdurre nei sistemi giuridici particolari elementi di altri, diversi sistemi. Ma il passivo ricorrere ad istituti stranieri (in particolare del sistema dei paesi del Common Law), nel nostro sistema "europeo continentale" del diritto codificato, con un sistema giurisdizionale (e con giudici) radicalmente diversi, porta ad incongruenze che sopraffanno il vantaggio delle nuove esperienze e rende negativo l'ingresso in più vasti contesti giuridici culturali di cui tali novità sembrano tener conto. Il cambiamento è, anche per il diritto, nelle cose, nell'ineluttabilità dello sviluppo della storia. Ma cambiamento non è distruzione. È tale solo se con esso si realizza un'armonia diversa. Ciò che ci induce a parlare di catastrofe non è certo l'affondare di vecchi schemi, ma la totale assenza di prospettive nuove. Non c'è la luce dell'avvenire. La distruzione, la catastrofe, restano tali. Toscana: l'Opg di Montelupo Fiorentino non chiuderà il 31 marzo 2015 da Psichiatria Democratica Ristretti Orizzonti, 17 gennaio 2015 Adesso è ufficiale: la Toscana non rispetterà la scadenza del 31 marzo per la chiusura dell'opg di Montelupo. È quanto si evince, tra le righe, dalle parole dell'assessore Marroni in risposta ad una interrogazione (Ansa 15.1.2015): a meno di tre mesi dalla scadenza, la Regione Toscana scopre che, per raggiungere l'obbiettivo, serve una forte "collaborazione inter-istituzionale" (ma cosa ha fatto in questi anni?) e noi abbiamo la conferma che non esistono, alcune nemmeno sulla carta, le strutture alternative per procedere alla chiusura dell'Opg: in particolare quella, considerata "residuale" dall'assessore, destinata ad accogliere i soggetti in misura di sicurezza detentiva che oggi (gennaio 2015!) si cerca di trovare attraverso "una ricognizione delle strutture già nella disponibilità del Servizio sanitario regionale" dopo averla individuata, con relativi pomposi annunci, a S. Miniato (Del. 715/2013), nella Casa Circondariale di Empoli e poi in quella di Massa Marittima; anche per la realizzazione della struttura di accoglienza nel Comune di Lastra a Signa per l'Area Vasta Centro, i tempi sono tutt'altro che certi: per questa struttura, secondo il progetto originario (Del. 715/2013), i tempi previsti erano di 4-6 mesi dall'affidamento dell'appalto che non risulta ancora assegnato! È il fallimento della politica regionale fatta di annunci roboanti quanto vuoti di reali contenuti, di progetti faraonici e solipsistici, di mancanza di trasparenza, di assenza di coinvolgimento delle realtà territoriali a tutti i livelli. Ma il fallimento è anche sul piano più complessivo (non solo sulle alternative residenziali) - impegno dei DSM per la chiusura, rapporti con la Magistratura - della gestione degli internamenti dei toscani in Opg: al 1° giugno 2014 erano 33 (30 a Montelupo, 2 a Reggio E. e 1 donna a Castiglione delle Stiviere) di cui 18 dimissibili (e 15 giudicati non dimissibili, percentuale questa molto lontana dalle medie degli altri Opg). Al 31.12.2014 gli internati a Montelupo sono 47 (+ 40%) e non si sa quanti siano dimissibili, così come non si sa quanti di quelli dichiarati dimissibili a giugno siano stati realmente dimessi. Sono dati allarmanti, espressione non solo della asserita mancanza di alternative all'internamento ma anche dell'inerzia regionale nella prevenzione degli invii in opg, risultato di un insufficiente coinvolgimento dei Dsm e della magistratura per una applicazione aderente allo spirito oltre che alla lettera della legge 81: non ci risulta, ad es., che la Toscana si sia fatta parte diligente per organizzare, come hanno fatto altre Regioni, sistematici incontri tra operatori dei Dsm e magistrati, non solo sui temi della prevenzione degli invii e delle dimissioni dall'Opg, ma anche su tutti quegli aspetti che la gestione complessa, tra sanitario e penitenziario, delle future strutture di accoglienza richiede di approfondire prima ancora della loro attivazione. A questo punto la chiusura di Montelupo deve cessare di essere, come è stato fino ad oggi, un problema di ingegneria istituzionale (quanti posti letto/quante strutture/dove collocarle) per tornare ad essere quello che in realtà è: un problema politico di cui la Regione deve tornare a farsi carico per cercare di evitare l'ignominia di una richiesta di proroga. Il Presidente Rossi, che pure aveva annunciato di volerlo fare, riprenda in mano la gestione politica di questa fase; si crei in Regione, come da noi richiesto - inascoltati - da anni, un vero gruppo di lavoro (task force) dedicato alla chiusura di Montelupo, con livelli di responsabilità e coordinamento (tecnici e politici) chiaramente individuati, con il coinvolgimento delle realtà associative e amministrative (la forte collaborazione inter-istituzionale) dei territori, capace di seguire il processo in tutte le sue fasi (strutturali e gestionali) tanto a livello regionale che nei dipartimenti interessati; si abbandoni la chimera delle Rems come soluzione del problema (troppo lunghi i tempi e troppo alti i rischi di ricreare nuove istituzioni di cui già ci sono i segnali a livello nazionale): solo così la Toscana potrà ritrovare anche nei tavoli di verifica nazionali il peso degno di una Regione come la nostra, punto di riferimento nazionale negli anni della chiusura dei manicomi, ed oggi pressoché nullo (e forse giustamente) per le sciagurate politiche di questi anni. Sardegna: Sdr; nella Regione solo a 5 imprese le agevolazioni della legge "Smuraglia" Ristretti Orizzonti, 17 gennaio 2015 "I dati diffusi dal Ministero relativi alle cooperative sociali e alle imprese che fruiranno per il 2015 delle agevolazioni previste dalla legge "Smuraglia" per il reinserimento sociale dei cittadini privati della libertà collocano la Sardegna agli ultimi posti in Italia. Sono infatti soltanto 5 per un ammontare complessivo di circa 17 mila euro". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", sottolineando che "la norma è tesa a favorire l'utilità sociale e l'inserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti strumento indispensabile per ridurre la recidiva e rafforzare la sicurezza dei cittadini". "Non si comprende - osserva Caligaris - perché realtà come le Marche con 869 detenuti, distribuiti in 7 Istituti, possano contare su quasi 29 mila euro di agevolazioni per 9 imprese, mentre in Sardegna con 1.839 ristretti in 12 carceri la fruizione sia così limitata. La tabella ministeriale, approvata lo scorso 17 dicembre, non lascia dubbi sull'esiguità delle iniziative nell'isola. Soltanto l'Umbria ha fatto peggio". "Una delle ragioni - evidenzia la presidente di SDR - può essere individuata nell'assenza di adeguate e utili informazioni, anche perché le condizioni sociali ed economiche di altre regioni del Mezzogiorno non appaiono certamente più rosee di quelle dell'isola. La debolezza del sistema delle imprese e delle cooperative sociali dovrebbe però giocare positivamente sulla fruizione delle agevolazioni fiscali e degli incentivi previsti dalle disposizioni invece non è così". La norma prevede che le cooperative sociali e le imprese presentino le richieste alle direzioni degli Istituti interessati. I Provveditorati Regionali dell'Amministrazione Penitenziaria le inoltrano all'Ufficio V della Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento tramite posta certificata. Un meccanismo semplice ma che finora - conclude Caligaris - non ha prodotto i benefici attesi anzi, con il passare degli anni il mancato utilizzo delle agevolazioni ha determinato una riduzione delle disponibilità che ha indotto il Ministero a ridurre il budget complessivo. Palermo: detenuto deve rimanere in carcere perché mancano i "braccialetti elettronici" Ansa, 17 gennaio 2015 Sono finiti i braccialetti elettronici e i detenuti non possono andare ai domiciliari. Quello che doveva essere uno dei meccanismi per svuotare le carceri continua ad evidenziare i suoi limiti. Nel distretto di Palermo dal 10 dicembre non sono disponibili i dispositivi e la lista di attesa si allunga di giorno in giorno. La Telecom, che ha firmato una convenzione con il ministero della Giustizia, ne ha messi a disposizione 2.000 in tutta Italia, ma in molte aree non bastano. Stavolta a non potere uscire dal carcere è Giuseppe Tartarone Buscemi, arrestato per detenzione di armi. Il suo avvocato, Enzo Giambruno, ha fatto la consueta richiesta ma la risposta non è stata positiva. "Vi informiamo che la richiesta - scrive la Telecom - potrà essere evasa solo a fronte del recupero per fine misura di un dispositivo in esercizio. Resta inteso che tutte e richieste saranno evase in funzione dell'ordine cronologico di arrivo a codesta centrale operativa". L'esaurimento dei duemila dispositivi chiesti dal ministero della Giustizia a Telecom Italia, tramite una convenzione, testimonia come i vari tribunali stanno ricorrendo, in maniera sempre più massiccia, a questa misura di custodia cautelare alla luce del decreto svuota-carceri del 2013. Il dispositivo funziona su un'infrastruttura a banda larga realizzata da Telecom attraverso una centrale operativa. Il braccialetto si applica alla caviglia ed è composto da una centralina a forma di radiosveglia, che va installata nell'abitazione in cui deve essere scontata la pena. Un device riceve il segnale dal braccialetto e lancia l'allarme per eventuali tentativi di manomissione o di fuga del detenuto. L'esaurimento dei duemila dispositivi pone ora al ministero il problema di come poter implementare questo numero per fare fronte ai casi di nuove richieste come quella verificatasi a Palermo. L'esaurimento dei duemila dispositivi chiesti dal ministero della Giustizia a Telecom Italia, tramite una convenzione, testimonia come i vari tribunali stanno ricorrendo, in maniera sempre più massiccia, a questa misura di custodia cautelare alla luce del decreto svuota-carceri del 2013. Il dispositivo funziona su un'infrastruttura a banda larga realizzata da Telecom attraverso una centrale operativa. Il braccialetto si applica alla caviglia ed è composto da una centralina a forma di radiosveglia, che va installata nell'abitazione in cui deve essere scontata la pena. Un device riceve il segnale dal braccialetto e lancia l'allarme per eventuali tentativi di manomissione o di fuga del detenuto. L'esaurimento dei duemila dispositivi pone ora al ministero il problema di come poter implementare questo numero per fare fronte ai casi di nuove richieste come quella verificatasi a Palermo. Roma: arrivano "Er fine pena", "Fa er bravo" e "A piede libero", le birre dei detenuti www.gamberorosso.it, 17 gennaio 2015 Progetti di inclusione sociale e avviamento al lavoro che passano per l'insegnamento di professioni nel settore del food. Si moltiplicano le iniziative nelle carceri italiane e da Rebibbia arrivano le prime etichette del progetto Vale la Pena. Ma il taglio dei fondi operato dal Ministero della Giustizia mette a rischio l'esperienza molto apprezzata della cooperativa Giotto di Padova. E i suoi buonissimi panettoni. Qualche mese fa un sorridente Ministro Giannini inaugurava l'anno scolastico dall'Istituto tecnico agrario Emilio Sereni, presenziando all'apertura del birrificio progettato all'interno della scuola romana. Iniziativa quantomeno insolita, con un calice alzato al cielo, ma solidale con il progetto Vale la Pena, promosso proprio dai Ministeri Istruzione e Giustizia in collaborazione con l'associazione "Semi di Libertà", che nell'occuparsi della formazione dei lavoratori svantaggiati sostiene i detenuti del carcere capitolino di Rebibbia. Negli ultimi sedici mesi un gruppo di nove "ospiti" dell'Istituto Penitenziario, in regime di vigilanza attenuata, è stato introdotto alle competenze di mastro birraio, partecipando attivamente (insieme agli studenti) alla produzione di birra artigianale. E così, qualche giorno fa, ecco le prime tre etichette dell'originale birrificio: Er fine pena, A piede libero, Fa er bravo. Nomi divertiti (e divertenti) che giocano con le condizioni di carcerazione dei detenuti, ma alludono anche al processo di lavorazione delle birre in questione. La gestazione di Er fine pena (golden ale dal colore chiaro, ideata con la collaborazione di Marco Meneghin di Birra Stavio), per esempio, ha richiesto tempi lunghissimi (quasi un anno) e si è guadagnata così l'ironico appellativo. Poi c'è Fa er bravo, da luppolo della varietà americana bravo (con la partecipazione di Orazio Laudi di Turan), mentre A piede libero - aromatizzata con arancia e cannella - prevede l'utilizzo dal farro biologico coltivato nell'orto della scuola e il know how di Paolo Mazzola di Castelli Romani. Una birra per la legalità da annoverare tra le iniziative che molte carceri italiane (in numero crescente) promuovono per favorire un cammino di inclusione lavorativa per i detenuti desiderosi di apprendere una professione, molto spesso incentrata sulla manualità e legata al mondo del food. Verona: lavori utili al posto del carcere, firmato l'accordo Tribunale-Comune L'Arena di Verona, 17 gennaio 2015 I condannati per reati minori potranno scontare la pena lavorando gratuitamente a favore della comunità. Il sindaco Flavio Tosi e il presidente del Tribunale Gianfranco Gilardi hanno sottoscritto la convenzione tra il Comune e il Tribunale di Verona per permettere lo svolgimento di lavori di pubblica utilità a persone condannate. Tale attività, come illustrato alla firma dell'accordo, rappresenterà un beneficio sostitutivo della pena detentiva Alla firma erano presenti anche il magistrato coordinatore della sezione dei giudici per le indagini preliminari (Gip) e dei giudici dell'udienza preliminare (Gup) Laura Donati e il direttore generale del Comune Marco Mastroianni. In base a questa convenzione, il giudice potrà disporre che la pena detentiva e la pena pecuniaria possano essere sostituite con quella del lavoro di pubblica utilità Esso consiste nella prestazione di un'attività non retribuita, a favore della collettività. "Siamo ovviamente nell'ambito di reati minori, non certo di fatti criminali importanti", spiega il sindaco Tosi. "Infatti potranno usufruire della convenzione soggetti condannati per lo più sulla base del codice della strada, come nel caso di guida in stato di ebbrezza. Si tratta di una misura intelligente, che va nel senso di alleggerimento del sistema penale, e che consente di commutare una condanna in lavoro socialmente utile, a vantaggio sia della comunità veronese, che di chi ha commesso il reato. Qualche altro Comune della provincia aveva già sottoscritto una convezione di questo tipo", conclude Tosi, "ora, con questa firma, i cittadini residenti o domiciliati a Verona potranno usufruire del beneficio sostitutivo della pena nel proprio comune di appartenenza, senza doversi recare fuori". La convenzione, della durata di un anno ma rinnovabile tacitamente di anno in anno, prevede che il Comune possa farsi carico di un numero complessivo di 12 addetti, da impiegare alla Direzione musei e monumenti, al Museo di Storia naturale, alla Galleria d'arte moderna, al settore Sport e tempo libero, al servizio Manifestazioni e nelle biblioteche pubbliche. Analoghe convenzioni con il Tribunale di Verona sono state stipulate anche da altri sei Comuni veronesi. Le ore di lavoro da svolgere variano dalle 40 alle 170 e sinora sono state circa duecento le persone che hanno beneficiato di questa misura alternativa al carcere o a una ammenda pecuniaria. "Queste sono misure che alleggeriscono il sistema penale", spiega il presidente del Tribunale, Gilardi, commentando i contenuti dell'accordo, "consentono poi condizioni di vita più favorevoli alle persone coinvolte e inoltre svolgono una funzione rieducativa, attraverso il lavoro. Per questi motivi stanno ottenendo un valido successo". Verona: detenuti pubblicano selfie su Facebook, ritrovati 4 cellulari nelle celle L'Arena di Verona, 17 gennaio 2015 La Procura apre indagine e per alcuni carcerati dell'Est scatta la sorveglianza stretta. Hanno filmato la vita in cella, scattandosi anche dei selfie e poi hanno pubblicato le immagini su Youtube e sui loro profili Facebook. Ed è così, che la Polizia penitenziaria s'è resa conto che alcuni cellulari erano entrati in carcere a Montorio. Mercoledì durante i controlli sono stati trovati altri quattro cellulari nelle sezioni detentive, nell'arco di sei mesi i cellulari rinvenuti sono una ventina, un dato sconcertante. Le voci viaggiano veloci in carcere e la bravata di alcuni detenuti dell'Est ha fatto in fretta il giro dei bracci che dividono le sezioni. Una voce è arrivata anche all'orecchio di un poliziotto che ha deciso di andare in fondo a quella confidenza. Grazie alla grande professionalità di quell'assistente della polizia Penitenziaria in servizio a Montorio e a un poca di capacità telematica, il poliziotto è arrivato a vedere i video registrati da detenuti con smart nelle celle detentive e postati su Youtube e Facebook. Il poliziotto assieme ai colleghi ha quindi eseguito la perquisizione nelle celle e sono stati ritrovati quattro telefoni cellulari. La sicurezza dell'istituto è gravemente e costantemente a rischio, basti solo pensare che un detenuto può comunicare in tempo reale ad eventuali complici la sua uscita dall'istituto per visita all'ospedale udienza o trasferimento e quindi anche organizzare la sua eventuale fuga. Nei mesi scorsi le poliziotte che lavorano in carcere avevano trovato i cellulari inseriti in vagina a parenti di detenuti. Certo è che un cellulare, in una struttura che non permette, se non autorizzati, contatti con l'esterno, diventa anche uno strumento di potere. Questa volta è andata bene così. La leggerezza del detenuto che ha postato i video ha consentito di trovare i telefoni, ma se invece che a un delinquente superficiale e bontempone ci si fosse trovati davanti a un delinquente serio, con contatti di peso all'esterno, la situazione sarebbe potuta diventare molto pericolosa. Soprattutto per i poliziotti che lavorano dentro al carcere, perchè quei video mettono a repentaglio tutta la sicurezza all'interno della struttura. Sull'episodio la procura ha aperto un fascicolo, ai detenuti verranno applicate le restrizioni dell'articolo 14 bis, che determina la sorveglianza speciale che comporta le restrizioni strettamente necessarie per il mantenimento dell'ordine e della sicurezza, all'esercizio dei diritti dei detenuti. Asti: detenuto non riesce a vedere la tv e aggredisce un agente penitenziario di Daniela Peira www.lanuovaprovincia.it, 17 gennaio 2015 Giovane, solo, disarmato di fronte a 50 detenuti che possono circolare liberamente fuori dalle celle: è finita male per un agente di polizia penitenziaria siciliano di 24 anni che giovedì pomeriggio è stato aggredito a schiaffi e pugni tanto da finire al Pronto Soccorso. La denuncia dell'accaduto arriva da Marco Missimei, segretario provinciale della categoria della polizia penitenziaria in seno alla Uil. "Si parla solo sempre di quando sono gli agenti di polizia penitenziaria a venire condannati per maltrattamenti (o presunti tali) a detenuti, ma fuori dal carcere non si sa come lavoriamo e quali rischi corriamo ogni momento". L'episodio di giovedì è accaduto dintorno alle 14,30 mentre l'agente stava compilando dei verbali nel suo "gabbiotto" all'interno della sezione B2, quella in cui scontano la pena detenuti per reati comuni. Ogni sezione conta una cinquantina di carcerati. Ad un tratto è stato avvicinato da un detenuto maghrebino molto infastidito dal fatto che da qualche giorno la tv non funzionava pretendendo che qualcuno intervenisse. L'agente lo ha invitato ad allontanarsi dal gabbiotto e a calmarsi, ma per tutta risposta ha ricevuto gli schiaffi e i pugni. "Casi come quello che è capitato giovedì - spiega Missimei - sono numerosissimi da quando è entrata in vigore la cosiddette Legge Torreggiani, introdotta dopo le sanzioni dell'Ue verso l'Italia per le condizioni di vita nelle sue carceri. La nuova norma prevede un massiccio aumento delle ore di apertura delle celle con la possibilità, per i detenuti, di circolare liberamente all'interno della sezione. Prima i detenuti passavano la maggior parte del tempo in celle ne uscivano per le tradizionali "ore d'aria" o per partecipare alle varie attività complementari in struttura." Una decisione di civiltà nei confronti della popolazione carceraria che però confligge con l'efficacia della sorveglianza e la cronica carenza di organico. "Questo significa, nella realtà, che ogni agente di polizia penitenziaria, nel suo turno, da solo deve sorvegliare cinquanta detenuti che si spostano ovunque - dice Missimei - senza contare che, proprio per la carenza di organico, può capitare di dover sorvegliare due sezioni insieme, quindi cento detenuti, e per otto ore di seguito. Capite che si moltiplicano le occasioni di scontro, di tensioni e, nel caso peggiore, la sproporzione numerica gioca a sfavore degli agenti." A supportare le preoccupazioni del segretario alcuni dati statistici riportati durante il congresso nazionale di tre mesi fa. "Dall'entrata in vigore della Torreggiani con l'apertura delle celle, sono diminuiti i casi di suicidi e di gesti autolesionistici fra i detenuti ma sono quasi raddoppiate le aggressioni agli agenti e i suicidi fra il personale di custodia. Bisogna riorganizzare in fretta tutto per garantire sì i diritti dei detenuti, ma anche la sicurezza degli agenti che operano". Frosinone: "Gruppo idee" organizza nel carcere una partita di calcio a scopo benefico www.lultimaribattuta.it, 17 gennaio 2015 Ancora una bella iniziativa organizzata da Gruppo Idee, associazione nata all'interno del carcere di Rebibbia, dalla volontà di un gruppo di detenuti di dimostrare alla società che gli sbagli compiuti e la privazione della libertà non impediscono la capacità di rinnovarsi e di restituire. Lunedì 19 gennaio 2015, alle ore 12.00, si sfideranno sul campo di calcio della casa circondariale di Frosinone, la squadra del penitenziario e la rappresentativa dell'associazione italiana arbitri, sezione di Frosinone. Si giocherà per dimostrare, ancora una volta, come il carcere possa essere anche un luogo di solidarietà e di confronto reciproco, come valori quali il rispetto delle regole e dell'avversario possano essere universali, a prescindere dalla realtà che si vive. Sarà senza dubbio un match entusiasmante e il risultato sarà naturalmente ininfluente, perché lo scopo del match è quello di abbattere le barriere del pregiudizio per lanciare, da un luogo "difficile" come la prigione, un messaggio distensivo a tutto il mondo sportivo. "Gruppo Idee ci tiene inoltre a sottolineare che l'iniziativa non vuole essere un incontro sporadico o un momento di solidarietà verso i detenuti limitato a questa giornata ma bensì il proseguimento di un progetto sportivo e sociale nato dal grande lavoro comune fatto nell'Istituto da tutte le parti coinvolte nella delicata opera di reinserimento sociale e che ha come obiettivo quello di portare la squadra, guidata abilmente dal Mister Antonio Colasanti, a giocare in campionati riconosciuti". Un plauso e il sentito ringraziamento da parte dell'Associazione va alla direzione del carcere di Frosinone, nelle figure del direttore Francesco Cocco, del comandante dell'Istituto Elio Rocco Mare, che da subito hanno sostenuto questa iniziativa. Tutti possono sbagliare, l'importante è dare il modo per dimostrare di aver capito gli errori. E questa è la missione che porta avanti Gruppo Idee. Francia: così la Jihad fa "scuola" in carcere di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2015 "La prison c'est la putain meilleure école de la criminalité": non hanno bisogno di traduzione le parole con cui nel 2008 Amedy Coulibaly, uno dei tre attentatori di Parigi, raccontò a France 2 la sua esperienza in carcere, dov'era finito con una condanna per rapina. E dove cominciarono la sua radicalizzazione e il suo reclutamento nella jihad grazie all'incontro con Djamel Beghal, figura dell'islam radicale. "Come si fa a imparare la giustizia con l'ingiustizia?" chiedeva provocatoriamente Coubaly. Certo non c'era bisogno della sua testimonianza per sapere che le prigioni sono formidabili scuole del crimine e di reclutamento di detenuti comuni ad opera di "veterani". Basti solo pensare che più di un secolo fa Filippo Turati ammoniva che "le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori". E se non bastasse, ecco anche un riscontro scientifico, documentato in una ricerca su "carcere e recidiva" senza precedenti in Italia e all'estero, effettuata (su impulso del Sole 24 ore) dagli economisti Daniele Terlizzese e Giovanni Mastrobuoni: quanto più il carcere è rispettoso della dignità e dei diritti fondamentali dei detenuti, tanto più è in grado di ridurre la loro recidiva; per ogni anno passato in un carcere "a misura dei diritti", infatti, la recidiva si riduce di 10-15 punti percentuali (a partire da una media del 40 per cento circa). Gli attentati di Parigi e la storia degli attentatori rilanciano questo tema, anche per la tutela della sicurezza collettiva. In Italia, su 54mila detenuti, 13mila sono musulmani ma solo 10 stanno dentro per terrorismo internazionale (articolo 270 bis del Codice penale). Numeri bassissimi rispetto alla Francia (67mila detenuti di cui 25mila musulmani: 152 radicalizzati e monitorati e di questi 22 in isolamento) dove dopo gli attentati si pensa a forme più rigide di isolamento carcerario. Anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha segnalato l'esigenza di "isolare" le cellule terroristiche per evitare che il carcere sia - come purtroppo è stato - un "incubatore" dell'estremismo. Ma non si sta pensando al 41 bis, cioè all'isolamento completo del detenuto con la sospensione di una serie di diritti per recidere i suoi legami con l'esterno, quanto piuttosto a un'intensificazione del regime di "Alta sicurezza, livello 2" dove attualmente scontano la pena i "radicalizzati": un circuito a sé (che coincide con le carceri di Asti, Benevento, Macomer e Rossano), separato da quello dei detenuti "comuni", per evitare rischi di proselitismo, sebbene anche i detenuti comuni siano potenzialmente a rischio, tant'è che sono comunque sottoposti a un monitoraggio costante. Questa particolare "attenzione" dell'Amministrazione penitenziaria risale al 2005, anche a seguito di indagini nelle carceri di Italia, Francia e Regno unito, e fa leva sulla formazione specifica del personale, sulla sistemazione dei detenuti estremisti, sulla pratica religiosa in prigione, sull'accesso e formazione degli imam, sulla preparazione dell'uscita dal carcere e soprattutto su una serie di indicatori della radicalizzazione. Il rispetto dei diritti fondamentali del detenuto resta, tuttavia, una precondizione essenziale anche per contrastare il rischio di radicalizzazione. I risultati ottenuti da Terlizzese-Mastrobuoni - il paper "Rehabilitation and Recidivism: Evidence from an Open Prison" è pubblicato sul sito dell'Eief, Einaudi Institute For Economics And Finance, e Il Sole 24 ore ne ha dato conto il 29 maggio 2014 - documentano la straordinaria incidenza sulla recidiva del fatto di trovarsi in un ambiente non degradante e rispettoso dei propri diritti. "Per noi è uno studio fondamentale" dice Mauro Palma, nominato il 5 dicembre vice capo del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria (Dap), anche se ancora non c'è il decreto di nomina, nonché presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale. "In Europa c'è grande attenzione - spiega - alla radicalizzazione come processo di trasformazione del responsabile di un reato in vittima: entri in carcere come responsabile di un reato ma poi ti percepisci come vittima perché i tuoi diritti non vengono rispettati. Per cui quando esci, esci come persona che ha subìto un'ingiustizia. E questo alimenta odio sociale". In sostanza, la radicalizzazione è anche "il risultato di un'esclusione sociale, di cui il carcere è l'ultimo anello della catena". Di qui la necessità di "diminuire la vittimizzazione" sia attraverso il rigoroso rispetto dei diritti fondamentali sia attraverso una riflessione del detenuto sulla ferita sociale che la sua condotta criminosa ha provocato. E su questo c'è molto da fare. "Per le persone che vengono da contesti sociali deprivati - prosegue - il carcere è un ulteriore elemento di deprivazione culturale, di ghettizzazione, di cui si nutre la radicalizzazione". Per molti anni Palma è stato presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e in questa veste ha girato moltissime carceri. "Il torto della Francia - osserva - è aver ghettizzato moltissimo, dividendo i detenuti per omogeneità culturali, mentre l'Italia ha scelto la via della disomogeneità" ricorrendo ai mediatori culturali". Riproporre in carcere "la banlieu parigina", il "quartiere ghetto", è un errore, perché "dà una falsa identità dell'appartenenza". Montenegro: un mese fa l'arresto di Massimo Romagnoli, ancora detenuto a Podgorica www.98zero.com, 17 gennaio 2015 "Non vorrei che di fronte ad accuse di tale rilievo passi il messaggio di una colpevolezza a prescindere e quindi Massimo Romagnoli venga lasciato al suo destino nel disinteresse generale". Così il senatore Aldo Di Biagio commenta la scelta di aver presentato una interrogazione parlamentare affinché il Governo prenda in mano le redini della situazione contorta e delicata di Massimo Romagnoli, cittadino italiano accusato dagli Stati Uniti di traffico d'armi e contro cui è stato disposto una richiesta di arresto internazionale. "Con la mia interrogazione ho proprio voluto richiamare l'attenzione delle Istituzioni competenti sul caso di Romagnoli perché gli venga dato il massimo sostegno da parte del suo Paese", aggiunge. Sembra la scena già vista di una pellicola hollywoodiana, quella della vicenda che vede coinvolto Massimo Romagnoli, ex deputato di Forza Italia. E le accuse sono pesantissime. Secondo la procura di New York, l'ex deputato sarebbe incriminato di cospirazione a fini di uccisione di ufficiali e impiegati di cittadinanza americana e loro collaboratori. Più precisamente, Romagnoli avrebbe cospirato in modo ‘indiretto' contro gli Stati Uniti, fornendo armi e altro materiale di supporto agli esponenti delle Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc), con la consapevolezza che tale organizzazione svolge attività terroristica. Attualmente, Massimo Romagnoli è detenuto nel carcere montenegrino di Podgorica dal 16 dicembre scorso, ma la situazione è tutt'altro che chiara. La Procura di New York contesta a Romagnoli un unico incontro dell'8 ottobre 2014, a Tivat, in Montenegro, nel corso del quale - come si legge sull'atto di accusa - avrebbe dato la disponibilità alla vendita di armi, benché fosse stato dichiarato dai sedicenti acquirenti che esse erano destinate alle Farc. Inoltre, Romagnoli avrebbe garantito la fornitura di certificati falsi di esportazione degli armamenti fondamentali per far risultare legittimo il possesso delle armi. Romagnoli si dice innocente, e sostiene "di non essere mai stato un trafficante di armi con base in Grecia" come riferito nell'atto di accusa, e soprattutto di non aver mai, neanche per un momento, sospettato che le armi fossero destinate ad azioni terroristiche. Stati Uniti: sergente di Guantánamo scrive "quei suicidi in realtà erano omicidi della Cia" di Alessandro Di Liegro Il Messaggero, 17 gennaio 2015 La Cia avrebbe coperto l'omicidio di tre detenuti, avvenuto nel 2006 all'interno della prigione di massima sicurezza di Guantánamo, coprendo l'accaduto come un triplice suicidio. A testimoniare l'accaduto il sergente dell'esercito Joseph Hickman, che all'epoca dei fatti era di guardia nel campo di prigionia cubano nella notte in cui i tre sarebbero stati uccisi. I prigionieri erano Salah Ahmed Al-Salami, 37 anni dello Yemen, Mani Shaman Al-Utaybi, 30 anni dall'Arabia Saudita e Yasser Talal Al-Zahrani, 22 anni, anche lui saudita. "I detenuti avrebbero dovuto legarsi mani e piedi insieme, mettersi una maschera in faccia, fare un cappio, appenderlo al soffitto della cella, e saltare insieme. Tutto questo mi sembra impossibile. Noi avevamo l'ordine di controllare i detenuti ogni quattro minuti" avrebbe detto Hickman in una videointervista rilasciata a Vice News. Il sergente riferisce anche di una ispezione nelle celle poche ore prima dell'accaduto in cui le guardie non avrebbero trovato nulla che potesse essere credibilmente stato usato per creare i cappi. Hickman ha appena scritto un libro, "Omicidio al Camp Delta", con cui spera di dare un contributo alla ricerca della verità sulle torture perpetrate all'interno del campo di prigionia sulle quali sta indagando il Senato degli Stati Uniti. "Speravo di lasciarmi Guantánamo alle spalle. Non volevo ricordare nulla di quel periodo. Era come un brutto sogno", continua Hickman "Poi ho visto un altro detenuto impiccato. Quindi ho voluto andare più a fondo per scoprire cosa realmente stava succedendo". Nella notte del 9 giugno 2006, Hickman era di guardia al campo Delta quando ha visto un furgone rientrare al blocco Alpha tre volte distinte, ogni volta prendendo un prigioniero e portandolo fuori dal campo. Ha visto il furgone uscire dal checkpoint Acp Roosevelt, che portava solo in due posti: la spiaggia e il Campo No, dove c'era un ufficio segreto della Cia. "Fra le 23 e le 23.30 ho visto il furgone tornare al Campo Delta e dirigersi verso la clinica medica. Dopo 10 minuti il caos: tutte le luci si sono accese e le sirene hanno iniziato a suonare. I prigionieri erano morti" ricorda. Hickman riferisce che i tre si erano impegnati in uno sciopero della fame, cosa che stava ispirando gli altri detenuti a fare lo stesso. "La policy di sicurezza era che non si poteva interrogare chi stava facendo lo sciopero della fame. Nel 2006 la Cia ha fatto circa 200 interrogatori a settimana, cosicché ogni sciopero della fame era visto come una diminuzione della possibilità di intelligence per recuperare informazioni". Detenere persone senza valide accuse nei loro confronti è considerato illegale secondo la carta dei diritti dell'uomo. Il paradosso è che il motto di Guantánamo è "Sicuri, umani, legali, trasparenti". "Pensavo che Guantánamo fosse quello di cui c'era bisogno, il clima legato alla guerra stava cambiando e avevamo bisogno di un posto sicuro dove detenerli e interrogarli", conclude. Il Senato ha stilato un rapporto sulle torture perpetrate dalla Cia sui detenuti a Guantánamo e le carte rilasciate dalla Cia sono state date a una commissione composta da cinque senatori. In questi giorni si è scoperto che la stessa agenzia di intelligence stava spiando i computer della commissione, col timore che venissero rilevati informazioni segrete. Dagli uffici della Cia si parla di una semplice incomprensione legata agli obblighi di controllo e sicurezza del National Security Act". Pakistan: impiccato militante sunnita, è la 19esima esecuzione da revoca della moratoria Aki, 17 gennaio 2015 Le autorità pakistane hanno impiccato Ikramul Haq, un militante sunnita dell'organizzazione fuorilegge Sipah-i-Sahaba Pakistan (Ssp), condannato a morte dal tribunale dell'anti terrorismo di Faisalabad nel 2004 per aver ucciso un musulmano sciita. Lo hanno riferito fonti della polizia e lo ha confermato il suo avvocato Ghulam Mustafa Mangan. L'uomo era stato perdonato dai familiari della vittima lo scorso 8 gennaio, ma un tribunale ha respinto il compromesso raggiunto tra le parti e confermato la pena capitale. Con l'impiccagione avvenuta oggi nel carcere centrale di Kot Lakhpat a Lahore salgono a 19 le condanne a morte eseguite dalla revoca della pena di morte da parte del premier Nawaz Sharif dopo il massacro compiuto il 16 dicembre dai Talebani in una scuola pubblica dell'esercito a Peshawar e costato la vita a 150 persone, di cui 134 bambini. Le Nazioni Unite, l'Unione Europa, Amnesty International e Human Rights Watch hanno chiesto al Pakistan di ripristinare la moratoria sulla pena di morte, che è rimasta in vigore dal 2008 al dicembre scorso. Filippine: il Daily Mail "bambini di strada rinchiusi nelle carceri per la visita del Papa" www.chedonna.it, 17 gennaio 2015 Fa scalpore la notizia diffusa dal quotidiano britannico Daily Mail riguardo alle autorità filippine che, in occasione della visita di Papa Francesco, per mantenere le strade "pulite", hanno provveduto a portare centinaia di bambini di strada nelle carceri. Questo tipo di detenzione provvisoria sarebbe già stata applicata anche in altre occasioni, scrive il quotidiano, come nel caso della visita del presidente americano Barack Obama. Secondo quanto descrive il Daily mail, "i bambini sono terrorizzati e rinchiusi in centri di detenzione lerci, dove dormono sui pavimenti e dove molti di essi sono picchiati o diventano vittime di abusi da parte di detenuti adulti, e in alcuni casi vengono incatenati a delle colonne". Il quotidiano si riferisce più precisamente ad un centro di detenzione a Manila e non è chiaro se vi siano altri casi nel resto dell'arcipelago. I giornalisti hanno visitato il centro di detenzione in compagnia di un sacerdote irlandese, Padre Shay, attivo da 40 anni nelle Filippine: "Purtroppo, non c'è modo che il Papa visiti questi penitenziari a Manila", ha dichiarato, con rammarico, il sacerdote, sottolineando che "è una vergogna per la nazione. Le autorità sarebbero preoccupate se il santo padre vedesse come vengono trattati i bambini". Il caso segue un'altra vicenda che lo scorso anno ha sconvolto l'opinione pubblica. Infatti, una fotografia ritraeva un bambino di 11 anni, ridotto in condizione scheletriche, steso a terra, apparentemente morente, detenuto in uno dei centri della capitale, il Manila Reception and Action Centre (Rac). Il bambino al quale è stata dato il nome del Papa, è stato salvato da alcuni volontari. Tuttavia, secondo le stime vi sarebbero circa 20 mila bambini detenuti nei vari penitenziari della città. Il ministro dell'Interno, Manuel Roxas, ha respinto il coinvolgimento della polizia nazionale mentre Rosalinda Orobia, responsabile dei servizi sociali del dipartimento del welfare di Manila, ha ammesso che gli agenti hanno recluso per settimane i bambini che sostavano nelle aree centrali, interessate dalla visita del Santo Padre. Il ministro per il welfare Corazon Soliman ha invece negato la detenzioni de bambini, affermando che "chi abusa dei minori finisce in carcere". Tuttavia, come riportano i media, nella maggior parte dei casi "pulizia delle strade" viene effettuata dalle amministrazioni locali. Medio Oriente: la Corte dell'Aja indaga sui crimini di guerra nei Territori, ira di Israele di Fabio Scuto La Repubblica, 17 gennaio 2015 La Corte penale internazionale (Cpi) ha aperto un'inchiesta preliminare per verificare se siano stati commessi "crimini di guerra" durante il conflitto della scorsa estate tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. La Corte penale internazionale (Cpi) ha aperto un'inchiesta preliminare per verificare se siano stati commessi "crimini di guerra" durante il conflitto della scorsa estate tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. Ma l'indagine riguarda anche alcune fazioni palestinesi nonché il lancio di razzi da parte di Hamas su territori altamente popolati. "Il procuratore del Tribunale penale internazionale Fatou Bensouda ha aperto un'inchiesta preliminare sulla situazione in Palestina - ha fatto sapere l'ufficio dei procuratori del Cpi - che non equivale a un'indagine, ma si tratta di esaminare le informazioni a disposizione in modo da poter essere pienamente informati e valutare se ci sia una base ragionevole per procedere con un'indagine", ha spiegato il Cpi. L'Autorità palestinese lo scorso primo gennaio nell'aderire alla Corte ne aveva riconosciuto la competenza a partire dal 13 giugno 2014, data in cui Israele lanciò una vasta campagna di arresti nella Cisgiordania occupata edando poi il via alla guerra su Gaza, nella quale morirono 2100 persone, gran parte delle quali civili. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deprecato la decisione del Tribunale. "È scandaloso che pochi giorni dopo che dei terroristi hanno massacrato ebrei in Francia, il procuratore del Tpi apra un'inchiesta contro lo Stato ebraico", ha detto Netanyahu, "E questo perché difendiamo i nostri cittadini da Hamas, un gruppo terrorista… Sfortunatamente ciò fa sì che questo Tribunale sia parte del problema e non della soluzione". L'Autorità nazionale palestinese aveva presentato domanda di adesione al Tpi il 1 gennaio. Il presidente palestinese Abu Mazen aveva chiesto alla Corte di indagare sui crimini commessi da Israele "nei Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, dal 13 giugno 2014". Compresi anche i 51 giorni di conflitto di questa estate tra Hamas e Israele nella Striscia di Gaza, costati la vita a più di 2.100 palestinesi, la maggior parte civili secondo l'Onu. Da parte israeliana, nel conflitto hanno perso la vita 67 persone. "Lo statuto di Roma non impone alcuna scadenza per prendere una decisione relativa a un esame preliminare" ha ricordato l'ufficio della procura della Cpi: una simile procedura è già in corso in Afghanistan, Colombia, Georgia, Guinea, Honduras, Iraq, Nigeria ed Ucraina. Arabia Saudita: le frustate a Raif Badawi e l'Occidente silenzioso di Riccardo Noury (portavoce di Amnesty International) Il Manifesto, 17 gennaio 2015 Ieri non è stato frustato. La nuova sessione di 50 frustate al blogger saudita Raif Badawi prevista venerdì non ha avuto luogo per motivi di salute. Il medico ha verificato che le lacerazioni delle prime 50 del 9 gennaio non si erano ancora cicatrizzate e ha raccomandato di rinviare di una settimana. Il rinvio mostra la profonda brutalità della punizione e ne sottolinea l'oltraggiosa inumanità. L'idea che sia concesso di riprendersi per poter soffrire di nuovo è macabra e vergognosa. Le frustate sono proibite dal diritto internazionale. Portone serrato, finestre chiuse. Per oltre un'ora è stata la scena che hanno visto giovedì le decine di partecipanti al sit-in organizzato da Amnesty International di fronte all'ambasciata dell'Arabia Saudita, con l'adesione di Fnsi e Articolo 21, per chiedere la scarcerazione di Raif Badawi, il blogger condannato a 10 anni di carcere e a 1.000 frustate per aver offeso l'Islam. A Gedda, era prevista la seconda serie di 50 frustate, crudele regalo di compleanno per il prigioniero di coscienza che ha compiuto 31 anni martedì scorso. Poi, se le pressioni (invero blande) dei governi amici di Riad non avranno effetto, la gogna proseguirà per altre 18 settimane. Sempre che Badawi sopravviva a quella che somiglia a una sorta di esecuzione capitale a puntate. L'esperienza delle frustate, oltre a essere degradante (a maggior ragione quando, come in questo caso, avviene in pubblica piazza, di fronte a una folla festante), è devastante dal punto di vista fisico. La pelle si apre e non basta una settimana a cicatrizzare le ferite. La prima serie di 50 frustate è stata oscurata dalla commozione mondiale per i tragici eventi di Parigi. L'Arabia Saudita ha condannato l'attacco contro il settimanale satirico Charlie Hebdo, "colpevole" di aver offeso l'Islam con le sue vignette. Lo stesso paese ha condannato a 1000 frustate e 10 anni di carcere un uomo "colpevole" di aver offeso l'Islam coi suoi post. Raif Badawi è un prigioniero di coscienza, il cui unico ‘reato' è stato quello di esercitare il diritto alla libertà d'espressione fondando un sito per il pubblico dibattito, "Liberali dell'Arabia Saudita". Il suo è un caso estremo, ma non è l'unico esempio del totale disprezzo saudita nei confronti del diritto alla libertà d'espressione. Negli ultimi anni, sono state imprigionate decine di persone che avevano chiesto riforme, promosso dibattiti, fondato organizzazioni indipendenti per i diritti umani, difeso vittime di torture e processi irregolari. Lo stesso avvocato di Badawi, Waleed Abu al-Khair, si è visto inasprire in appello la condanna inflittagli in primo grado il 6 luglio 2014: 15 anni di carcere, di cui cinque sospesi. A causa del suo mancato "pentimento", lunedì scorso anche la sospensione è stata annullata. Dal Canada, dove ha ottenuto asilo politico, Ensaf Haidar chiede al mondo di non dimenticare suo marito. Ha dovuto raccontare tutto ai figli, per evitare che venissero a sapere dai compagni di scuola che il papà viene frustato ogni settimana in un paese lontano. Fino a quando la fustigazione pubblica di Raif Badawi andrà avanti, Amnesty International si presenterà di fronte all'ambasciata saudita di Roma, alla vigilia di ogni nuova sessione di frustate. E anche qualora questo terribile castigo verrà sospeso, occorrerà proseguire la campagna per l'annullamento della condanna a 10 anni di carcere. E contro questi agghiaccianti attacchi alla libertà d'espressione. Arabia Saudita: Corte suprema rivedrà condanna a fustigazione per il blogger Badawi Adnkronos, 17 gennaio 2015 Lo riferisce la moglie, era stato condannato a 10 anni di carcere e mille frustate. La Corte suprema saudita rivedrà la condanna a dieci anni di carcere e mille frustate imposta lo scorso 5 novembre da un tribunale di Gedda nei confronti del blogger Raif Badawi, riconosciuto colpevole di offese all'Islam e di violazione delle leggi sulle comunicazioni elettroniche. Lo ha riferito la moglie dell'attivista, Ensaf Haidar, alla Bbc. Venerdì scorso Badawi era stato sottoposto a 50 frustate e altrettante gli sarebbero state inflitte oggi se le autorità saudita non avessero sospeso la fustigazione per "ragioni mediche". Proprio ieri, infatti, un medico aveva avvertito che Badawi non sarebbe sopravvissuto a ulteriori frustate. La condanna inflitta al blogger saudita aveva indignato la comunità internazionale e proprio ieri Amnesty International aveva chiesto al governo britannico di fare pressioni su quello saudita. "Le pressioni internazionali sono fondamentali", aveva detto la moglie di Badawi, fuggita in Canada con i loro tre figli, evidenziando le "precarie condizioni di salute" del marito. Badawi, 30 anni, era stato arrestato il 17 giugno 2012 e da allora si trova in un carcere di Gedda. Le autorità hanno anche messo al bando il sito web da lui creato, Liberal Saudi Network, ma online sono circa 14mila le persone che hanno firmato una petizione per chiedere al re saudita Abdullah di graziare Badawi e di fermare quella che è stata definita "una forma medievale di tortura". Oltre a essere stato condannato a 10 anni di carcere e a mille frustate, il blogger deve anche pagare una multa di un milione di rial sauditi, pari a circa 200mila euro. Il 28 maggio scorso gli è anche stato imposto il divieto per 10 anni, alla fine della condanna, di lasciare il Paese e quello, della stessa durata, di svolgere qualsiasi tipo di attività nel campo dei media. Amnesty: frustate a blogger pena brutale Raif Badawi, un blogger ritenuto colpevole in Arabia Saudita di "insulti all'Islam", avrebbe dovuto ricevere oggi una sessione di 50 frustate. Ma l'uomo non ha potuto scontare la sua pena per motivi di salute. Lo rende noto in un comunicato Amnesty International. Questa mattina, Badawi è stato trasferito dalla sua cella alla clinica del carcere per un controllo. Il medico ha verificato che le lacerazioni causate dalle 50 frustate ricevute il 9 gennaio non si erano ancora cicatrizzate e che il detenuto non avrebbe potuto sopportarne un'ulteriore serie. Il medico, si legge ancora nel comunicato, ha quindi raccomandato che la sessione di frustate sia rinviata almeno di una settimana. Non è chiaro se le autorità saudite si comporteranno di conseguenza. "Non solo questo rinvio per motivi di salute mostra la profonda brutalità di questa punizione, ma ne sottolinea anche l'oltraggiosa inumanità. L'idea che a Badawi sia concesso di riprendersi in modo da poter soffrire di nuovo è macabra e vergognosa" - ha dichiarato Said Boumedouha, vicedirettore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. "Le frustate - osserva ancora Boumedouha - sono proibite dal diritto internazionale insieme ad altre forme di pena corporale".