Giustizia: ma il diritto alla libertà non conosce limiti di Stefano Rodotà La Repubblica, 16 gennaio 2015 In tutto il mondo, in questi giorni, milioni di persone hanno proclamato "Je suis Charlie". E questo non può essere l'esercizio retorico o strumentale di un momento. La rivendicazione della libertà d'espressione contro ogni forma di violenza è sacrosanta, ma terribilmente impegnativa. Fino a che punto siamo disposti a riconoscerla anche a chi manifesterà opinioni estreme o fondamentaliste? Ieri il Papa ha indicato quello che gli sembra essere un limite insuperabile: le parole aggressive contro la religione altrui, contro qualsiasi fede religiosa. Posizione ben comprensibile da parte del capo supremo della Chiesa cattolica. Ma essa non appartiene a quella laicità delle istituzioni che ha fondato, insieme alle altre libertà, anche quella di esprimere liberamente il proprio pensiero. Proprio qui la stessa libertà religiosa ha trovato il suo fondamento. Non è vero, quindi, che la laicità abbia guardato alla religione e alle espressioni religiose come "sottoculture tollerate", considerate invece come parte di un contesto culturale nel quale tutte le opinioni, anche quelle sgradite, meritano rispetto. Un punto fermo, che non può essere travolto dalla concitazione che accompagna il nostro tempo difficile. Riprendendo un discorso di Benedetto XVI, Papa Bergoglio è tornato sulle presunte colpe dell'Illuminismo. È bene ricordare, allora, che proprio lì ha le sue radici la frase attribuita a Voltaire (ma in realtà costruita da Evelyn Hall) infinite volte citata in questi giorni: "Non sono d'accordo con quel che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu abbia il diritto di farlo". Una indicazione forte, che ci ha accompagnato tutte le volte che si era di fronte a regimi totalitari e autoritari e che non possiamo perdere di vista, perché libertà e diritti esigono una continua e intransigente difesa. La letteratura da sempre ci racconta il futuro, e talvolta ci ammonisce sui suoi pericoli. Il secolo passato è stato segnato da due grandi distopie, da due utopie negative sui rischi dell'uso della biologia e della società della sorveglianza, consegnata a due libri. Il mondo nuovo di Aldous Huxley e 1-984 di George Orwell. Oggi altri due libri sono davanti a noi. Il cerchio di Dave Eggers ci parla di una società della trasparenza totale, resa possibile dalla costruzione di una grande impresa planetaria che si impadronisce della vita di tutti, nella quale si può riconoscere la proiezione nel futuro di una combinazione di Google, Facebook, Twitter. Ma le drammatiche vicende francesi hanno conferito una inquietante attualità a Sottomissione di Michel Houellebecq, che colloca in un futuro non lontano, nel 2020, la trasformazione della Francia in uno Stato islamico. Vi sono nelle nostre culture utopie positive alle quali fare appello perché il futuro comune sia sottratto a questo orizzonte pessimistico? Qui deve innestarsi la riflessione storica, che ci fa scoprire radici profonde e le connette con il presente. È stato commovente cogliere nelle parole prive di retorica del fratello del poliziotto musulmano assassinato il richiamo a libertà, eguaglianza, fraternità. Oggi la libertà è minacciata, le diseguaglianze ci sommergono, ma in questo momento la parola più difficile da pronunciare è "fraternità" o, come più spesso si dice, "solidarietà". Ma solidali con chi, verso chi? Soltanto verso chi ci è vicino, costruendo così una solidarietà "escludente" ogni altro, che ci spinge verso identità oppositive, destinate ad alimentare conflitti sempre più acuti? Riflettendo sulla condizione europea, Jurgen Habermas aveva affermato che solo la solidarietà può liberarci dall'odio tra paesi creditori e paesi debitori. Mentre diverse forme di odio montano in maniera che a qualcuno pare irresistibile, la pratica difficile e impegnativa della solidarietà non è forse una via che sarebbe cieco abbandonare? Questi casi, insieme ad altri altrettanto eloquenti che potrebbero essere richiamati, mostrano come le stesse concrete difficoltà presenti possano essere affrontate solo con una adeguata riflessione culturale. Voltaire e la triade rivoluzionaria - libertà, eguaglianza, fraternità - evocano direttamente l'Illuminismo, la sua lunga storia, i riconoscimenti e le trasformazioni di libertà e diritti che da lì hanno avuto origine. E proprio su questa eredità non da oggi ci stiamo interrogando, con un riflesso che cogliamo proprio in due tra i libri ricordati all'inizio. Houellebecq vede nell'abbandono delle premesse illuministiche, o nella impossibilità di restare ad esse fedeli, l'origine della sottomissione all'islamismo, della nuova servitù volontaria che ci attende nel futuro prossimo. All'opposto Eggers, in un libro di grana assai meno fine, vede nella società della trasparenza totale proprio un compimento dell'Illuminismo. E così, discussioni più analitiche a parte, entrambi indicano in quella radice culturale un nodo non ancora sciolto, e che davvero sembra che possa essere affrontato solo con un colpo di spada. Il modo in cui Alessandro Magno recise l'inestricabile nodo di Gordio, come vuole la leggenda, ben può apparire oggi come metafora di un tempo in cui si contempla quasi esclusivamente il bene della decisione. Decisione subitanea, immediata, magari non meditata, ma rapida e definitiva. E invece proprio i fatti di ieri e di oggi ci dicono che non può essere questo il modo per uscire da una situazione divenuta sempre più aggrovigliata e difficile, anche per l'assenza di adeguate politiche in Europa e negli Stati Uniti, e che non può essere affrontata richiamando in servizio logore parole d'ordine, con il solito crescendo va dallo sbaraccamento della tutela della privacy fino alla pena di morte. Ha fatto bene il nostro ministro degli Esteri a dire di no alla proposta di rivedere il trattato di Schengen, negando il diritto di libera circolazione proprio nel momento in cui l'Europa ha massimo bisogno di tenere uniti tutti i suoi cittadini. E questa è la risposta giusta anche per evitare che, con l'argomento della lotta al terrorismo, si introducano non accettabili misure repressive. In modo assai sbrigativo si è detto che il 10 dicembre parigino rappresenta l'11 settembre dell'Europa. Ma, se così fosse, qualche lezione dovrebbe allora essere appresa dalle politiche americane successive a quella data, con i molti errori politici ormai comunemente riconosciuti: incauti interventi militari, difficoltà di liberarsi di eredità pesanti (i prigionieri di Guantánamo), trasformazione di iniziative antiterrorismo in strumenti di puro controllo politico (il cosiddetto Datagate). Al tempo stesso, si sono fatte più nette le alternative concrete. Leggi speciali o radicali misure organizzative anche a livello europeo? Raccolte mirate e legittime di informazioni o pesca con lo strascico di masse di dati che si rivelano poi illeggibili? Ingannevoli rassicurazioni dell'opinione pubblica con restrizioni di diritti, alla prova dei fatti inutili e pericolose, o forme di collaborazione (oggi si parla di coordinamento tra i servizi di sicurezza dei diversi paesi)? Siamo di fronte ad una situazione che non può essere affrontata come se si trattasse solo di una questione di ordine pubblico. E, come hanno opportunamente sottolineato Gustavo Zagrebelsky e Massimo Cacciari, non cediamo alla tentazione di parlare irresponsabile mente di guerra. La democrazia sfidata deve piuttosto recuperare quel pieno riconoscimento e quella legittimazione da parte dei cittadini che sono sempre stati la sua forza nelle situazioni estreme. So bene quanto sia difficile, soprattutto quando la violenza si manifesta nell'estrema sua forma di assassini e massacri, ricordare l'ammonimento che T. B. Smith rivolgeva ai suoi concittadini americani dicendo che "i mali della democrazia si curano con più democrazia". Ma è comunque ineludibile la domanda che in queste situazioni dobbiamo sempre rivolgerci: può, per difendersi, la democrazia perdere se stessa? Dovremmo sapere che la risposta è obbligata, ed è negativa. L'altra risposta, esplicita o implicita che sia, viene dalle menti deboli ed è terribilmente pericolosa soprattutto perché distoglie dalla ricerca dei mezzi legittimi e dalla riflessione politica e culturale che deve accompagnare ogni cambiamento d'epoca. Oggi serve un inventario intelligente e difficile di una storia che, con il trascorrere del tempo, si è fatta sempre meno europea, che si è liberata dello stigma di un colonialismo al seguito dell'affermazione dei diritti, e sta approdando ad un costituzionalismo globale che mette al centro il rispetto integrale della persona, della sua vita e della sua dignità, dunque radicalmente ostile ad ogni forma di fondamentalismo. Questa è la mobilitazione culturale di cui abbiamo bisogno, né regressiva né difensiva, per delineare i tratti di una politica democratica alla quale possa appartenere il futuro. Giustizia: il messaggio di Napolitano sul carcere che il Parlamento non ha voluto ascoltare di Stefano Arduini Vita, 16 gennaio 2015 L'8 ottobre 2013 il Quirinale inviava alle Camere il suo unico messaggio nei 9 anni di reggenza del presidente dimissionario. Un messaggio in larga misura rimasto sulla carta. Al centro la questione carceraria. Malgrado la spada di Damocle della Corte di Strasburgo non penda più sulla testa del governo italiano, molti degli auspici contenuti in questo testo (a partire dal sovraffollamento e dall'impossibilità reale di reinserimento dei detenuti, vedi il caso delle mense fra le correlate) non sono stati raccolti da un Parlamento che allora applaudì sonoramente l'intervento di Napolitano e che oggi in larghissima parte saluta e ringrazia sentitamente il presidente dimissionario. Giustizia: proposta alternativa per il lavoro dei condannati, contro il lavoro gratuito e forzato di Giuseppe Caputo (Ph. D Università di Firenze e membro dell'Altro diritto) Il Garantista, 16 gennaio 2015 A chi giova che 54 mila detenuti lavorino gratis per ripararsi le celle? Il grosso della spesa è per il personale, 48 mila unità (l'80%). In un articolo sul Corriere dello scorso 14 gennaio Milena Gabanelli è tornata sulla proposta fatta nel corso dello trasmissione Report sul lavoro gratuito dei detenuti. Vorrei provare a evidenziare alcune criticità di questa idea e rilanciare la mia proposta di riforma del lavoro dei condannati. Il ragionamento della Gabanelli parte dalla considerazione che non ci sono soldi per pagare il lavoro dei detenuti e che bisognerebbe farli lavorare gratis, come avviene in molti paesi d'Europa e negli Usa, per evitare che siano un costo per la collettività. L'Italia è dipinta - forse con una eccessiva dose di provincialismo - come l'ultima della classe che deve imparare da quelli bravi. Ma cerchiamo di capire cosa fanno davvero i primi della classe. E poi cosa potremmo realmente fare in Italia. In primo luogo bisogna chiarire che non è vero che in Europa si fanno lavorare gratuitamente i detenuti. Al contrario, il lavoro dei detenuti è retribuito ed è ritenuto un diritto fondamentale dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Si cita, tra gli altri, l'esempio dell'Austria a supporto della tesi della gratuità del lavoro dei detenuti. In Austria, però, il lavoro detentivo è retribuito ma dalla busta paga sono sottratte le spese per il mantenimento e ai detenuti resta una paga analoga a quella dei detenuti in Italia (tra i 2 ed i 3 euro l'ora). Considerato che in Austria lavora circa il 75%, mentre da noi il 25%, è facile dedurre che in Austria si spende molto di più che in Italia. Dunque, non c'è nessun risparmio come si vorrebbe far credere, c'è uno Stato che è disposto a investire pensando che a beneficiare del reinserimento sociale dei detenuti sarà in primo luogo la collettività, Questo fanno i primi della classe in Europa: spendono per avere un sistema carcerario efficiente. In Italia, invece, spendiamo poco e male. Le paghe dei detenuti sono ferme da 20 anni e tutti i detenuti che fanno causa al Ministero regolarmente la vincono. Per riportare il sistema alla legalità ed evitare di incorrere in una nuova condanna della Corte europea, bisognerebbe iniziare a pagare i detenuti quanto previsto dalla legge. Come ho già avuto modo di proporre su questo giornale, si potrebbe consentire ai detenuti di lavorare in carcere, rinunciando alla paga, in cambio di uno sconto di pena per ogni giorno lavorato. In tal modo il lavoro gratuito diverrebbe un'alternativa alla detenzione e avremmo risolto il problema del sovraffollamento carcerario. Si citano poi gli Usa come esempio virtuoso. In realtà negli Usa il lavoro detentivo è solo la punta dell'iceberg di un sistema di controllo penale impazzito che ha prodotto un penitenziario costosissimo e inefficiente. Ci sono 2,3 milioni di individui in carcere (perlopiù neri e ispanici poveri) per i quali si spende l'impressionante cifra di 74 miliardi di dollari l'anno con i quali si foraggiano le lobby dell'industria penitenziaria che sfruttano il lavoro gratuito dei detenuti. Siamo proprio sicuri che gli Usa siano i primi della classe? La proposta sul lavoro gratuito va sicuramente ricalibrata, anche perché si puntano i riflettori su un problema secondario. A chi giova davvero che 54mila detenuti lavorino gratis per ripararsi le celle? Il grosso della spesa per il penitenziario non è affatto il costo per il loro mantenimento che è intorno al 13% (il vitto di un detenuto costa al giorno 3/4 curo) o quello per la manutenzione delle strutture (il 4%), ma è quello per il personale, 48mila unità (l'80%). E quando i detenuti aumentano non vengono stanziati più soldi, ma si tagliano i servizi loro destinati. Limitarsi a parlare dei costi economici del sistema è riduttivo e fuorviante, perché si finisce per lasciare in ombra il vero problema, ovvero quello della sua utilità. Dal momento che il sistema penitenziario ha costi notevoli, allora la prima cosa da domandarsi dovrebbe essere quale sia la sua reale utilità sociale. Dovremmo domandarci non solo "quanto si spende?", ma anche "sono soldi ben spesi? Quali sono i vantaggi sociali del carcere? E quali le alternative?". Un dato difficilmente contestabile è che il condannato che passa dal carcere quando esce tende a commettere nuovamente reati. È altrettanto incontestabile che chi va in misura alternativa tende a commettere meno reati. Dunque si dovrebbe concludere che i soldi investiti nel carcere sono spesi male: non si riesce a rieducare i detenuti e non si risarciscono le vittime e/o la collettività. In alternativa, si potrebbe investire nelle misure alternative per i reati minori in quanto hanno un costo inferiore a quello del carcere e producono più benefici sociali (abbattono la ricaduta nel crimine). È più utile che il ladro vada a lavorare gratis in galera o che resti libero facendo lavori di pubblica utilità e risarcisca le vittime? Il vero nodo su cui riflettere è come usare il lavoro dei condannati fuori dal carcere, non dentro il carcere dove non serve a nessuno: non ai detenuti impiegati in lavori dequalificati che non aiutano il reinserimento, non allo Stato perché non abbatte i costi. Quello di cui si dovrebbe discutere è come togliere centralità al carcere nel nostro sistema punitivo e come ridurlo ad extrema ratio, da applicare solo per i reati più gravi. Il carcere oggi è la risposta a tutti i fenomeni che suscitano allarme sociale, perché è la risposta più semplice. Bisogna avere il coraggio di ammettere che nella maggioranza dei casi è solo fumo negli occhi dell'opinione pubblica, non ha nessuna utilità sociale e che va superato. Il lavoro può essere una delle alternative. Giustizia: cooperative, mense carcerarie addio, detenuti a rischio licenziamento www.ilsussidiario.net, 16 gennaio 2015 Dati alla mano, è una decisione incomprensibile. Non sono bastate settimane di giustificate polemiche e un'interrogazione parlamentare per convincere il ministero della Giustizia a confermare la gestione delle cucine di dieci carceri italiane alle cooperative che garantiscono lavoro ai detenuti. Saranno proprio questi ultimi a restituire domani le chiavi delle cucine che torneranno in mano all'amministrazione penitenziaria, proprio come avveniva prima del 2004 quando il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) fece partire la sperimentazione. C'è chi dice che non cambierà niente, ma non è così: nella maggior parte dei casi tanti detenuti, regolarmente assunti dalle cooperative, verranno licenziati con conseguenze immaginabili. Niente più soldi per mantenere la propria famiglia o per pagare le tasse. Inoltre, ricorda Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa Giotto, "chi sconta la pena vegetando per anni tra noia e ozio nel 68% dei casi torna a delinquere, invece dove ai detenuti si dà lavoro vero la recidiva crolla al 2%". Doloroso il commento di Luca Passarin, del Consorzio Giotto: "Stamattina ho firmato le sedici lettere di licenziamento per i cuochi, e posso assicurarvi che ho firmato sedici condanne". Una flebile speranza rimarrà fino al 21 gennaio, quando il nuovo capo del Dap, Santi Consolo, incontrerà nuovamente le cooperative coinvolte. "L'autogol" di Renzi in diretta tv, di Juanfran Valerón È sempre bello scoprire realtà e iniziative che non solo aiutano i soggetti svantaggiati, magari per una malattia, a non vivere perennemente nel disagio ma anche a tenere rapporti con la società "normale", con il mondo circostante. È il caso, per esempio, di Radio Shock, progetto riabilitativo per pazienti psichiatrici gravi del Centro di Salute mentale di Piacenza. Mercoledì sera, guardando Le invasioni barbariche, molti italiani hanno così scoperto che da oltre dieci anni un gruppo di persone con disturbi mentali, quelli che comunemente vengono detti matti, ha uno spazio proprio in un'emittente locale (e anche sul web), nel quale rivolge domande a personaggi famosi o dà spazio anche alle interviste impossibili, come quelle ai monumenti della città emiliana. Daria Bignardi, che è stata una delle personalità intervistate da Radio Shock, ne è rimasta colpita, tanto da decidere di dare spazio a quella strana redazione anche nella sua trasmissione. E ha raccontato che quel che più l'ha sorpresa è vedere quelle persone sorridere e interagire col mondo, cosa che purtroppo non è comune in tutti i pazienti psichiatrici. E Radio Shock ha avuto un esordio sul piccolo schermo molto importante, potendo rivolgere delle domande niente meno che al Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Addirittura il Premier si è trovato a dover rispondere a una domanda politicamente scomoda, come quella di dover dire se avesse o meno mai commesso un "autogol". E Renzi, suo malgrado, ha dovuto ammettere di aver sbagliato, nella Legge di stabilità, alcune misure relative alle Partite Iva, cui ha promesso di porre al più presto rimedio. Peccato che subito dopo si sia reso protagonista, cosciente o meno, di un altro autogol. Il Premier, stupito e anche divertito dal "siparietto" di cui è stato co-protagonista, ha infatti sottolineato: "La dedizione e la professionalità di tantissime donne e uomini che lavorano nel settore sociale è qualcosa di straordinario". "Credo che sia bellissimo che nel pubblico, e non soltanto nel pubblico, ci sia tantissima gente che si industria per tentare di rendere migliore la vita di questi nostri concittadini e delle loro famiglie". Già, le persone che si industriano e si impegnano ci sono, ma ci sono anche i Governi che anziché aiutarle le penalizzano non si capisce bene per quale ragione. Da ieri, infatti, 170 detenuti che avevano un lavoro, che permetteva loro di vivere meglio, sentirsi utili, trovare magari un'occupazione fuori dal carcere finito il periodo di detenzione, mantenere la propria famiglia, non ce l'hanno più. Ironia della sorte non possono neanche dire di essere stati messi "sulla strada". Su queste pagine è stato più volte sottolineato negli ultimi giorni: il ministero della Giustizia non ha rinnovato (se non per 15 giorni) la convenzione con dieci cooperative che gestivano il servizio mense in alcuni penitenziari italiani. Il motivo? A saperlo! Dal ministero e dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria sono arrivate finora dichiarazioni che fanno pensare che si voglia rimettere mano a tutto il sistema e all'architettura del lavoro in carcere. Ma è proprio necessario farlo a fine anno? Nel frattempo non si può continuare con il sistema vigente? Forse, e molto più semplicemente, il problema è che queste convenzioni costano. Ma, diamine!, da un Governo che ha appena ottenuto il successo europeo di una flessibilità sui conti pubblici ci si aspetterebbe più intelligenza. Tanto più che dalla Corte europea per i diritti umani è arrivata all'Italia una "condanna" per il sovraffollamento delle prigioni e che il lavoro diminuisce il tasso di recidiva tra i carcerati. Ci auguriamo che Renzi, distratto forse negli ultimi giorni dalla preparazione del discorso di commiato al Parlamento europeo e dalle vicende del Colle più alto di Roma, possa porre rimedio a quella che sembra una clamorosa "svista". Che forse non è tale. Già a dicembre, infatti, le cooperative che fanno lavorare i carcerati hanno subito un taglio (naturalmente retroattivo) dei crediti di imposta previsti dalla Legge Smuraglia (la norma che dal 2000 ha incominciato a incentivare cooperative e imprese ad assumere detenuti). Insomma, Renzi in fretta dovrebbe toglierci più di un dubbio: il sostegno ai concittadini "svantaggiati" vale solo a parole?; se così non è, c'è qualcosa che non va nei carcerati? Non si possono spendere soldi dello Stato (che pure evidentemente si spendono perché le carceri hanno dei costi) per chi nella propria vita ha sbagliato? Ma se il quotidiano (Il Corriere della Sera) della borghesia, della classe media, dell'equidistanza politica, pubblica un articolo della paladina (Milena Gabanelli) della libertà di stampa e del giornalismo di inchiesta italiano in cui si dice che le cooperative costano e fanno lavorare i peggio detenuti, allora forse il problema sta a monte di Renzi, della sua "annuncite" e della "tentazione" di usare il sociale per migliorare la propria immagine (in tv naturalmente). Nelle carceri un'offesa al buon senso, di Paolo Massobrio (Avvenire) Il 16 di gennaio, per qualcuno, rappresenta la data di una sconfitta: da oggi in 9 carceri non saranno più le cooperative sociali che impiegano i detenuti a preparare i pasti della mensa, giacché la sperimentazione è finita. Così si legge nelle motivazioni ufficiali, che mercoledì erano al centro della "penultima cena" organizzata dalla Cooperativa Giotto nel Carcere Due Palazzi, con 150 invitati, fra autorità ai massimi livelli e sostenitori. Ma questa sperimentazione è andata proprio così male? Macché, è andata benissimo, a vedere i commenti ai rapporti di questi 11 anni. Ed ha attuato esattamente ciò che viene auspicato dalle stesse autorità di governo: il carcere come occasione di reinserimento sociale, abbassando la recidiva. In Europa queste cose le chiamano "best practices" e le finanziano pure. A questo punto viene da pensare che bisogna essere in un Paese senza capo né coda, ossia senza un progetto, se si deve assistere inerti alla chiusura di una cosa che funzionava bene, anche dal punto di vista del risparmio, oltreché degli obiettivi. A Padova, nel carcere Due Palazzi dove nasce fra l'altro un panettone famoso (e buonissimo), la cooperativa Giotto ha lanciato una provocazione per dire che non può essere finita un'esperienza del genere; ma anche per denunciare che c'è un modo di decidere a suon di docce fredde che non fa onore a nessuno. Poco tempo fa era a rischio il finanziamento ad attività di assistenza ai più poveri, poi rientrata grazie al ministro Martina; oggi siamo a un'altra mortificazione di quello che viene definito il "sociale". E questo giornale è sempre stato in prima fila nel denunciare, nel raccontare, ma anche nel raccogliere le attese smentite da parte delle autorità competenti. Tuttavia c'è qualcosa che non torna: in alcuni casi sembra che nel Paese vi sia un vuoto di decisori efficaci. E non ci riferiamo alla congiuntura attuale, ossia al periodo che intercorre dalle dimissioni del presidente della Repubblica all'elezione del nuovo. Si ha, insomma, la sensazione che la voce della periferia, di chi è tutti i giorni a contatto coi bisogni, sia diventata flebile, senza rappresentanza, senza possibilità di incidere nella politica. E della "penultima cena", a parte Avvenire e i giornali locali, non v'è grande traccia. Il centralismo che si arrocca nelle ragioni della sua burocrazia sembra diventato irraggiungibile: prima distrugge, poi magari ricrea, chissà. Siamo alla governabilità dell'incertezza. Si è rotto qualcosa nella comunicazione verticale fra istituzioni. E non solo la mano destra non sa cosa fa la sinistra, ma neppure la testa comanda il resto del corpo. Del resto non può che essere frutto di un Paese malato cancellare ciò che funziona per ritornare indietro di anni. C'è una cura per uscire da questa impasse o dovremo rassegnarci in attesa della prossima iniziativa di cui provare vergogna? Deputati Pd: si continui a valorizzare lavoro detenuti "Prendiamo atto della risposta del governo sulle ragioni, anche di ordine tecnico-normativo, per cui non sono state rinnovate le convenzioni con le cooperative a cui era stato affidato il servizio mense. Siamo certi che governo e Dap sapranno al più presto trovare tutte le modalità utili per non disperdere l'importante patrimonio di esperienze e di conoscenza maturate in questi anni sul lavoro in carcere come strumento di recupero sociale per il reinserimento nella collettività". Lo dicono 9 deputati del Pd che fanno parte della commissione Giustizia della Camera. "Riteniamo altresì necessario - aggiungono Anna Rossomando, Walter Verini, Sofia Amoddio, Andrea Giorgis, Vanna Iori, Giulia Narduolo, Davide Mattiello, Maria Iacono, Margherita Miotto, Alessandro Zan - approntare un monitoraggio sistematico dei dati sugli effettivi risultati al riguardo: numero dei soggetti coinvolti, ambiti e qualifiche professionali, valutazione degli effetti sulle recidive". Secondo i parlamentari dem "il tema delle condizioni delle nostre carceri non è questione solo di numero dei detenuti, sul quale sono stati conseguiti importanti e positivi risultati, ma anche di come la pena viene espiata e sulla sua fondamentale funzione rieducativa". Iori (Pd): lavoro coop per detenuti va tutelato, trovare soluzione "Occorre mettere in campo il massimo sforzo per trovare ogni soluzione possibile volta a tutelare l'esperienza lavorativa dei detenuti nelle carceri legata alle attività delle cooperative sociali per il servizio di cucina". Lo dichiara, in una nota, la deputata del Pd e membro della commissione Giustizia di Montecitorio, Vanna Iori. "Prendiamo atto della risposta del Governo sulle ragioni che impediscono di rinnovare gli appalti in carico alle cooperative per la gestione delle cucine all'interno degli istituti penitenziari, ma questa esperienza, che ha portato a risultati positivi, non può andare perduta - aggiunge Iori. Solo per citare alcuni dati - sottolinea la deputata del Pd - la formazione e il lavoro dei detenuti nelle cucine hanno portato a un crollo del pericolo di recidiva, passato dal 70 per cento al 2 per cento, nelle carceri dove si è applicata la sperimentazione. Al di là dei numeri - sottolinea Iori - questa esperienza è importante perché interpreta al meglio quello che dovrebbe essere il senso della detenzione, che non deve essere punitiva, ma educativa. Mi auguro che l'imminente incontro tra il presidente del Dap, Santi Consolo, e le cooperative possa portare all'individuazione di altre strade da percorrere per rendere possibile il proseguimento di questa esperienza", conclude Iori. Ucpi: preoccupazione per tagli a fondi cooperative lavoro L'Unione Camere Penali manifesta "forte preoccupazione" per i tagli ai fondi destinati alle Cooperative che consentono ai detenuti di lavorare. Per i penalisti è "un segnale allarmante, che va in opposizione con quanto recentemente dichiarato dal Ministro della Giustizia. La sfida culturale sul carcere lanciata da Orlando, che aveva assicurato che bisognava andare controcorrente rispetto a campagne demagogiche e populiste, non trova ancora concreti spazi di azione". Il giudizio positivo espresso, in questi anni, nei confronti dell'attività delle Cooperative dagli stessi dirigenti del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, "non può essere ignorato - sottolinea l'Ucpi - e non deve consentire l'annullamento di un'attività meritoria, tra le pochissime che offrono ai detenuti una speranza di reinserimento. L'Unione Camere Penali - conclude la nota - auspica che l'incontro del 21 gennaio tra il Capo del Dipartimento, Santi Consolo, e i rappresentanti delle Cooperative possa avere esiti positivi, scongiurando una chiusura che rappresenterebbe un vero e proprio tradimento delle aspettative di quei detenuti (ancora oggi pochissimi) che avevano trovato lavoro". Giustizia: le pericolose fughe sulla corruzione di Beniamino Migliucci (Presidente dell'Unione delle camere penali italiane) Guida al Diritto - Sole 24 Ore, 16 gennaio 2015 Duecentocinquanta anni fa Beccaria ammoniva: "Una sorgente di errori di ingiustizia sono le false idee di utilità che si formano i legislatori. Queste false idee di utilità si chiaman leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari e non dalla ragionata meditazione degli inconvenienti e avantaggi di un decreto universale". L'Unione delle Camere Penali Italiane ha più volte ribadito che le riforme in materia penale devono essere organiche, ispirate a razionalità e frutto di approfondimento culturale e giuridico, mentre vanno respinte sollecitazioni emotive ed emergenziali, reali o presunte che siano. L'agenda del Governo non dovrebbe essere dettata dalla cronaca giudiziaria e le scelte legislative non orientate a ottenere facili consensi o a placare lo sdegno nell'opinione pubblica determinato da questo o quel procedimento. Speravamo che la Politica riuscisse ad affrancarsi da un metodo che conduce solo al fallimento. Abbiamo dovuto però ricrederci. Dopo la sentenza "Eternit" si è fatto nuovamente largo, prepotentemente, il populismo in materia giudiziaria. La Suprema corte di cassazione ha dovuto spiegare la propria decisione con un comunicato, il che è segno dei tempi e costituisce grave anomalia; il Governo si è affrettato a comunicare che la prescrizione andava riformata senza considerare che l'esito di quel processo non era stato affatto determinato dalla inadeguatezza dell'istituto della prescrizione. Non si era ancora esaurita l'ondata demagogica, che è esplosa l'indagine denominata "mafia capitale" e, nuovamente, abbiamo dovuto registrare iniziative emotivamente reattive del Governo che ha promesso pene più severe per i casi di corruzione, indicando il rigore sanzionatorio quale antidoto efficace al dilagante fenomeno criminale. In entrambi i casi i messaggi, anche mediatici intendevano produrre considerazioni positive nei confronti di una Politica che si mostrava pronta a evitare che i reati fossero destinati all'oblio e a punire severamente i corrotti. Nessuno dubita che i fenomeni corruttivi siano una piaga per il nostro Paese e che il numero delle prescrizioni debba essere abbattuto o limitato il più possibile. Il problema è come riuscirci senza cedere alla tentazione di semplificazioni e di cure peggiori del male che si vorrebbe sconfiggere. Sarebbe corretto affermare che il Governo non avesse in animo di intervenire sulle materie in questione con progetti che, però, sembravano destinati a un dibattito ampio, affidato al contributo degli operatori del diritto e della dottrina, il cui risultato sarebbe stato consegnato alla Politica per la sintesi. La critica va dunque rivolta alla improvvida accelerazione e alla direzione intrapresa, trascurando una visione sistematica dei problemi e la ricerca delle ragioni dei fenomeni. Sulle prescrizioni ad esempio, come trascurare la circostanza che circa il 70% delle stesse matura nella fase delle indagini preliminari, prescindendo da qualsivoglia paventata iniziativa dilatoria e strumentale dei difensori. In merito manca un vero controllo da parte di un giudice strutturalmente terzo sulle proroghe e sulle intercettazioni telefoniche e ambientali; esistono disfunzioni organizzative palesi e rimediabili; si dovrebbero rendere perentori i termini ordinatori. E sarebbe il caso di ragionare su ipotesi di estinzione del reato nel caso in cui le richieste della pubblica accusa non vengano formulate entro un termine ragionevole. E come omettere di considerare che il tema non può essere affrontato seriamente, senza conciliare il principio della obbligatorietà dell'azione penale con quello della ragionevole durata del processo e con una riforma del diritto penale sostanziale. La verità è che l'accesso al processo è troppo rilevante: andrebbero resi appetibili i riti alternativi, reintrodotto il cosiddetto patteggiamento in appello. Il rimedio dunque non è dilatare, magari sine die i tempi del procedimento, ma rendersi conto che un adeguato termine prescrizionale, nel nostro sistema funge da stimolo efficace alla celebrazione dei processi (e proprio per questo che i processi penali durano meno di quelli civili), nel rispetto del principio di ragionevole durata, consentendo di non vanificare le istanze di giustizia sia per chi è imputato sia per chi è persona offesa. Alla Camera dei Deputati sono in esame tre diversi disegni di legge difficilmente compatibili tra loro, mentre il Governo ne sostiene uno proprio, a sua volta incompatibile con gli altri tre. C'è chi privilegia l'interruzione del corso della prescrizione dopo l'avvio dell'azione penale -come l'Associazione nazionale magistrati - e chi invece propende per la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo e di secondo grado. Le ipotesi, per come formulate e per quanto rilevato, trovano la contrarietà dell'Ucpi anche perché non collegate alla necessità di conferire certezza alla data di iscrizione nel registro degli indagati, con sanzioni processuali in caso di inosservanza della norma e con sanzioni disciplinari (quanto meno) per chi non le rispetta. Non ci stancheremo mai di evidenziare che un paese civile non può tollerare una pretesa punitiva senza tempo. In merito alla corruzione il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro della Giustizia, nella riunione del 12 dicembre 2014 ha approvato alcune norme che verranno inserite in un disegno di legge finalizzato a inasprire ulteriormente la repressione del dilagante fenomeno criminale della corruzione (cfr. comunicato stampa Consiglio dei ministri n. 41 - Anticorruzione). L'intervento propone sostanzialmente e sinteticamente l'aumento delle pene del delitto di corruzione propria (la pena minima passa da 4 a 6 anni e la massima da 8 a 10 anni), e che l'imputato, per accedere al rito dell'applicazione della pena su richiesta delle parti, debba restituire l'integrale ammontare del profitto o del prezzo del reato ascrittogli. Il maggior rigore sanzionatorio previsto per la corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio avrebbe l'effetto indiretto di allungare il termine di maturazione della prescrizione, che diventerebbe pari a 12 anni e mezzo. L'aumento delle pene per i reati di corruzione è stato già previsto dalla legge 6 novembre 2012 n. 190 e se è vero che i fenomeni corruttivi non sono diminuiti vi è dimostrazione plastica dell'inutilità del rigore sanzionatorio per debellare la corruzione che deve essere, invece, affrontata con una cultura della legalità diffusa, con una legislazione più chiara e trasparente, con controlli amministrativi, in una parola con la prevenzione. Le norme ipotizzate sono, dunque, inutili e sembrano una superfetazione di strumenti repressivi già presenti nel nostro ordinamento. E invero già attualmente con la previsione della reclusione da 4 a 8 anni è possibile andare in carcere per corruzione propria, (se questo dovesse essere ritenuto un deterrente): i sequestri preventivi sono già previsti anche per i reati di corruzione, come pure la confisca per equivalente (articolo 322-ter del Cpp); ed è possibile, anche addivenendo un patteggiamento, ottenere la restituzione del maltolto. Quanto precede a dimostrazione che i provvedimenti "manifesto" non assolvono ad alcuna seria funzione di politica giudiziaria. La preoccupazione è che la spinta giustizialista, anche determinata da alcuni accadimenti mediaticamente sovra esposti, possa influire sulla compressione delle garanzie e che la mancanza di autorevolezza della Politica consenta alla Magistratura di dettare le riforme. Una cosa è il contributo tecnico e valutativo fornito da Avvocati e Magistrati all'attività del Legislatore, altra è il condizionamento che trasmodi in un'attività di interdizione e di delegittimazione delle scelte di una Politica, che non resista alla tentazione di autoflagellarsi concedendo deleghe improprie alla Magistratura, nominandola politicamente anche garante della trasparenza amministrativa. Diventa difficile, in questo contesto, respingere la tentazione di accogliere le sollecitazioni delle Procure antimafia che auspicano ad esempio, l'estensione del 416-bis e delle norme processuali a esso applicabili ai reati di corruzione, con il rischio che dal "doppio binario" si passi a un "binario unico", a seconda di scelte valoriali non rispettose dei principi di tassatività e di legalità. L'Ucpi pur ribandendo le proprie posizioni critiche con riferimento al contenuto delle riforme, non può che esprimere apprezzamento per la posizione assunta dal Governo e dal ministro Orlando che ha voluto rivendicare l'autonomia del Governo nelle scelte di politica giudiziaria, rammentando che queste spettano al Governo e al Parlamento, mentre alla Magistratura compete l'applicazione della legge. L'auspicio, per il prossimo anno, è che il proposito venga mantenuto. Giustizia: l'ex Vicecapo Dap Fazzioli testimonia al processo sulla trattativa Stato-mafia Adnkronos, 16 gennaio 2015 Quando l'ex capo del Dap Nicolò Amato, nel giugno del 1993, venne a sapere dal Ministero della Giustizia di essere stato sostituito nella sua funzione al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria "era molto arrabbiato, offeso, dispiaciuto. Aveva quasi le lacrime agli occhi". A raccontarlo in aula, al processo per la trattativa tra Stato e mafia, è oggi Edoardo Fazzioli, ex vice capo del Dap, all'epoca di Amato. "Una sera nel giugno 1993 Amato venne da me e mi disse tutto agitato: "Edoardo, ci hanno fregati", era davvero molto dispiaciuto e offeso. In ufficio quasi piangeva. Il Dap lo aveva creati lui". Rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo, Fazzioli, spiega di avere pensato che la sostituzione di Amato fosse dovuta al fatto che "era riuscito a farsi odiare da tutti i colleghi del Ministero e dai vari ministri che si erano succeduti. C'era questo scontro di personalità". E racconta: "Io avevo incontrato il ministro della Giustizia Giovanni Conso proprio quella mattina. Il ministro mi baciò e alla sera accade questo fatto. Nessuno poteva immaginare che sarebbe accaduto. Io ho sempre pensato che fosse una questione personale tra l'allora Presidente della Repubblica Scalfaro e Amato". Secondo i magistrati che rappresentano l'accusa nel processo trattativa, il carcere duro previsto dall'articolo 41 bis sarebbe stato proprio uno dei punti nodali della trattativa Stato-mafia. La sostituzione - nel governo presieduto da Giuliano Amato - di Claudio Martelli con Giovanni Conso al ministero della Giustizia e di Vincenzo Scotti con Nicolò Mancino al ministero dell'Interno sarebbe stato il primo segnale. A cui sarebbe seguita la nomina, come direttore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, di Adalberto Capriotti al posto di Nicolò Amato e di Francesco Di Maggio che sostituì il vicedirettore Edoardo Fazzioli. Tutto ciò avrebbe portato, secondo l'accusa, al mancato rinnovo, il 2 novembre del 1993, per 334 detenuti, del regime del 41 bis. L'ex vicecapo del Dap Edoardo Fazzioli non ricorda bene il contenuto dell'esposto inviato in quel periodo da un gruppo di familiari di mafiosi trasferiti nel carcere di massima sicurezza di Pianosa al Presidente Repubblica. Come ricordo il pm Di Matteo nell'esposto venne "stigmatizzato il comportamento del direttore del Dap di allora Amato definito un dittatore". E Fazzioli: "Ricordo di esserne venuto a conoscenza ma non era eccezionale che alcuni detenuti si dolessero del sistema penitenziario di Pianosa. A Pianosa vennero mandati agenti speciali, persone scelte che si sacrificavano, facevano rispettare le regole. Le carceri italiane non sono quelle francesi. Capisco il contenuto dell'esposto". Quando il pm Di Matteo gli mostra il documento, Fazzioli dice: "di solito quando mi passavano le carte ci mettevo la mia sigla per mandarlo alla segreteria sicurezza, non vedendo qui niente mi conferma che non l'ho mai visto. Non so se Amato ne era a conoscenza. Non ricordo se Amato me ne parlò". Giustizia: Cassazione; confermato il carcere per il deputato Pd Francantonio Genovese Adnkronos, 16 gennaio 2015 Il deputato messinese del Pd Francantonio Genovese, accusato di associazione per delinquere, frode e truffa nell'inchiesta sulla Formazione in Sicilia e oggi agli arresti domiciliari, deve tornare in carcere. È quanto ha deciso la Corte di Cassazione che, nella tarda serata di ieri, ha rigettato il ricorso presentato dai difensori del parlamentare, confermando così la decisione del Tribunale della Libertà di Messina, che lo scorso luglio aveva ripristinato la custodia cautelare in carcere al posto degli arresti domiciliari, che gli erano stati concessi a seguito dell'interrogatorio di garanzia. Sarà adesso la Procura di Messina a valutare oggi il caso. Francantonio Genovese è agli arresti domiciliari dallo scorso maggio. Era stato lo stesso deputato a costituirsi nel carcere di Messina una settimana prima dopo che la Camera dei deputati aveva votato l'autorizzazione al suo arresto. Deputato Pd trasferito in carcere È appena trasferito nel carcere di Gazzi a Messina il deputato Pd Francantonio Genovese, indagato nell'ambito dell'inchiesta sui "corsi d'oro" della formazione professionale. È l'effetto della sentenza emessa ieri sera dalla seconda sezione della Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal legale di Genovese, Nino Favazzo, contro la decisione del Tribunale della Libertà che nl luglio scorso aveva disposto il ripristino della custodia cautelare in carcere in sostituzione degli arresti domiciliari, concessi a seguito dell'interrogatorio di garanzia. Il parlamentare è stato prelevato nella sua abitazione di Ganzirri dalla Guardia finanza e condotto in carcere. Lettere: domani sarà l'ultimo giorno in cui farò parte della Cooperativa P.I.D. Ristretti Orizzonti, 16 gennaio 2015 A Daniela, Laura, Livia, Silvia, Francesco, a tutti i soci e al presidente della Cooperativa P.I.D., agli Chef Carla e Luca, a tutti voi voglio dire grazie, per avermi accolto come socio lavoratore presso la cucina della Casa circondariale di Rieti, per avermi considerato come una persona e non solo un detenuto, per avermi dimostrato che nel mondo delle cooperative sociali ci sono tante persone oneste che operano nel rispetto della legge e delle persone disagiate come noi detenuti, perché è grazie a persone come voi, che nonostante quello che è emerso in questi giorni passati (coop. 29 giugno), tanti possono continuare a sperare in una nuova possibilità di reintegrarsi nella vita sociale , grazie al vostro impegno. Oggi che vi scrivo so che domani sarà l'ultimo giorno in cui farò parte della Cooperativa P.I.D., purtroppo i recenti noti fatti hanno sicuramente influito su un probabile rinnovo del contratto di appalto del servizio di cucina, ma io e tanti altri detenuti sappiamo che voi avete operato con coscienza e spirito di collaborazione con tutti, amministrazione penitenziaria e noi, i detenuti. Voglio poi ringraziarvi ancora per l'aiuto che date a tanti con l'accoglienza che fate presso la vs struttura di Roma via del Casaletto 243 "Casa Famiglia Don Pugliesi", anch'io, non avendo un alloggio nel comune di Roma, ho potuto usufruire e sto ancora usufruendo della vostra accoglienza gratuita presso questa struttura , per i permesso premio, così ho avuto la possibilità di cercare un lavoro (che ho trovato), di frequentare l'università, di curare i miei affetti e respirare di nuovo aria di libertà. Vi rinnovo il mio affetto, la mia disponibilità presente e futura alla cooperazione, vi abbraccio tutti e continuate così. Lettera firmata Rimini: Garante dei diritti dei detenuti senza sede propria, le precisazioni del Comune www.altarimini.it, 16 gennaio 2015 Il Garante dei diritti dei carcerati, il dottor Davide Grassi, si è messo al lavoro con grande professionalità, ma l'Amministrazione Comunale di Rimini non lo ha messo nelle condizioni di svolgere le proprie funzioni. Non ha neppure una sede dedicata in cui poter incontrare i parenti dei detenuti, dovendosi "accontentare" di un ufficio presso l'Urp. È quanto denuncia l'associazione Papillon Rimini in una nota. Il vicesindaco Gloria Lisi si dice "sorpresa" per la nota dell'associazione, avendo "proposto, sollecitato e seguito l'iter amministrativo per l'istituzione del Garante dei diritti dei carcerati. Secondo quanto dichiarato dal vicesindaco, è stata concordata proprio con il dottor Grassi la sede all'interno dell'Ufficio Relazioni con il pubblico del Comune di Rimini, in Piazza Cavour, per un solo giorno a settimana. Per quel che concerne gli aspetti amministrativi, il Garante è affiancato da un funzionario comunale che gestisce gli appuntamenti e le pratiche amministrative, mentre a breve sarà attivata la mail per contattarlo. L'indennità economica non è prevista, ad eccezione dei rimborsi spese. L'Amministrazione Comunale si è detta comunque favorevole a cercare una soluzione diversa, per quel che concerne la sede, purché sia lo stesso garante a proporle e che tutto avvenga secondo il percorso amministrativo che coinvolga il Consiglio Comunale. Padova: Santini e Dalla Zuanna (Pd) interrogano il ministro dopo l'Sos della coop Giotto www.padova24ore.it, 16 gennaio 2015 "Il lavoro e la formazione professionale costituiscono gli strumenti più significativi con finalità di recupero sociale e reinserimento, come disposto dall'art. 27 della Costituzione che assegna alla pena una funzione rieducativa". Ad affermarlo sono i sentori democratici Giorgio Santini e Giampiero Dalla Zuanna che insieme alla senatrice Ginetti, prima firmataria, hanno depositato un'interrogazione in Senato al Ministro della Giustizia Andrea Orlando sullo stop alle convezioni che consentivano a detenuti, supportati da cooperative di specialisti, di lavorare in dieci carceri italiane. "Stiamo lavorando insieme ai tecnici e al ministero affinché la sperimentazione diventi strutturale in tutti i penitenziari e le carceri italiane. Sarebbe un risultato molto importante al fine di garantire una funzione davvero rieducativa della pena. Dobbiamo rafforzare l'istituto del lavoro in carcere, strumento per ridare dignità alle persone". Ha affermato Santini. Sul tema è intervenuto in Commissione Giustizia anche il senatore padovano Giampiero Dalla Zuanna: " Rinunciando a rinnovare le convenzioni con le cooperative che coinvolgono i detenuti per la preparazione dei pasti e riducendo drasticamente i finanziamenti per il lavoro in carcere, il Ministro della Giustizia fa un grave errore, per almeno tre motivi. I detenuti coinvolti in percorsi di lavoro "vero" in carcere hanno abbattuto drasticamente i tassi di recidiva, con conseguenti riduzioni dei danni per la società, riscatto di vita individuale, nonché riduzione delle spese per le carcerazioni successive; Il lavoro in carcere ha permesso di ridare dignità centinaia di persone che hanno avuto ottenuto migliori condizioni di reclusione. Infine, il lavoro "vero" in carcere - senza venir meno alle esigenze di sicurezza per la società e alle funzioni punitive della pena - ne esalta le funzioni educative e di ricostruzione della persona, minimizzando anche i rischi di derive massimaliste". Benevento: alla Casa circondariale blackout delle linee telefoniche per 7 giorni www.tvsette.net, 16 gennaio 2015 I Sindacati: problema tecnico ma interventi tardivi, sicurezza ancora a rischio. La notizia risale ad alcuni gironi fa ma, per ragioni di sicurezza è stata diramata solo in giornata. Dal giorno 2 al giorno 8 gennaio c.a. ,per un problema tecnico pare verificatosi alla Sala Regia, tutte le linee telefoniche sia interne che esterne della Casa Circondariale di Capodimonte sono andate completamente in avaria. A renderlo noto è la compagine sindacale Sannita della Polizia Penitenziaria composta dalle O.O.S.S. Cgil, Uil, Ugl e Sinappe. Per ben 7 giorni infatti, si è atteso un intervento tecnico che solo il giorno 8 è poi riuscito a ripristinarne l'efficienza grazie anche ad alcune schede elettroniche fortunatamente disponibili presso altro Istituto di pena Campano. Se in tale periodo si è ovviato alla manza di linee interne con l'utilizzo di alcune apparecchiature radio, più complessa è apparsa la gestione di assenza di collegamenti telefonici esterni sia per quanto concerne il lavoro degli Uffici dell'Istituto e la sicurezza dello stesso, che per l'impossibilità di effettuare le chiamate settimanali dei detenuti ai propri congiunti così come previsto dall'attuale Ordinamento Penitenziario. Per alcune importanti e urgenti comunicazioni tra Carcere e Uffici esterni, il Personale pare abbia addirittura dovuto ovviare al problema ricorrendo in alcuni casi ai propri telefoni cellulari. Attimi di tensione si sono registrati in particolar modo il giorno dell'Epifania a seguito di un avviso diramato già dal giorno precedente dalla Direzione con cui si garantiva alla popolazione detenuta lo sblocco delle chiamate per la tarda mattinata, cosa rivelatasi poi non fattibile perché non suffragata da alcun intervento tecnico. Nella circostanza, solo l'alta professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria ha consentito che la paventata protesta rientrasse, riportando alla calma i detenuti ed evitando epiloghi ben peggiori. Nonostante il problema sia dipeso da cause squisitamente tecniche e la concomitanza con il periodo festivo forse non ne abbia certo favorito la soluzione, resta comunque grave - sostengono i Sindacati nella nota - che un intero Istituto Penitenziario, sia rimasto per ben 7 giorni completamente privo di linee telefoniche. Gli standard di sicurezza che molto dipendono dalla rapidità dello scambio di informazioni e comunicazioni sia interne che esterne, sono stati seriamente compromessi, compensati ancora una volta solo e soltanto dallo sforzo umano e professionale della Polizia Penitenziaria e del Personale civile dell'Istituto. È inconcepibile, -concludono i Sindacalisti della Polizia Penitenziaria- come, a fronte dell'impegno profuso per i recenti stanziamenti da quasi 200mila euro destinati ad attività ludiche a favore dei detenuti, l'Amministrazione locale, nonostante i nostri ripetuti solleciti a favore dell'ammodernamento degli impianti della Sala Regia, non abbia provveduto a tempo debito a quegli interventi di manutenzione atti a preservare l'integrità degli impianti telefonici e nella circostanza, al loro immediato ripristino. La questione, come atto dovuto, è stata interamente rappresentata alle rispettive Segreterie Sindacali Regionali e Nazionali per i doverosi interventi presso il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria di Roma. Torino: Sappe; una nonna tenta di portare della droga al nipote in carcere Il Velino, 16 gennaio 2015 Si erano presentate al carcere di Torino l'una per sostenere il colloquio con il nipote detenuto e l'altra per consegnare un pacco al compagno albanese anch'esse ristretto, ma il loro comportamento ha insospettito il Personale di Polizia Penitenziaria di servizio all'Ufficio colloqui. Tanto che a seguito degli attenti controlli non sono mancate le sorprese: una, nonna di un detenuto italiano, è stata trovata con 7 pastiglie di subotex nel reggiseno e l'altra, una volta ispezionato il pacco indumenti destinato al congiunto straniero, ha tentato di introdurre in carcere 2 telefoni cellulari con Sim card ed un tablet. Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, commenta: "Questi episodi, oltre a confermare il grado di maturità raggiunto e le elevate doti professionali del Personale di Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere di Torino, ci ricordano che il primo compito della Polizia Penitenziaria è e rimane quello di garantire la sicurezza dei luoghi di pena e impongono oggi più che mai una seria riflessione sul bilanciamento tra necessità di sicurezza e bisogno di trattamento dei detenuti". Pavia: Melazzini (Regione) al carcere Torre del Gallo "prezioso ruolo delle cooperative" Ansa, 16 gennaio 2015 "Come cittadino, rappresentante territoriale pavese, ma soprattutto come persona sensibile alla fragilità seguo con attenzione e interesse il lavoro svolto dal carcere di Pavia, che rappresenta un valore per tutto il territorio, e a cui va il mio ringraziamento per il prezioso contributo per l'attuazione di una giustizia riparativa ed educativa". Così l'assessore alle attività produttive, ricerca e innovazione di Regione Lombardia e consigliere regionale del Nuovo Centrodestra, ha commentato la visita di oggi al carcere di Torre del Gallo a Pavia. Ad accompagnarlo è stata la direttrice dell'Istituto, Iolanda Vitale. Melazzini ha incontrato i referenti delle Cooperative lavoro, che hanno presentato le progettualità svolte nell'istituto e le collaborazioni in atto con il territorio pavese, e ha visitato diversi padiglioni della struttura, in particolare gli spazi dedicati alle attività svolte all'interno e la biblioteca. "Quello che si sta facendo in questa struttura credo sia straordinario - ha detto Melazzini. Penso, infatti, alle collaborazioni con le associazioni di volontariato che mirano ad obiettivi importanti, quali la rieducazione e formazione dei detenuti. Mi ha colpito l'attenzione rivolta a chi ha forti fragilità, in particolare la sensibilità ed entusiasmo con i quali è seguito e sostenuto nella sua esperienza nell'istituto". L'assessore regionale ha ricordato le misure messe in atto a favore del mondo delle cooperative: "Sappiamo quale sia il prezioso ruolo assunto dalle cooperative e per questo motivo stiamo lavorando affinché sia sempre più valorizzato e sostenuto. Credo che sia fondamentale - ha continuato Melazzini - fare in modo che ogni persona abbia l'opportunità di trovare stimoli e motivazioni nuove per avviare un percorso di riflessione critica su se stessa, con benefici non solo individuali ma anche per tutta la comunità". Monza: il Rugby Monza si affida al crowd-funding per il progetto in carcere Il Cittadino, 16 gennaio 2015 Il Rugby Monza si affida al crowd-funding per portare per il terzo anno consecutivo la palla ovale nel carcere di via Sanquirico. Perso uno sponsor, appello e sottoscrizione su Eppela.com. Un appello alla rete per salvare un bel progetto. Perso uno sponsor, il Rugby Monza si affida al crowd-funding per portare per il terzo anno consecutivo la palla ovale nel carcere di via Sanquirico. Lanciando una sottoscrizione su un sito specializzato. L'obiettivo è raccogliere 1.200 euro per sostenere le spese di materiali ed equipaggiamento per i detenuti e c'è ancora poco più di un mese per raggiungerlo. Al 15 gennaio ventiquattro sostenitori hanno già donato 560 euro. "Ogni settimana Alex Geddo e Davide Siever entrano in carcere per due ore di allenamento con i detenuti e organizzano tornei con squadre di società vicine - spiega il Rugby Monza. L'obiettivo sportivo è la promozione del rugby, sport con una valenza educativa molto forte. L'obiettivo sociale è la condivisione dei valori del rugby quali il rispetto reciproco, le regole, la solidarietà, il sostegno dovuto sempre e comunque. Il rugby è uno stile di vita ed un modo di essere". Si può dare una mano al Rugby Monza cliccando sulla pagina dedicata da Eppela.com all'iniziativa: http://www.eppela.com/ita/projects/1189/mischia-moci-rugby-in-carcere. Volterra (Pi): al via le "Cene galeotte", chef e detenuti insieme per il sociale www.clandestinoweb.com, 16 gennaio 2015 Sono quattro gli appuntamenti in programma dal 27 marzo sino al 26 giugno presso la Fortezza Medicea dove ci saranno i protagonisti del mondo della ristorazione: Roy Caceres, Filippo la Mantia, Alessandro dal Degan e Cristina Bowerman. Si tratta dell'iniziativa "Cene galeotte", che vede impegnata la Unicoop di Firenze con la collaborazione del ministero della Giustizia e della direzione della Casa di Reclusione di Volterra. Una manifestazione all'insegna del sociale che offre l'opportunità ai detenuti di lavorare come camerieri o cuochi a fianco di chef professionisti, che forniscono la loro esperienza gratuitamente. Il ricavato delle cene sarà inoltre devoluto interamente alla Fondazione "Il cuore si scioglie" Onlus per i propri progetti. Si tratta quindi di un importante progetto che vede al centro il lavoro tra chef e detenuti volto proprio al reintegro di questi ultimi nell'attività lavorativa. Roma: l'ex detenuto-scrittore "con i libri sono diventato una persona nuova e libera" Dire, 16 gennaio 2015 La cultura come arma di riscatto sociale. Si è svolto ieri mattina all'istituto tecnico industriale Faraday di Ostia l'incontro tra circa trecento studenti e Davide Cerullo, autore del libro "Ali bruciate - bambini di Scampia", che ha raccontato la sua testimonianza. All'appuntamento "Quando cultura fa rima con riscatto", che fa parte del progetto "Libriamoci" promosso dai ministeri dell'Istruzione e dei Beni culturali, ha partecipato anche l'assessore capitolino alla Scuola, Paolo Masini: "Vedere centinaia di ragazzi confrontarsi con Davide Cerullo e con il suo percorso di crescita, redenzione e abbandono della malavita per una "buona vita" è stata un'emozione - ha detto - Mai come oggi la nostra città ha bisogno di trasmettere alle nuove generazioni storie positive, e questo è il percorso che assieme alle realtà sane stiamo mettendo in campo". "È venuto a raccontare la sua testimonianza di un percorso di adolescenza difficile, lontano dalla scuola, dall'istruzione, dalla cultura e quindi risucchiato nel mondo della malavita napoletana - spiega la dirigente Isabella Pinto - ha raccontato la sua storia per far capire come la cultura può cambiare la vita di una persona". "Io non sono uno che si sente in diritto di dare un consiglio, io porto la mia esperienza per dire che io che ho sperimentato un po' cos'è la morte, posso dire quanto è importante la vita e quanto è importante l'istruzione. L'istruzione è il più grande atto di democrazia e libertà", ha detto Davide Cerullo. "L'incontro con la forza sanitaria della parola l'ho avuto nel carcere di Poggio Reale di Napoli - ha proseguito Cerullo - in una stanza, tornando dall'ora d'aria, trovo sulla mia branda un Vangelo e ne ho strappate due pagine perché sfogliandole ho trovato tre volte il mio nome, per un attimo mi sono sentito parte di quella storia, ho capito che quello era il mio libro, il libro della mia vita, le parole della mia libertà, della mia identità. Poi tanti anni dopo quando ho incontrato delle persone che quelle parole le vivevano veramente, che la legalità non la predicavano ma la praticavano, e quindi mi hanno aiutato". I libri quindi hanno aiutato Davide a trovare se stesso: "Ho scoperto quello che mai nessuno mi aveva detto: chi era Pasolini, Danilo Dolci, Don Lorenzo Milani, Martin Luther King, Gandhi, e da queste parole ho iniziato a diventare una persona libera, una persona nuova". Cinema: al Trieste Film Festival film "Il viaggio di Marco Cavallo" su chiusura Opg Ansa, 16 gennaio 2015 Evento speciale del Trieste Film Festival, il film "Il viaggio di Marco Cavallo", vale a dire il viaggio in Italia partito da Trieste per chiedere la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dire no ai mini Opg o manicomi regionali e chiedere l'apertura di Centri di Salute Mentale h24, torna nel capoluogo giuliano. Per la regia di Erika Rossi e Giuseppe Tedeschi, della durata di 51 minuti, il film sarà proiettato la mattina del 18 gennaio al Teatro Miela. Si tratta di un evento che gli organizzatori e anche il portavoce della battaglia, Peppe Dall'Acqua, dedicano "a tutte le Istituzioni di questo territorio e ai tantissimi operatori che hanno sostenuto il progetto e la campagna". Il viaggio è cominciato da Trieste nel novembre 2013, insieme con StopOpg, Marco Cavallo ha attraversato l'Italia in un viaggio di oltre 4.000 km in 16 città italiane ed è entrato nei 6 Opg per incontrare gli internati. Il film, prodotto dalle Edizioni alphabeta Verlag di Merano - già editore della Collana 180 Archivio critico della salute mentale e co-promotore del viaggio, ha la fotografia di Daniel Mazza e il montaggio Beppe Leonetti. India: caso marò, il Parlamento europeo approva una Risoluzione sul rimpatrio Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2015 A larghissima maggioranza l'Aula di Strasburgo ha approvato una risoluzione sui marò in cui si chiede, tra i vari punti, il loro rimpatrio e un cambio di giurisdizione. Nella risoluzione approvata dal Parlamento europeo, riunito in sessione plenaria a Strasburgo, si "auspica che, alla luce delle posizioni assunte dall'Italia, in quanto Stato membro, in relazione agli eventi collegati all'incidente, la competenza giurisdizionale sia attribuita alle autorità italiane e/o a un arbitraggio internazionale". L'Assemblea di Strasburgo, inoltre, "esprime grande preoccupazione per la detenzione dei fucilieri italiani senza capi d'imputazione", "pone l'accento sul fatto che devono essere rimpatriati" e "sottolinea che i lunghi ritardi e le restrizioni alla libertà di movimento dei fucilieri sono inaccettabili e rappresentano una grave violazione dei loro diritti umani". Dopo aver espresso "profonda tristezza" e manifestato il proprio "cordoglio per la tragica fine dei due pescatori indiani", il Parlamento europeo "si duole del modo in cui la questione è stata gestita e sostiene gli sforzi esplicati da tutte le parti coinvolte per ricercare con urgenza una soluzione ragionevole e accettabile per tutti, nell'interesse delle famiglie coinvolte, indiane e italiane, e di entrambi i Paesi". L'Unione europea conta sul fatto che la decisione della Corte suprema indiana di prorogare il permesso di malattia per Massimiliano Latorre "possa segnare l'inizio di un percorso per trovare finalmente una soluzione rapida, definitiva, equa e condivisa al caso di entrambi i militari italiani", ha detto al Parlamento europeo di Strasburgo il capo della diplomazia Ue Federica Mogherini introducendo ieri in tarda serata il dibattito, voluto da alcuni eurodeputati italiani, sui due fucilieri di marina, Latorre e Salvatore Girone. Girone è tuttora detenuto in India, mentre Latorre è in Italia, dove resterà per altri tre mesi, per i postumi di un intervento al cuore che si è reso necessario dopo l'ictus che lo ha colto in India. I due sono in attesa di essere giudicati in India sull'accusa di avere ucciso due pescatori nel corso di un'operazione antipirateria. "Questo caso si trascina ormai da tre anni - ha ricordato Mogherini - un lasso di tempo inaccettabile, nel corso del quale i due militari italiani sono stati e sono a tutt'oggi ingiustamente sottoposti a misure restrittive della libertà personale, pur in assenza della formulazione di un capo d'accusa". Mogherini ha poi sottolineato come "casi come questo rischiano di avere importanti ripercussioni sulla lotta globale contro la pirateria, in cui l'Unione europea è da tempo seriamente impegnata. La marineria indiana è stata spesso obiettivo di azioni criminali al largo delle coste della Somalia e grazie all'operazione Atalanta sono stati liberati molti ostaggi". Mogherini ha assicurato di seguire "personalmente con particolare attenzione questo caso e intendo utilizzare ogni opportunità a per continuare a sollevarlo affinché si trovi una soluzione accettabile e definitiva per tutte le parti". D'Ambrosio Lettieri (Fi): bene risoluzione, ma a parole seguano fatti "Meglio tardi che mai. La risoluzione approvata dal Parlamento europeo riunito in assemblea plenaria a Strasburgo è certamente una buona notizia. Mi auguro che non restino semplici raccomandazioni e che adesso il governo italiano, caduto l'ultimo alibi, si decida ad agire con maggiore autorevolezza e sostanziali iniziative rispetto al passato. Da tempo sosteniamo che i diritti umani dei nostri due marò siano stati violati, insieme al fatto che la competenza giurisdizionale debba essere attribuita all'Italia o, al massimo, ad un arbitraggio internazionale. Siamo rimasti inascoltati e il risultato è che a quasi tre anni dall'accaduto, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono detenuti senza che sia stato formulato neanche un capo di imputazione e la restrizione della loro libertà stava per trasformarsi anche in tragedia per le note condizioni di salute di Latorre. Incredibile, ma vero, purtroppo". Lo dichiara in una nota il senatore di Fi, d'Ambrosio Lettieri. "Incredibile che, come giustamente sosteneva qualche giorno fa Angela del Vecchio, docente di diritto internazionale alla Luiss di Roma, dopo l'evidente indisponibilità delle autorità indiane a trovare una soluzione adeguata e ragionevole al caso dei nostri fucilieri, non si sia fatto ricorso al Tribunale internazionale del diritto del mare per sbloccare la situazione. Tempo perso, vite distrutte, sia quelle delle famiglie dei due pescatori morti che sino ad oggi comunque non sanno cosa sia successo davvero, sia quelle dei nostri marò, che stanno vivendo, insieme ai loro cari, un incubo chiamato ingiustizia. Ha fatto bene l'Europarlamento a porre l'accento sul fatto che ‘i diritti e la sicurezza dei cittadini dell'Ue nei paesi terzi dovrebbero essere salvaguardati dalla rappresentanza diplomatica dell'Unione, che dovrebbe operare attivamente per la difesa dei diritti umani fondamentali dei cittadini dell'Ue detenuti in qualsiasi Paese terzò. Ma adesso basta parole. Seguano i fatti". India condanna risoluzione europarlamento: inopportuna Nuova Delhi: caso riguarda giustizia indiana e colloqui in corso. Il governo indiano ritiene che "il parlamento europeo non avrebbe dovuto adottare la risoluzione" approvata ieri, che auspica il passaggio del caso dei due fucilieri della Marina a giurisdizione italiana o internazionale e ricorda che la vicenda di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone è al momento al vaglio della giustizia indiana, sotto esame da parte della giustizia indiana "ed è oggetto di colloqui tra India e Italia". La condanna del governo di Nuova Delhi del pronunciamento degli eurodeputati, dopo le prime critiche, già ieri, affidate all'ambasciata indiana a Bruxelles, è arrivata con una dichiarazione ufficiale del portavoce del ministero degli Esteri Syed Akbaruddin, pubblicata dai media indiani. L'esecutivo indiano sottolinea che "la Corte Suprema, nella sua decisione del 14 gennaio, ha concesso una estensione di tre mesi a Massimiliano Latorre per restare in Italia per motivi di salute e che l'altro marò, Salvatore Girone, si trova nell'ambasciata italiana a Nuova Delhi. Francia: calano i suicidi in carcere, con l'aiuto dei compagni di cella "di sostegno" Redattore Sociale, 16 gennaio 2015 In Francia cala il tasso di suicidi nelle carceri: è la cifra più bassa dal 1991. Diverse le misure messe in atto negli anni per scoraggiare e prevenire: celle di protezione d'emergenza, tessuti non resistenti per le tenute dei detenuti ma anche videosorveglianza e sostegno psicologico. In Francia le cifre riguardo i suicidi in carcere nel 2014 sono le più basse dal 1991, con 93 casi verificatisi: questi i dati riportati da Libération. La diminuzione dei casi è dovuta ad una politica di prevenzione iniziata nel 2009, che prevedeva un rafforzamento della formazione del personale penitenziario, l'applicazione di misure di sicurezza in caso di crisi suicide, come l'utilizzo di tessuti non resistenti per gli abiti dei detenuti e le celle di protezione d'urgenza - ossia stanze prive di appigli - per prevenire l'impiccagione, la lotta contro l'isolamento e la depressione; inoltre nel 2010 è stata creata all'interno dell'amministrazione penitenziaria la Missione di prevenzione e di lotta contro il suicidio in carcere. Tra le nuove misure di prevenzione è stata anche creata in sette istituti la figura del compagno di cella di sostegno, che beneficia di una formazione per ascoltare, intercettare ed eventualmente soccorrere i detenuti con stress psicologico. E a fine dicembre il ministero della Giustizia francese ha definito un quadro giuridico che permette alle carceri che lo volessero di installare una telecamera nelle celle di protezione d'urgenza. Un'iniziativa che ha fatto discutere e suscitato polemiche. "Abbiamo invertito una tendenza" dichiara Julien Morel d'Arleux, responsabile di una sezione dell'amministrazione giudiziaria, che ammette però che "ci sono ancora dei margini di miglioramento". Stati Uniti: boia in azione in Oklahoma e Florida, seconda e terza esecuzione dell'anno Ansa, 16 gennaio 2015 Due detenuti sono stati giustiziati nelle carceri americane dell'Oklahoma e della Florida: Charles Warner, 47 anni, è stato ucciso con un'iniezione letale alle 19,28 ora locale. Era stata giudicato colpevole dello stupro e dell'omicidio della figlia di 11 anni della sua compagna. In Florida è stato giustiziato Johnny Kormondy, 42 anni, per l'omicidio di un padre di famiglia nel corso di un furto. La sua morte è stata pronunciata alle 20,16 ora locale. Le esecuzioni della Florida e dell'Oklahoma sono state eseguite nel giorno del ricordo di Martin Luther King, che si era a suo tempo pronunciato contro la pena capitale. Sono la seconda e la terza esecuzione dell'anno negli Stati Uniti. Stati Uniti: cinque detenuti di Guantánamo trasferiti in Oman ed Estonia, ne restano 122 Askanews, 16 gennaio 2015 Gli Stati uniti hanno trasferito quattro prigionieri di Guantanamo in Oman e un altro detenuto in Estonia. Il trasferimento è stato "approvato all'unanimità" dalle autorità competenti, ha riferito il Pentagono. I quattro uomini trasferiti verso il sultanato d'Oman sono Al Khadr Abdallah Muhammad Al Yafi, Fadel Hussein Saleh Hentif, Abd Al-Rahman Abdullah Au Shabati e Mohammed Ahmed Salam. Il quinto detenuto trasferito in Estonia è Akhmed Abdul Qadir. Altri 28 prigionieri del carcere americano di massima sicurezza a Cuba erano già stati trasferiti nel 2014. Nel centro di detenzione militare restano ancora 122 persone. Sri Lanka: in occasione della visita del Papa liberati 612 detenuti, 575 uomini e 37 donne Aki, 16 gennaio 2015 In occasione della visita del Papa, le autorità srilankesi hanno ordinato la liberazione di 612 detenuti, 575 uomini e 37 donne. Lo ha annunciato il portavoce dell'Amministrazione penitenziaria Thushara Upuldeniya, citato dal Daily Mirror di Colombo. A beneficiare della grazia presidenziale, anziani di più di 75 anni e detenuti per reati minori. La liberazione è stata salutata ieri mattina con una cerimonia presso il Welikada Prison. Iran: il giornalista del Washington Post Jason Rezaian rinviato a giudizio a Teheran Aki, 16 gennaio 2015 Jason Rezaian, giornalista del Washington Post detenuto in Iran da quasi sei mesi, è stato rinviato a giudizio presso un Tribunale della Rivoluzione di Teheran. Lo ha annunciato il procuratore capo di Teheran, Abbas Jafari Dolatabadi, all'agenzia ufficiale Irna. Il procuratore non ha precisato quali siano le accuse rivolte al giornalista, ma i Tribunali della Rivoluzione si occupano in genere di reati connessi alla sicurezza. Commentando questo sviluppo, la direzione del Washington Post ha affermato di sperare che si tratti di "un passo verso il rilascio" di Rezaian. Il giornalista, che ha la doppia cittadinanza iraniana e statunitense, è stato arrestato insieme alla moglie e a due altre persone lo scorso luglio. Queste ultime due sono state rilasciate dopo poche settimane, mentre la moglie, Yeganeh Salehi, è stata rilasciata su cauzione a ottobre. A dicembre Rezaian è stato portato per la prima volta davanti a un giudice, per l'ufficializzazione delle accuse, che non sono state rese note. In quell'occasione, gli è stata negata la libertà su cauzione. Il Tribunale della Rivoluzione a cui il caso è stato assegnato probabilmente dovrà decidere se fissare una data per la prima udienza o continuare a tenere il caso in sospeso. "Non sappiamo ancora quali accuse le autorità iraniane abbiano rivolto al nostro corrispondente Jason Rezaian, ma speriamo che l'assegnazione del caso al Tribunale della Rivoluzione rappresenti un passo verso il suo rilascio", ha commentato Martin Baron, direttore esecutivo del Washington Post, in un comunicato. "Questo passo dà alla magistratura iraniana l'opportunità di dimostrare la sua correttezza e indipendenza, affermando che le accuse sono infondate - ha aggiunto - Chiediamo all'Iran di rendere pubbliche le accuse, di permettere a Jason di avere un avvocato e di risolvere in modo rapido un incubo che si trascina da sei mesi". Ieri, prima di incontrare a Ginevra il segretario di Stato Usa John Kerry, il ministro iraniano degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha spiegato di sperare che la vicenda si risolva. "Dobbiamo aspettare - ha detto - che la magistratura vada avanti, ma intanto cercheremo di assicurare tutta l'assistenza umanitaria che possiamo" Florida: agente di polizia si sente male, salvato da un detenuto ammanettato Ansa, 16 gennaio 2015 Il giovane, nonostante fosse ammanettato, ha chiamato i soccorsi e il pronto intervento è stato fondamentale perché l'ufficiale sopravvivesse. Siamo all'ufficio di polizia di Fort Lauderdale, Florida. L'agente Franklin Foulks è impegnato con le procedure nel suo ufficio contro Jamal Rutledge, un giovane detenuto, quando all'improvviso si sente male. I due sono soli nel locale, ma Jamal, pur ammanettato, subito comincia a picchiare con i pugni contro la porta per attirare l'attenzione della security e avvisare gli altri ufficiali che si trovano nei paraggi. È il sergente Todd Bunin il primo a intervenire: si rende conto della situazione, vede Foulks steso a terra in preda a forti dolori al petto e chiama subito i soccorsi, che arrivano e trasportano il poliziotto all'ospedale di Broward. Sono i medici del centro a sottolineare che l'immediata richiesta d'aiuto di Rutledge e il pronto intervento degli ufficiali presenti sono stati fondamentali per la sopravvivenza di Foulks. E adesso Jamal è stato pubblicamente lodato: il giovane riceverà un premio per il suo comportamento. Ad assegnarglielo saranno le autorità cittadine in una cerimonia alla City Hall mercoledì 21 gennaio.