Giustizia: la condizione delle carceri e la voce di Filippo Turati all'Italia sorda di Alessandro De Rossi L'Opinione, 15 gennaio 2015 Filippo Turati, nel suo discorso sulla questione penitenziaria alla Camera dei Deputati il 18 marzo 1904 iniziava così: "Noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori". Purtroppo sono passati quasi 110 anni e sembra essere quasi tutto fermo ai primi anni del Novecento. Quanti papi si sono recati a Regina Coeli a portare il loro saluto il giorno di Natale a coloro che erano "custoditi" in carcere. Quanti presidenti della Repubblica, quanti ministri e uomini politici hanno portato il loro (formale) segno di considerazione a coloro che soffrivano di condizioni inumane e degradanti all'interno delle nostre carceri. Quante promesse, quante assunzioni (formali) di impegno per risolvere il problema. Ma nonostante tante Commissioni nominate e tanti esperti e consulenti e tanti digiuni fatti da coloro che si sono sempre battuti per la "questione penitenziaria", poco s'è visto. Nulla s'è risolto. Ma un giorno, un giorno lontano dai palazzi del potere, lontano da Montecitorio e da via Arenula qualcosa s'è mosso. La sede è un piccolo e bellissimo insediamento urbano che prende il nome della Città delle strade, nella Francia orientale: Strasburgo capitale politica dell'Unione europea. Ma Strasburgo è anche la Sede della Cedu, la Commissione europea dei diritti dell'uomo; quel tribunale che ha condannato senza mezzi termini e con grave infamia il paese che ha dato i natali a Cesare Beccaria, l'Italia, per il modo inumano come detiene coloro che sono ristretti nelle carceri di stato. Non sono riusciti né i papi, nei i capi di stato, né i digiuni, né le marce, né i suicidi di uomini e donne reclusi, né le sottoscrizioni dell'Italia ai trattati internazionali per il rispetto dei diritti umani a smuovere il pachiderma politico-burocratico del modello penitenziario italiano. invece è bastata la sanzione pecuniaria comminata dalla Cedu per fare in fretta e furia una serie di riformine, di riordini e di buoni propositi per tamponare condanna, multe e risarcimenti futuri. Le carceri sono un universo complesso che, se mal gestito, può anche generare mostruosità che a lungo andare possono ritorcersi contro lo stato stesso. Da non poche parti giungono segnalazioni che confermano che una parte del vasto aggregato terroristico di radice islamica si coaguli e trovi terreno di cultura specializzandosi anche nel carcere. Per questo motivo varrebbe, egoisticamente anche solo per la sicurezza di chi "è fuori", avere un profondo e serio ripensamento per l'universo della detenzione. Per non dimenticare quanto lo stesso Turati diceva più di Cento anni fa. All'Italia sorda. Giustizia: Programma "Strasburgo 2.0", un piano per il taglio dell'arretrato civile www.giustizia.it, 15 gennaio 2015 Ridurre ad un anno la durata massima delle cause civili commerciali e a meno di tre anni le altre cause di primo grado dimezzando al contempo l'arretrato e dando priorità processuale alle cause di imprese e famiglie. Sono gli obiettivi del progetto "Arretrato civile ultra-triennale - Programma Strasburgo 2.0", il piano straordinario varato dal Ministero della Giustizia per rimediare alla situazione della giustizia civile ed affiancare, sul piano organizzativo, le riforme legislative promosse dal Governo. L'intervento, presentato oggi nel corso di una conferenza stampa in Via Arenula dal guardasigilli Andrea Orlando e dal capo del Dipartimento dell'Organizzazione Giudiziaria Mario Barbuto, si propone di affrontare l'emergenza dell'arretrato ultra-triennale con misure organizzative a costo zero, puntando ad azzerare il fardello di vecchi procedimenti che condiziona i tempi del lavoro negli uffici giudiziari. Il piano organizzativo è mutuato dal "decalogo Strasburgo", già sperimentato con successo fin dal 2001 nel tribunale di Torino dal presidente Mario Barbuto che ora, chiamato a dirigere il Dog, propone la best practice a tutti gli uffici giudiziari del Paese. Il progetto prevede tre fasi. Prima fase: acquisizione delle statistiche aggiornate dell'arretrato esistente, fase già esaurita nel novembre scorso con il Censimento speciale di tipo selettivo sulla giustizia civile, realizzato dal Dipartimento dell'Organizzazione Giudiziaria tramite la Direzione Generale di Statistica utilizzando un programma informatico apposito (il data-warehouse); il Censimento ha permesso l'identificazione in ogni tribunale e corte d'appello della reale entità di cause fisiologicamente giacenti (poco più di 2,6 milioni), distinguendole dal patologico arretrato ultratriennale. Seconda fase: azzeramento in tempi brevissimi di parte dell'arretrato, secondo il cosiddetto principio Fifo (first in, first out - cioè la prima causa che entra è la prima ad uscire) in cui è consigliato il cosiddetto decalogo Strasburgo o altra best practice analoga: entro 6 mesi, gli affari contenziosi iscritti a ruolo fino all'anno 2000 (86.283 affari); entro 9 mesi, gli affari contenziosi iscritti a ruolo fino all'anno 2005 (127.146 affari). Terza fase: gestione ordinaria dell'arretrato residuo (affari iscritti a ruolo negli anni 2006-2010, 835.190 affari) nonché delle giacenze infra-triennali (affari iscritti a ruolo negli anni 2011-2013, 2.692.504 affari): nel rispetto del principio Fifo, l'obiettivo è di portare la durata effettiva di ogni singolo processo sotto ai tre anni, tendenzialmente verso il biennio, con l'ambizione di ridurre la durata a 12 mesi (quantomeno per le cause commerciali) nel momento in cui entrerà in vigore la riforma del codice di procedura civile. Il Programma Strasburgo 2 si affianca alle risorse di natura economica già previste nella legge di stabilità con l'istituzione di un fondo presso il Ministero della Giustizia per l'efficienza del sistema giudiziario (50 milioni per il 2015, 90 per il 2016 e 120 dal 2017). A queste vanno aggiunti gli interventi per il reclutamento di risorse umane da destinare agli uffici giudiziari: 1.031 posti di personale amministrativo (su 9mila vacanti) saranno coperti con l'imminente bando di mobilità volontaria esterna, altre 71 unità sono già state trasferite da altri ministeri grazie alla mobilità compartimentale e 144 unità sono in corso di assunzione mediante utilizzazione di graduatorie rimaste parzialmente inutilizzate da parte di altre amministrazioni. Le nuove risorse finanziarie saranno assegnate dal Ministero secondo un criterio meritocratico, e cioè prioritariamente agli uffici che fin qui hanno saputo utilizzare meglio quelle loro già assegnate in precedenza, soprattutto se scarse. Il Ministero della Giustizia mette in campo quindi un altro fondamentale tassello per restituire slancio e vigore al settore civile, la cui pessima condizione grava da anni sul sistema economico del Paese, rallentando gli investimenti stranieri e la crescita del Pil e, al tempo stesso, esponendo lo Stato a condanne giudiziali ai sensi della legge Pinto che il Ministero delle Finanze ipotizza possano toccare i 500 milioni di euro l'anno. Al tempo stesso, dopo la sforzo compiuto con il censimento selettivo (per anno, per materie, per aree geografiche), il Ministero vuole raccogliere i frutti dell'ingente investimento nella creazione del data-warehouse e presentarsi in ambito internazionale con una immagine migliore e, soprattutto, dati più veritieri sulla reale situazione di arretrato (ben diversi da quelli del cd "allarme giustizia incivile con un arretrato di 5,2 milioni di cause"). Il Programma Strasburgo 2 renderà possibili, fin dai prossimi censimenti parziali programmati a breve, sensibili miglioramenti nella "targatura degli affari civili", con una tendenza verso l'azzeramento degli affari iscritti a ruolo fino all'anno 2010. Giustizia: "Care toghe, se potete siate un po' più svelte" di Errico Novi Il Garantista, 15 gennaio 2015 Dal capo dell'organizzazione di Via Arenula, Mario Barbuto, il metodo per smaltire le cause: "è soltanto un invito". Mario Barbuto ha un'aria soave. La sua storia ruota tutta intorno a Torino, al Tribunale di cui è stato presidente per più di 10 anni, a partire dal 2001, eppure l'esempio che gli viene meglio è ambientato nel Tavoliere: "Non so se avete presenti le complanari, quelle strade che girano attorno alle città pugliesi e vanno in parallelo alle superstrade... ecco, il programma Strasburgo 2 per lo smaltimento dell'arretrato civile è come la complanare che viaggia in parallelo alla superstrada della Grande Riforma". "Anzi, è un metodo che cercherò di far funzionare anche in assenza di una successiva riforma". Cosa vuole fare il dottor Barbuto, che ha lasciato la Mole da presidente di Corte d'Appello e dalla primavera scorsa è il capo del dipartimento Organizzazione giudiziaria di Via Arenula? Vuole far lavorare meglio, e più in fretta, i magistrati. "Ma il nostro è un invito a seguire un metodo". Lo stesso che lui, Barbuto, ha attuato con successo a Torino, e che ha consentito di dismettere la quasi totalità delle cause civili con oltre 3 anni di anzianità. L'annuncio è dato in conferenza stampa insieme con il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ed è corredato di slide cartacee che spiegano come funziona il programma. È arricchito da frasi dolcissime, in linea con la soavità di Barbuto, rivolte agli ex colleghi magistrati. Del tipo: "Possiamo solo tentare una moral suasion", "ci affidiamo a quella forma indiretta di pressione che deriva dal constatare il successo ottenuto dal collega che segue il metodo". Fino alla considerazione chiave, che il ministro e il suo capo dipartimento spiattellano dopo l'ennesima domanda su "che farete se i giudici si mostreranno refrattari": ecco, a quel punto tocca ricordare che "l'ordinamento impedisce al ministero di intervenire sugli uffici giudiziari, c'è l'autogoverno della magistratura". Quindi? "Quindi possiamo auspicare che il Csm, nel conferimento degli incarichi direttivi, tenga conto del grado di adesione a queste best practices. Che possono consistere tanto nel decalogo di Strasburgo quanto in altri metodi individuati dal Consiglio superiore. Speriamo insomma che il merito e le capacità organizzative siano sempre determinanti nella scelta di chi deve guidare gli uffici". E sì, speriamo. È chiaro che come dice Barbuto bisogna tenere conto dei limiti posti dalla Costituzione, della separazione tra i poteri esecutivo e giudiziario. Ma allora la sua è una sfida impari: come farà a convincere davvero i giudici? "Non dico che la vittoria è certa, ma che ci proverò finché non interverrà la ghigliottina della pensione". L'obiettivo finale? Sgombrare il campo dai vecchi faldoni in modo che le nuove cause civili durino non più di un anno nel caso di quelle commerciali, e al massimo tre anni negli altri settori. In concreto si tratta di attaccare e liquidare nel giro di 9 mesi gli oltre 200mila contenziosi la cui iscrizione a ruolo risale fino all'anno 2005. Poi si arriverà al cuore del problema, le 835mila cause datate 2006-2010 e i quasi 2milioni 700mila fascicoli civili del triennio 2011-2013. Si è già compiuta a novembre scorso l'acquisizione di tutte le statistiche aggiornate, anche grazie al nuovo, sbandieratissimo sistema informatico, il data-warehouse. Ci vorranno risorse, molte, e si partirà da quelle destinate dalla legge di stabilità per l'efficienza del sistema giudiziario (50 milioni quest'anno, 90 nel 2016 e 120 dal 2017) ma Orlando scommette anche sull'Ue: oggi sarà a Bruxelles per esporre il programma Strasburgo e chiedere nuovi fondi, dopo quello da 100 milioni che per la prima volta Via Arenula gestirà direttamente, come spiega il capo di gabinetto Giovanni Melillo. "Si dice sempre che la giustizia è essenziale per la competitività, e giusto destinarle maggiori risorse", osserva il Guardasigilli. D'altronde il programma Strasburgo, aggiornato nelle slide come versione 2.0 di quello adottato da Barbuto a Torino, fu chiamato così in quanto manovra d'emergenza attuata nel 2001 dopo l'introduzione della legge Pinto sull'equo indennizzo per l'irragionevole durata dei processi, frutto a sua volta delle pressioni europee. A Strasburgo, appunto, ricorda Barbuto, "si scandalizzano perché l'Italia prima vara la legge sugli indennizzi e poi non paga: abbiamo un debito verso gli utenti di 400 milioni. E il tassametro gira vorticosamente, a causa delle sentenze dei Tar sull'inottemperanza". È per arginare questa valanga che si interviene con il metodo: basato sul principio Fifo, acronimo inglese che sta per "smaltire prima le cause più vecchie". Nella bozza di circolare seguono consigli semplicissimi come il riordino dei fascicoli e la sostituzione delle copertine deteriorate con delle nuove, di diverso colore a seconda dell'annata. E soprattutto con il principio delle udienze consecutive: una stessa causa va aggiornata con cadenze ravvicinate, fino a che non si risolve. Ai limiti del banale. Ma i magistrati, si sa, non sono persone banali. Giustizia: dal 1991 gli errori giudiziari sono costati allo Stato oltre 600 milioni di euro www.giornalettismo.com, 15 gennaio 2015 Tra condanne sbagliate e ingiuste detenzioni il conto è salato. Lo scorso anno mille "innocenti" arrestati. 580 milioni più altri 31,8. Questo il conto che la malagiustizia ha presentato fin qui allo Stato italiano: dal 1991, ossia da quando per legge sono stati statuiti i risarcimenti, le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari sono costati più di 600 milioni di euro. Solo nel corso del 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento e liquidati più di 35 milioni di euro a persone condotte in carcere in custodia cautelare e poi assolte o prosciolte; a ciò va aggiunto 1 milione e 600mila euro per condanne sbagliate. Il quadro è preoccupante perché da una parte c'è un esborso spropositato da parte delle casse statali e perché dall'altra significa che in troppi finiscono in un vortice di abbagli e sviste dei giudici. Esemplare il caso di Giuseppe Gulotta, il manovale di Alcamo in provincia di Trapani che ha scontato da innocente 22 anni di reclusione per l'eccidio della casermetta di Alcamo Marina del 26 gennaio 1976, dove furono uccisi due carabinieri. I processi di revisione hanno stabilito che le indagini furono depistate - fondamentale la testimonianza di un appuntato pentito, Gulotta e gli altri tre imputati confessarono sotto tortura - e ora i suoi legali chiedono 69 milioni di risarcimento. Nel punto sugli errori giudiziari città per città spicca Catanzaro con 6,2 milioni di euro in risarcimenti per 146 persone ingiustamente detenute nel 2014. Segue Napoli, dove le domande accolte sono state 143 e i risarcimenti ammontano a 4,2 milioni di euro. A Palermo, a fronte di una spesa liquidata a pressoché equivalente, pari a 4,4 milioni di euro, i casi di ingiusta detenzione sono soltanto 66. Nella Capitale, 90 i fascicoli accolti [...] e 3,2 milioni di euro i risarcimenti Giustizia: il 41% in più di innocenti in carcere, aumentati i risarcimenti dal 2013 al 2014 di Maurizio Gallo Il Tempo, 15 gennaio 2015 Oltre il quaranta per cento in più di un anno fa. Sono i risarcimenti ottenuti da persone che hanno trascorso un periodo di tempo in cella ingiustamente. Uno scandalo che "Il Tempo" ha denunciato nel settembre 2013 con una lunga e approfondita inchiesta. Calcolando i venticinquemila rimborsi concessi e quelli (molto più numerosi) negati, scrivemmo che almeno cinquantamila italiani erano stati incarcerati senza un motivo valido. Una stima per difetto. I numeri continuano a darci ragione. Anzi. Di più. E sono cifre che vengono diffuse da Palazzo Chigi, cioè dal governo italiano. L'ingiustizia giudiziaria, insomma, è cresciuta, mentre il sovraffollamento è diminuito solo sulla carta, come spesso fanno notare i Radicali. Lo dimostra l'aumento, nel corso del 2014, delle somme spese dallo Stato per le riparazioni per ingiusta detenzione ed errore giudiziario, fa sapere il viceministro della Giustizia Enrico Costa, affermando che "fino a quando ci sarà anche un solo caso di carcerazione ingiusta, illegittima o ingiustificata, dovremo batterci con forza: la civiltà giuridica di un Pae-se si misura anche, e soprattutto, da questi indicatori". Con 995 domande liquidate, per untatale di 35 milioni e 255 mila euro, l'anno appena trascorso segna un incremento del 41,3 per cento dei pagamenti delle riparazioni per ingiusta detenzione rispetto al 2013, che registrava l'accoglimento di 757 domande per un totale di 24 milioni 949mila euro. Dal 1992 al 31 dicembre 2014 l'ammontare complessivo delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni, 715mila e 939 euro. Complessivamente, sono oltre 23mila le liquidazioni effettuate. "Sono numeri -commenta Costa - che devono far riflettere", ma "non limitiamoci al mero dato statistico: dietro ciascuno di questi numeri c'è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare. Ma chiediamoci - prosegue Costa -, di fronte a ciascuna di queste sentenze, di fronte talvolta a palesi errori di valutazione o ad atti di superficialità: "Paga solo lo Stato?". Purtroppo, nella maggior parte dei casi, pare proprio di sì, perché manca un automatismo che determini la trasmissione della sentenza che riconosce la riparazione per ingiusta detenzione agli organi che debbono valutare la sussistenza dell'azione disciplinare, come accade nel caso della legge Pin-to. Questa lacuna va colmata". Secondo un recente calcolo, infatti, i magistrati condannati per errori fatti durante il giudizio sono stati negli ultimi anni appena uno su cento. Stando a quanto riportato dal ministero della Giustizia, a livello distrettuale nel 2014 la maglia nera va decisamente a Catanzaro, con sei milioni e 260mila euro che si sono intascate 146 persone. Impennata che si regista anche a Napoli, per un totale annuo di 143 domande liquidate con 4 milioni e 249mila euro. A Palermo la cifra liquidata è pressoché equivalente (quattro milioni e 477mila euro), a fronte però di meno della metà di casi di ingiusta detenzione (66). E veniamo alla Capitale: Roma ha prodotto 90 fascicoli per un totale di tre milioni e 201 mila euro di risarcimenti incassati dalle "vittime". Il 2014, sempre secondo i dati forniti dal ministero di via Arenula, registra un incremento dei pagamenti anche per i casi di errore giudiziario, che rappresentano un fenomeno altrettanto preoccupante ma con un esborso minore. Si è passati dai 4.640 euro del 2013 (quattro casi), al milione 658mila euro andato lo scorso anno a diciassette persone. È stata infatti disposta una liquidazione per oltre un milione di euro a Catania, il resto è andato a dodici persone presso il distretto di Corte d'appello di Brescia, due a Perugia e una rispettivamente a Milano e Catanzaro. Uno spreco enorme di denaro pubblico. Negli ultimi trentatré anni, dal 1991 al 2014, per gli errori giudiziari sono stati corrisposti quasi 32 milioni di euro. E potrebbero essere molti di più. In base a uno studio dell'Unione Camere Penali, infatti, solo un terzo delle domande di risarcimento viene accettata. Giustizia: Cassazione; svuota-carceri, il reclamo va proposto al tribunale di sorveglianza www.studiocataldi.it, 15 gennaio 2015 Dopo il d.l. n. 146/2013, c.d. "decreto svuota-carceri", anche nei confronti dei rapporti non ancora definiti al momento dell'entrata in vigore della nuova disciplina, il recluso che voglia impugnare la decisione del magistrato di sorveglianza avverso il mancato accoglimento del reclamo sulle presunte condizioni detentive in contrasto con i diritti fondamentali della persona, come sancite dalla Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo, deve adire il tribunale di sorveglianza competente e non la Cassazione. Così ha stabilito la prima sezione penale della Suprema Corte, con sentenza n. 315 dell'8 gennaio 2015, pronunciandosi sulla vicenda riguardante le doglianze di un uomo relativamente alle condizioni di detenzione subite. L'uomo lamentava, infatti, che la cella a sua disposizione era inferiore ad otto metri quadri, dotata di una sola finestra e frequentata, periodicamente da altre persone detenute e chiedeva, perciò, all'amministrazione penitenziaria il risarcimento dei danni conseguenti. Vedendo dichiarato inammissibile il proprio reclamo da parte del magistrato di sorveglianza, l'uomo si rivolgeva, pertanto, alla Cassazione. Ma per i giudici del Palazzaccio, il ricorso, presentato dal detenuto successivamente all'entrata in vigore della nuova disciplina di cui all'art. 35-bis della l. n. 354/1975, va qualificato come "reclamo giurisdizionale" e deve seguire dunque la procedura per lo stesso indicata che prevede l'intervento della Cassazione solo avverso la decisione del tribunale di sorveglianza nel termine di 15 giorni dalla notificazione o comunicazione della stessa (vai alla guida Il reclamo giurisdizionale introdotto dal d.l. "svuota-carceri"). Considerata, infatti, la consolidata giurisprudenza che ha definito "i confini del principio del tempus regit actum con riferimento alla materia esecutiva, affermando che le modifiche legislative che incidono sulle modalità di esecuzione della pena si applicano a tutti i rapporti non ancora definiti al momento dell'entrata in vigore della nuova disciplina", al caso di specie, hanno ritenuto gli Ermellini, trasmettendo gli atti al tribunale di sorveglianza di Trieste, va senz'altro applicata la nuova formulazione di cui all'art. 35-bis, costituente ius superveniens rispetto al diritto di reclamo dei detenuti, originariamente configurato. Giustizia: dalle carceri arrivano buone (e anche pessime) notizie di Gianluca Testa Corriere della Sera, 15 gennaio 2015 Per i detenuti delle carceri italiane le festività rappresentano il momento più buio. Quei giorni si consumano soprattutto nell'assenza dell'affettività, tra diritti negati e opportunità d'integrazione sfumate. È proprio nel periodo compreso tra Natale e il sei gennaio che si registra il picco più alto di suicidi dietro le sbarre. Nonostante questo ci sono piccoli grandi segni di rinascita e speranza, da Prato a Rebibbia. Anche se non tutti sono pronti ad accogliere con favore le misure alternative alla pena. Adrian Furtuna aveva appena 19 anni e il cinque gennaio si è impiccato nel carcere di Venezia. Massimiliano Alessandri di anni ne aveva 44. Detenuto nel carcere Pagliarelli di Palermo, anche lui ha deciso di porre fine alla sua vita impiccandosi con un lenzuolo nel giorno di Santo Stefano. Quello di Adrian è il primo suicidio del nuovo anno. Massimiliano - giardiniere di origine fiorentina che aveva richiesto l'appello dopo una condanna in primo grado - è invece l'ultimo dei 43 detenuti che nel 2014 hanno deciso di togliersi la vita. L'anno prima i suicidi furono 49. Secondo i dati raccolti dall'Osservatorio permanente sulle morti in carcere - curato da Radicali Italiani e dalle associazioni Il Detenuto Ignoto, Antigone, A Buon Diritto insieme alle redazioni di Radio Carcere e Ristretti Orizzonti - negli ultimi cinque anni 20 detenuti si sono uccisi proprio durante le festività, nel periodo compreso tra il 24 dicembre e il 6 gennaio. "Una frequenza doppia rispetto al resto dell'anno" spiegano i curatori del Dossier. "I motivi vanno ricercati nell'accentuato senso di solitudine per la lontananza dalle famiglie, nell'assenza di proposte trattamentali (con la sospensione dei corsi scolastici e delle attività lavorative) e nella riduzione del personale a causa delle ferie". Dei 43 detenuti che si sono tolti la vita nel 2014 ci sono 6 stranieri e 2 donne. L'età media è di 40 anni. La maggioranza ha trova la morte con l'impiccagione (37) mentre 5 persone si sono asfissiate col gas del fornelletto da camping in uso nelle celle. Le carceri nelle quali si sono registrate più vittime sono Poggioreale di Napoli (4) e la casa di reclusione di Padova (3). A questi numeri corrispondono nomi, cognomi, volti, storie. Persone spesso private della dignità, cui non viene concessa una reale opportunità di recupero. È ormai noto che le misure alternative alla pena, oltre a essere più economicamente sostenibili, riducono drasticamente la recidiva: dall'80% fino al 5-7%. Lo sottolineano i coordinamenti sul carcere (Seac) e le tante comunità di accoglienza che operano sul territorio (come ad esempio la Papa Giovanni XXIII). Ma anziché investire nell'alternativa, spesso si preferisce piuttosto concentrare poteri e funzioni nell'amministrazione penitenziaria. Scelte che hanno portato il Ministero a interrompere in dieci istituti penitenziari la decennale sperimentazione del servizio mensa affidato alle cooperative sociali. I risultati? Costi lieviti, crollo della qualità del vitto e opportunità negate ai detenuti che una volta formati venivano inseriti in percorsi professionali. Ora circa uno su tre rischia il licenziamento. Fortunatamente qualcosa di buono accade, nonostante tutto. Come a Prato, dove a partire da questo mese i detenuti puliranno le strade e i giardini della città. L'accordo per l'inserimento lavorativo e il recupero è stato firmato dal sindaco Matteo Biffoni e da Vincenzo Tedeschi, direttore della Casa circondariale La Dogaia. E mentre Jovanotti ha tenuto un concerto non programmato per i detenuti di Sollicciano nella sera di Capodanno, a Rebibbia - grazie alla Comunità di Sant'Egidio e all'attore Gigi Proietti - 150 carcerati hanno festeggiato in modo inedito il nuovo anno. Non si è trattato di una festa fine a se stessa, ma di una promessa. Il pranzo si è infatti consumato in quel padiglione che nei prossimi mesi dovrebbero ospitare una nuova attività lavorativa che coinvolgerà almeno un centinai di detenuti. Insomma, far lavorare i detenuti conviene. Sia sul piano sociale sia su quello economico. Sulle pagine di Corriere della Sera, oggi lo spiega molto bene Milena Gabanelli. Che - tra le altre cose - getta uno sguardo all'Europa passando in rassegna gli esempi più virtuosi. Giustizia: il caso delle mense carcerarie; ministro Orlando, se ci sei batti un colpo di Stefano Arduini Vita, 15 gennaio 2015 Il responsabile di via Arenula fino ad ora ha mantenuto un profilo molto basso sul stop ai catering interni gestiti dalle cooperative sociali. Perché? Forse sarebbe il caso di chiarire. Da domani circa 170 detenuti e 40 operatori perderanno il loro posto di lavoro. Alle dieci cooperative (Ecosol a Torino, Giotto a Padova, La città solidale a Ragusa, Men at work e Syntax error a Rebibbia, Divieto di sosta a Ivrea, Pid a Rieti, Campo dei miracoli a Trani, L'Arcolaio a Siracusa, Giotto a Padova, che oggi ha organizzato un'iniziativa di protesta all'interno del carcere Due Palazzi) impegnate nelle gestione delle mense interne ai penitenziari non è stata infatti rinnovata la convenzione e il finanziamento da parte della Cassa ammende, che negli ultimi cinque anni ha garantito i finanziamenti ad hoc. Il costo per le casse del ministero di questi progetti è di circa 3,5 milioni di euro (a fronte di un bilancio, al 31 dicembre 2013, di 59,9 milioni di euro). Ora la gestione delle mense tornerà in capo alla stessa amministrazione penitenziaria, malgrado le proteste dei dieci direttore coinvolti. Ma da dove nasce questa decisione? "Non c'è mai stata la promessa di proroga, ma di un impegno a proporre alla Cassa delle Ammende di valutare nella sua autonomia 15 giorni di proroga, con un possibile rilievo contabile di 140mila euro", ha sostenuto il capo del Dap Santi Consolo a chi gli chiedeva conto della mancata proroga di 15 giorni "promessa" lo scorso 30 dicembre, aggiungendo che "la Cassa ha detto no, a mio avviso con buoni argomenti economici e giuridici". Da parte sua anche il ministro Andrea Orlando ha fatto sapere tramite i suoi uffici a Vita.it che "non dipendendo direttamente dal ministero, sulla Cassa Ammende il ministro più che praticare una sorta di moral suasion non può fare molto" anche perché "la Cassa può finanziare progetti solo in una fase iniziale, ma poi questi progetti devono imparare a camminare sulle loro gambe". Una passaggio, questo, che non pare trovare riscontro nel regolamento della Cassa stessa, in cui non si parla in alcun modo di budget dedicati esclusivamente alle fasi di start-up dei progetti. Aggiungiamo poi che, se è vero che il ministro non siede direttamente nel Cda della Cassa, ma la Cassa è un organo incardinato nel dipartimento di amministrazione penitenziaria, che sino a prova contraria dipende da via Arenula. Non solo. In una lettera congiunta di tutti i direttori dei 10 istituti coinvolti, datata 28 luglio 2014, si sottolinea "l'indubbio miglioramento della qualità del vitto somministrato ai detenuti", nonché "di pari passo con quello delle condizioni igienico-sanitarie delle cucine" e con numerosi "vantaggi economici", come i risparmi "sulla manutenzione ordinaria e, non di rado, straordinaria delle attrezzature", "sull'acquisto di prodotti per le pulizie", "per le utenze e le mercedi". Rimane quindi la domanda: perché escludere le cooperative dalle mense di appena 10 carceri (su 205 penitenziari italiani)? La risposta forse va trovata nelle pieghe di un bilancio del ministero della Giustizia che pare la Corte dei Conti ha messo sotto tiro. "Trovare 3,5/4 milioni non è uno scherzo, qui dobbiamo stare attenti anche al centesimo", fanno sapere da via Arenula. Forse a questo punto però converrebbe che il ministro, che ieri a un convegno a Napoli ha fatto sapere che il 21marzo presenterà al Papa un progetto sul lavoro in carcere, chiarisse come stanno davvero le cose. Giustizia: mense carcerarie; il 21 gennaio il nuovo capo del Dap incontra le cooperative di Daniele Biella Vita, 15 gennaio 2015 Santi Consolo riceve martedì prossimo le dieci coop sociali che da domani 15 gennaio non potranno più far servire ai propri detenuti dipendenti il pasto in altrettanti istituti di pena italiani. Patriarca, deputato Pd e presidente del Cnv: "È un primo segnale positivo, mi auguro arrivi presto un accordo". Santi Consolo, nuovo capo del Dap, Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, incontrerà il 21 gennaio le cooperative coinvolte nella questione mense carcerarie (da domani 15 gennaio, in dieci carceri d'Italia il pasto non sarà più fornito dai detenuti dipendenti delle coop a causa dello stop dei fondi governativi, nonostante i dieci anni di ottima sperimentazione): "è un primo segnale positivo. Consolo ha ribadito la volontà di proseguire il rapporto con le cooperative, mi auguro che nei prossimi giorni l'amministrazione penitenziaria riesca a trovare un accordo. Perché investire sulle misura alternative alla pena, sull'accoglienza esterna e sull'inserimento lavorativo conviene a tutti. Sia socialmente sia economicamente", dichiara Edoardo Patriarca, presidente del Cnv, Centro nazionale per il volontariato, e deputato del Pd, in rappresentanza del gruppo di associazioni "La certezza del recupero". "I vantaggi di questo servizio, ormai prossimo allo stop, sono evidenti", aggiunge il presidente del Cnv, "affidare le mense alle cooperative non migliora solo la qualità del vitto, ma anche la vita stessa dei detenuti. Il lavoro permette loro di riacquistare la consapevolezza di sé. Ma non è tutto: in questo modo si abbattono sia i costi sia la recidiva, che passa in media dall'80 al 7 per cento". Risorse insufficienti "Le risorse sono insufficienti per estendere il servizio mensa sul modello delle cooperative a tutti i carceri". Lo ha detto il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, intervistato a Mix24 sulla mancata proroga per 10 cooperative che operavano in altrettante carceri. "C'è una linea fondamentale della rieducazione - ha aggiunto Consolo, ma c'è pure un'esigenza di offrire lavoro a tutti i detenuti. E per fare questo le risorse vanno distribuite per tutti. Noi stiamo parlando di dieci cooperative che forniscono un servizio mensa solo per settemila detenuti, ma ai costi attuali non possiamo estenderlo a tutti, per le risorse che abbiamo a disposizione, che sono esigue". Patriarca (Cnv): sì al lavoro in carcere "Il lavoro in carcere va sostenuto e incentivato, non smantellato e cancellato". Edoardo Patriarca, presidente del Centro nazionale per il volontariato, in rappresentanza del gruppo "La certezza del recupero" interviene così a favore delle dieci cooperative sociale che da un decennio gestiscono il servizio mensa in altrettanti carceri italiane. Un'attività sperimentale che s'interromperà il 15 gennaio dopo una breve proroga concessa dal Ministero della Giustizia. "Quello di domani sarà l'ultimo pasto servito dalle coop, che saranno costrette a licenziare buona parte del personale" prosegue Patriarca. "I vantaggi di questo servizio, ormai prossimo allo stop, sono evidenti. Affidare le mense alle cooperative - aggiunge il presidente del Cnv - non migliora solo la qualità del vitto, ma anche la vita stessa dei detenuti. Il lavoro permette loro di riacquistare la consapevolezza di sé. Ma non è tutto: in questo modo si abbattono sia i costi sia la recidiva, che passa in media dall'80 al 7 per cento". Il primo segnale di apertura arriva da Salvi Consolo, nuovo presidente del Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria). "Stamani Consolo ha ribadito la volontà di proseguire il rapporto con le cooperative - prosegue Patriarca - e per questo le ha convocate in un incontro che si terrà il 21 gennaio. Il capo del Dap giudica positiva l'esperienza fin qui svolta. Ebbene, si tratta di un primo positivo segnale. Mi auguro che nei prossimi giorni l'amministrazione penitenziaria riesca a trovare un accordo. Perché investire sulle misura alternative alla pena, sull'accoglienza esterna e sull'inserimento lavorativo conviene a tutti. Sia socialmente sia economicamente". Da oltre un anno e mezzo il gruppo di lavoro ‘La certezza del recupero' - di cui oltre al Cnv fanno parte tra gli altri anche Seac, Conferenza nazionale volontariato giustizia, Comunità Papa Giovanni XXIII, Sesta Opera S. Fedele Onlus di Milano, Padre Nostro di Palermo e Caritas - sta lavorando per il riconoscimento a pieno titolo delle misure alternative alla pena e delle comunità di accoglienza. Adoc: lavoro base del reinserimento sociale Far lavorare, retribuiti, i detenuti è la base per un loro reinserimento sociale ed esempio di vero impegno sociale. Per Adoc è questa la strada da seguire, alla stregua di quanto avviene nel resto d'Europa e negli Usa. "Il capitale umano nella carceri va recuperato e non disperso, il lavoro è il fondamento per il reinserimento sociale - dichiara Lamberto Santini, Presidente dell'Adoc - in questo senso dobbiamo guardare alle esperienze all'estero, come in Irlanda, Olanda e Austria, dove praticamente tutti i detenuti lavorano, retribuiti, e svolgono interventi sociali. Crediamo che sia un'opportunità da mettere in pratica, affinché il periodo di carcere non sia esclusivamente punitivo e economicamente pesante per la casse statali, ma sia un momento di recupero". Giustizia: lavoro nelle carceri, i calcoli sbagliati del Governo di Giuseppe Frangi www.ilsussidiario.net, 15 gennaio 2015 Questa mattina 170 detenuti e 40 operatori hanno perso il posto di lavoro: le dieci cooperative di cui erano dipendenti, in nove diverse carceri italiane, hanno dovuto cessare con il servizio mense interne, perché è venuta meno la convenzione e il finanziamento da parte della Cassa ammende. Ora la gestione delle mense tornerà in capo alla stessa amministrazione penitenziaria, malgrado le proteste dei direttori degli istituti coinvolti. I quali hanno reso pubblica la loro posizione con una lettera in cui spiegano come l'impatto potrebbe essere traumatico: "Tutti i vantaggi economici, strumentali e gestionali su cui l'amministrazione ha potuto contare in questi anni verrebbero improvvisamente annullati con una regressione del servizio difficile da gestire". Nella lettera si sottolineava "l'indubbio miglioramento della qualità del vitto somministrato ai detenuti", nonché "di pari passo con quello delle condizioni igienico-sanitarie delle cucine" e con numerosi "vantaggi economici", come i risparmi "sulla manutenzione ordinaria e, non di rado, straordinaria delle attrezzature", "sull'acquisto di prodotti per le pulizie", "per le utenze e le mercedi". Ovviamente le mense continueranno a funzionare, ma in capo alle amministrazioni carcerarie, con stipendi molto più ridotti per chi ci lavora. E per le cooperative che occupano detenuti anche in altre attività (com'è il caso della Giotto al Carcere Due Palazzi di Padova), venendo meno una commessa importante, l'equilibrio economico sarà molto più difficile da raggiungere. Ma non è solo questo il punto. Ieri a Padova nel corso di una manifestazione pubblica all'interno del carcere, presenti numerose figure istituzionali, alla fine del "penultimo" servizio di mensa i detenuti addetti si sono sfilati le eleganti divise bianche da cuoco e hanno vestito il camicione bruno delle lavorazioni cosiddette intramurarie. È stato un gesto simbolico che dice tanto del valore di questa esperienza lavorativa che il ministero della Giustizia e il Dap hanno deciso di affossare. La divisa bianca racconta di un percorso cui sono legate l'attesa di una vita diversa e di una possibilità vera di riscatto, la consapevolezza di competenze acquisite e anche di un amore verso il lavoro che si sta imparando a fare. Il camicione bruno all'opposto racconta di biografie reinghiottite dall'istituzione carceraria, pur mantenendo magari funzioni simili. Le esperienze delle dieci cooperative coprivano piccoli numeri rispetto al grande universo carcerario italiano (anche se i servizi che loro fornivano raggiungevano un numero ben maggiore di detenuti). Eppure la loro esperienza era la conferma che pratiche diverse sono possibili. Se quelle pratiche avevano costi maggiori, garantivano però una straordinaria convenienza economica in prospettiva: si preparavano persone in grado di costruirsi una nuova vita una volta usciti, con minori costi sociali in assoluto e in particolare con un'incidenza ridottissima di recidiva (ricordiamo che un detenuto costa allo Stato 3.500 euro al mese). Quindi è miope chi, come Milena Gabanelli sul Corriere, facendo i conti in tasca alle cooperative legittima la decisione del ministero. Non basta un calcolo ragionieristico per capire la realtà. Perché la realtà esige che nei conti ci si metta anche il valore aggiunto della professionalità creata, della coesione sociale garantita, della qualità del servizio offerto. Tutte voci a cui è doveroso dare un valore economico. Quella delle dieci cooperative era un'esperienza vincente, una di quelle "best practices" che tutti evochiamo ed auspichiamo, magari guardando con occhi invidiosi a quel che si fa all'estero. Questa volta le "best practices" le avevamo in casa, ma per piccoli calcoli ragionieristici abbiamo deciso di affondarle. Giustizia: via il lavoro dalle carceri.. a chi da fastidio la dignità di quegli uomini? di Guido Brambilla (Magistrato) www.ilsussidiario.net, 15 gennaio 2015 Il recente intervento del governo, destinato a togliere i sostegni economici a una decina di cooperative italiane che si occupano della gestione in eccellenza delle mense e di servizi di catering nelle carceri (e che si estenderà a tante altre realtà del mondo della cooperazione a causa del taglio del 34 per cento dei finanziamenti erogati dalla legge Smuraglia), rappresenta, a mio parere, un incidente di percorso all'interno del nostro sistema penitenziario e dei principi che lo caratterizzano. Non voglio entrare, non avendone la competenza, nelle questioni economiche o di bilancio che possono aver portato a tale decisione, ma mi pare che il percorso avrebbe dovuto essere un altro, non inficiando quella che si era dimostrata una valida ed efficace opportunità rieducativa, anche perché quel che si ritiene di risparmiare lo si perde poi in costi sociali. Da magistrato non posso non rilevare come l'art. 17 della legge 354/1975 sull'ordinamento penitenziario preveda che "la finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all'azione rieducativa". Nello specifico, il successivo art. 20 stabilisce che "negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale. A tal fine possono essere istituite lavorazioni organizzate e gestite direttamente da imprese pubbliche o private". Si tratta di previsioni che, assieme ad altre contemplate nella legge 354/75 e nel relativo regolamento di esecuzione, danno concreta attuazione a quella sussidiarietà verticale di fatto necessaria per dare un senso operativo al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena (art. 27, 3° comma, Costituzione). E il lavoro, per come detto, assieme all'istruzione (professionale e non), costituisce la principale risorsa per la risocializzazione di un condannato. Parlo del lavoro vero, con regolare contratto di assunzione e relativa contribuzione fiscale. Non quello meramente penitenziario remunerato con una mercede simbolica che non qualifica il detenuto e non gli conferisce competenze specifiche ed esperienze professionali proseguibili all'esterno una volta cessata la carcerazione. Ma il lavoro come sopra inteso non è importante solo per la qualificazione professionale di un detenuto. Ci sono altre connotazioni rilevanti. Che una cooperativa di lavoro sia presente all'interno di un carcere significa che una realtà sociale, un pezzo della società civile, entri dentro le mura della prigione e possa esser "vista", innanzitutto, da chi sta espiando la pena, dentro una "vicinanza". Un contesto di persone positive, produttive, valorizzative, che costituisce, prima ancora che un'opportunità di lavoro, un modello di riferimento "altro" rispetto a quello precedentemente frequentato, abitato, dall'autore del reato. E da qui può scaturire allora un paragone di convenienza umana. Il detenuto non cambia per sterili lezioncine sul "valore della legalità". Deve scoprire una convenienza umana ultima per cambiare. Deve avere, cioè, l'opportunità di essere guardato e valorizzato per ciò che è veramente e non già solo definito dal reato commesso. Chi dà ai detenuti un lavoro vero, dà, innanzitutto e prima, se stesso; si consegna ad un rapporto. Perché per lavorare bene, per darti delle competenze, devo prima credere in te, devo prima entrare in rapporto con te, e, nel corso del lavoro svolto assieme, sostenerti, aiutarti, rimproverarti, correggerti, ma dentro una logica che non è più quella inerente allo "scotto da pagare", al sinallagma espiativo, ma quella di un percorso educativo autenticamente umano, valido per tutti, per i detenuti come per noi. E spesso chi ha commesso reati non ha potuto vivere, guardare prima, nel suo ambito esistenziale, queste dinamiche della responsabilità interpersonale. Ma c'è un altro importante rilievo: il lavoro vero, attribuendo competenze, qualifiche, spendibili sul mercato esterno, conferisce vera dignità a chi sbagliato. Non solo perché si impara un mestiere utile. Ma anche perché il detenuto, in questo modo, può mantenere se stesso e la propria famiglia, pagare le tasse. Ancora: può sostenere le spese del proprio mantenimento in carcere. Nel mio lavoro ad esempio sono chiamato a pronunciarmi spesso sulla remissione del debito richiesta dal soggetto recluso privo di risorse economiche per gli esborsi sostenuti dall'amministrazione penitenziaria a titolo di costo della sua detenzione. Con la conseguenza, inevitabile, che tali spese si risolvono poi in un onere ulteriore in capo alla società. Ed infine, ma non da ultimo, è ormai risaputo (vi sono al riguardo statistiche ormai consolidate) che il lavoro qualificato in carcere contribuisce ad abbassare notevolmente il tasso di recidiva. È il giudizio di convenienza umana di cui ho parlato prima - favorito da ciò che rappresenta, nel suo complesso, il lavoro vero - che costituisce l'indicatore dell'avvenuto cambiamento del soggetto. Non solo; sottolineerei un altro effetto virtuoso derivante dall'abbattimento della recidiva: l'effetto "domino" di tale cambiamento. Un uomo che ha recuperato la sua dignità, che può spendersi in modo nuovo nella società, con delle competenze, con un lavoro onesto e competitivo sul mercato, è a sua volta esempio per altri: per i figli, i parenti, gli amici, in un contesto sociale magari già a suo tempo caratterizzato da devianza. Abbattimento della recidiva, quindi, ma anche funzione di prevenzione generale, non determinata più dal timore della deterrenza, ma dall'influsso osmotico di un modello concreto di recupero sociale autentico e conveniente per tutti. Non abbandonerei questa strada. Giustizia: dalla sentenza d'appello una verità… indagini sbagliate sulla morte di Stefano di Beniamino Migliucci (Presidente dell'Unione Camere Penali) Il Manifesto, 15 gennaio 2015 Le motivazioni della sentenza di appello che ha assolto tutti i dodici imputati, nel processo per la morte di Stefano Cucchi, rappresentano una conferma di quanto avevamo sempre sostenuto e di quanto, con grande dignità, avevano segnalato Ilaria Cucchi e la sua famiglia. Il problema era nelle indagini. Quando non si conoscono gli atti di un procedimento non è corretto trarre delle conclusioni categoriche ma, grazie alle motivazioni della sentenza, è possibile svolgere alcune considerazioni di fondo. La prima: Stefano Cucchi non è morto per il freddo. Scrivono i giudici di appello: "Le lesioni subite sono necessariamente collegate ad un'azione di percosse e comunque ad un'azione volontaria", il che come giustamente ha commentato il Presidente della Corte d'Appello di Roma Luciano Panzani, significa che "qualcuno lo ha picchiato o forse spinto ma non si è procurato le lesioni da solo". Quanto precede costituisce un primo elemento di ineludibile chiarezza, che non può essere trascurato nella ricerca della verità. La seconda considerazione: in questi processi non è facile fare emergere la verità. Indagare sugli apparati dello Stato è, talvolta, complicato per atteggiamenti omertosi e per un malinteso senso di appartenenza a una Istituzione. Si rifiuta il controllo e la critica esterna per il timore di una delegittimazione della struttura alla quale si appartiene e perché ci si sente dalla parte del bene e della ragione nei confronti di chi è deviato e per questo non merita rispetto. La terza: sforzo e tensione investigativi non sempre sono appropriati e adeguati per le ragioni indicate in precedenza. La quarta: la dignità delle persone e i diritti dei più deboli non sempre vengono considerati quando si è sottoposti al controllo e alla custodia della pubblica autorità. Eppure, custodire significa sorvegliare e vigilare allo scopo di preservare l'essere umano nella sua dimensione fisica e psichica, ciò che uno Stato democratico dovrebbe sempre essere in grado di garantire. La quinta: in questa vicenda è stata riaffermata l'importanza e l'imprescindibilità del giudizio di appello, che qualcuno vorrebbe eliminare. Si è assolto chi non aveva responsabilità certe e si è fornita indicazione per nuovi spunti di indagine. Il doppio giudizio di merito riduce la possibilità di errori e consente di avvicinarsi maggiormente alla verità. Un'ultima riflessione merita la necessità di introdurre, in tempi brevi, il reato di tortura che deve essere però reato proprio, ovvero che possa essere commesso solo dal Pubblico Ufficiale o dall'Incaricato di Pubblico Servizio e che si concentri su di una condotta qualificata dall'esito della inflizione di una intenzionale sofferenza fisica o morale a chi venga privato della libertà personale. Tale prospettiva, lungi dall'intento di colpevolizzare, come taluno ritiene, in modo indiscriminato le forze di Polizia, ne esalterebbe l'autorevolezza quando ne venga correttamente esercitata la funzione. L'Unione delle Camere Penali Italiane è in genere contraria alla ipertrofia legislativa e alla creazione di nuove norme penali, ma in questo caso, il reato di tortura rivelerebbe la consapevolezza da parte dello Stato che certi fatti avvengono e che non possono essere tollerati. Ordine Medici Roma, su caso Cucchi ristabilita verità "Quando il 31 ottobre scorso era stato reso noto il dispositivo della sentenza della Corte di Appello chiamata a riesaminare le responsabilità del decesso di Stefano Cucchi, l'Ordine provinciale di Roma dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri aveva sottolineato la necessità di attendere le motivazioni che, in tale pronuncia, avevano determinato l'assoluzione di tutti i soggetti chiamati a rispondere della morte del giovane: primi tra tutti i medici dell'Ospedale "Sandro Pertini". Motivazioni che ora hanno evidenziato come "L'attività di medici e infermieri su Stefano Cucchi non è stata di apparente cura del paziente ma di concreta attenzione nei suoi riguardi". Così in una nota l'Ordine dei Medici di Roma Omceo. "Fin dall'inizio della vicenda - che ora vedrà nuove indagini per individuare i responsabili delle percosse evidentemente subite da Cucchi - l'Ordine aveva affermato, e più volte ribadito, la propria, salda, convinzione della totale estraneità del personale sanitario nelle cause che portarono alla morte del giovane nella sua situazione di detenuto. Una convinzione obiettiva - prosegue la nota - scaturita dall'attento esame svolto dall'apposita Commissione prontamente istituita all'interno dello stesso Ordine, con esperti indipendenti incaricati di esaminare ogni aspetto medico legato al decesso. Già dalla relazione di tale Commissione non era emersa alcuna negligenza od omissione, proprio come ora chiarito dalle motivazioni della sentenza di appello. Pertanto, sulla base di tali riscontri oggettivi e clinici, l'Ordine - pur attendendo doverosamente le conclusioni della Magistratura - non ha mai esitato a esprimere fiducia e solidarietà ai quei suoi iscritti coinvolti nei procedimenti giudiziari e subito esposti negativamente all'opinione pubblica dai media, infine assolti in appello". "L'Ordine non è una corporazione ma un'istituzione, un organo ausiliario dello Stato, posto a tutela del cittadino: per primo ha il dovere di accertare eventuali comportamenti non deontologicamente corretti o addirittura negligenti e omissivi delle cure cui ha sempre diritto un paziente, non importa se detenuto. Per primi, quindi, abbiamo voluto fare luce sull'operato dei medici chiamati in causa", sottolinea il presidente dei camici bianchi capitolini, Roberto Lala. "Accuse frettolose e lanciate come pietre in una sorta di lapidazione mediatica, si sono dimostrare infondate e ingiuste. Ora è stata ristabilita la verità. Sarebbe bene che questa vicenda, davvero triste, facesse riflettere sulla leggerezza con cui i medici vengono ormai sempre additati preventivamente come colpevoli in ogni situazione clinica avversa, anche se indipendente dal loro operato e dalla loro dedizione". Giustizia: sul caso Cucchi il coraggio dei giudici della Corte d'Appello di Fausto Cerulli Ristretti Orizzonti, 15 gennaio 2015 Ho ascoltato le parole di uno degli avvocati della famiglia Cucchi, dopo la sentenza di assoluzione, sia pure per insufficienza di prove, pronunciata dalla Corte di Appello di Roma: "lo Stato ha preso in consegna Stefano vivo, e lo Stato lo ha restituito morto". Parole precise, che dicono di una giustizia che merita di essere condannata per abbondante sufficienza di prove. É vero che nelle motivazioni della sentenza si legge che gli atti vengono rinviati alla Procura della Repubblica per ulteriori indagini; ma francamente sembra di assistere ad una sorta di balletto intorno ad un cadavere. I giudici della Corte di Appello, bontà loro, affermano in motivazione che Cucchi non può essersi ammazzato da solo. E tutti abbiamo in mente le foto agghiaccianti del volto tumefatto di Stefano, e tutti ricordiamo come le forze dell'ordine, prima i Carabinieri, poi le Guardie Penitenziarie abbiano provato a sostenere in maniera quasi infantile se non fosse cinica, che Cucchi era scivolato, che si era procurato per propria colpa le ferite che dovevano portarlo alla morte. Una sorta di Pinelli, insomma. Una sorta di suicidio di Stato, se è permesso dirlo. La sorella di Stefano, la coraggiosa ed ammirevole Ilaria, ha sostenuto che in ogni caso la sentenza costituisce una vittoria della giustizia giusta. Credo che si sia lasciata trascinare da un eccessivo entusiasmo per alcune affermazioni della sentenza: quelle, appunto, che sanzionano come il Cucchi non possa essersi procurato da solo le ferite mortali. diciamo pure che si tratta di un passo avanti, ma di un passo da lumaca. Perlomeno, la sentenza di primo grado aveva condannato qualcuno, sia pure in modo lieve, per non turbare troppo. Da una sentenza di condanna si passa ad una sentenza di assoluzione con la formula cosiddetta dubitativa. E la morte di Stefano Cucchi resta avvolta, almeno per i giudici dell'appello, in una cortina fumogena di dubbi. La Corte, non riuscendo a squarciare la cortina fumogena del dubbio, ha deciso di rinviare gli atti alla Procura, altro giro altro regalo. Poi interverrà magicamente la prescrizione a seppellire i dubbi e le incertezze che avvolgono il caso. Ho avuto modo di conoscere il giudice che ha presieduto la Corte di Appello, e lo considero uno dei pochi magistrati che sanno fare il proprio mestiere: e dunque penso che gli sia costato molto il dover pervenire ad una sentenza come quella che ha sancito la maestà del dubbio. on Mi considero da sempre un garantista, e dunque dovrei concordare con la decisione dei giudici. Ma credo che anche Cucchi, in qualche modo, debba essere garantito. Mettiamoci anche quanto dichiarato dal Presidente della Corte di Appello di Roma, che ha tenuto a precisare di non aver fatto parte del collegio giudicante (excusatio non petita) per poi esprimere qualche dubbio sui dubbi dei giudici giudicanti, per concludere infine che il nostro codice prevede che un giudice non possa condannare se non si è raggiunta una certezza oltre ogni ragionevole dubbio. Ragionevole dubbio: una formula paradossale, perché un dubbio non dovrebbe essere ragionevole. E allora prendiamocela con il nostro codice di procedura penale, e plachiamoci la coscienza, se coscienza abbiamo, pensando che Cucchi è morto per i colpi inferti dal codice. La patata bollente passa di nuovo alla Procura, che dovrà ricominciare da capo a scottarsi le dita, cercando un colpevole che non possa ammantarsi di dubbio. Un colpevole che possa spiegare come mai Cucchi, per riprendere le parole dell'avvocato della famiglia, sia stato preso in consegna da uno Stato che lo ha restituito morto. In questo cinico carosello una sola certezza, che lascia comunque incerti: Cucchi è stato ammazzato. Ed a Cucchi dobbiamo un minimo di garanzia che qualcuno paghi per quella morte. Anche se, a conti fatti, e per restare in tema di dubbio, dubito molto che la Procura possa fare luce: sarebbe comunque una luce che accecherebbe una qualche porzione di Stato. E forse finiremo per dover dire che quello che è Stato è Stato, con le maiuscole. Giustizia: no trattamenti contrari all'umanità, anche se il detenuto si chiama Provenzano di Gianluca Perricone L'Opinione, 15 gennaio 2015 È grave? Secondo noi sì. Perché un essere umano che è afflitto da "grave decadimento cognitivo e sindrome ipocinetica, dovuta a sindrome extrapiramidale ed agli esiti di una devastante emorragia cerebrale, neoplasia prostatica in trattamento ormono-soppressivo", proprio bene quell'uomo non dovrebbe stare. Poi arrivano altri medici specialisti ed accertano che lo stesso soggetto ha uno stato cognitivo "gravemente ed irrimediabilmente compromesso" e che lo stesso, di fronte agli specialisti, "è risultato risvegliabile ma sostanzialmente non contattabile, con eloquio privo di funzione comunicativa, probabilmente confabulante, incapace di eseguire ordini semplici". E se poi "tale condizione risulta di fatto evoluta in senso peggiorativo rispetto a quanto descritto nella valutazione neuropsicologica dell'aprile del 2014" qualcosa bisognerebbe pur chiedersela. E se poi ancora il soggetto è detenuto in un carcere italiano, sarebbe altresì il caso di dare un'attenzione maggiore alle condizioni di salute dello stesso anziché farlo stare in isolamento al 41bis (sia pure in ospedale) perché - incredibile ma vero - un tribunale ha deciso che un essere umano così malridotto può ancora impartire ordini a qualche suo sodale: incapace di coordinare anche se stesso, ma in grado di interloquire con altri! La giustizia riesce a sostituirsi anche ai medici e così facendo rischia (?) di uccidere definitivamente lo stato di diritto. Eppure - ogni tanto è bene rammentarlo - la Costituzione (ancora vigente e talvolta fin troppo "maltrattata") prevede la punibilità di ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà e le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità: anche se il detenuto si chiama Bernardo Provenzano. Lettere: eutanasia per i detenuti? di Stefano Anastasia (Associazione Antigone) www.internazionale.it, 15 gennaio 2015 Domenica scorsa, in data certa, Frank Van Den Bleeken avrebbe dovuto essere un uomo morto. Privilegi dell'eutanasia, e della pena di morte. Dell'una e dell'altra, nel caso in questione. Van Den Bleeken è detenuto a Bruges. Lo è da quasi trent'anni. "Stupratore seriale e assassino", così lo presentava l'agenzia di stampa che ce ne ha fatto conoscere il nome. E poco importa che all'epoca dei fatti avesse appena vent'anni: quello che era è. "Recidivo e conscio di esserlo aveva chiesto al ministro della giustizia belga di essere mandato in un centro di cure specializzato nei Paesi Bassi o, in alternativa, di essere ucciso con l'eutanasia". Al ministro non sembrava possibile la prima e non gli era rimasta che la seconda soluzione, ai sensi della molto liberale normativa belga in materia: sarebbe stata soddisfatta la sua libera scelta. In Italia, invece, per farla finita bisogna ancora appendersi alle sbarre, inalare il gas dal fornelletto o tagliarsi con sapienza. Lo hanno fatto in quarantatré nel 2014: non pochi, ma meno che in passato. Possiamo esser contenti? Come, forse, lo sarà stato qualche zelante funzionario belga per aver potuto accondiscendere alla "libera scelta" di Van Den Bleeken? Naturalmente no. E non perché a Van Den Bleeken, così come ai quarantatré in Italia si debba vietare di congedarsi dal mondo quando e come ritengano più opportuno, ma solo perché non si può che diffidare di quella "libera scelta", e anzi bisognerebbe prendersene tutte le responsabilità. Nell'uno come negli altri casi, la condizione detentiva non consente una "libera scelta": non c'è un altrove verso cui dirigere la propria vita, quanto meno per provarci. Questo avranno pensato Frank e i suoi fratelli, un attimo prima di decidersi. E quella mancanza di alternative è responsabilità nostra. Lettere: grazie per aver aiutato il mio Rachid di Emanuela D'arcangeli Il Garantista, 15 gennaio 2015 Non è facile dire grazie. Non è facile dirlo, soprattutto a chi fa parte di un sistema, che raramente mi ha ispirato riconoscenza. Ma quando è giusto, è giusto. Rachid ancora non ci vede bene, ha un ginocchio fuori uso e probabilmente ancora dei lividi. Ma se alcuni agenti hanno impresso quei segni sul suo corpo; il colloquio con lei, ne ha impressi altri nella sua anima. "Dio l'ha messa sul mio cammino", sono le parole esatte di Rachid. Questa lettera è ancora per lei, dottoressa Giampiccolo e ancora parla di riconoscenza, ma non col sapore ironico di quella che l'ha preceduta, questa volta è riconoscenza vera. Perché ha accettato di parlare con Rachid, ha capito le sue ragioni e si è impegnata affinché venisse trasferito nel carcere di Volterra, un carcere che "nonostante sia in Italia, rispetta la legge e la Costituzione" (il titolo di un articolo trovato on line). Quel richiamo alla legge ed alla Costituzione, è la radice del nostro sdegno e della nostra rabbia, da sei anni a questa parte: sono passati otto carceri, ma se non fosse per il tragitto che cambia e per i giorni di colloquio diversi, direi che Rachid non è mai stato trasferito. Tutti e otto gli istituti si confondono nella mia memoria e così le facce di chi ci lavora, le cose che sono accadute, l'aspetto stesso dei luoghi. Il tempo che in carcere già non ha un gran valore, nel nostro casosi è proprio fermato, in un unico lunghissimo attimo, dove dentro c'è tutto. C'è uno degli ultimi colloqui ad Asti. Me lo condussero ammaccato, pieno di lividi, con la stampella. Andai di corsa dai carabinieri a sporgere denuncia, per sentirmi rispondere che la polizia penitenziaria è una polizia a tutti gli effetti e che potevano tranquillamente raccoglierla loro, quella denuncia. C'è Napoli, quando a più di ottocento chilometri di distanza, gli diedi la notizia della morte di sua madre. Dovette riceverla e superarla da solo. L'esperienza peggiore, più di tutte le botte prese, prima e dopo. La brutale natura del carcere, che accompagna tutto e non ha pietà nemmeno per i momenti più tragici, come la perdita di una madre. C'è Parma e non sto nemmeno a contare le volte che tra botte, scioperi della fame e "incidenti" vari, ho visto Rachid sempre più umiliato, distrutto fisicamente, ma mai prostrato d'animo. Lo vidi passare dalle stampelle alla sedia a rotelle, perché così era più pratico portarlo in giro. Poi Prato. La mia discussione accesa con la comandante, che di fronte a Rachid e alla sua faccia insanguinata, continuava a sostenere che la polizia non c'entrava nulla e che quelle ferite poteva essersele procurate da solo. La scelta di inviarle quella lettera ed il "rumore" che nel mio piccolo ho cercato di sollevare, sono nati dal desiderio che questa volta andasse diversamente. Non ho voluto che rimanessimo in silenzio a leccarci le ferite, per archiviare anche questa esperienza, tra le altre, nella speranza di poterle riguardare in futuro, col distacco dei ricordi. Volevo che quelle persone, che lo hanno aggredito e portato in isolamento, non rimanessero chiuse nell'ombra di quelle mura, sicure che niente di ciòche avviene in sezione, esce dai corridoi. Tutti i nostri sforzi, le registrazioni in carcere, le denunce, il blog servono a questo: a dare il segno, per piccolo ed isolato che sia, che la divisa non può garantire l'anonimato e l'impunità, almeno morale e per pretendere che ogni carcere rispetti la "legge e la Costituzione", nell'interesse dei detenuti e delle loro famiglie, come nell'interesse degli stessi poliziotti. Ai nostri sforzi, si è unita una grande mano, la sua, che pur non conoscendoci, ha colto l'aforisma che spiega tutte le scelte, apparentemente scriteriate, di Rachid: "Se vedi un male, agisci, parla, o almeno non accettarlo nel tuo cuore". Lei aveva il potere di agire e lo ha fatto ed ora Rachid è in una condizione di maggior tutela. Per questo le va la mia riconoscenza ed il mio grazie. Toscana: l'Assessore Marroni; difficile rispettare la scadenza per la chiusura dell'Opg Ansa, 15 gennaio 2015 "L'orientamento delle politiche regionali è fortemente indirizzato al superamento dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino" ma serve una forte "collaborazione inter-istituzionale", senza la quale risulta difficoltoso rispettare "la scadenza del superamento dell'Opg entro il 31 marzo". Lo ha detto l'assessore al diritto alla salute Luigi Marroni, rispondendo in Consiglio regionale a un'interrogazione di alcuni consiglieri del Pd. Marroni ha ricordato che il programma regionale di superamento dell'istituto prevede, tra l'altro, il potenziamento della rete dei servizi territoriali, l'attivazione delle residenze intermedie e la realizzazione di una destinata ad accogliere i pazienti internati con misure di sicurezza detentiva. Prevista anche una residenza con sorveglianza intensiva, per la quale "è stata attivata una ricognizione delle strutture già nella disponibilità del Servizio sanitario regionale, al fine di individuare una struttura che consenta di rispondere alle esigenze sanitarie e organizzative di superamento dell'Opg". Per il consigliere Pd Enzo Brogi "la scadenza del 31 marzo potrebbe essere non rispettata e questo è preoccupante". Brogi ha quindi invitato la Toscana ad attivarsi con le altre Regioni e gli altri livelli istituzionali coinvolti per "giungere ad una soluzione veloce, perché l'Opg è un luogo assolutamente inospitale". Liguria: Sappe; un cruento l'inizio dell'anno, per le carceri serve più sicurezza www.cittadellaspezia.com, 15 gennaio 2015 "Non si preannuncia sotto i migliori auspici il nuovo anno per la Polizia Penitenziaria della Liguria. Se il 2014 le carceri liguri sono state contrassegnate da circa 900 eventi critici tra i quali riportiamo ben 27 tentati suicidi, 275 casi di autolesionismo, 230 ricoveri urgenti in ospedale e, purtroppo 2 decessi per cause naturali, il 2015 inizia con ben due casi di aggressione tra detenuti avvenuti con una strana procedura": è il commento della segreteria regionale del Sappe, il maggiore sindacato della Polizia Penitenziaria. "L'istituto femminile di Pontedecimo si sottrae da un inizio anno senza l'evento critico, parrebbe che una detenuta con il proprio figlio minore di anni tre, appena giunta in istituto, è stata collocata in un reparto comune invece di essere destinata nel reparto per detenute con figli, ovvero la sezione detentiva denominata "asilo nido". Queste strane scelte - afferma Michele Lorenzo - a parte ad avere una ricaduta negativa sul bambino ha una ripercussione sul personale di servizio che deve gestire le esigenze del bambino in un reparto non idoneo". "C'è bisogno - continua Lorenzo - di rivedere il sistema della sicurezza penitenziaria oggi forse non sottoposto al rapporto numerico dei 1410 detenuti presenti nelle carceri liguri ma su un sistema, quello della sorveglianza dinamica, che non può definirsi sinonimo di sicurezza a garanzia del personale". Latina: Fns-Cisl; diminuiscono i detenuti, ma il carcere resta sovraffollato www.latina24ore.it, 15 gennaio 2015 Secondo il dato ufficiale del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) continuano a diminuire i detenuti nelle carceri del Lazio, al 31 dicembre 2014, si rappresenta che i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione Lazio risultano essere 5.600 (486 in più rispetto ai 5.114 posti disponibili). Lo afferma in una nota il Segretario Regionale Fns-Cisl Lazio Massimo Costantino. Attualmente gli istituti che soffrono maggiormente il sovraffollamento sono: carceri Cassino detenuti regolamentare previsti 202, presenti 226 (sovraffollamento + 24); Civitavecchia detenuti regolamentare previsti 344, presenti 425 (sovraffollamento + 81); Frosinone detenuti regolamentare previsti 310, presenti 475 (sovraffollamento + 165); Latina detenuti regolamentare previsti 76, presenti 161 (sovraffollamento + 85); Rebibbia detenuti regolamentare previsti 263, presenti 324 (sovraffollamento + 61); Rebibbia detenuti regolamentare previsti 1.235 presenti 1.479 (sovraffollamento + 244); Regina Coeli detenuti regolamentare previsti 642, presenti 813 (sovraffollamento + 171); Velletri detenuti regolamentare previsti 408, presenti 504 (sovraffollamento + 96). Per la Fns-Cisl occorrono interventi mirati affinché, negli istituti sopra citati, detto sovraffollamento sia ridotto al fine di migliorare sia le condizione detentiva dei detenuti ma, anche, quella lavorativa del personale. Tale sovraffollamento comporta episodi gravi come quello avvenuto a Frosinone che causano l'aggressione a danni del personale di Polizia penitenziaria. Da segnalare che l'Agente Scelto risulta attualmente ancora ricoverato presso l'ospedale del Celio. Parma: Mattiello (Pd); carcere con problemi sicurezza, meglio trasferire Carminati Ansa, 15 gennaio 2015 "È opportuno tenere Carminati a Parma? Il problema legato all'impianto di video sorveglianza e video registrazione nel carcere di massima sicurezza di Parma non è stato risolto". Il deputato Pd Davide Mattiello, componente delle Commissioni Giustizia e Antimafia, lo stesso che il 30 dicembre scorso andò a trovare in carcere il presunto boss di Mafia Capitale Massimo Carminati, torna sul rischio blackout nel penitenziario di Parma. "Il Provveditore regionale - afferma Mattiello - si è senz'altro fatto carico del problema adeguatamente segnalato dalla direzione dell'Istituto, ma non è dato sapere quanto tempo ci vorrà perché ciò avvenga. Non sono, a quanto pare, previste procedure d'urgenza, né l'intervento diretto da parte del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria: come io mi sarei aspettato, vista la delicatezza della situazione. A quanto mi risulta verrà applicata la normale procedura d'appalto". Il rischio di blackout del sistema, fa notare l'esponente del Pd, "aumenta prima di tutto lo stress del personale penitenziario, nello specifico il Gom, che deve essere pronto in ogni momento a sopperire con il controllo a vista, l'eventuale spegnimento delle telecamere, per tutta la durata del blackout stesso, ovviamente". "Mi chiedo se a questo punto non sia più opportuno spostare in altra struttura, di pari categoria, soggetti come Carminati. Se il trasferimento da Tolmezzo a Parma ha avuto come motivazione il bisogno di assicurare una più adeguata l'assistenza medica, credo che non sia un problema trovare un'altra struttura che possa assicurare la medesima condizione", conclude Mattiello. Massimo Carminati è stato trasferito dal carcere di Tolmezzo (Udine) a quello di Parma, sempre in regime di 41 bis, ovvero il carcere duro, il giorno di Natale. In quel penitenziario è detenuto anche Totò Riina Sarno (Uil-Pa): tante criticità a Parma e non solo "Nel carcere di Parma ci sono tante criticità e purtroppo negli anni sono rimaste inalterate ma non è nulla di nuovo sotto le stelle: il carcere spesso è veicolo di pubblicità e si parla tanto di emergenza ma si sottraggono fondi all' emergenza carceri, non si consentono nuove assunzioni, nel frattempo si aprono nuove strutture e questo in contraddizione con quanto anche in Parlamento si dice di voler fare". Lo afferma Eugenio Sarno, segretario della Uil-Pa penitenziari. Per Sarno non è opportuno puntare l'attenzione su Carminati detenuto nel carcere di Parma, come oggi è tornato a fare il deputato Pd Mattiello. "Tutti gli oltre 200 istituti penitenziari - spiega il sindacalista - sono nel merino della camorra, dunque focalizzare l'attenzione su un solo caso è sconveniente. In carcere ci sono 54 mila detenuti e solo 300 sono "vip", occorre dare attenzione a tutti, non visitare solo i più famosi". Detto ciò Sarno ammette che qualora nel carcere scatti il blackout, come avvenne una volta a Parma, tempo fa, la sorveglianza dei detenuti va fatta "a vista" dal personale penitenziario, "che è ben addestrato a qualsiasi eventualità". Capece (Sappe): il carcere di Parma non è a rischio "Il carcere di Parma, come altre strutture detentive, ha oggettive difficoltà strutturali che meriterebbero urgenti interventi di manutenzione da parte dell'Amministrazione Penitenziaria. Ma, e va detto con forza, questo non pregiudica le condizioni di sicurezza dell'Istituto e la dignità della detenzione dei ristretti". Lo afferma Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe. "A Parma, le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato", aggiunge Capece. "La Polizia Penitenziaria che lavora nel carcere di Parma - sottolinea il sindacalista - è formata da persone che nonostante l'insostenibile, pericoloso e stressante lavoro credono nella propria professione, che hanno valori radicati e un forte senso d'identità e d'orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano ogni giorno. Certo, urgenti interventi e adeguati stanziamenti di fondi sono necessari per garantire migliori condizioni di lavoro. E sarebbero utili l'impegno e le sollecitazioni dei parlamentari che periodicamente vengono in carcere a Parma, se solo avessero il tempo di visitare tutto il penitenziario e non si limitassero a visitare spesso solamente il reparto detentivo dei 41bis che ospita detenuti famosi ed eccellenti. Ma, ripeto, la sicurezza del carcere di Parma non è a rischio", conclude Capece. Padova: l'ultimo pranzo in carcere, l'amarezza dei detenuti di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 15 gennaio 2015 Autorità cittadine per la conclusione dell'esperienza di cucina al Due Palazzi. Il prefetto Impresa: "È un giorno triste, spero che qualcosa possa cambiare". "Penultimo pranzo", preparato e servito dai detenuti impegnati nel Progetto Cucine della cooperativa Giotto ieri alla casa di reclusione Due Palazzi. Da venerdì qualcosa cambierà all'interno delle cucine del carcere, che dopo undici anni non saranno più gestite dalla cooperativa ma dal carcere stesso. Una decisione presa dal ministero della Giustizia per quel che riguarda le dieci cooperative che operano in altrettanti carceri italiani, sicuramente non dovuta agli scarsi risultati, bensì al taglio del credito d'imposta del 34% per il 2015. La cucina del Due Palazzi, gestita dalla cooperativa Giotto, è stata infatti un fiore all'occhiello per la città, e non solo per il famosissimo panettone arrivato nelle tavole del Papa e di Obama, ma soprattutto per una valenza sociale, quella di insegnare un lavoro ai detenuti, che oltre a passare il difficile periodo di reclusione in maniera più serena, quando escono hanno una possibilità in più di reinserimento e una in meno di recidiva. I motivi, come ha spiegato ieri anche il direttore del Due Palazzi, Salvatore Pirruccio, andrebbero ricercati nella difficile situazione generale del nostro Paese. "I fondi sono venuti meno. Si tratta di una questione economica in linea con i tempi di crisi", ha detto Pirruccio, che ha fatto chiarezza su quali saranno i cambiamenti. "È un sostanziale cambio di datore di lavoro. Dalla gestione delle cooperative si passa a quella dell'amministrazione penitenziaria. I detenuti che lavoravano prima in cucina continueranno a fare il loro lavoro, verranno tagliati solo tre o quattro posti. A cambiare in maniera rilevante sarà invece il tariffario, che si abbasserà del 30%". Se dunque prima un detenuto, ovviamente in base alle ore di lavoro, prendeva tra gli 800 e i mille euro al mese, adesso ne prenderà tra i 560 e i 700. Ma nonostante la situazione preoccupi non poco i carcerati, impegnati anche negli altri settori gestiti dalla cooperativa, settori che per ora non sono coinvolti ma che comunque si sentono messi a repentaglio, il pranzo di ieri è stato gestito nel migliore dei modi. Presenti le massime autorità cittadine, dal prefetto Patrizia Impresa, all'assessore al Sociale Alessandra Brunetti, al direttore del carcere Salvatore Pirruccio al presidente della cooperativa Giotto Nicola Boscoletto, a tutti i maggiori esponenti delle forze delle forze dell'ordine e degli enti pubblici e privati che in questi hanno avuto a che fare con il carcere. "È triste pensare che una realtà come questa debba cessare", ha detto durante il pranzo il prefetto Impresa. "Io sono ancora speranzosa che qualcosa possa cambiare". La stessa speranza che hanno dichiarato di nutrire anche il direttore del carcere Pirruccio, il responsabile della cooperativa Giotto Boscoletto, ma soprattutto i detenuti, che uno a uno hanno esposto il proprio pensiero a riguardo. "Da tre anni e mezzo lavoro nella cucina e mi dispiace che questo rapporto finisca", ha detto Federico, ergastolano. "Qua mi hanno dato una fiducia che mai mi sarei aspettato". Lo stesso vale per Biagio, sardo, anche lui deve scontare l'ergastolo, e anche lui è stato accolto nel Progetto Cucine della cooperativa Giotto: "Sono amareggiato, il lavoro in cucina è stata l'esperienza più bella della mia vita, quella che mi ha ridato dignità come uomo". Sulmona (Aq): il Sindaco; la scuola allievi di Polizia penitenziaria non sarà soppressa di Claudio Lattanzio Il Centro, 15 gennaio 2015 La scuola allievi di Polizia penitenziaria di Sulmona non sarà soppressa. Lo ha annunciato il sindaco Peppino Ranalli, insieme al comandante del reparto di polizia penitenziaria della scuola, Roberto Rovello, e al segretario regionale del sindacato di categoria, Sappe, Giuseppe Ninu. "Nell'ottobre scorso, in nome della revisione della spesa, una circolare del ministero della Giustizia aveva annunciato l'avvio di un progetto sulle scuole di polizia penitenziaria italiane che prevedeva anche la soppressione di alcune sedi", ha detto Ranalli, "per questo ci siamo subito preoccupati che i tagli potessero riguardare anche la nostra scuola. Ho inviato una lettera al presidente della Regione, Luciano D'Alfonso, sollecitandone un interessamento che è stato immediato". I risultati sono arrivati nei giorni scorsi con la comunicazione venuta dal Ministero che ha rassicurato tutti sulle sorti della scuola di Fonte d'Amore ed anzi, come ha precisato il sindaco, "è stato chiesto un potenziamento delle attività della stessa scuola di polizia penitenziaria, ponendo mano ad un progetto di realizzazione di un eliporto, che avrà utilizzo anche per scopi di protezione civile". Soddisfatto anche il comandante del reparto di polizia penitenziaria della scuola. "Attualmente nell'istituto, si svolgono le attività del 169esimo corso per allievi di polizia penitenziaria", ha sottolineato il comandante Rovello. "Per marzo sono attesi gli allievi del corso successivo, in tutto si tratta di oltre un centinaio di allievi che risiederanno per alcuni mesi in questa città e quindi questa presenza è significativa per Sulmona ed è per questo che appare importante che tutti quanti facciano sinergia, in difesa della scuola". La stessa sinergia che Ninu ha auspicato a tutela del supercarcere di Sulmona. "Attualmente il comandante è in licenza per motivi personali", ha evidenziato Ninu, mentre il direttore appena incaricato, Sergio Romice, è solo part time. Il carcere più grande e importante d'Abruzzo ha bisogno di avere dirigenti a pieno titolo". Rimini: l'Ass. Papillon; il Comune non mette Garante detenuti in condizioni di lavorare di Andrea Polazzi www.newsrimini.it, 15 gennaio 2015 Il Garante delle persone private della libertà personale, l'avvocato Davide Grassi, è già punto di riferimento per i detenuti riminesi ed ha effettuato in poco tempo quattro visite ispettive ai Casetti. Lo rileva l'associazione Papillon che chiede però al comune di mettere il Garante nelle condizioni di lavorare. L'associazione rileva infatti che a sua disposizione ci sia una sola stanza da condividere all'interno dell'ufficio Urp e che, al momento, il Garante può vedere i famigliari dei detenuti solo il martedì mattina perché durante gli altri giorni la stanza (che non permette neppure il rispetto della privacy) è già occupata. Inoltre l'amministrazione riminese non avrebbe neppure adottato l'apposito regolamento "Il Garante dei detenuti - scrive l'associazione Papillon - è una figura istituzionale, se il Comune di Rimini aveva intenzione di istituire questa figura per farla funzionare doveva adeguarsi alla disciplina prevista che comprende un regolamento, una sede, una segreteria ed una e-mail dedicata." Inoltre si fa presente anche la necessità, regolamento alla mano, di garantire alla figura un'indennità ("come accade in tutti gli altri comuni"). "Il Comune - conclude la nota - dovrebbe avere più a cuore la figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e dovrebbe metterlo nelle condizioni di lavorare e non mortificarlo". Tolmezzo (Ud): traffico di droga in carcere, a giudizio un ex detenuto e suo fratello di Luana de Francisco Messaggero Veneto, 15 gennaio 2015 Accuse confermate per un ex detenuto e per suo fratello e prosciolto l'amico. Caduta intanto la tentata evasione. Lui impartiva ordini da dietro le sbarre e suo fratello obbediva da fuori. Droga, coltelli e, secondo l'iniziale ipotesi investigativa, anche due elicotteri per una fuga in grande stile. Era il gennaio del 2013 e la notizia della sventata evasione dal carcere di massima sicurezza di Tolmezzo aveva destato grande impressione in tutto il Friuli. Ieri, del caso si è tornato a parlare in tribunale. E visto che l'udienza preliminare celebrata davanti al gup Francesco Florit si è conclusa con due decreti di rinvio a giudizio, la vicenda è destinata a essere ulteriormente sviscerata a dibattimento. Nel processo al via dall'8 maggio, Maurizio Alfieri, 51 anni, di Cosenza, cioè il detenuto nel frattempo trasferito alla casa circondariale di Spoleto, e suo fratello Romolo Alfieri, detto Pino, 64, residente in provincia di Milano, risponderanno di concorso in spaccio di sostanze stupefacenti e porto d'armi o oggetti atti a offendere e, il solo Maurizio, anche di istigazione alla corruzione. Per il terzo imputato, Cosimo Damiano Alario, 51 anni compiuti proprio ieri, originario di Trani e residente nel milanese, accusato del solo concorso nella detenzione della droga, il giudice ha emesso invece sentenza di non doversi procedere. Due gli episodi di cessione di hascisc accertati dagli investigatori, entrambi attribuiti al fratello libero e che avrebbero poi dovuto essere consegnati a quello in carcere per il tramite di un agente della Polizia penitenziaria, che lo stesso detenuto riteneva di avere corrotto attraverso l'offerta di denaro (non meno di 500 euro per episodio). Le indagini, condotte dai carabinieri del Ros di Udine e sviluppate in collaborazione con il Comando della locale polizia penitenziaria, avevano permesso di sequestrare 122 grammi il 4 ottobre 2012 e un'altra campionatura di 19 grammi il successivo 17 dicembre. La merce arrivava dalla Lombardia ed era destinata allo spaccio all'interno del penitenziario. Nelle stesse occasioni erano stati intercettati anche alcuni coltelli a serramanico (quattro in tutto). Le manette erano scattate subito ai polsi di Romolo Alfieri, mentre per gli altri tre indagati l'arresto era stato differito. Per la riuscita dell'operazione ci si era serviti anche di un agente sotto copertura. In fase di indagini preliminari, tuttavia, la Procura aveva lasciato cadere l'ipotesi della tentata evasione, che gli inquirenti avevano formulato sulla base di alcune intercettazioni. Il piano, così come ricostruito, prevedeva il noleggio di uno o due elicotteri, a bordo dei quali alcuni complici avrebbero costretto i piloti a sorvolare il cortile della struttura, per prelevare Alfieri e un altro detenuto con una scaletta calata durante l'ora "d'aria" giornaliero. Alario era finito nei guai a causa della sua frequentazione con gli Alfieri e per una frase intercettata mentre si trovava a casa loro. Il sospetto era che si fosse offerto di aiutare economicamente il detenuto e per questo era finito a sua volta in cella. Nell'udienza di ieri, l'avvocato Lamberto Rongo, di Milano, ha valorizzato in particolare la seconda ordinanza con la quale il Riesame di Trieste, che già lo aveva scarcerato, nell'ottobre 2013 aveva ribadito l'estraneità indiziaria di Alario. Gli Alfieri sono difesi dall'avvocato Cinzia Valnegri, di Milano. Modena: "Il verdetto", due giorni di laboratorio teatrale con i detenuti del carcere www.modenatoday.it, 15 gennaio 2015 Seconda tappa del progetto del Teatro dei Venti che fa interagire carcere e città attraverso gli strumenti del Teatro, sabato 31 gennaio e domenica 1 febbraio presso la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia e la sede della compagnia a Modena. Si continua con un laboratorio di due giorni per attori, operatori e liberi cittadini con un lavoro che parte dalla vicenda di Sacco e Vanzetti, i due anarchici italiani ingiustamente arrestati e giustiziati negli Stati Uniti nei primi del 900. Il laboratorio è tenuto dal regista Stefano Tè, che da anni opera all'interno all'istituto penitenziario ed è stato autore di diverse regie con gli attori-detenuti, a partire da Frammenti (finalista Premio Scenario per Ustica 2007), Attraverso Caligola (presentato a Stanze di Teatro in Carcere 2011 e a Destini Incrociati Rassegna Nazionale di Teatro in Carcere 2012) fino a Sette Contro Tebe (Stanze di Teatro in carcere 2013). Chi è interessato a partecipare al laboratorio può fare riferimento ai seguenti giorni e orari e inviare le proprie domande di partecipazione entro il 23 gennaio per consentire l'autorizzazione all'ingresso nella Casa di Reclusione di Castelfranco. Importante: Per partecipare al Laboratorio è obbligatorio inviare una lettera motivazionale e fornire le proprie generalità per l'ingresso in carcere, scrivendo a comunicazione@teatrodeiventi.it. Scadenza invio domande di partecipazione 23 gennaio. Per attori, operatori e liberi cittadini la seconda tappa ha il costo di 65 €. Progetto realizzato in collaborazione con Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia e Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna. Pescara: corso di filatelia in carcere, consegnati gli attestati ai detenuti del San Donato www.pagineabruzzo.it, 15 gennaio 2015 Evadere, in senso figurato, attraverso i francobolli, ma anche approfondire la storia, i grandi del passato, la geografia. Questo il senso del Progetto Filatelia promosso dal Dipartimento amministrazione penitenziaria, dall'Unione stampe filateliche italiane e da Poste Italiane, allestito nella Casa circondariale San Donato di Pescara che oggi pomeriggio (martedì 13 gennaio) ha visto la consegna degli attestati di partecipazione ai detenuti coinvolti. La cerimonia ha visto la partecipazione del direttore della Casa circondariale, Franco Pettinelli, della presidente di Poste italiane, Luisa Todini, del prefetto di Pescara, Vincenzo D'Antuono, del responsabile Filatelia nazionale di Poste italiane, Pietro La Bruna, del sindaco di Pescara, Marco Alessandrini, della dirigente del Provveditorato regionale del ministero della Giustizia, Fiammetta Trisi, del direttore del corso, Augusto Ferrara, della direttrice di Poste italiane di Pescara, Angela Zappacosta. Il progetto, attivo dal giugno 2013, ha visto il coinvolgimento di un gruppo di sei detenuti che sono arrivati, quest'anno, a dieci unità. Tra loro anche alcuni dei frequentanti i corsi dell'Istituto tecnico Aterno - Manthoné che nella struttura ha istituito due classi regolari di ragionieri programmatori. "È un modo per evadere, è una finestra sul mondo, in questo modo si studia la storia, la geografia, i grandi del passato", ha sottolineato la neo presidente di Poste italiane, Luisa Todini. "La filatelia rappresenta il corso della storia e un momento di riflessione per se stessi", ha aggiunto il prefetto di Pescara Nicola D'Antuono. Il progetto ha lo scopo di sviluppare la riflessione, l'osservazione e le conoscenze dei partecipanti attraverso un processo di educazione al collezionismo. A conclusione della cerimonia sono stati consegnati oltre gli attestati di partecipazione anche i diplomi relativi alla partecipazione alla 122a edizione diVeronaFil , avvenuto lo scorso maggio, a cui la casa circondariale di Pescara ha aderito inviando, per posta, alcune raccolte di francobolli selezionate dai detenuti partecipanti all'iniziativa. Milano: a Bollate appuntamento tour "Evasione Totale. Un'ora di speranza in musica" www.primapress.it, 15 gennaio 2015 Dopo le forti emozioni nelle date del Tour che si sono svolte nella Casa Circondariale di Sollicciano (Fi) e nel carcere di Monza, dove sono stati portati i doni per la festa della Befana ai figli della Polizia Penitenziaria, ecco la terza tappa di "Evasione Totale - un' ora di speranza in musica", che si terrà venerdì 16 gennaio al carcere di Bollate (Mi): anche in questa occasione verranno consegnati regali ai figli dei detenuti. La casa circondariale di Bollate è un carcere "modello": sette reparti di cui uno femminile, 1.220 detenuti di cui 60 donne, 150 detenuti che lavorano all'esterno del carcere, 277 ammessi a misure alternative come la semilibertà e l'affidamento ordinario, molti che partecipano a corsi di formazione professionale in carcere di cui alcuni in aziende e cooperative sociali. L'immagine e la voce ufficiale del progetto è affidata al cantante Hervè Olivetti, che con il suo brano "Diavolo di un angelo", attualmente in radio e disponibile negli store digitali, contribuisce concretamente, attraverso i proventi relativi alla vendita del brano, all'acquisizione di materiale utile all'attività di formazione dei detenuti finalizzata all'inserimento lavorativo. Con lui, ad animare l'incontro, daranno un loro prezioso contributo artistico Francesco Anania, conduttore radiofonico e televisivo, Valerio Mainardi in arte Mago Valery con i suoi giochi di prestigio, il giovane cantautore Giovanni Vacchino, i maestri Luciano Fraita, che con la sua tromba intratterrà i bambini con gag e giochi, e il pianista Corrado Neri e il Dj set Mario Catalano. Questo il link al video del brano "Diavolo di un angelo". Per raggiungere questo obiettivo, appunto, è stata scelta come protagonista la musica, utilizzata come linguaggio universale e occasione per favorire la comunicazione, l'aggregazione e l'integrazione fra tutti gli addetti ai lavori che ruotano attorno ai penitenziari italiani: associazioni, volontari, agenti di polizia penitenziaria ed educatori. Sarà presente il Sottosegretario alla giustizia del Governo Cosimo Ferri.A capo dell'iniziativa ci sono il Presidente dell'associazione L'Arte di Apoxiomeno nonché Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, Orazio Anania, un uomo da sempre sensibile all'impegno sociale, e l'Associazione Les (associazione no profit che si occupa di tutte le problematiche relative alla sicurezza) presieduta dell'avvocato romano Eugenio Pini. Immigrazione: chiude il Cie di Torino. Chiamparino: "Vengano dismessi ovunque" di Damiano Aliprandi Il Garantista, 15 gennaio 2015 Il Centro di Identificazione ed Espulsione di Torino verrà finalmente chiuso. E la regione Piemonte si impegna a fare pressione al Parlamento affinché il provvedimento venga esteso a tutto il territorio italiano. Il consiglio regionale ha approvato una mozione presentata da Sel che chiede la chiusura del Cie di corso Brunelleschi, a Torino. "I Cie - sottolinea il capogruppo di Sel, Marco Grimaldi, primo firmatario del provvedimento - si sono dimostrati nel corso del tempo inefficaci, fallimentari e dispendiosi. Ma questo è il meno rispetto alle gravissime violazioni dei diritti umani prodotte in questi luoghi. Costringere a una detenzione identica, se non peggiore di quella carceraria, persone che non hanno commesso reato, lasciarle nell'incertezza rispetto ai tempi di trattenimento e abbandonarle in condizioni sanitarie e abitative spesso ai limiti dell'umano, deve finire al più presto". Con la mozione, il consiglio regionale del Piemonte impegna la giunta a "chiedere ufficialmente al Governo la chiusura del Cie di corso Brunelleschi nel più breve tempo possibile". E ancora, a "invitare il Parlamento a prevedere una nuova legislazione che abroghi la legge Bossi-Fini", e a sancire che "ogni forma di limitazione della libertà personale degli stranieri deve essere deve spettare al solo giudice togato, e non più al giudice di pace". Esprime soddisfazione anche Sergio Chiamparino, il presidente della regione Piemonte: "Sono soddisfatto della decisione del consiglio regionale - afferma Chiamparino - e siamo impegnati a realizzarla interloquendo con le autorità che hanno la competenza in materia, a cominciare dal prefetto e dal ministero dell'Interno". E aggiunge: "Si tratta di una decisione che di fatto prende atto di una situazione che si era già determinata, i Cie senza dubbio appartengono a un'altra fase della gestione dei flussi migratori. Con la mozione di oggi prendiamo semplicemente atto di quanto è sotto gli occhi di tutti. Si tratta ora, anche in questo campo, di pensare a nuove modalità che siano più adatte alla gestione presente e futura del fenomeno". Il Cie in questione, ricordiamo, fu oggetto di una visita effettuata dal deputato vendoliano Giorgio Airaudo assieme al consigliere comunale di Torino Michele Curto e il consigliere regionale piemontese Marco Grimaldi. Durante la visita avevano potuto constatare il degrado e violazione dei diritti umani: gli extracomunitari dormivano con i cappotti perché mancava il riscaldamento e non potevano lavarsi a causa della mancanza dell'acqua calda. L'inutilità e il degrado del Cie di Torino fu denunciato anche dal senatore Luigi Manconi in una ispezione risalente a febbraio scorso, cui avevano partecipato anche i parlamentari democratici Stefano Esposito e Miguel Gotor. Al termine della visita lo stesso Manconi definì il Cie "una struttura fallimentare se si guarda lo scopo per cui è stata creata". Ma è una storia a lieto fine: la struttura sarà chiusa. Francia: carceri "speciali" per i musulmani… ma c'è chi li vorrebbe anche in Italia di Damiano Aliprandi Il Garantista, 15 gennaio 2015 Anche in Italia c'è il rischio che si diffonda questa convinzione che solo isolando si contrastino le idee jihadiste. Ma il solo modo è migliorare le condizioni dei detenuti. Prigioni speciali per i detenuti musulmani "radicalizzati", onde evitare il rischio del proselitismo all'interno delle prigioni. È ciò che ha annunciato il primo ministro francese Manuel Valls, davanti all'Assemblea nazionale: "Entro la fine dell'anno creeremo ali specifiche nelle prigioni per i detenuti radicalizzati". Gli fa eco il capo dell'antiterrorismo Ue, Gilles de Kerchove, lanciando l'allarme; "Non possiamo prevenire nuovi attacchi al cento per cento", aggiungendo che la soluzione non può essere quella di imprigionare normalmente i cosiddetti "foreign fighter" perché le prigioni "sono incubatori di una massiccia radicalizzazione". Del resto lo ha dimostrato anche la vicenda di uno dei tre terroristi francesi che hanno sconvolto Parigi la scorsa settimana: prima di entrare in prigione, il franco-algerino Cherif Kouachi nutriva forse qualche simpatia per la causa islamica, ma non era certo organico al peggiore settarismo. Al contrario: per stile di vita, interessi e compagnie, era molto integrato nella società francese. È proprio in prigione, invece, tra il 2008 e il 2009, che Cherif incontra il classico "cattivo maestro". Viene indottrinato e reclutato nel carcere di Flcury-Mérogis: è lì che avviene l'incontro che gli cambia la vita. Perché la cella accanto alla sua è abitata da Djamel Beghal, teorico della jihad. Lo stesso che successivamente convertirà anche Amedy Coulibaly, il terzo attentatore di Parigi. Ma la storia di quest'ultimo è esemplare perché dimostrerebbe, ancora una volta, che l'istituzione carceraria produce terrorismo a causa del suo degrado. L'attentatore Amedy Coulibaly ha partecipato ad un documentario trasmesso nel 2009 da Envoyé special su Frane e 2 sulla vita carceraria. Nel filmato, Coulibaly e altri quattro detenuti denunciano le condizioni di detenzione a Flcury-Mérogis, la prigione più grande d'Europa. Mentre era in carcere con l'accusa di rapina, Coulibaly aveva introdotto una videocamera all'interno e con gli altri aveva girato in segreto la vita quotidiana per denunciare le condizioni scarse di igiene, testimoniare il sovraffollamento delle celle e mostrare "le viscide pareti" delle docce, come riporta Le Monde. Da questo documentario è nato un libro, Reality-Taule audelà des barreaux [Reality-Gattabuia, al di là delle sbarre). L'autore della strage a Porte de Vincennes appare di schiena sulla copertina del libro nel quale viene fuori una realtà carceraria fatta di droga, denaro, regolamenti di conti, suicidi e videogiochi. C'è il rischio che l'idea francese venga adottata anche in Italia? Come abbiamo già denunciato su questa pagina, esiste già una carcerazione "speciale" per i detenuti sospettati di terrorismo, ma secondo gli addetti ai lavori non basterebbe. A denunciarlo è il segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (il Sappe) Donato Capece. Egli ricorda come: "Le indagini condotte negli istituti penitenziari di alcuni paesi europei tra cui Italia, Francia e Regno Unito hanno rivelato l'esistenza di allarmanti fenomeni legati al radicalismo islamico, che anche noi come primo Sindacato della polizia penitenziaria abbiamo denunciato in diverse occasioni. Tra questi fenomeni, vi è la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, i quali, pur non avendo manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell'entrata in carcere, sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l'influenza di altri detenuti già radicalizzati. Un po' come accadde ai tempi del terrorismo, quando la consistente detenzione di molti terroristi - in particolare delle Brigate Rosse - portò delinquenti comuni ristretti in carcere ad "abbracciare" la lotta armata in carcere". Il Sappe evidenzia infine che "nel periodo giugno-settembre 2004 l'ufficio per l'attività ispettiva e del controllo dell'amministrazione penitenziaria ha effettuato un primo monitoraggio, teso a verificare la possibilità e le modalità d'incontro, sia di natura casuale (rientrante nella normale vita d'istituto) sia quelli finalizzati alla professione della fede religiosa, costituzionalmente garantita, il cui esito ha permesso di venire a conoscenza che il carcere rimarcava fedelmente la realtà geografica strutturale esterna. E le regioni con una maggiore concentrazione di ristretti musulmani sembravano essere quelle del Nord e la Campania o comunque altre località le cui realtà esterne rilevavano una forte presenza della comunità islamica rappresentata da centri islamici e moschee". Nel frattempo qualcosa si muove. Il dipartimento di giustizia del ministero guidato da Andrea Orlando, ha inviato un documento, firmato dal commissario Gaetano Diglio, agli agenti penitenziari -in particolare quelli operanti nel carcere napoletano di Poggioreale - con cui si invita "a prestare massima attenzione alla circolazione di materiale jihadista, tipo cd, libri e riviste". Pakistan: altri due detenuti impiccati, dopo fine moratoria eseguite 19 condanne a morte Ansa, 15 gennaio 2015 Due detenuti pachistani condannati a morte per terrorismo sono stati impiccati stamane nelle prigioni di Karachi e Lahore. Lo riferiscono i media pachistani. Uno è militante di un gruppo islamico, Mohammad Saeed (Maulvi), condannato da un tribunale antiterrorismo di Karachi nel 2011 per l'uccisione di un poliziotto e del suo giovane figlio. L'altro è Zahid Hussain (Zahidu) che si trovava nel braccio della morte dal 2004 per l'omicidio di un altro agente nella città di Multan. Finora 19 presunti terroristi pachistani sono saliti al patibolo dopo la decisione del premier Nawaz Sharif di riprendere le esecuzioni capitali in seguito alla strage della scuola di Peshawar del 16 dicembre. Stati Uniti: bus detenuti precipita da cavalcavia, investito dal treno, 10 morti e 5 feriti Ansa, 15 gennaio 2015 Le vittime sono almeno 10, cinque i feriti. Il bus trasportava 12 detenuti e tre guardie. L'incidente è avvenuto nei pressi della città texana di Odessa. Tragico incidente in Texas dove almeno dieci persone sono rimaste uccise quando un autobus con 12 detenuti e tre guardie è precipitato da un cavalcavia finendo sui binari ed è stato in seguito investito da un treno. Lo riferiscono i media americani. Secondo le prime informazioni, ci sono anche almeno cinque feriti. La dinamica dell'incidente è ancora poco chiara. Secondo il portavoce del Texas Department of Criminal Justice, Jason Clark, le ipotesi sono che il treno abbia colpito l'autobus al momento dello schianto sui binari, oppure che lo scontro sia avvenuto mentre il mezzo si trovava fermo. L'incidente è avvenuto nei pressi della città texana di Odessa, mentre il bus era in viaggio da Abilene verso El Paso. Stati Uniti: a New York abolita la cella d'isolamento per i detenuti sotto i 21 anni Adnkronos, 15 gennaio 2015 Basta con le celle d'isolamento per i detenuti sotto i 21 anni. Lo ha deciso la commissione di supervisione delle carceri di New York che sta rivedendo la situazione nella famigerata prigione di Rikers Island, la seconda più grande degli Stati Uniti. A quanto scrive il new York Times, che ha pubblicato la notizia, fra gli 11mila detenuti di Rikers Island vi sono 497 detenuti fra i 19 e i 21 anni, e fra questi ben 103 sono rinchiusi in celle d'isolamento. Almeno 4mila carcerati di questo istituto di pena soffrono di problemi mentali. Il nuovo regime dovrebbe entrare in vigore nel gennaio 2016, secondo il piano tracciato dalla commissione. Il procuratore di Manhattan, Preet Bharara, che ha stilato il rapporto, parla di uso "eccessivo e inappropriato" dell'isolamento. L'avvio del nuovo regime non sarà tuttavia semplice: il piano prevede infatti nuove assunzioni fra guardie carcerarie e personale medico, per le quali bisognerà trovare i fondi necessarie. e le guardie carcerarie sono già sul piede di guerra. Norman Seabrook, leader del loro sindacato, afferma che le misure mettono in pericolo i secondini e minaccia di fare causa ogni volta che uno di loro verrà aggredito. I detenuti in cella d'isolamento, che vengono così puniti per violazioni del regolamento, rimangono chiusi per 23 ore. È prevista una sola ora d'aria, con le manette ai polsi fissate a delle gabbie. La revisione della situazione a Rikers Island era una delle promesse del sindaco di New York Bill De Blasio. La commissione aveva già deciso di destinare celle ai transessuali con aspetto femminile. Fino ad allora l'unico modo per evitare di stare con gli altri detenuti era la cella d'isolamento. Algeria: Lega per i diritti umani denuncia condanna a morte per detenuto in Iraq Nova, 15 gennaio 2015 Un detenuto algerino rinchiuso dal 2004 nella prigione irachena di El Rassassi 4 è stato condannato a morte e potrebbe essere giustiziato in qualsiasi momento. Lo ha denunciato oggi la Lega algerina per la difesa dei diritti umani (Laddh) in un comunicato in cui aggiunge che un altro detenuto è già stato giustiziato nell'ottobre 2012 seguendo la stessa procedura. La Lega sottolinea come il processo nei confronti del condannato a morte si sia svolto "nel totale disprezzo della legge e degli obblighi dell'Iraq rispetto alla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici". La Lega esprime profonda preoccupazione per il numero di esecuzioni in Iraq dal ripristino della pena di morte nel 2005, e ribadisce la sua ferma opposizione alla pena di morte per tutti i reati e in tutte le circostanze. Arabia Saudita: domani altre 50 frustate al blogger accusato di offese all'islam Adnkronos, 15 gennaio 2015 Raif Badawi, il blogger e attivista saudita condannato a 10 anni di carcere e mille frustate per aver insultato l'Islam e aver violato le leggi sulle comunicazioni elettroniche, sarà nuovamente fustigato domani a Gedda al termine della preghiera del venerdì. Per fermare l'azione, Amnesty International ha chiesto al governo britannico di fare pressioni su quello saudita. "Le pressioni internazionali sono fondamentali", ha detto la moglie di Badawi, Ensaf Haidar, fuggita in Canada con i loro tre figli, evidenziando le "precarie condizioni di salute" del marito. La prima tranche di cinquanta frustate gli era stata proprio inflitta una settimana fa a Gedda, sempre dopo la preghiera del venerdì, e domani ne riceverà altre 50, come deciso da un tribunale saudita lo scorso 5 novembre. Lo stesso accadrà per le prossime 19 settimane. Badawi, 30 anni, era stato arrestato il 17 giugno 2012 e da allora si trova in un carcere di Gedda. Le autorità hanno anche messo al bando il sito web da lui creato, Liberal Saudi Network, ma online sono circa 14mila le persone che hanno firmato una petizione per chiedere al re saudita Abdullah di graziare Badawi e di fermare quella che è stata definita "una forma medievale di tortura". Oltre a essere stato condannato a 10 anni di carcere e a mille frustate, il blogger deve anche pagare una multa di un milione di rial sauditi, pari a circa 200mila euro. Il 28 maggio scorso gli è anche stato imposto il divieto per 10 anni, alla fine della condanna, di lasciare il Paese e quello, della stessa durata, di svolgere qualsiasi tipo di attività nel campo dei media. Egitto: ministero condannato a pagare multa per caso detenuto con braccio amputato Nova, 15 gennaio 2015 Il tribunale amministrativo di Alessandria ha condannato il ministro dell'Interno, Mohamed Ibrahim, a pagare una multa di 10.500 dollari per il caso di un prigioniero cui è stato amputato un braccio per negligenza. Lo riferiscono i media di stato egiziani. Paramedici della prigione di Damanhur hanno iniettato al prigioniero una dose errata di medicinale che ha portato all'amputazione del braccio. L'uomo sarebbe stato lasciato malato in cella per due giorni.