Giustizia: restringere le libertà per difendere la libertà… verso un Patriot Act europeo? di Luciano Tirinnanzi Panorama, 14 gennaio 2015 È possibile impedire nuovi attentati con il solo codice penale? I potenti del globo si interrogano sugli effetti (paradossali) di un Patriot Act europeo. Non c'è niente di peggio per le leggi di uno Stato che, in tempi di grande incertezza e di solidarietà emotiva, queste ondate di sentimenti travolgano la ragione e si trasformino in procedure eccezionali e d'urgenza, che finiscono poi per prevalere sul diritto comune. Noi italiani conosciamo bene questo meccanismo e di leggi, o meglio di decreti legge, ne abusiamo da tempo, proprio in ragione delle "condizioni di eccezionalità" cui la mala politica e la crisi economica ci hanno costretto e abituato. Ma questa volta stiamo parlando di un altro Paese, la Francia, culla tanto del diritto moderno quanto dell'illuminismo, e a lanciare il dibattito sono gli stessi cittadini francesi che, dai megafoni autorevoli della Francia intellettuale, che vanno da Le Monde a Le Figaro, pongono oggi la questione al centro del dibattito. Dopo gli attentati di Charlie Hebdo, infatti, sui principali media francesi impazza ormai un dibattito feroce se adottare o meno una sorta di "Patriot Act" transalpino, ovvero una legislazione di emergenza volta a frenare la deriva terroristica che ha investito la Francia e che ora minaccia di espandersi anche nel resto d'Europa. Come noto, negli Usa subito dopo gli attacchi terroristici al World Trade Center, il 26 Ottobre 2001 il presidente George W. Bush decise di proporre un pacchetto di misure atte a combattere il terrorismo internazionale (poi approvate per decreto il 13 novembre successivo) che emendavano una serie di libertà fondamentali per i cittadini americani e rafforzavano notevolmente il potere delle agenzie di intelligence americane. Conosciamo bene le conseguenze di questa politica e, a giudicare dai risultati, non possiamo essere molto soddisfatti del potenziamento dei poteri del governo federale degli Stati Uniti che, dall'Fbi alla Cia attraverso la longa manus dell'Nsa, ha espanso la propria azione fino a diventare un Leviatano capace di intercettare persino le telefonate della Cancelliera Angela Merkel. Come scrive oggi Le Monde, con il Patriot Act "le commissioni militari sono divenute giurisdizioni, e nonostante la resistenza della Corte Suprema, esse hanno violato apertamente il diritto internazionale. I prigionieri di Guantánamo sono detenuti e torturati a Cuba a discrezione dei servizi americani, a margine di tutte le minime garanzie di legge degli Stati Uniti. L'ombra di questo diritto eccezionale è poi giunta in Europa". Il Patriot Act doveva decadere nel 2005, ma è stato esteso e poi reso permanente nel 2006 nonostante le promesse di Barack Obama che, in seguito al caso Snowden del 2013, promise una sua modifica. Dunque, a tutt'oggi è ancora in essere. In Francia, dove non si arresta la polemica sulla gestione del caso Charlie da parte dell'intelligence, il parlamento ha già varato una legge in materia lo scorso anno (è stata approvata il 13 novembre 2014). Si tratta di norme che prevedono, ad esempio, il divieto di lasciare il suolo francese per i sospetti jihadisti e che hanno istituito il reato di "iniziativa terrorista individuale". Eppure, come sottolinea ancora Le Monde, tali decreti non sono ancora stati tutti firmati ed è chiaro che il nuovo testo "non impedisce le partenze per la Siria e non soddisfa le caratteristiche del delitto di Parigi", come dimostra la cronaca degli ultimi giorni. Se è vero che in Francia testi anti-terrorismo si sono collezionati sin dal 1986 è altrettanto evidente, però, che le leggi da sole nulla possono. Ecco perciò che oggi è sterile cercare una ragione della fallita prevenzione del terrorismo nei disservizi dell'intelligence transalpina. L'intelligence, per quanto colpevole, appare più come un capro espiatorio che non altro. E a dimostrarlo è ancora il comportamento della politica francese che, a fine 2014, sembrava assai più concentrata nelle lotte intestine per la spartizione di poteri e deleghe, che non interessata a come prevenire le minacce esterne alla République. Ne siano prova le due querelle sorte all'interno della Delegation Parlamentaire au Renseignement (Dpr), la delegazione parlamentare per l'intelligence creata per iniziativa del presidente Nicolas Sarkozy nel 2007 e che corrisponde all'incirca al nostro Copasir (la Commissione Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica deputata al controllo dell'intelligence italiana). Una è relativa alla possibile creazione di un nuovo servizio d'intelligence finanziaria da porre alle dipendenze del Ministero delle Finanze, osteggiata da molti per via della parcellizzazione delle risorse investigative che ciò comporterebbe e sulla eccessiva autonomia di un singolo ministero. L'altra ha riguardato l'Ump di Sarkozy e il Partito Socialista, per la scelta di chi debba occupare il vertice del Dpr. Nel mezzo, ci sono finiti l'ex primo ministro ai tempi di Chirac, Jean-Pierre Raffarin, e il socialista Jean-Jacques Urvoas (Raffarin è già presidente della Commissione Esteri, Difesa e Forze Armate e membro del Dpr). Ma questa è solo una goccia nel mare delle lotte di potere in corso in Francia, destinata a durare fino alle elezioni presidenziali del 2016. Ciò detto, secondo gli addetti ai lavori del gotha europeo, la soluzione più a portata di mano è al momento un'ulteriore restrizione delle libertà dei cittadini europei da cui discenderebbero, tanto per fare un esempio, le paventate ipotesi di limitazione degli Accordi di Schengen per la libera circolazione delle persone. Insomma, i potenti di Francia e d'Europa stanno ragionando in queste ore se mettere in campo una serie di decisioni forti contro il terrorismo, che potrebbero ledere i nostri diritti inalienabili o, quantomeno, limitarli. Viene da chiedersi se questo sacrificio sia giustificabile e se davvero i nostri governanti hanno chiara la direzione che l'Unione Europea vuole intraprendere in materia di sicurezza. Forse però le domande sono altre. È possibile impedire nuovi attentati con i soli strumenti normativi e il codice penale? È utile intercettare tutto e tutti, se poi queste informazioni non vengono tradotte in atti concreti e i risultati sono diversi dalle aspettative? Una delle più tangibili conseguenze del Patriot Act americano, sinora, è stata una serie indiscriminata d'indagini invasive su singoli cittadini americani e sulle transazioni economiche, che hanno dato come risultato informazioni poco o nulla riguardanti il terrorismo: solo nel 2013, delle 11.129 richieste di indagine con questo strumento legislativo, solo 51 erano relative a sospetti terroristi, mentre la maggior parte riguardavano reati connessi con la droga o finanziari. Questo tuttavia non ha impedito agli attentatori di Boston di provocare morte e panico alla maratona, e forse non avrebbe impedito ai fratelli Kouachi di uccidere indiscriminatamente. Un acceleratore di queste soluzioni drastiche dei legislatori europei potrebbe essere costituito da un maggiore impegno della coalizione internazionale in Iraq e Siria, dove la situazione resta esplosiva e dove lo Stato Islamico è divenuto ormai una calamita per i terroristi radicali che vogliono portare avanti una guerra totale contro l'Occidente. In Siria e Iraq, le tensioni etnico-religiose vedono un sostanziale stallo nei combattimenti e le parti in causa non riescono a prevalere l'una sull'altra. Ma questo non fa che alimentare un caos e un'incertezza che si propagano ben oltre quei confini. Al momento, in seno alla comunità internazionale nessuno parla ancora d'ingaggiare un conflitto aperto in questi due teatri di guerra, e siamo al punto in cui tanto la Nato, quanto l'Onu e l'Ue preferiscono restare a guardare cosa succede, lasciando che la tragedia si consumi lentamente tra le macerie di quella che fu la Siria e le acque tinte di rosso sangue della Mesopotamia. Ma la guerra, se non lo si fosse capito, è già arrivata in Europa. Giustizia: intervista a Stefano Rodotà "le leggi speciali sono inutili sui diritti non si tratta" di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2015 C'è tutto d'indicibile in quello che è accaduto a Parigi: la violenza, la paura, il pericolo, il dolore. Eppure tutto deve restare dicibile. Perché? Stefano Rodotà risponde così: "Per salvare la democrazia non si può perdere la democrazia". I diritti non sono se non assoluti e sempre garantiti: il problema - e non è questione da poco - sorge quando i diritti sembrano trovarsi in contraddizione, quando affermarne uno (la sicurezza) rischia di negarne un altro (la libertà). Professore, in questi giorni qualcuno ha sostenuto che la libertà di manifestazione del pensiero ha dei limiti… E molti altri hanno detto che si devono accettare anche le manifestazioni estreme di libertà di pensiero: è una tesi terribilmente impegnativa, implica un'assoluta coerenza nell'applicazione. Allora vorrei far notare che al corteo di Parigi c'era anche Vicktor Orban, il primo ministro di un Paese - l'Ungheria - che ha represso in modo radicale la libertà di pensiero. E l'Unione europea non ha usato i poteri che le sono attribuiti da Maastricht per intervenire. Voglio dire: non basta affermare il primato delle libertà, bisogna trarne una serie di conseguenze. I diritti non sono a senso unico, secondo le convenienze. Un limite è costituito dai reati d'opinione: la più recente discussione riguarda il negazionismo… Molti in Italia - tra storici e giuristi - si sono opposti a che il negazionismo fosse considerato un reato; in altri Paesi è stato previsto come tale. Ho più volte spiegato le ragioni della mia contrarietà. Però è ovvio che se un fatto costituisce reato questo è certamente un limite: se ci sono reati, vanno perseguiti. E dunque se c'è apologia del terrorismo, bisogna procedere di conseguenza. Il diritto alla manifestazione del pensiero però deve essere garantito sempre e nei confronti di tutti, non può essere applicato a intermittenza, con diversi pesi e misure. Sarebbe rischioso, alla luce del conflitto che si è aperto. Siamo in "guerra"? È una parola sbagliata, che conduce direttamente alla tesi dello scontro di civiltà. C'è un problema che riguarda situazioni specifiche: l'orrore di Boko Haram, le aggressioni di al Qaeda, le violenze omicide dell'Isis. Non esiste in astratto una guerra tra democrazia e fondamentalismo. Se si afferma che siamo in guerra, le tutele che riguardano i diritti possono essere messe in discussione. E allora ci troviamo su un terreno scivoloso e pericoloso. Dopo l'11 settembre presiedeva il gruppo dei garanti per il diritto alla riservatezza della Ue… Ho negoziato duramente con gli Stati Uniti per impedire che una serie di diritti dei cittadini europei - per esempio quelli riguardanti la raccolta dei dati personali dei passeggeri negli aeroporti - fossero tanto limitati come il governo americano richiedeva. Nel febbraio 2002 l'American civil liberty union mandò una lettera alle istituzioni governative Usa dicendo che non si poteva chiedere ai cittadini europei di adeguarsi alle norme restrittive che l'America voleva imporre. E anzi sosteneva che loro avrebbero dovuto seguire le indicazioni di tutela dei diritti che venivano dall'Europa. La democrazia vince quando si afferma completamente come tale. "Per salvare la democrazia non dobbiamo perdere la democrazia": il dibattito si è posto negli anni di piombo, quando si scelse la strada delle leggi speciali… Ai tempi del decreto sul fermo di polizia - uno dei "decreti Cossiga" - ero in Parlamento: votai contro, quando il Pci votò per la fiducia al governo. Riuscimmo a far passare un emendamento che prevedeva per il governo l'obbligo di relazionare sull'efficacia di queste leggi ogni sei mesi. Da quelle relazioni venne fuori che il fermo di polizia non serviva a nulla. Servì, contro i brigatisti, l'isolamento politico, così come fu fondamentale la riorganizzazione delle forze di polizia. La riduzione dei diritti è una risposta facile, che apparentemente rassicura, ma indebolisce la democrazia e non dà strumenti di lotta. Allora come oggi le leggi speciali non servono. Adesso è fondamentale capire se l'organizzazione per il controllo e la prevenzione del terrorismo è adeguata alla situazione. La risposta sembra negativa: è su questo che bisogna agire, ad esempio con un vero coordinamento tra i servizi di sicurezza dei diversi Paesi. È favorevole alla sospensione di Schengen? No. E bene ha fatto il ministro Gentiloni a dire subito che non era d'accordo: ora si è aggiunta anche Angela Merkel. L'Europa non può tornare alle divisioni, negando la libertà di circolazione sul territorio. Sarebbe un atto contro la possibilità di rafforzare il patto tra gli Stati. Tra l'altro l'Italia è entrata tardi negli accordi di Schengen perché non aveva una legge sulla privacy. Da questo non si può tornare indietro. I diritti sono più forti della paura? Certo. E la tutela dei diritti è l'unico fattore di unificazione dei Paesi e di riconciliazione dei cittadini con le istituzioni. È molto più facile prospettare misure straordinarie di pubblica sicurezza. Ma è sempre stata una risposta perdente: i diritti non sono in contrasto con l'efficienza organizzativa. E non sono negoziabili. Giustizia: Orlando "basta populismo penale, i reati minori spesso vanno in prescrizione" di Gigi Di Fiore Il Mattino, 14 gennaio 2015 "Basta con il populismo penale", dice con toni pacati il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. È al convegno napoletano sull'assistenza sanitaria ai detenuti, organizzato dalla comunità Sant'Egidio nel carcere di Poggioreale. E l'occasione diventa spunto ideale, per spiegare gli orientamenti del governo sulle riforme giudiziarie avviate negli ultimi mesi. Dice il ministro, sollecitando più adesioni sulla possibilità di archiviare d'ufficio i fascicoli aperti su reati minori: "Va costruita un'alleanza tra espressioni della giurisdizione che hanno più a cuore l'esigenza di fronteggiare con meno timidezza un populismo penale che ha diminuito, invece che aumentato, la sicurezza". Con chi ce l'ha il ministro? Con chi ha criticato le sue proposte "per finalità propagandistiche ed esigenze elettorali a breve termine". Ma anche con chi ha coniugato l'equazione della riforma ipotizzata con una depenalizzazione di fatto, che metterebbe in libertà i delinquenti. Come stanno le cose secondo il ministro? Spiega Orlando: "Siamo intervenuti con leggi delega al governo sulle intercettazioni e su alcuni diritti fondamentali. Spesso le reazioni sono state di natura isterica. Si è prevista l'archiviazione per reati minori, fornendo uno strumento di deflazione. Di fronte a troppa roba, ad eccessivi carichi di lavoro, si istruiscono i fascicoli più importanti. Gli altri vanno in prescrizione, per questo noi diamo uno strumento formale di archiviazione, tutelando la vittima che può opporsi". Non c'è solo la deflazione sui reati più piccoli, ma anche la riforma del sistema di prescrizione tra i temi più contrastati nelle ultime settimane. Il ragionamento del ministro parte dal sistema giudiziario italiano che prevede tre gradi di giudizio, ricordando che precedenti riforme avevano aumentato le pene per reati minori, collegandovi un periodo di prescrizione più lungo. Commenta il ministro: "Di fatto, si è creata una giustizia di classe, che penalizza i più deboli, da qui l'esigenza di rivedere il sistema di prescrizione in maniera complessiva". Ci sono anche le norme "svuota carceri" nell'intervento del ministro. Una riforma approvata il mese scorso dalla Camera e da discutere in Senato in terza lettura. Interviene sui detenuti in attesa di giudizio. Orlando fornisce i dati: l'oscillazione riguarda 12484 detenuti nel dicembre 2012, diventati 9875 nel 2014, che attendono in carcere il processo di primo grado. E aggiunge: "Dobbiamo incidere su un sistema che deve raggiungere il suo equilibrio. Abbiamo notato un cambiamento della sensibilità della magistratura sulla custodia cautelare". Le riforme annunciate proseguono il loro percorso: a inizio febbraio, il Parlamento approverà la riforma della responsabilità civile dei magistrati. Restano aperti i confronti sulle possibili estensioni di strumenti repressivi, previsti per le associazioni mafiose, ad altre vicende. Il dibattito sulle misure più adatte a fronteggiare la corruzione è a più voci e ipotesi. Resta possibile la creazione di una Procura nazionale anche per i reati di corruzione. Poi il ministro Orlando spiega: "Non possiamo sempre estendere strumenti nati per finalità eccezionali ad altri campi. Mi riferisco anche all'utilizzo di sequestri e confische. Si discute se i beni acquisiti attraverso corruzioni possano essere sequestrati come i proventi di reati mafiosi. Quelle estensioni di strumenti repressivi non mettono in discussione alcune loro caratteristiche particolari". È assai chiaro il ministro Orlando. E ricorda, nel suo fuori programma rispetto al tema principale del convegno napoletano : "La riforma della giustizia non può essere esaurita nella riforma penale. Parte importante è anche quella del settore civile, come di quello ordinamentale. Nel silenzio generale, in un periodo dove l'attenzione era tutta rivolta alle vicende francesi, la Camera ha lavorato a pieno ritmo su queste materie. Soprattutto sulla riforma della legge Vassallo che rivede la responsabilità civile dei magistrati". Poi un annuncio: gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari saranno chiusi a breve, senza più possibilità di proroghe. Gli attuali 771 ospiti degli Opg dovranno essere trasferiti in altri tipi di strutture. "Abbiamo previsto il commissariamento per quelle Regioni che non se ne occuperanno", conclude il ministro. Giustizia: ddl per riforma misure cautelari incardinato al Senato, verso l'ok definitivo Public Policy, 14 gennaio 2014 Il Ddl sulle Misure cautelari - a firma della deputata Donatella Ferranti (Pd) - è stato incardinato per la seconda volta in commissione Giustizia al Senato, che oggi ha avvitato l'iter di esame con la relazione del relatore Nico D'Ascolta (Ap). A quanto si apprende, il provvedimento - al quarto passaggio parlamentare - si avvia verso il via libera definitivo. Il ddl modifica il codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali ed è approvato dall'aula della Camera il 4 dicembre. L'obiettivo del provvedimento è di restituire alla carcerazione preventiva una natura di extrema ratio, rendendo più stringenti i presupposti e le motivazioni e ampliando al contrario le misure alternative. Niente carcere, ad esempio, se in corso di processo basteranno il divieto di esercitare una professione e il ritiro del passaporto o l'obbligo di dimora. Durante la terza lettura, la proposta di legge ha diviso nuovamente la maggioranza di Montecitorio: come anticipato, infatti, un emendamento presentato in aula dal deputato Ncd, Alessandro Pagano, sulla responsabilità disciplinare dei magistrati ha fatto scontrare - durante il comitato dei nove della commissione Giustizia - la presidente, Donatella Ferranti (Pd), e il viceministro, Enrico Costa (Ncd). La proposta di Ncd riportava in vita una norma del testo soppressa in precedenza, intervenendo sugli illeciti disciplinari dei magistrati e tentando una stretta. Con il ddl saltano gli attuali automatismi applicativi: la custodia cautelare in carcere potrà essere disposta soltanto quando siano inadeguate le altre misure coercitive o interdittive. Tali misure, a differenza di quanto è oggi, potranno però applicarsi cumulativamente. Inoltre, la misura della custodia cautelare non potrà essere applicata se il giudice ritiene che, all'esito conclusivo del giudizio, possa essere soppressa la pena. Per giustificare il carcere il pericolo di fuga o di reiterazione del reato non dovrà essere soltanto concreto (come è oggi) ma anche "attuale". Il giudice non potrà più desumere il pericolo solo dalla semplice gravità e modalità del delitto. Per privare della libertà una persona l'accertamento dovrà coinvolgere elementi ulteriori, quali precedenti, i comportamenti o la personalità dell'imputato. Gli obblighi di motivazione si intensificano. Il giudice che dispone la cautela non potrà infatti più limitarsi a richiamare per relationem gli atti del pm ma dovrà dare conto con autonoma motivazione delle ragioni per cui anche gli argomenti della difesa sono stati disattesi. Aumentano (dagli attuali 2 mesi) a 12 mesi i termini di durata delle misure interdittive (sospensione esercizio potestà genitori, sospensione esercizio di pubblico ufficio o servizio, divieto di esercitare attività professionali o imprenditoriali) per consentirne un effettivo utilizzo quale alternativa alla custodia cautelare in carcere. Per i delitti di mafia e associazione terroristica resta la presunzione assoluta di idoneità della misura carceraria. Per gli altri delitti gravi (omicidio ad esempio, violenza sessuale, sequestro di persona per estorsione, etc.) vale invece una presunzione relativa: niente carcere se si dimostra che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Con il ddl sulla Custodia cautelare cambia in profondità la disciplina del riesame delle misure cautelari personali. Il Tribunale della Libertà avrà tempi perentori per decidere e depositare le motivazioni a pena di perdita di efficacia della misura cautelare. Che, salvo eccezionali esigenze, non potrà più essere rinnovata. Il collegio del riesame dovrà inoltre annullare l'ordinanza liberando l'accusato (e non come oggi integrarla) quando il giudice non abbia motivato il provvedimento cautelare o non abbia valutato autonomamente tutti gli elementi. Tempi più certi anche in sede di appello cautelare e in caso di annullamento con rinvio da parte della Cassazione. Giustizia: custodia cautelare; meno carcere per colletti bianchi, dentro solo ladruncoli di Elena Ciccarello Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2015 Il Senato si prepara all'ok definitivo sulla riforma che limita il ricorso alle manette. Il giudice dovrà motivare in modo più preciso la "attualità del pericolo" prima di escludere misure alternative. Pignatone: "Molto difficile per i reati economici". Il giudice Morosini: "Giustizia di classe. E nessun beneficio su sovraffollamento". Dentro i miserabili, i recidivi e i pregiudicati, fuori gli insospettabili, anche se fanno accordi con la mafia. Mentre il Senato si prepara ad approvare una riforma sulla misure cautelari personali che limita drasticamente il carcere per chi è in attesa di giudizio, le polemiche sul testo non accennano a finire. Nata come ennesima svuota-carceri, la riforma rende infatti più complesso il lavoro dei giudici e non risolve il problema del sovraffollamento carcerario. Concepita per evitare l'eccesso di carcerazioni preventive, che oggi riguardano 23mila persone su un totale di 63mila detenuti, la nuova legge continuerà a mandare in galera ladruncoli e spacciatori e lascerà - ancora una volta - a piede libero i "colletti bianchi". La riforma è arrivata a Palazzzo Madama, ma non è ancora stata calendarizzata in Commissione giustizia. Dopo l'Anm, il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, anche Piergiorgio Morosini, presidente della Commissione riforme del Csm, sentito da ilfattoquotidiano.it punta il dito contro il disegno di legge pronto per l'approvazione definitiva. Per il magistrato, già giudice a Palermo nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia, la riforma ha il merito di muoversi "in direzione ostinata e contraria" rispetto ai "pacchetti sicurezza" approvati negli ultimi 15 anni, che "hanno potenziato il ricorso al carcere, anche in attesa di giudizio, ogni volta che un delitto impressionava l'opinione pubblica", ma lascia immutato "un sistema da giustizia di classe che manda in carcere gli emarginati per reati di microcriminalità e non colpisce quasi mai chi è gravemente sospettato di manovre illegali nella pubblica amministrazione". Una prova? La "rilevante modifica" subita dal testo nel passaggio dal Senato alla Camera, che ha cancellato dai casi di custodia cautelare obbligatoria, nell'ambito dei reati di mafia e terrorismo, il reato di scambio politico-mafioso. Il succo della riforma, approvata in seconda lettura alla Camera con il voto contrario di Lega e Fdi e l'astensione del Movimento 5 Stelle, è la riduzione della custodia in carcere a extrema ratio da applicare solo in caso di pericoli concreti e "attuali", quando non è possibile ricorrere a misure coercitive e interdittive sostitutive. Gli arresti domiciliari prima di tutto, e nei casi meno gravi il ritiro del passaporto, l'obbligo di firma, l'obbligo o il divieto di risiedere in una determinata località. Un punto, il riferimento all'"attualità del pericolo", che ha suscitato l'allarme del Procuratore di Roma, Pignatone, che sentito dalla commissione Giustizia della Camera ha dichiarato: "Se dobbiamo dare alla parola attuale, calata nel testo di legge, il significato che ha nel vocabolario italiano… noi rischiamo di non poter mai più ricorrere alle misure cautelari al di fuori dei casi di flagranza o dell'immediata minima distanza temporale dei fatti". Una difficoltà che secondo Pignatone "si esalta per i reati dei colletti bianchi, della pubblica amministrazione e via elencando". Con la riforma anche la semplice richiesta della custodia cautelare in carcere diventa più complessa poiché il giudice è costretto a un maggiore sforzo motivazionale: la sua richiesta dovrà contenere una "autonoma valutazione" dell'esigenza di ricorrere al carcere e non si potrà "appiattire" sulle motivazioni del pubblico ministero. "Per andare in carcere non basteranno più alcuni automatismi, come l'essere gravemente sospettato di omicidio" spiega Morosini. "Anche in quel caso, infatti, se il soggetto è incensurato e non si dispone di chiari elementi per temere la reiterazione del reato o il pericolo di fuga attuale, sarà più difficile applicare la misura di custodia cautelare in carcere". Anche i Tribunali della libertà, che convalidano o annullano la custodia, avranno tempi più stringenti per decidere e depositare le motivazioni. La custodia in carcere, in ogni caso e salvo eccezionali esigenze, non potrà essere rinnovata e sarà annullata se il giudice non saprà adeguatamente motivare il provvedimento cautelare. Uno degli aspetti più critici della riforma, per Morosini, resta comunque la mancata soluzione al problema delle carceri stracolme. "Il sovraffollamento è legato soprattutto a delitti da microcriminalità urbana e a soggetti pregiudicati o recidivi" spiega il magistrato "Si tratta spesso di spacciatori o ladruncoli, sovente extracomunitari, che non dispongono di un domicilio e il più delle volte finiscono in carcere perché il giudice non sa dove altro mandarli". Quasi la metà dei detenuti in custodia cautelare in Italia, circa 9 mila, sono stranieri. "Già oggi, in alcuni casi, si potrebbe applicare una soluzione alternativa, come i domiciliari. Ma non lo si fa perché mancano adeguate strutture pubbliche in grado di accogliere questi soggetti". Quindi mentre pregiudicati, recidivi e stranieri continueranno ad andare in carcere, con la riforma (e le norme svuota carceri precedenti) scomparirà invece, definitivamente, l'ipotesi detenzione per la stragrande maggioranza dei reati dei "colletti bianchi". Sarà così anche per chi è gravemente indiziato di reato di voto di scambio politico-mafioso, depennato da quelli di mafia e terrorismo per i quali la legge mantiene l'obbligo del carcere. Nell'ultima versione del testo il riferimento al reato non compare neppure tra quelli più gravi, come l'omicidio o i reati a sfondo sessuale, per i quali vigerà l'obbligo di ricorso al carcere se le esigenze cautelari non potranno essere soddisfatte con altre misure. Solo le misure interdittive, che rappresentano un'alternativa alla custodia cautelare in carcere, verranno estese dalla legge da due mesi fino ad un anno. E questo varrà anche per i reati dei "colletti bianchi". "È vero che alzando l'asticella per il ricorso alla custodia cautelare in carcere vengono esclusi da questa possibilità molti reati dei colletti bianchi" conclude il giudice Morosini "ma la mia preoccupazione sta piuttosto nella mancanza degli strumenti investigativi idonei a scoprire questi reati". Il riferimento è all'estensione della legge per i collaboratori di giustizia ai reati contro la pubblica amministrazione e l'introduzione di "agenti provocatori" per scoprire i reati di corruzione. Strumenti previsti dalle convenzioni internazionali cui l'Italia ha aderito, ma che non compaiono neppure nelle nuove norme anticorruzione annunciate recentemente dal Governo. Giustizia: non punibilità per particolare tenuità del fatto, la truffa leggera si perdona di Antonio Ciccia Italia Oggi, 14 gennaio 2015 Via d'uscita per chi commette una truffa. Quella tenue si perdona. Lo stesso per il furto semplice, il danneggiamento, l'appropriazione indebita, la minaccia e la violenza. E così per tutte i reati puniti con la pena pecuniaria o con la pena detentiva fino a 5 anni. È una depenalizzazione in concreto e trasversale quella prevista dallo schema di decreto legislativo, in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, attuativo della legge delega n. 67/2014, attualmente all'esame del senato per il parere. Il provvedimento introduce la non punibilità dei reati che provocano un'offesa di particolare tenuità, quando, contemporaneamente, il comportamento del reo risulta non abituale. Siamo di fronte a una "depenalizzazione", che riguarda tantissimi reati. La norma riguarda tutti i reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni o con la pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva. Le relazioni di accompagnamento al decreto e, in particolare, l'analisi dell'impatto della regolamentazione evidenzia l'ambito di applicazione. La novità riguarderà tutte le contravvenzioni e molti delitti. Tra questi vengono ricordati la violenza privata, la violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, la minaccia aggravata, alcuni delitti contro l'inviolabilità del domicilio e numerosi reati contro il patrimonio (dal furto semplice, al danneggiamento, dalla truffa all'appropriazione indebita). Ma l'elenco potrebbe continuare: percosse, lesione personale non aggravata, la rissa, l'omissione di soccorso, alcuni false attestazioni, il maltrattamento di animali, la violazione degli obblighi di assistenza familiare, le intercettazioni informatiche, la rivelazione di segreto professionale ecc. Certamente non basta solo il requisito della soglia di sanzione, in quanto il magistrato dovrà valutare due elementi: la tenuità dell'offesa e la non abitualità della condotta. Tuttavia è chiaro che sono tante le aspettative di espulsione dal circuito penale di molti procedimenti, tanto che nella stessa relazione si danno indicazioni per una ampia applicazione dell'istituto: il beneficio potrà essere fruito anche se si riscontra un reato abituale (il decreto esclude il comportamento e non il reato abituale); la presenza di un precedente non è ostativa al riconoscimento dei presupposti di legge; si può concedere l'agevolazione anche quando la legge prevede la tenuità del danno come circostanza attenuante. Il procedimento penale dovrà preferibilmente essere chiuso già con una richiesta di archiviazione del pubblico ministero. Alla persona offesa, che probabilmente non si imbarcherà in un giudizio civile per chiedere i danni, nel procedimento penale, rimane ben poca cosa. Le resta il diritto di essere informata, se lo ha chiesto, e di opporsi: una chance, che è destinata al successo, prevedibilmente, in pochi casi. La non punibilità potrà essere dichiarata in ogni stato e grado del processo e se viene pronunciata prima dell'inizio del dibattimento dovrà essere sentita la persona offesa. Inoltre la sentenza penale definitiva vincolerà il giudice civile sulla qualifica della particolare tenuità del fatto, salvo autonoma proposizione della causa civile. Peraltro la legge delega ha stabilito il criterio che l'esclusione della punibilità per fatto tenue con condotta non abituale non deve pregiudicare l'azione civile per il risarcimento del danno. Giustizia: errori giudiziari; nel 2014 accolte 995 domande di risarcimento, per 35,2 mln € di Francesco Grignetti La Stampa, 14 gennaio 2015 I risarcimenti sono una delle voci di spesa che sta crescendo nella Giustizia a causa degli errori negli arresti e nelle sentenze dei giudici. Il pianeta giustizia, con le sue lungaggini, gli errori e le manette facili, nasconde un lato oscuro: lo Stato si lava la coscienza con i risarcimenti per gli sfortunati che sono finiti incolpevolmente negli ingranaggi della Giustizia. E basta vedere l'entità dei risarcimenti, per capire che il fenomeno è clamoroso. In carcere ingiustamente Si prenda il caso delle ingiuste detenzioni: cittadini che sono stati portati ingiustamente in carcere in custodia cautelare e dopo sono stati assolti o addirittura prosciolti "perché il fatto non costituisce reato". Ebbene, nel corso del 2014 sono state accolte dai giudici delle corti d'appello 995 domande di risarcimento e liquidati 35,2 milioni di euro. Soldi che si sarebbero potuti spendere per migliorare la giustizia medesima. A scorrere le statistiche - secondo le schede approntate dal ministero dell'Economia e Finanze appena recapitate al ministero della Giustizia - in un anno c'è stato un incremento del 41,3% dei pagamenti. Nel 2013, le domande accolte erano state 757, per un totale di 24,9 milioni di euro. Fanno impressione anche i numeri complessivi. Da quando esistono i risarcimenti per ingiusta detenzione, cioè dal 1991, lo Stato ha speso la stratosferica cifra di 580 milioni di euro. Complessivamente, nel giro di 15 anni, sono 23.226 i cittadini che hanno sofferto di una custodia cautelare ingiusta e che perciò sono stati risarciti. Si consideri che per non far esplodere oltremodo la spesa, la legge stabilisce un tetto di 516.400 euro per singolo risarcimento. Catanzaro maglia nera Se si entra nel dettaglio, città per città, spicca Catanzaro, con un 6,2 milioni di euro in risarcimenti per 146 persone ingiustamente detenute nel 2014. Segue Napoli, dove le domande accolte sono state 143 domande e i risarcimenti ammontano a 4,2 milioni di euro. A Palermo, a fronte di una spesa liquidata pressoché equivalente, pari a 4,4 milioni di euro, i casi di ingiusta detenzione sono soltanto 66. Nella Capitale, 90 i fascicoli accolti per ingiusta detenzione e 3,2 milioni di euro i risarcimenti. Gli errori giudiziari Ma il 2014 registra un incremento record dei pagamenti anche per i casi di errore giudiziario: si è passati dai 4640 euro del 2013 relativamente a 4 casi, a 17 casi e a 1,6 milioni di euro del 2014. È stata disposta una super liquidazione per oltre 1 milione di euro a Catania; il resto è andato a 12 persone a Brescia, due a Perugia e una a Milano e Catanzaro. Dal 1991 al 2014, per gli errori giudiziari sono stati liquidati complessivamente 31,8 milioni di euro. Qui non si risarcisce un'ingiusta custodia cautelare, bensì una condanna sbagliata e magari anche un lungo periodo di detenzione. Perciò non c'è tetto ai risarcimenti e da un anno all'altro ci possono essere enormi oscillazioni. Finora il record era un risarcimento da 4,6 milioni di euro. Ma sempre a Catania si sta discutendo di una richiesta eccezionale, avanzata dal signor Giuseppe Gulotta, condannato ingiustamente per l'omicidio di tre carabinieri ad Alcamo Marina, il quale ha scontato 22 anni di carcere da innocente: ha chiesto 69 milioni di euro allo Stato. Giustizia: incassato solo il 6-7% delle sanzioni pecuniarie inflitte con sentenza penale di Antonio Ciccia Italia Oggi, 14 gennaio 2015 Lo stato riesce a incassare solo il 6-7% delle sanzioni pecuniarie inflitte con una sentenza penale. La relazione tecnica di accompagnamento, allo schema di decreto legislativo sulla non punibilità del fatto tenue non abituale, evidenzia la percentuale molto bassa del gettito dai processi penali. Il dato è richiamato per il calcolo delle ricadute economiche del decreto legislativo citato. Dunque il bilancio dello stato (capitolo 2301 di entrata) comprende le multe, ammende, sanzioni amministrative inflitte dall'autorità giudiziaria e da quelle amministrative (escluse quelle tributarie). Dai dati contabili emerge la percentuale risicata di recupero e un dato assoluto (riferito al 2013) di versamenti per 22,5 milioni di euro per i procedimenti penali di tribunale. Quanto alla sanzioni pecuniarie per reati di lieve entità, la stima della relazione in commento è di 474.400 euro, somma che l'erario perderà ogni anno a causa della pronuncia di non punibilità, che andrà a sostituire la condanna. Ma se il decreto sulla non punibilità deprimerà le entrate per poco meno di 500 mila euro, non ci saranno squilibri. Lo stesso provvedimento, secondo i calcoli, farà risparmiare oltre 500 mila euro per spese per gratuito patrocinio: la non punibilità si stima, infatti, che riguarderà almeno il 60% dei procedimenti per cui l'interessato chiede l'assistenza a carico dello stato. Senza contare, aggiunge, la relazione, che si realizzeranno economie per il fatto che il personale non sarà più adibito a questi processi e si potrà dedicare a procedimenti più importanti. Giustizia: il Sottosegretario Ferri "serve un cambio di passo nella lotta al terrorismo" Askanews, 14 gennaio 2015 "La lotta la terrorismo soprattutto di matrice islamica ha assunto grande attualità ed importanza alla luce dei vili attentati che hanno colpito la Francia ma anche noi tutti. Proprio per queste ragioni ritengo che in questa battaglia si debba giungere ad una soluzione che sia il più possibile meditata e non frutto di una scelta estemporanea ed emotiva. Allo stato attuale, in ragione del crescente rischio di infiltrazione terroristica e del gravoso impegno dei magistrati, è ineludibile un cambio di passo nella lotta al terrorismo". Lo afferma in una nota Cosimo Maria Ferri, sottosegretario al ministero della Giustizia "Il punto di partenza deve essere la presa d'atto che il fenomeno terroristico che ci troviamo a dover combattere presenta un'evidente dimensione sovranazionale. Per queste ragioni si dovrebbe promuovere, in sede europea, non solo l'armonizzazione delle legislazioni dei vari Paesi ma anche la creazione di una sorta di pm europeo antiterrorismo", sottolinea. "Attualmente, a livello europeo, sono ancora in corso i negoziati per istituire la Procura europea che avrà il compito di difendere gli interessi finanziari dell'Ue e nell'ambito di questi negoziati si potrebbe inserire la proposta di ampliare anche all'antiterrorismo le competenze della nuova Procura europea", prosegue la nota. "Sul piano interno, invece, vedo due soluzioni: istituire una procura nazionale antiterrorismo sulla falsariga della Dna e quindi creare singole procure distrettuali antiterrorismo coordinate da procura nazionale; oppure trasformare le Dda in procure distrettuali antimafia ed antiterrorismo (facendovi confluire i magistrati che attualmente si occupano di antiterrorismo) coordinate dalla Dna divisa in due settori: antimafia e antiterrorismo", conclude Ferri. Giustizia: Orlando "lavoro in carcere, si cambia, presenterò progetto al Papa il 21 marzo" di Valeria Chianese Avvenire, 14 gennaio 2015 Un anno, il 2015, che vedrà finalmente conclusa la riforma della giustizia. L'annuncio è del Guardasigilli Andrea Orlando che, soddisfatto dei risultati raggiunti finora e fiducioso in quelli che verranno, da Napoli, dove ha partecipato a un convegno sul tema della salute nelle carceri, ha ricordato che l'altro ieri "il presidente della Repubblica ha firmato gli ultimi due disegni di legge. Ne resta uno, quello sul processo civile, dopo di che saranno stati incardinati tutti". Il ministro si è anche detto certo che il Parlamento "licenzierà già ai primi di febbraio la riforma della responsabilità civile dei magistrati". Il 2015, nei desiderata di Orlando, sarà anche il tempo per avviare "il ripensamento complessivo di esecuzione della pena" ossia della struttura carceraria e su questo tema saranno convocati gli Stati generali per raccogliere proposte e opinioni da vari soggetti, dall'intellettuale al volontario. E anche per dare un messaggio chiaro: "Il carcere - ha precisato - non è il luogo dove si esorcizzano le paure della società, va invece inteso come pezzo della società, per questo occorre costruire un fronte comune per cominciare una battaglia culturale nella società". Un primo tassello pare già pronto con il progetto lavorativo destinato ai detenuti, e non solo, che sarà presentato in occasione della prossima visita di Papa Francesco a Napoli, il 21 marzo. L'iniziativa in preparazione al ministero della Giustizia, cui ha fatto cenno il ministro Orlando durante l'incontro in Curia con l'arcivescovo di Napoli, cardinale Crescenzio Sepe, subito dopo aver lasciato il convegno, sarà finanziata con i fondi ministeriali della Cassa ammende e fa parte del nuovo corso che il governo intende dare al sistema carcerario, tra cui rientrano il reinserimento sociale a pena conclusa e soprattutto, punto focale, le pene alternative alla detenzione. Anche se finora il rovescio della medaglia è la chiusura da domani degli appalti alle mense a 10 coop sociali in altrettanti penitenziari. Segnale di ritrovata attenzione è stato proprio il convegno di ieri nel carcere di Poggioreale, promosso dalla Comunità di Sant'Egidio e dal Provveditorato dell'Amministrazione penitenziaria della Campania sulla riforma carceraria avviata dal decreto del 1° aprile 2008, che segna il passaggio di competenza dalla sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale. Ne è risultato un quadro tra luci e ombre: alla riforma si sono allineate tutte le regioni italiane, tranne la Sicilia, ma ancora molti sono i problemi irrisolti, dai figli in carcere alla mancanza dei dati sulle tossicodipendenze in riferimento anche alle possibilità d'ingresso in comunità, alla scarsa percezione del problema sulle condizioni sanitarie in carcere, alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari il 31 marzo e alle ancora incerte alternative. Il processo sanitario dietro le sbarre va messo a sistema: ritardi, risorse carenti, locali inidonei, tecnologia obsoleta rallentano il percorso. I detenuti presenti nei 202 istituti di pena italiani sono 53.623 contro gli oltre 64mila di un anno fa, ma la diminuzione del numero - sebbene siano cresciuti i servizi sanitari, in particolare quelli di prevenzione, e siano stati aperti nuovi reparti dedicati - non ha risolto il problema primario. Il carcere resta un luogo che produce depressione e disagio psichico. Anche per questo è in corso il procedimento per violazione dei diritti umani contro l'Italia presso la Corte europea di Strasburgo. Giustizia: cosa possiamo guadagnare facendo lavorare i nostri detenuti? di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 14 gennaio 2015 Sconti di pena a chi lavora, così le carceri costerebbero di meno. Visiti un carcere e misuri il grado di civiltà di un Paese. Rispetto a tutto il mondo occidentale l'Italia, "a parole", ha maggior sensibilità per il disagio umano, salvo poi infilare 6 detenuti in uno spazio dove ce ne dovrebbero stare 2. Quando la situazione si fa calda, si rimedia velocemente con indulti e decreti svuota-carceri. Il risultato è che il 70% dei condannati, una volta scontata la pena, torna a delinquere. Se la funzione del carcere è quella di restituire alla società un individuo riabilitato, è evidente che qualcosa non va. Eppure, già nel 1975, siamo stati fra i primi ad introdurre le misure alternative al carcere con l'affidamento in prova al servizio sociale. Oggi gli affidati sono circa 12.000, ma è difficile sapere se chi ha evitato il carcere, poi mantenga un comportamento corretto (non spacciare droga, fare il lavoro che gli è stato assegnato...). Questo perché l'assistente sociale, che dovrebbe incontrare l'affidato una volta la settimana, sia a casa che al lavoro, lo vede se va bene 1 volta ogni 2 mesi. Del resto, a Padova, sono in 8 a seguire più di 1000 casi; a Roma in 36 con 3000 casi. In tutta Europa e negli Stati Uniti, attorno alle misure alternative sono stati organizzati progetti controllati e coordinati. Per esempio a Portland (Usa), i detenuti tengono in vita uno dei parchi urbani più prestigiosi al mondo, quello delle rose, con 600.000 visitatori l'anno. I dati Usa dicono che chi passa da questa "misura" torna a delinquere nel 10% dei casi, rispetto al 25% di chi va in carcere. Poi c'è l'aspetto economico: un detenuto in cella costa 170$ al giorno, ai servizi sociali ne costa 1,43. In Olanda ormai le pene alternative hanno superato quelle detentive, sono in media 40.000 l'anno: vengono mandati a lavorare negli ospedali e nei centri anziani. Ovunque però il grosso della partita si gioca dentro alle carceri. La nostra legge prevede di occupare i detenuti non pericolosi con i lavori di pubblica utilità su base volontaria a titolo gratuito, ma buona parte dei sindaci nemmeno sa che può farne richiesta per ridipingere i muri dai graffiti o pulire gli argini dei fiumi. È previsto anche l'obbligo per l'amministrazione carceraria di dare un'occupazione al condannato in via definitiva, poiché il lavoro è lo strumento principale per il reinserimento nella società. Il problema è che il detenuto se lavora, per legge, va pagato. Giusto. Solo che i soldi per pagare i 54.000 detenuti non ci sono. Quindi alla fine lavorano in pochi, e a rotazione, e solo l'1% si occupa di manutenzione ordinaria. Intanto 4000 posti nelle carceri sono diventati inagibili e sono in corso appalti per decine di milioni di euro. Se fossero i carcerati a intonacare o riparare i rubinetti, invece di spendere 500 milioni di euro per il piano carceri, spenderemmo meno e lavorerebbero tutti. È sempre una questione di soldi: il sistema penitenziario costa complessivamente 2 miliardi e 800 milioni euro l'anno, che vuol dire circa 4000 euro al mese a detenuto. Si può uscire da questa spirale di inefficienza colpevole guardando anche come fanno gli altri? Nelle carceri irlandesi praticamente tutti i detenuti fanno qualcosa. Quelli che lavorano a tempo pieno in cucina, in lavanderia e nella manutenzione arrivano a 18 euro la settimana e hanno diritto alla cella singola con doccia in camera e a volte anche col computer. Si chiamano superior deluxe rooms. Ce ne sono 140. In Austria per ogni ora di lavoro riconoscono dai 7 ai 10 euro, ma il 75% rimane all'amministrazione per le spese di mantenimento. In carcere il detenuto impara a fare il falegname o il panettiere, e spesso succede che, quando ha finito di scontare la pena, viene assunto. Nel carcere americano di Portland lavora il 60% dei detenuti. Lo stipendio viene calcolato, ma l'amministrazione se lo tiene a compensazione del costi di mantenimento e dà al detenuto circa 50 dollari al mese per le piccole spese. Non è obbligatorio lavorare, ma se lo fai, anche qui c'è uno sconto di pena e dei benefits. Noi, al contrario, tratteniamo dallo stipendio 50 euro per le spese di mantenimento. Così a lavorare sono in pochi, perché i soldi non ci sono. E quei pochi lavorano pure in condizione di disparità. Chi si occupa della mensa per conto dell'amministrazione penitenziaria per esempio prende uno stipendio di 400 euro al mese, se invece lavora per le cooperative prende fino a 1200 euro. Proprio domani scade la convenzione con un decina di cooperative che gestiscono le mense dentro le carceri. Era una sperimentazione, sicuramente conveniente per le coop: la cucina e le derrate le compra il ministero, mentre la coop deve provvedere a pagare lo stipendio a quei 6 0 7 che preparano i pasti. Come vengono scelti quei pochi "fortunati?". Chi lo sa. Certo è che alle cooperative abbiamo delegato molto in cambio di sgravi fiscali: 16 milioni di euro solo l'anno scorso. Molte fanno attività nobilissime, ma se parliamo di "lavoro", a parte l'eccellenza di Bollate (che impegna quasi il 50% dei detenuti ), è quasi il nulla. Al femminile di Rebibbia lavorano in 10. Al Regina Coeli invece c'è solo una lavanderia, lavorano in 2, tra i fondatori della coop l'ex brigatista Anna Laura Braghetti, la carceriera di Aldo Moro. A Secondigliano su 1300 detenuti solo una ventina lavorano, fra cui alcuni ergastolani con storie da 41 bis (condannati per mafia, omicidi, traffico di droga). Loro coltivano le zucchine pagati dalla cooperativa di turno, mentre gli altri, quelli che scontano pene meno gravi e certamente usciranno, guardano il soffitto. L'alternativa è continuare a difendere il principio che il lavoro va remunerato e se non ci sono risorse, pazienza… oppure cambiare strada, organizzarsi in modo da rendere le carceri autosufficienti, far lavorare tutti quelli che lo vogliono, insegnare loro un lavoro, calcolare lo stipendio, ma trattenere le spese di mantenimento, lasciando al detenuto quel che gli serve per le piccole esigenze, concedergli sconti di pena, permessi, celle decenti. È una proposta che evoca "il lavoro forzato" o è una soluzione pragmatica e civile? Giustizia: via il lavoro dalle carceri? Gemma Calabresi: i politici ascoltino Francesco di Pietro Vernizzi www.ilsussidiario.net, 14 gennaio 2015 "Quando ho visitato il carcere di Padova, sono rimasta colpita dalla dignità e dall'entusiasmo con cui i detenuti parlavano del loro lavoro. E soprattutto ho scoperto che l'incontro con Dio che ho fatto 42 anni fa, quando mi hanno detto della morte di mio marito, era lo stesso che hanno fatto queste persone in carcere". Sono le parole di Gemma Calabresi, vedova del commissario Luigi Calabresi, ucciso da esponenti di Lotta Continua il 17 maggio 1972. Abbiamo sentito Gemma Calabresi a proposito del fatto che domani rischia di essere l'ultimo giorno di lavoro per i detenuti di dieci penitenziari coinvolti in un progetto realizzato da cooperative sociali e durato dieci anni. Un'opportunità importante per rieducare e riscattare chi in passato si era macchiato di crimini anche gravi. L'affidamento del servizio è scaduto a fine 2014, e per ora il ministero della Giustizia ha deciso di prorogarlo solo fino al 15 gennaio 2015. Che cosa ne pensa della decisione di sospendere questo progetto? Sono molto dispiaciuta e penso che sia veramente una decisione sbagliata. Vorrei invitare queste persone, che avranno certamente delle buone motivazioni, a farsi un giro in una di queste dieci carceri. Quando sono stata a Padova e ho parlato con i detenuti, mi hanno parlato del loro lavoro con una dignità e un entusiasmo tali che ho capito quanto il lavoro sia importante per l'uomo. Papa Francesco del resto parlando al Parlamento di Strasburgo lo ha detto chiaramente: "Quale dignità potrà mai trovare una persona che non ha il cibo o il minimo essenziale per vivere e, peggio ancora, il lavoro che lo unge di dignità?". Qual è stata la sua esperienza incontrando i carcerati di Padova? I detenuti che ho incontrato mi hanno detto: "Al mattino ci alziamo contenti perché andiamo a lavorare". Questo poi vuol dire che fanno 50 metri di corridoio, perché tutto si svolge in carcere, ma ciò che conta è il fatto di essere utili, occupati, di fare qualcosa per la società e di avere un po' di indipendenza economica. Vada avanti a raccontare, signora. C'è chi assembla biciclette, chi valigie, chi fa il catering, chi lavora nella mensa interna. Quando ho visto, ho pensato che a fare questo non dovrebbe essere solo un gruppo di carceri sperimentali, ma tutti i penitenziari. Sono convinta con decisione che la persona che è in carcere debba lavorare, avere una sua dignità e fare delle cose utili per la società. Ritengo che si debba arrivare proprio a un'autogestione della pulizia interna e del servizio mensa in tutti i penitenziari. Lei com'è venuta a contatto con il progetto di Padova? Ero stata invitata nel carcere perché quel giorno tre persone avevano fatto la scelta di aderire alla fede cattolica, e quindi si festeggiava. Uno riceveva il sacramento del battesimo, uno della comunione e uno della cresima. Quello che ho scoperto in quell'occasione mi ha veramente cambiato la vita. Perché? Ho capito che l'incontro che io ho fatto con Dio, lo stavano facendo anche i detenuti. Nel 1972, dopo che mi diedero la notizia che mio marito era stato ucciso, sentii la forte presenza di Qualcuno che veniva in mio aiuto. Per assurdo in quel momento avvertii un'enorme pace interiore, una forza enorme dentro di me e sentii che non ero sola. Ed è così che ho ricevuto il dono della fede da parte di Dio stesso. Che cosa è cambiato in lei da quel momento? Da allora ho sempre pensato che Dio aiuta le vittime, le persone che hanno subito un'ingiustizia e che vivono una grande sofferenza. Ma non mi era mai venuto in mente che Dio aiuta anche coloro che questa l'hanno provocata. Visitando il carcere di Padova mi si è aperto un mondo. In che senso? Queste due persone con cui ho parlato a lungo, e che erano lì perché giudicate colpevoli di omicidio, mi hanno raccontato il loro incontro con Dio descrivendo esattamente le stesse sensazioni provate da me il 17 maggio 1972 quando mi hanno detto della morte di mio marito. È stata un'impressione incredibile. Ecco perché oggi mi sento molto in sintonia con Papa Francesco, quando invita a pregare per i terroristi francesi. La gente è rimasta un po' stupita, mentre bisogna pregare lo Spirito Santo perché illumini anche chi ha ucciso e faccia capire loro l'errore enorme di uccidere delle persone. Giustizia: Patriarca (Pd); taglio fondi legge Smuraglia, rischio 30% posti in coop detenuti Ansa, 14 gennaio 2015 "Le cooperative che lavorano in carcere rischiano di dover licenziare il 30% del loro personale. Una vera iattura per tanti progetti di recupero, che così verrebbero vanificati, con relativo spreco delle risorse economiche già impegnate". Lo afferma il deputato del Pd Edoardo Patriarca, componente della Commissione Affari Sociali. "Le coop - spiega l'esponente del Pd - hanno comunicato agli istituti penitenziari i fabbisogni per il 2015, basati sui detenuti già in forza e su quelli di prossima assunzione in base alle commesse acquisite. Il Dap si è così accorto che l'ammontare complessivo richiesto, circa 9 milioni di euro, era superiore del 34% a quanto previsto nel fondo a disposizione: poco più di sei milioni di euro le risorse destinate al credito d'imposta per l'anno 2015, poi ridotte a quasi 5.900.000 euro - continua Patriarca. Dopo la chiusura delle cucine in dieci istituti, ora sembra che ci sia la volontà di abolire il lavoro nei penitenziari. Si è intrapresa una strada pericolosa, che non garantisce né i detenuti né i cittadini. Più lavoro, infatti, significa meno recidive". Padova: Cooperativa Giotto invita Renzi per stop pasticceria "Domani invitiamo formalmente il premier Renzi a Padova. Venga qui e dia un segnale, ci dimostri che non vuole far tornare l'Italia indietro a prima di Cesare Beccaria". Nicola Boscoletto, responsabile della Cooperativa Giotto, lancia da Padova l'appello del tavolo di lavoro "Emergenza lavoro carceri". Il coordinamento è composto da tutte le cooperative che operano a livello nazionale nelle carceri ed è nato per contrastare la decisione del governo di concludere le esperienze di gestione da parte delle stesse cooperative delle cucine sorte all'interno degli istituti di reclusione e che impegnano i detenuti. Una decisione, che dovrebbe avere come data di entrata in vigore il 16 gennaio, che per Padova si tradurrebbe in un addio alla famosa pasticceria gestita dalla cooperativa, quella che per anni ha sfornato dolci e panettoni finiti tra i regali di papi e capi di Stato. Domani al carcere di Padova la cooperativa ha organizzato il "penultimo pranzo" (già oltre 150 le adesioni). "Si tratta della sconfitta della società civile - ha continuato Boscoletto - domani si scrive una pagina buia della storia italiana, un pagina che assume risvolti inquietanti. A noi non resta che sperare che qualcuno alla fine non voglia firmare questa decisione. Si tratterebbe di una firma che non è una condanna per i detenuti ma una condanna per l'intera società, una condanna a pagare senza avere nulla in cambio se non vedere restituite delle persone peggiori di quelle entrate negli istituti carcerari". Giustizia: la Corte dei conti mette sotto accusa l'acquisto di 40 "auto blu" al Dap di Valeria Di Corrado Il Tempo, 14 gennaio 2015 Un esercito di auto blu costate un milione e mezzo di euro. Per la procura Corte dei conti del Lazio l'acquisto da parte del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria di una quarantina di Bmw blindate per il trasporto in sicurezza dei suoi dirigenti ha comportato un danno erariale. Con questa accusa sono stati citati in giudizio davanti ai giudici contabili il generale Enrico Ragosa, all'epoca dei fatti dg delle Risorse materiali, dei beni e dei servizi del Dap, il generale Alfonso Mattiello, ex presidente della commissione giudicatrice della fornitura di veicoli per il trasporto dei detenuti, e Claudia Greco, per oltre trent'anni direttrice del centro "Giuseppe Altavista", il polo che si occupa della gestione amministrativa del personale di polizia penitenziaria in servizio a Roma, della fornitura di beni e servizi e della manutenzione degli immobili del Dipartimento. Oggi i tre dirigenti si ritroveranno nella veste di imputati davanti alla sezione giurisdizionale per il Lazio della Corte dei conti, nella prima udienza del processo. "L'acquisto delle Bmw è stato deciso da due uffici che non dipendono funzionalmente dalla struttura diretta a suo tempo da Ragosa - spiega l'avvocato Gianfranco Passalacqua, legale del generale in pensione - Si tratta di atti imputabili ad altri dirigenti dell'amministrazione. Il generale si era limitato a istituire una commissione per valutare la congruità del prezzo: stabilito in circa 40-50 mila euro a macchina. In nessun provvedimento compare la firma di Ragosa. Anzi, dopo che la Corte dei conti aveva rifiutato il visto, aveva chiesto l'annullamento dell'acquisto". Secondo l'accusa, nelle commesse per il noleggio delle auto blindate e nel loro acquisto successivo, i dirigenti dell'amministrazione penitenziaria avrebbero commesso degli illeciti che hanno comportato un inutile esborso di soldi pubblici. "La contestazione del danno in un milione e mezzo di euro - conclude l'avvocato Passalacqua - è generica, perché basata solo sul valore delle Bmw, ma non implica che l'acquisto abbia comportato un danno all'erario". "L'amministrazione non solo non ha subito danni, ma ha conseguito consistenti vantaggi da quell'operazione - fa eco l'avvocato Maria Immacolata Amoroso, legale del generale Mattiello - Il mio assistito non ha comunque alcuna responsabilità. L'unico legittimato a eseguire quel genere di provvedimenti era Ragosa". Non è la prima volta che al generale Ragosa, noto per aver affiancato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nelle indagini contro Cosa nostra e per aver fondato il Gruppo operativo mobile del Sismi, viene contestato dalla Corte dei conti un nocumento per l'erario. La Procura contabile lo scorso ottobre l'aveva citato in giudizio per aver utilizzato indebitamente, dal 2009 al settembre 2011, le auto blu per il trasporto di mobili e bagagli e i suoi uomini di scorta per trasportare suoi familiari. L'accusa è di aver causato un danno di 390.214 euro al ministero della Giustizia, dato dalla somma di stipendi e indennità di missione per gli autisti e il costo del carburante e delle riparazione per le vetture del Dap. Per gli stessi fatti, sul fronte penale, deve rispondere dell'accusa di truffa, peculato, abuso d'ufficio e falsi. In particolare, gli viene contestato di aver fruito delle prestazioni lavorative di 12 agenti del Dap nelle missioni da Roma a Genova "per ragioni falsamente attinenti alla sua tutela", dal momento in cui spesso il generale restava nella Capitale. Quando poi effettivamente si metteva in viaggio verso il capoluogo ligure, usava due auto: una per sé e l'altra "per il trasporto di bagagli, effetti personali e masserizie". La Corte dei conti, con ordinanza del 25 settembre 2014, ha sospeso questo giudizio in attesa della sentenza di primo grado del Tribunale di Roma e ha ordinato alla Procura un supplemento istruttorio sulla quantificazione del danno. Giustizia: la Corte d'Appello "Cucchi fu picchiato da altri, ora indagate sui carabinieri" di Errico Novi Il Garantista, 14 gennaio 2014 Dalle motivazioni della sentenza Cucchi, depositate ieri, arriva una svolta clamorosa: la Corte d'Assise che in Appello ha assolto tutti gli imputati spiega perché nessuno di loro può essere condannato per la morte di Stefano, ma chiede nello stesso tempo alla Procura di Roma di riaprire l'inchiesta e valutare le responsabilità dei carabinieri. Finora nessun militare dell'Arma è stato chiamato in giudizio per la morte di Cucchi, eppure secondo i giudici "le lesioni sono necessariamente legate a un'azione di percosse", e l'ipotesi secondo cui a compierla sarebbero stati i carabinieri che hanno avuto in custodia la vittima "non è un'astratta congettura". C'è un passaggio molto esplicito: "Non può essere definita un'astratta congettura l'ipotesi emersa in primo grado secondo cui l'azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che hanno avuto in custodia Cucchi". Nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 31 ottobre ha assolto tutti gli imputati del processo per la morte di Stefano Cucchi, la Corte d'assise d'Appello di Roma chiede di aprire una nuova inchiesta. Nelle 67 pagine depositate ieri mattina si trovano da una parte le ragioni dell'assoluzione per le tre guardie carcerarie e per medici e paramedici dell'ospedale Sandro Pertini, dall'altra i giudici affermano che un pestaggio vi fu di sicuro, e che i responsabili andrebbero cercati tra i militari dell'Arma. Cioè tra coloro che tennero in custodia la vittima nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. I giudici rimettono dunque gli atti alla Procura e di fatto la obbligano a riaprire l'inchiesta. È uno sviluppo clamoroso. Che si ricongiunge con le parole pronunciate due mesi fa dal procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone: "Rileggeremo gli atti per capire se è possibile riaprire le indagini". Subito dopo, lo scorso 5 novembre, la famiglia di Stefano aveva presentato un esposto contro il professor Paolo Arbarello, perito chiave del processo. Un atto che ha determinato l'apertura di uno specifico fascicolo da parte della Procura. Adesso i pm romani dovranno avviare un'ulteriore inchiesta sulla scorta delle motivazioni della Corte d'Assise. A questo punto la verità processuale affermata in Appello cambia radicalmente il quadro della vicenda. Perché appunto viene affermata come indiscutibile la circostanza del pestaggio, pur rimasto finora senza colpevoli, perché vengono avanzati pesanti sospetti sui carabinieri e anche per i passaggi con cui viene spiegata l'assoluzione di medici e infermieri. Secondo il collegio presieduto da Mario Lucio D'Andria - composto dal giudice a latere Agatella Giuffrida e dai membri della giuria popolare - l'attività svolta dal personale dell'ospedale Pertini non è stata di apparente cura del paziente "ma di concreta attenzione nei suoi riguardi". Se il 22 ottobre del 2009 Stefano Cucchi morì fu perché era stato ricoverato in condizioni già gravissime. E "le lesioni subite da Cucchi", si legge nelle motivazioni, "sono necessariamente collegate ad un'azione di percosse e comunque a un'azione volontaria che può essere consistita anche in una semplice spinta che abbia provocato la caduta a terra con l'impatto sia del coccige, sia della testa contro una parete o contro il pavimento". E che a colpire o spingere Stefano possano essere stati i carabinieri lo lasciano ipotizzare "concrete circostanze testimoniali" dalle quali emerge che "già prima di arrivare in Tribunale Cucchi presentava segni e disturbi che facevano pensare ad un fatto traumatico avvenuto nel corso della notte". L'ipotesi di un coinvolgimento dei militari dell'Arma è stata avanzata tra gli altri anche da uno dei tre agenti di polizia penitenziaria finiti a processo, Nicola Minichini. In alcune interviste la guardia carceraria invita a indagare proprio sull'intervento dei carabinieri di due diverse caserme di Roma. Nella sua dichiarazione al processo d'Appello, l'ultima prima della camera di consiglio, Minichini però si guardò dal sostenere queste ipotesi e disse che "i lividi sotto gli occhi di Stefano di sicuro non erano segno di percosse". Dopo quest'ultima clamorosa svolta del caso, il senatore Pd Luigi Manconi, tra i più tenaci nella richiesta di giustizia per Cucchi, dichiara che da quelle motivazioni, tra le righe, si deduce come la Procura di Roma abbia "svolto le indagini in maniera maldestra e inadeguata". Ora, dice Manconi, c'è da augurarsi che le nuove "indagini siano condotte da pubblici ministeri coscienziosi e competenti". Giustizia: Stefano Cucchi e quella riforma che lo avrebbe potuto salvare di Riccardo Polidoro (Responsabile Osservatorio Carcere dell'Ucpi) Il Garantista, 14 gennaio 2015 Uno schiaffo alle indagini. Le motivazioni della sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello sulla morte di Stefano Cucchi, che il 31 ottobre scorso mandò assolti gli imputati, affermano chiaramente che l'attività svolta dalla Procura della Repubblica è stata carente e insufficiente. I giudici invitano l'ufficio inquirente a "svolgere ulteriori indagini al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse". Dopo oltre 5 anni, dunque, è necessario ricominciare: le motivazioni della sentenza rappresentano anche uno schiaffo allo Stato. La Corte, infatti, sottolinea che "le lesioni subite da Cucchi sono necessariamente collegate ad un'azione di percosse e comunque ad un'azione volontaria". Con la sentenza di secondo grado viene confermato dunque un unico dato: la responsabilità istituzionale. Ma non vi è certezza su chi materialmente compì quegli atti vigliacchi e disumani su un giovane inerme che, in quel momento, era affidato ad apparati dello Stato. La vicenda giudiziaria si presta ad una serie di riflessioni. La prima è l'importanza del grado di Appello. Irrinunciabile garanzia in un Paese democratico che vuole effettivamente assicurare ai cittadini un processo giusto che, nel contraddittorio delle parti, accerti la verità dei fatti. Solo il riesame della sentenza di primo grado può consentire di evitare la probabilità di errori e l'avvicinarsi, quanto più è possibile, alla realtà di quanto effettivamente accaduto. Va poi rivalutata e rafforzata l'udienza preliminare, da sempre ridotta ad un mero passaggio di carte tra la Procura e il Tribunale. L'esame della "richiesta di rinvio a giudizio" da parte del Giudice è, quasi sempre, solo formale e mai sostanziale, laddove innanzi a una richiesta di rito abbreviato il processo viene rinviato per consentire lo studio degli atti. L'udienza preliminare dovrebbe, invece, essere il momento in cui, finalmente, il Giudice terzo valuta il lavoro svolto in solitudine dalla Procura e dice se le indagini sono state ineccepibili, ovvero meritano integrazioni, e se gli imputati devono affrontare il processo o essere prosciolti. Le considerazioni di diritto devono, però, nel caso di Stefano Cucchi essere messe da parte, perché è prevalente evidenziare che l'iter processuale sino ad ora svolto ci ha lasciato un'unica certezza: si è trattato di un omicidio di Stato. Sia la condanna in primo grado, sia l'assoluzione in secondo, evidenziano tale drammatico dato, dinanzi al quale vi sono evidenti responsabilità politiche. Da tempo le Camere penali denunciano quanto accade negli istituti di pena e nelle celle di sicurezza dei Tribunali. Innumerevoli sono state le archiviazioni dovute all'impossibilità d'indagare effettivamente, dinanzi al silenzio delle persone e all'impenetrabilità degli spazi. Gli inviti ad una riflessione più ampia sull'uso troppo disinvolto della custodia cautelare e sulla spesso inutile privazione della libertà personale, nonché sull'incapacità delle istituzioni di operare la necessaria sorveglianza sull'integrità fisica di chi è privato della libertà, hanno trovato insormontabili ostacoli dovuti ad una facile vena giustizialista priva di etica e lontana dalla cultura di civiltà, non solo giuridica, del nostro Paese. Occorre una maggiore trasparenza istituzionale, che consenta di avvicinare i cittadini alle problematiche relative alla detenzione, affinché i diritti di colui che è ristretto siano sentiti come i diritti di tutti e la loro violazione sia fonte di una corale e civile protesta. Riaffermare con forza la centralità del diritto e della dignità della persona è un dovere politico, altrimenti anche l'auspicata introduzione nel nostro ordinamento del delitto di tortura servirà solo ad "accontentare" l'Europa, che la chiede, ma non ad evitare che altri crimini, come quello che ha visto soccombere Stefano Cucchi, restino impuniti. Giustizia: Ilaria Cucchi "la procura ora riapra le indagini e ci dica chi ha ucciso Stefano" di Federica Angeli La Repubblica, 14 gennaio 2015 La procura di Roma potrà riaprire le indagini, si legge nelle motivazioni. Cosa ne pensa? "Spero che qualcuno finalmente si decida a dirci chi è stato a ridurre così Stefano. Abbiamo questa sentenza che riconosce quel pestaggio e che nega che sia morto di fame e di sete però non c'è nessun colpevole. Da semplice cittadina mi chiedo: quale sarà il passo successivo?". I medici sono stati "attenti nei riguardi del giovane" dicono i giudici. "Quello che leggo mi lascia senza parole. Abbiamo avuto dei grandi luminari che nel corso del processo facevano dei convegni per dire "come abbiamo risolto il caso Cucchi". Bene: come lo hanno risolto il caso? Posso capirlo anche io?". L'unica certezza giudiziaria è che Stefano fu picchiato. Quando secondo lei? "Questo ce lo devono dire loro. Se avessi potuto farlo io non saremmo arrivati a questo punto". "Si deve indagare sull'operato dei carabinieri". Avevate mai sollevato dubbi in questo senso? "In realtà noi non abbiamo mai cercato dei capri espiatori. Noi con grande fiducia ci siamo messi nella mani della giustizia, la stessa che aveva ucciso mio fratello". Quanto al fatto che non vi sia alcuna certezza sulla causa della morte? "In Italia se si è uno dei cosiddetti ultimi si può morire senza una causa. La sola verità è che se non fosse arrestato non sarebbe morto". Sulla sua pagina pubblica di Facebook ha attaccato, 12 ore prima delle motivazioni della sentenza, il procuratore Pignatone. Perché? "Il mio non è un attacco a lui, sono preoccupata e mi auguro che se ora verranno svolte delle nuove indagini non siano mirate a difendere i pm". In cosa avrebbero sbagliato i pubblici ministeri? "Hanno sostenuto un processo in cui si voleva dimostrare che Stefano era morto di suo, non ho mai visto la capacità di ammettere che in fondo anche un magistrato può sbagliare e quindi si è andati al massacro, sostenendo che si trattava di lesioni". Però in fondo hanno istruito un processo per la morte di suo fratello i pm, no? "Ci dicevano "vedrete che sarete contenti". Ma contenti di cosa: di avere un processo che era già scritto? Il consulente della procura al tg5 prima ancora dell'inizio del processo, a incarico appena ricevuto, già dichiarava che era un caso di colpa medica". Secondo lei come sono andate veramente le cose? "Mio fratello è stato arrestato, è stato vittima di un pestaggio e poi del pregiudizio. Non l'hanno nemmeno guardato in faccia all'udienza di convalida. Sa chi è stato il vero assassino di Stefano? L'indifferenza e di indifferenza si può morire". Giustizia: Don Mazzi "pronto a accogliere Fabrizio Corona nella comunità Exodus" Askanews, 14 gennaio 2015 "Perché Fabrizio Corona è ancora in prigione? Perché? È puro accanimento. Ma di che cosa stiamo parlando? Di un ragazzo che ha fatto qualche fotografia ed è fuggito a bordo di una Fiat 500 in Portogallo? Suvvia. Se non lo liberano, se non gli consentiranno di accedere a misure alternative al carcere, se non avrò la possibilità di ospitarlo nella mia comunità, racconteremo una triste storia della giustizia italiana". Così, sul numero di "Chi" in edicola domani, Don Antonio Mazzi, fondatore della comunità Exodus, svela un retroscena del percorso giudiziario di Fabrizio Corona, che sta scontando una pena di 9 anni e 8 mesi nel carcere di Opera. Il prossimo 22 gennaio, infatti, il tribunale di sorveglianza di Milano discuterà l'istanza di detenzione domiciliare presentata dai difensori dell'ex agente fotografico. "Non voglio nemmeno pensare che la richiesta non venga accettata", prosegue don Mazzi. "Ho visto Fabrizio di recente. Ha attraversato un mare in tempesta. Non sta bene. La magistratura lo ha trasformato in un caso chissà per quali motivi. Non è un terrorista, non è un mafioso. Si sta facendo la galera per un reato morale. La magistratura è scivolata su una banalità. Io sono incazzato. Nella mia comunità ho ospitato Erika De Nardo, che ha ucciso madre e fratellino (il delitto di Novi Ligure, ndr). Per il duplice omicidio è stata condannata a sedici anni. Due in più di quelli comminati a Corona, che era stato condannato a quattordici anni, ora commutati a nove anni e otto mesi. A Natale, dopo aver celebrato la messa in carcere, non l'ho visto bene. Sono pronto da anni ad accogliere Fabrizio qui. I magistrati hanno la documentazione in mano che dimostra come la comunità Exodus sia idonea per recuperare il detenuto Corona. Qui da me lo aspetta la palestra. Il suo ruolo sarà quello di far sudare i miei "ragazzi disperati", che non hanno voglia di faticare. Il suo compito è già pronto. Lo aspetto, anzi lo aspettiamo qui". Campania: salute in carcere, ieri il punto nel convegno della Comunità di Sant'Egidio di Maria Nocerino www.napolicittasociale.it, 14 gennaio 2015 Il ministro Orlando: "Il governo sta andando nella direzione giusta". "Poggioreale come esempio del superamento dell'emergenza sovraffollamento". Lo ha affermato oggi il ministro della Giustizia Andrea Orlando, presente a Napoli per il convegno promosso dalla Comunità di Sant'Egidio presso la casa circondariale intitolata a Giuseppe Salvia, dal titolo "2008-2014 - Riforma della salute in carcere: analisi, criticità e proposte". Il carcere di Poggioreale, in effetti, attualmente ospita circa 1.900 persone, comunque di più della sua capienza massima (1.387), ma in numero nettamente inferiore rispetto all'anno precedente, quando si contavano circa 2.700 detenuti. "Quasi mille detenuti in meno, una situazione impensabile fino a qualche tempo fa", così Orlando ha rivendicato gli ottimi risultati raggiunti in questo anno, a partire dal decreto cosiddetto "Svuota-carceri", per cui il numero complessivo dei detenuti presenti nelle carceri italiane è passato da 65mila a circa 54mila unità. L'intervento del ministro Andrea Orlando "Questo non vuol dire che non ci siano realtà in cui è ancora presenti il fenomeno - sottolinea il responsabile di Grazia e Giustizia del governo Renzi - ma per il primo anno nel 2014 la Corte Europea ha riconosciuto il superamento dell'emergenza". Dopo aver ribadito l'equità di diritti e la parità di trattamento e servizi tra persone libere e persone private della libertà personale, il ministro ha annunciato: "Siamo alla vigilia di un profondo cambiamento del sistema, da realizzare attraverso il coinvolgimento attivo di tutte le parti, non solo degli esperti, ma anche di chi si occupa di sociale, lavoro, economia, cultura", convocando per i prossimi mesi degli Sati Generali in materia. La salute, intesa come "stato di benessere psico-fisico", dunque, è in cima alle priorità del governo e non solo, secondo il delegato della Giustizia, deve essere garantita ma anche sostenuta attraverso un ruolo attivo e propositivo di tutti, anche in termini di prevenzione e monitoraggio. Lo stato dell'arte della riforma della salute nelle carceri Ma a che punto è l'attuazione della riforma avviata dal decreto del 1 aprile 2008 (che segna il passaggio di competenza dell'assistenza sanitaria dal ministero della Giustizia alle Asl, ndr)? Quello che emerge dall'incontro di oggi è un quadro segnato da luci e ombre: alla riforma si sono sì allineate tutte le regioni italiane (fatta eccezioni per la Sicilia), ma ci sono ancora molti problemi, a partire dalla mancanza di risorse, sia economiche sia umane, da destinare al lento ma inevitabile processo. "Nelle carceri napoletane ci sono solo due centri diagnostici, a Poggioreale e Secondigliano - ha spiegato Tommaso Contestabile, provveditore regionale dell'Amministrazione penitenziaria Campania - ridotti a semplici infermerie. I detenuti se vogliono operarsi devono aspettare liste di attesa di oltre 6 mesi e comunque non hanno a disposizione che pochi posti negli ospedali partenopei". "La prima richiesta che ci fanno i detenuti - ha detto oggi Don Virgilio Balducchi, ispettore dei Cappellani delle carceri - è quella di farmaci, un po' perché ne hanno davvero bisogno, in alcuni casi in sostituzione delle sostanze stupefacenti, in altri come risposta alla depressione che, di per sé, il carcere produce nelle persone". Le proposte Una delle proposte venute fuori dal convegno di stamane è quella di prevedere all'interno del nascente Ospedale del Mare un reparto capace di accogliere, in maniera adeguata, la popolazione carceraria di Napoli. Oltre a Contestabile, a parlarne è stata la garante dei diritti dei detenuti della Regione Campania, Adriana Tocco, che ha anche lanciato un appello "per la sospensione della pena o il ricorso ai domiciliari nel caso di patologie particolarmente gravi, come quello di persone che devono affrontare chemioterapie o dialisi, o che hanno subito un ictus e sono rimaste paralizzate". Un invito a vigilare, invece, arriva dal mondo del volontariato, rappresentato stamattina da Stefania Tallei, della Comunità di Sant'Egidio: "I direttori degli istituti devono monitorare le condizioni di salute dei detenuti, anche se non ne hanno più la stretta responsabilità e competenza". Il ruolo della Regione Campania "Il punto non è tanto di chi sia la competenza, ma il modo in cui si garantisce la giusta accoglienza alle persone private della libertà", ha precisato Ernesto Esposito, direttore generale dell'Asl Napoli 1, che ha anche prodotto un opuscolo sul tema (L'offerta assistenziale di sanità penitenziaria in Asl Napoli 1 Centro). La Regione Campania dal canto suo non può fare molto se non ci sono fondi a livello centrale. A sostenerlo nel corso dell'incontro, moderato da Antonio Mattone della Comunità di Sant'Egidio, è stato il governatore della Campania, Stefano Caldoro: "Come in un sistema di vasi comunicanti, la nostra regione dipende strettamente dalle altre e dal livello di spesa che si decide di destinare al livello territoriale. La popolazione ristretta, come quella carceraria, ha lo stesso diritto alla cura del resto della popolazione e così vive anche gli stessi problemi e le stesse criticità generali". La Comunità di Sant'Egidio La Comunità di Sant'Egidio è presente in 17 carceri italiane (Lazio, Campania, Toscana, Liguria, Piemonte). Svolge, tra gli altri, interventi di prima assistenza: distribuzione di generi di prima necessità, divenuti indispensabili e addirittura richiesti dalle amministrazioni, a causa del sovraffollamento e dei tagli; colloqui di sostegno e orientamento, espletamento di pratiche burocratiche, ricerca di lavoro e di sistemazioni alloggiative al momento dell'uscita dal carcere; informazione, orientamento sui contenuti delle normative, degli ordinamenti penitenziari e sulla loro applicazione; animazione culturale e sociale; visite a detenuti e sostegno in regime di detenzione domiciliare; corrispondenza epistolare con circa 500 detenuti in carceri lontane; mediazione culturale e monitoraggio del rispetto dei diritti della persona. Campania: il Presidente Caldoro "sanità dietro le sbarre, al Sud è tutto più difficile" di Claudia Procentese Il Mattino, 14 gennaio 2015 "Il 2014 è stato l'anno del superamento dell'emergenza sovraffollamento, riconosciutoci dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. A Poggioreale ci sono mille detenuti in meno. Ma il 2015 deve essere l'anno perii ripensamento dell'esecuzione della pena, della concezione di carcere. È una battaglia culturale. Per questo in primavera convocheremo gli stati generali sulla condizione carceraria per lanciare un messaggio al Paese: il carcere è parte, non un pezzo distinto della società". È l'annuncio fatto ieri dal ministro della Giustizia Andrea Orlando a conclusione dei lavori del convegno, promosso dalla Comunità di Sant'Egidio nella casa circondariale di Poggioreale, sulla riforma penitenziaria che ha visto nel 2008 il difficile passaggio di gestione sanitaria al Ssn, ovvero alle Asl territorialmente competenti. "Il paziente detenuto è un cittadino - ha sottolineato il Guardasigilli - e la tutela della sua salute è compito di chi ha disposto la privazione della libertà personale". "Il diritto costituzionale alla salute risulta difficile da garantire al Sud - ha spiegato il presidente della Regione Stefano Caldoro, intervenuto all'incontro moderato da Antonio Mattone: in Campania il deficit di personale è di 8mila unità, il solo peso pro-capite sul personale medico è di 524 euro, la media nazionale è di 664". Di qui l'importanza della collaborazione tra Asl e Dap, poiché "non importa chi sia il suo datore di lavoro, il medico deve essere formato all'accoglienza" come ha ribadito Ernesto Esposito, direttore generale dell'Asl Napoli 1 Centro, illustrando i dati sull'offerta assistenziale distribuiti in opuscoli. Insomma, un lavoro inter-istituzionale perché "la cura ricade sulla qualità della pena, ma la pena può ricadere sulla qualità della cura" ha detto il direttore del carcere di Poggioreale, Antonio Fullone, tra i partecipanti al dibattito insieme a Antonio Bonaiuto, presidente della Corte d'Appello di Napoli, al procuratore capo Giovanni Colangelo, e ai relatori (Adriana Tocco, garante dei detenuti Regione Campania, Carmine Antonio Esposito, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Roberto Di Giovanpaolo, presidente nazionale Forum Salute dei detenuti, Liberato Guerriero, direttore dei carcere di Secondigliano, don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, Ornella Favero di Ristretti Orizzonti, Stefania Tallei della Comunità di Sant'Egidio, Franco Milani del Gruppo tecnico interregionale Lombardia Sanità penitenziaria, Alessandro Barbano, direttore de "Il Mattino"). Tommaso Contestabile, provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria denuncia: "A Napoli abbiamo due centri clinici penitenziari ridotti ad infermerie, lunghe le liste d'attesa per i ricoveri". "Il medico non deve occuparsi solo della prestazione ma di tutto il contesto - ha detto il vice capo del Dap Francesco Cascini - così come il direttore deve vigilare sulla corretta cura ai detenuti. La questione sovraffollamento non si riduce ai metri quadrati, ma investe l'accesso totale ai servizi". Cura e custodia. Binomio più sofferto nel caso degli Opg. "È l'ultima proroga - ha ribadito Orlando, che al cardinale Sepe ha offerto un finanziamento per un progetto lavorativo da presentare durante la visita di Papa Francesco - e le Regioni che non provvederanno entro marzo alla loro chiusura saranno commissariate. La Campania ha dato una risposta rapida e convincente". Vercelli: i Radicali in visita al carcere "qui nessun problema di sovraffollamento" di Roberto Maggio La Stampa, 14 gennaio 2015 Una struttura "estranea ad ogni ipotesi di sovraffollamento". Così il consigliere regionale Gabriele Molinari definisce il carcere di Vercelli al termine della visita ispettiva svolta ieri. Ad accompagnarlo, anche se per un cavillo burocratico non sono potuti entrare tra le celle, l'esponente vercellese dei Radicali Rosita Flaibani e il presidente dell'associazione radicale "Adelaide Aglietta" Igor Boni, che hanno illustrato alcuni dati riguardo il Biliemme. Attualmente la casa circondariale ospita 213 detenuti: 109 sono stranieri (in prevalenza marocchini, albanesi e rumeni), mentre gli italiani sono 104. Un totale ben al di sotto della soglia di tolleranza (417), della capienza regolamentare (230) e dei picchi registrati negli anni scorsi, quando il carcere ha avuto punte di 350-400 reclusi. Questo merito della sentenza Torreggiani del 2013, con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha giudicato le condizioni dei detenuti italiani una violazione degli standard minimi di vivibilità. E grazie anche ad una razionalizzazione della popolazione carceraria a opera della Regione. Rimangono però problemi di organico: secondo i dati forniti dai Radicali, dei 23 sovraintendenti previsti per Vercelli ce ne sono 8. Del 26 ispettori disposti dalla legge, ce ne sono 6. "Sono presenti anche danni strutturali al Billiemme - continua Boni: ci sono infiltrazioni di pioggia e alcune perdite. Ci sono da rifare completamente le docce". I 180 uomini e 33 donne vivono in celle da 9,5 metri quadri, aperte (e quindi possono circolare liberamente) dalle 9 alle 19,45. I colloqui con i parenti si svolgono 6 giorni alla settimana (prima erano 3), i detenuti dispongono di una palestra e di una piccola biblioteca, anche se c'è sempre bisogno di donazioni, sia di libri che attrezzi. Prossimamente nel carcere di Vercelli, cha ha un direttivo di sole donne, potrebbe arrivare addirittura un corso di zumba. Padova: oggi "Penultimo pranzo" nel carcere. Perché troncare un'esperienza positiva? Tempi, 14 gennaio 2015 Lo cooperative non gestiranno più le cucine nelle carceri. Eppure era una realtà che faceva risparmiare e insegnava un lavoro a tanti detenuti. Oggi alle 12.30 nella Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova si terrà il "Penultimo pranzo" preparato e servito dai detenuti che hanno partecipato al Progetto Cucine. Come ha spiegato Nicola Boscoletto, presidente della cooperativa Giotto, sono state invitati il personale dell'amministrazione penitenziaria, i detenuti coinvolti e "tutte quelle autorità e personalità di ogni ordine e grado che ci sono state vicine", per quello che sarà "un momento di saluto e ringraziamento a quanti in questi undici anni ci hanno sostenuto con forza". I lettori di tempi.it conoscono già la realtà del carcere padovano dove opera la cooperativa Giotto, indicata anche da alcuni ministri come un modello intelligente e efficace per il recupero dei detenuti. Come vi avevamo già raccontato, ora questa esperienza rischia seriamente di finire, sebbene il suo valore sia pressoché riconosciuto da tutti e, per dirne una, i suoi "prodotti", come i panettoni, siano finiti sulle mense di Papi e presidenti statunitensi. Perché conviene Cosa è successo? È accaduto che, come si temeva, è stata tolta la gestione delle cucine a una decina di cooperative che, dal 2003, la portavano avanti secondo un progetto (sempre rimasto sperimentale) in dieci penitenziari del paese (da Torino a Bollate, da Padova a Rebibbia). Il motivo è presto detto: non ci sono più soldi. Ma siamo sicuri che interrompere tale pratica - facendone ritornare la gestione all'interno delle carceri - comporti un risparmio? Può essere nell'immediato, ma ci sono una serie di fattori che al ministero ignorano o, più probabilmente, degnano di scarsa attenzione. La prima e più banale è che la qualità del vitto è notevolmente migliorata. Non è poco in un ambiente come il carcere, dove la vita (e la conseguente "tranquillità") dei detenuti è un elemento essenziale per evitare disordini. In secondo luogo, vi è un risparmio, come hanno testimoniato gli stessi direttori delle carceri in una lettera al Dap del 28 luglio in cui hanno spiegato che la gestione affidata alle cooperative ha fatto risparmiare in termini di manutenzione delle strutture, di acquisto di prodotti, utenze, mercedi (le paghe dei detenuti), spese di mantenimento. In terzo luogo, che è forse il più importante, i carcerati hanno avuto così la possibilità di imparare un mestiere vero, che potranno poi "giocarsi" all'esterno una volta usciti di cella. Non è un elemento di poco conto. Innanzitutto perché un uomo che lavora, anche quando è in carcere, riacquista consapevolezza di sé, dignità e il senso di sentirsi importante e non un peso per chi lo circonda. In secondo luogo perché, come si diceva, una volta espiata la pena, non si troverà completamente sprovvisto e inadeguato in un mondo che, mentre lui era dietro le sbarre, ha continuato a correre. Al ministero, che conoscono i numeri sulla recidiva, dovrebbero fare bene i conti. Detta un po' grezzamente: un "malvivente" recuperato oggi, è uno in meno a cui dare la caccia domani. I rinvii del ministro Il ministero non si è comportato bene con le cooperative. Sebbene siano anni che il lavoro carcerario sia sulla bocca di tutti, ultimamente ministro e autorità competenti hanno fatto orecchie da mercante. Eppure non è passato nemmeno un anno da quando il capo (oggi ex) del dipartimento, Giovanni Tamburino, dichiarava: "Bisogna confrontarsi con l'oggettività che danno i direttori, che vedono le cose concrete, pratiche, quotidiane. Il giudizio è fortemente positivo: non si torna indietro, anzi si va avanti". Ora, invece, s'è capito che l'esperienza dovrà essere sospesa. Sebbene i direttori si siano spesi per cercare di farla proseguire, il ministro Andrea Orlando si è barcamenato in continui rinvii, fino alla triste conclusione. Così 170 detenuti e una quarantina di operatori esterni delle cooperative perderanno un "posto di lavoro vero". Non solo: il ministero ha deciso di decurtare rispetto alle richieste delle cooperative di oltre un terzo la disponibilità del fondo della legge Smuraglia. Ce ne pentiremo amaramente. Salerno: Salzano (Radicali) sospende all'undicesimo giorno il digiuno per le carceri Salerno Notizie, 14 gennaio 2015 Il segretario di Radicali Salerno Associazione "Maurizio Provenza" Donato Salzano sospende all'11° giorno, ma non interrompe la lotta per gli obbiettivi del grande Satyagraha di Natale condotto dalla sete di Marco Pannella per "lo Stato di Diritto contro la ragion di stato, amnistia e indulto" e per chiedere il processo per il caso di Carmine Tedesco, detenuto deceduto nel novembre 2012 alla sezione detentiva dell'ospedale S. Leonardo, in circostanze ancora tutte da chiarire. Si sospende il digiuno grazie alla volontà di dialogo del Sindaco De Luca e dell'Arcivescovo Moretti, che riceveranno nei prossimi giorni una delegazione Radicale con la vedova Tedesco, ma non s'interrompe la lotta, anche perché non ha ancora avuto una risposta la richiesta urgentissima d'incontro con il Procuratore della Repubblica di Salerno Corrado Lembo per chiedere di avocare a se il fascicolo del "Tedesco" e con la Presidente Maria Antonia Vertaldi del Tribunale di Sorveglianza di Salerno, sulla premialità e il risarcimento della pena. Dichiarazione di Salzano: "Come non mai vicino in queste ore di Satyagraha alla Comunità Penitenziaria di Fuorni, all'agente e l'infermiere recentemente feriti sul proprio lavoro, alle ragioni condivise di Emilio Fattorello del Sappe e Lorenzo Longobardi della Uil-Pa Penitenziari. Oramai da tempo difficile comprendere chi sia il torturato e chi il torturatore, tutti vittime della stessa pena, anche chi detenuto non è. Appunto di questa detenzione illegale contro lo Stato di Diritto e le convenzioni internazionali su i diritti umani. Sospendo il digiuno, ma non interrompo la lotta, a partire dal caso Tedesco come per i casi Cucchi, Perna e Mastrogiovanni, emblematici per la violazione dei trattamenti inumani e degradanti, ma se per i primi si è riusciti ad ottenere un processo, per il ladro di biciclette di Montecorvino, la volontà del magistrato è quella di chiudere frettolosamente in istruttoria. Pensare che l'ipotesi di reato è l'omicidio colposo, grazie e soltanto perché questo Parlamento d'irresponsabili non ha ancora deciso di approvare una legge che colpisca "la tortura", in violazione di ogni trattato internazionale in materia. Il dialogo nonviolento accolto dal Sindaco De Luca e dall'Arcivescovo Moretti, ma non ancora dal Procuratore Lembo e dalla Presidente Vertaldi, per chiedere Stato di Diritto ed effettiva pratica dell'obbligatorietà dell'azione penale, vestire gli ignudi e dare da mangiare gli affamanti, perché beati sono coloro che perseguitati a causa della giustizia, infatti proprio per questo di essi è il regno dei cieli. Lì appunto la Chiesa di Papa Francesco, quella povera e per i poveri, dove vivono quei poveri Cristi, ultimi tra gli ultimi. Indispensabile quindi come minimo garantire loro i livelli essenziali d'assistenza sanitaria così da poterli garantire a tutti. La banalità del male è quando non si garantiscono neanche più i giorni di premialità di fine pena ne i risarcimenti per la tortura resa da questo Stato torturatore, come invece senso di umanità vuole, costituzione e trattati internazionali sanciscono. La fame e la sete di Diritto, di Verità e Giustizia di Marco Pannella, di oltre seicento tra compagni Radicali, agenti di polizia penitenziaria, personale amministrativo e sanitario, volontari e cappellani, detenuti e i loro familiari, tutti nel dare forza a costoro che violano le leggi che loro stessi si sono dati. La stessa di Anna Sammartino vedova del sig. Tedesco, quando dice: "Mio marito era in custodia dello Stato e me l'hanno restituito morto". La speranza per lo Stato di Diritto è riposta nell'abnegazione dei tanti agenti di polizia, ma soprattutto nei tanti magistrati onesti, rispettosi della divisione dei poteri, una di questi è sicuramente la nostra Renata Sessa, un Giudice a Berlino. Spes contra Spem!" Perugia: progetto Lions Club, cuccioli di labrador ai detenuti del carcere di Capanne www.laprimapagina.it, 14 gennaio 2015 Sabato 31 gennaio 2015 alle ore 11 presso il Nuovo Complesso Penitenziario di Capanne, il LIONS Club Perugia Concordia consegnerà due cuccioli di cane Labrador, Mirto e Margot, a quattro detenuti che si occuperanno, nel rispetto del Protocollo della Scuola per Cani Guida Lions di Limbiate, della loro socializzazione. Il programma Prison Puppy Raiser (Far crescere un cucciolo in prigione) si pone a supporto del Programma Lions "Cani Guida per non-vedenti". Il progetto è completamente finanziato dal Lions Club Perugia Concordia sino alla donazione dei cuccioli alla Scuola per Cani Guida Lions. Il carcere fornirà lo spazio ed affiderà ai detenuti la cura e l'accompagnamento interno dei cuccioli, che potranno muoversi in ogni spazio dell'Istituto Penitenziario, con esclusione delle zone di sicurezza. Gli istruttori cinofili della Scuola per Cani Guida Lions di Limbiate formeranno i detenuti affinché siano in grado di insegnare ai cuccioli i comandi utili all'interazione con gli umani, nonché nozioni sulla gestione e cura dei loro piccoli nuovi amici. Accudendo i cuccioli nella prima fase della loro vita, i detenuti si sentiranno utili per i non-vedenti di cui gli animali diventeranno successivamente guida. Negli Stati Uniti, ove il programma Leader Dogs for the Blind, lanciato nel lontano 2002, interessa oggi 6 case circondariali, ha importantissimi risvolti umani e sociali in quanto i reclusi selezionati per il programma, una volta liberi, sono meno inclini ad essere coinvolti in situazioni illegali e sono molto motivati nel loro nuovo compito di educatori/formatori, sapendo che il ruolo da loro svolto in qualità di Puppy Raiser sarà determinante per la crescita equilibrata del cane. Partecipano al programma la società svedese "Husse", tramite il rappresentante di zona Gianguido Colato, che fornirà gratuitamente l'alimentazione, ed il veterinario Prof. Stefano Arcelli. I cuccioli, attentamente selezionati nell'allevamento Enci "Rosacroce Wanals di Perugini Massimilano", vivranno il carcere come una famiglia molto numerosa. Genova: rissa nel carcere di Marassi, detenuto stacca orecchio a un compagno a morsi di Stefano Origone La Repubblica, 14 gennaio 2015 Un detenuto nigeriano ha aggredito il suo compagno di cella. La Uil Penitenziari denuncia: sovraffollamento e carenza di agenti penitenziari. È avvenuto nei pochi metri quadrati di un "cubicolo", una cella ‘microscopica' dove i due sono rinchiusi nel carcere di Marassi. Un detenuto nigeriano ha aggredito il suo compagno di cella, un romeno, staccandogli a morsi un orecchio. Vecchi rancori, ma soprattutto la rissa senza esclusioni di colpi è avvenuta a causa del sovraffollamento che da anni colpisce il carcere e che ha raggiunto numeri da record. "Sono presenti circa 700 detenuti - denuncia Fabio Pagani, segretario regionale del sindacato Uil Penitenziari - su una capienza di 450". Uno scenario che si ripete con inquietante continuità. "Le nostre prigioni sono gironi infernali, in cui il personale di polizia penitenziaria deve lavorare rischiando la propria incolumità. Voglio ricordare che lavorano 290 poliziotti su un organico previsto di 410". Detenuti costretti a vivere in celle in cui i letti a castello toccano i soffitti. "Occorre restituire dignità non solo a chi nelle carceri lavora, ma anche ai detenuti, ammassati in spazi disumani". Velletri (Rm): rissa tra detenuti, c'è un solo agente di Polizia penitenziaria nella sezione www.castellinews.it, 14 gennaio 2015 "Nel Penitenziario di Velletri ieri nel pomeriggio, verso le ore 16:30 in una delle sezioni detentive che ospitano 52 detenuti scoppia una rissa fra detenuti italiani e albanesi, ad avere la peggio è stato un detenuto albanese, solo grazie al intervento tempestivo dell'unico agente di Polizia Penitenziaria addetto al controllo della sezione che gli ha evitato il peggio riuscendo a limitargli i danni, se le cavata con un taglio profondo lungo 10 centimetri sul volto ed ematomi in varie parti del corpo. Nei giorni scorsi - si legge in una nota dei delegati del sindacato Sippe nella casa circondariale di Velletri, Carmine Olanda e Ciro Borrelli - nel penitenziario di Velletri, grazie sempre alla elevata capacità professionale dell'Agente e del medico di turno che ha praticato un lungo massaggio cardiaco è stata salvata la vita a un detenuto Italiano in arresto cardiorespiratorio, subito dopo trasportato in eliambulanza presso l'ospedale di Latina per le cure del caso". Fasano (Br): due ex detenuti senza lavoro minacciano di gettarsi dal terrazzo del Comune www.osservatoriooggi.it, 14 gennaio 2015 Chiedono di poter tornare a lavorare: sul posto sono intervenuti i Carabinieri della Compagnia di Fasano. Due ex detenuti, che sino a qualche mese fa lavoravano alle dipendenze della cooperativa "Alba Nuova", il sodalizio (ora dichiarato fallito) a cui il Comune aveva affidato i lavori di manutenzione dell'arredo urbano, sono tornati questa mattina (martedì 13 gennaio) ottobre) a manifestare all'ingresso di Palazzo di città con cartelloni di accusa verso l'Amministrazione comunale. Rimasti senza lavoro, gli ex dipendenti, non contenti di protestare davanti all'androne, sono saliti sul terrazzo di Palazzo di Città minacciando di buttarsi nel vuoto. Un'azione già fatta anche in passato. Sono intervenuti i carabinieri della Compagnia di Fasano per dissuadere i due dall'insano gesto. "Non sappiamo come fare, non abbiamo più niente da mangiare - lamentano i due. Ci avevano promesso il lavoro e adesso dov'è. Noi vogliamo soltanto lavorare, ma l'amministrazione ci dice che non ci sono mai soldi". Con l'affidamento da parte del Comune della manutenzione ordinaria del verde pubblico e dell'arredo urbano alla cooperativa "Acquarius B", alcuni dipendenti della "Alba Nuova", di fronte alla prospettiva di dover lavorare soltanto per due ore al giorno a fronte delle quattro precedenti e, quindi, percependo la metà del salario, decisero di non accettare. La cooperativa nel frattempo si è messa all'opera facendo affidamento sulla manodopera disponibile e avviando contatti con altri ex detenuti e sorvegliati speciali di pubblica sicurezza. Due di quelli che sono rimasti senza lavoro ora sono tornati in piazza per attirare l'attenzione dell'opinione pubblica sulla loro situazione. Televisione: "Torto o Ragione?" (Rai 1) si occupa del reinserimento sociale dei detenuti Askanews, 14 gennaio 2015 Nella puntata di Torto o ragione?, in onda mercoledì 14 gennaio su Rai1 alle 14.40, Monica Leofreddi tratterà il tema degli ex detenuti. Sirio, per 20 anni, è entrato e uscito dal carcere e tra qualche giorno tornerà in libertà dopo 4 anni di detenzione. Sirio non ha più una casa, è vedovo da 18 anni e ha solo una figlia, Elena, la quale vorrebbe ospitarlo almeno per un periodo iniziale in modo da facilitargli il ritorno alla normalità ma, suo marito Piero, si oppone perché considera il suocero un pessimo esempio per i loro due figli di 8 e 10 anni. Gli ospiti in studio saranno Barbara Alberti, lo psichiatra Domenico Mazzullo e Linda Santaguida. India: caso marò, la Corte suprema concede altri tre mesi in Italia a Massimiliano Latorre Ansa, 14 gennaio 2015 La Corte suprema indiana ha concesso oggi una estensione di tre mesi della permanenza in Italia per motivi di salute del fuciliere di marina Massimiliano Latorre. Lo ha appreso l'Ansa sul posto. La sezione numero tre presieduta dal giudice Anil R.Dave ha disposto l'estensione del permesso dopo aver ascoltato la posizione del pubblico ministero indiano (additional solicitor general P.L. Narasimha) e dell'avvocato di Latorre, Soli Sarabjee. La seduta è stata particolarmente breve poiché Narasimha ha consegnato alla Corte una lettera di istruzione da parte del governo indiano in cui si accettava la possibilità che il Fuciliere continuasse la sua convalescenza in Italia per tre mesi. Contestualmente la Difesa ha presentato ai giudici una garanzia scritta firmato dall'ambasciatore d'Italia in India Daniele Mancini in cui c'è un impegno a rispettare la nuova scadenza fissata oggi dalla Corte per il rientro di Latorre. Stati Uniti: prima esecuzione del 2015, ucciso un veterano del Vietnam invalido La Repubblica, 14 gennaio 2015 Colpevole di aver freddato un agente a un posto di blocco, ha passato 15 anni nel braccio della morte fino all'iniezione letale di ieri sera. Respinto anche l'ultimo ricorso dell'ex soldato al quale i medici avevano riconosciuto un handicap totale per i disturbi bipolari riportati dalla guerra. Le autorità penitenziarie americane hanno proceduto alla prima esecuzione di un detenuto nel 2015. Andrew Howard Brannan, 66 anni, veterano della guerra del Vietnam, è stato giustiziato con iniezione letale nella tarda serata americana di ieri nella prigione di Jackson, in Georgia. Aveva trascorso quindici anni nel braccio della morte. Brannan, che soffriva da decenni di una sindrome da stress post-traumatico, era stato riconosciuto colpevole di omicidio il 28 gennaio del 2000 per aver ucciso un poliziotto di 22 anni, Kyle Dinkheller, a un banale controllo di documenti. Il poliziotto lo aveva fermato per eccesso di velocità. Il veterano aveva imbracciato il fucile che aveva in auto e aveva sparato contro l'agente diversi molti colpi. Pochi attimi prima di morire, Brannan ha detto: "Rivolgo le mie condoglianze alla famiglia Drinkheller, soprattutto ai genitori di Kyle, alla moglie e ai due figli". La Corte Suprema degli Stati Uniti ha rigettato le numerose richieste di grazia che i legali del veterano avevano presentato, l'ultima delle quali nel giugno scorso. Gli avvocati non avevano mai messo in discussione la colpevolezza di Brannan, ma avevano sottolineato che al veterano era stata riconosciuta un'invalidità del 100% per la sindrome post-traumatica e i disturbi bipolari riportati in seguito all'esperienza in Vietnam. La pena capitale è stata eseguita 35 volte negli Stati Uniti nel corso del 2014, la cifra più bassa degli ultimi vent'anni. Sui 32 stati che ancora la mantengono, solo sette hanno proceduto ad eseguire la pena nel 2014. In Texas, Missouri e Florida gran parte delle 35 esecuzioni. Libano: carcere duro per militanti Isis e Nusra di Michele Giorgio Il Manifesto, 14 gennaio 2015 Dopo il duplice attacco suicida a Tripoli (9 morti) di sabato scorso, le autorità libanesi ieri hanno trasferito i jihadisti detenuti nella prigione di Roumieh in un braccio di massima sicurezza. Ora il Fronte al Nusra (al Qaeda) minaccia di uccidere i 25 soldati e poliziotti libanesi che tiene in ostaggio da mesi. I libanesi conoscono bene Roumieh, una prigione dove migliaia di individui di ogni nazionalità vivono rinchiusi, dimenticati dal tempo e dalla gente. Soprattutto quelli che sono detenuti per reati politici e di terrorismo. A loro è o meglio era riservato il Blocco B: poco più di 900 prigionieri, tra i quali 300 "arabi". Decine appartengono a sigle ormai note a tutti: Stato Islamico (Isis), Fronte al Nusra, al Qaeda, Fatah al Islam. Le autorità libanesi sabato sera, dopo che due kamikaze avevano ucciso 9 persone (27 feriti) in locale di Jabal Muhsen, la parte alta di Tripoli dove vivono gli alawiti, in un solo colpo hanno compreso di aver commesso un grave errore mettendo tutti insieme quei prigionieri "molto speciali". Il Blocco B si era trasformato in una centrale per l'organizzazione di attentati. Questo almeno è ciò che spiegano le autorità di Beirut che ieri, con una ampia azione di unità speciali, hanno svuotato il Blocco B dove, spiegano, sarebbe stato pianificato l'attacco di Tripoli. Il ministro dell'interno, Nouhad Machnouk, ha riferito che le indagini hanno accertato che dal carcere, grazie a cellulari tenuti nascosti, uomini dell'Isis hanno effettuato telefonate a persone vicine ai due attentatori (entrambi di Tripoli) e a uomini allo Stato Islamico. Ieri alcuni dei prigionieri sono stati trasferiti nella sede principale dei servizi segreti, ad Acharafieh, altri nel Blocco D di Roumieh, braccio di massima sicurezza appena ristrutturato e con sistemi elettronici di sorveglianza. Alcuni detenuti hanno bruciato materassi in segno di protesta mentre le loro famiglie manifestavano davanti al carcere e bloccavano alcune strade nella zona. Non è servito a molto. Il trasferimento è stato completato senza alcun ferito o problema serio e i servizi di sicurezza credono di aver isolato completamente i comandanti dello Stato Islamico detenuti a Roumieh. A Beirut sono convinti che l'attentato di Tripoli sia stato compiuto da una cellula libanese dello Stato Islamico. E guardano con scetticismo alla rivendicazione della doppia azione suicida giunta dal Fronte al Nusra. Il raid nella prigione di Roumieh potrebbe costare caro ai 25 soldati e poliziotti che al Nusra tiene prigionieri da mesi. Il gruppo qaedista ieri ha postato su twitter la foto di 12 ostaggi con le mani legate dietro la schiena, a terra e con la faccia nella neve, lasciando capire che potrebbe giustiziare i suoi prigionieri. Le famiglie dei militari chiedono che il governo accolga le richieste dei rapitori. Al Nusra, oltre al rilascio dei loro compagni detenuti in Libano, vuole che il movimento sciita Hezbollah ritiri le migliaia di combattenti che ha inviato in Siria a sostegno dell'esercito governativo. Tunisia: il presidente Essebsi concede la grazia a oltre duemila detenuti Nova, 14 gennaio 2014 Il presidente della Repubblica tunisino, Beji Caid Essebsi, ha concesso la grazia a 2.135 detenuti in occasione della Festa dei giovani e della rivoluzione. La decisione è stata presa durante una riunione presieduta dal ministro della Giustizia, Hafedh Ben Salah. La grazia prevede una limitazione delle pene detentive che per 1.322 detenuti garantirà la scarcerazione immediata. La grazia si basa sul principio di uguaglianza fra i detenuti, la natura del reato, il tempo trascorso in carcere e il comportamento dei detenuti e non riguarda persone colpevoli di crimini di grave entità, terrorismo e incitamento all'odio. Egitto: fonti stampa, al Sisi intende liberare giovani detenuti Nova, 14 gennaio 2015 Il presidente egiziano, Abdul Fatah al Sisi, intende rilasciare quanto prima alcuni giovani detenuti nelle carceri del paese. Secondo fonti della stampa egiziana, decine di giovani, in particolare gli studenti delle università del Cairo di Al Azhar ed Ein Shams, sono stati arrestati per i disordini e gli atti di vandalismo durante le dimostrazioni dello scorso anno, mentre alcuni giovani attivisti sono in carcere dopo l'approvazione di una controversa legge sulle proteste. Al Sisi, hanno riferito le fonti, sarebbe intenzionato a rivedere e modificare la legge sulle manifestazioni, liberando alcuni dei detenuti in vista delle elezioni parlamentari che si terranno dal 21 al 23 marzo.