Il carcere triste dei ragazzini Il Mattino di Padova, 12 gennaio 2015 Finire in carcere all'età in cui, conclusa l'adolescenza, si dovrebbe cominciare a godere del piacere della libertà è una delle cose più tristi che possa accadere. Non sappiamo molto di quel ragazzo di 19 anni che si è tolto la vita nel carcere di Venezia, ma gli dedichiamo un pensiero e due testimonianze di ragazzi altrettanto giovani, che, proprio per dare un senso alla loro carcerazione, hanno chiesto di far parte della nostra redazione e di affrontare con noi il progetto di confronto con le scuole, che fa entrare in carcere ogni settimana centinaia di studenti. Anche perché il modo migliore per non buttare via la propria esperienza negativa è riuscire a farla diventare stimolo per tanti ragazzi per una riflessione profonda sui comportamenti a rischio, sulla voglia esagerata di trasgredire le regole, sul lento scivolamento oltre i limiti della legalità. Vorrei tanto dimostrare alla mia famiglia che sto cambiando Mi chiamo Hu Chao Lin, sono entrato in carcere cinque anni fa, a 19 anni, per una condanna per concorso in omicidio. Ora mi restano da scontare nove anni. Fin da piccolo i miei genitori mi dicevano che l'Italia era un bel paese per vivere, così quando avevo 11 anni ci siamo trasferiti qui. Ho frequentato la scuola media per tre anni, non ero un bravo studente, anzi odiavo proprio andare a scuola, mi hanno buttato fuori prima ancora che riuscissi a prendere il diploma di terza media. Da quel momento ho iniziato a percorrere una brutta strada, frequentavo un gruppo di miei connazionali, stavamo sempre in giro, spesso non tornavo a casa nemmeno a dormire e trovavo tante scuse con i miei genitori. Frequentavamo molto le discoteche e usavamo droga, prima leggera, ma poi, piano piano, ci ho preso gusto e ci andavo giù in modo sempre più pesante. Ogni volta tornavo a casa con la paura che la mia famiglia si accorgesse che usavo la droga, quindi restavo con loro massimo un paio di giorni e poi scappavo via con la scusa di andare a cercare un lavoro. Ho continuato questa vita per un paio di anni. Un giorno un mio amico mi ha telefonato per invitarmi ad una festa in discoteca, organizzata da altri ragazzi cinesi. A quella festa abbiamo bevuto tanto, abbiamo usato molta droga e senza nemmeno che me ne rendessi conto è iniziata una rissa crudele. Siamo scappati prima che arrivasse la polizia, solo il giorno dopo abbiamo letto sul giornale che un ragazzo dell'altro gruppo era morto. Sapevo cosa rischiavo se fossi rimasto in Italia, quindi ho chiamato la mia famiglia e ho detto di preparare tutti i documenti necessari per scappare via. Loro avevano capito al volo che si trattava di qualcosa di grave, sono venuti a prendermi e hanno voluto sapere cosa fosse successo esattamente. Sono riuscito a scappare in Cina e sono andato ad abitare da mio nonno, ma continuavo a comportarmi nello stesso modo, nonostante quello che era successo. Mio nonno ha raccontato tutto alla mia famiglia e hanno deciso di riportarmi in Italia, perché avevano paura che potessi fare qualcosa di grave anche in Cina, dove c'è la pena di morte. In Italia avevo iniziato a comportarmi bene e a lavorare, ma mentre ero in vacanza da una mia zia, i carabinieri hanno intercettato il mio cellulare e mi hanno arrestato. In questi anni credo di essere migliorato, perché per la prima volta inizio a pensare alla mia famiglia. Oggi mi rendo conto quanto stanno soffrendo per causa mia. Per loro non è facile accettare che il loro unico figlio, che tanto amano, abbia fatto un gesto del genere. Ancora oggi mio padre non ha accettato questa realtà. Ora vorrei cambiare un po' in meglio la mia vita, ma non solo per me, soprattutto per la mia famiglia. Vorrei tanto dimostrargli che sto cambiando, giorno dopo giorno. Ma so anche che da solo non ce la farei mai, per questo ho deciso di partecipare alla redazione di Ristretti Orizzonti, dove credo che chi ha voglia di cambiare possa trovare una possibilità. Mi auguro che questa mia scelta per una volta sia giusta. Hu Chaolin A 14 anni ho fatto la mia prima carcerazione Mi chiamo Bojan, vengo dalla Croazia. Sono arrivato in Italia con tutta la mia famiglia, siamo qui da 20 anni, in pratica io avevo tre anni e mia sorella era appena nata. A quei tempi c'era la guerra al mio Paese, la mia famiglia non era ricca come non lo è ora, ed io soffrivo nel vedere i miei genitori alzarsi la mattina prestissimo e tornare di sera, loro lavoravano sodo per migliorare la nostra condizione di vita. Io, all'età di 13 anni, con un gruppo di ragazzini, cominciai a fumare la prima sigaretta, anche per fare il figo davanti alle ragazze, era questa l'età in cui iniziai a trasgredire le regole. I miei famigliari non sapevano niente, tornavo a casa un'oretta prima che loro arrivassero dal lavoro, così ero un buon figlio per i miei genitori, che non immaginavano che io dopo la sigaretta con gli amici avevo cominciato a bere e anche a usare droghe. Facendo queste cose ci sentivamo persone adulte, in poche parole volevamo imitare i grandi. Senza neanche rendermene conto a 14 anni ho fatto la mia prima carcerazione, dovuta ai piccoli reati commessi per mantenere i miei piccoli vizi. Il primo giorno di galera nel carcere minorile di Treviso stavo male soprattutto per il dolore che avevo creato alla mia famiglia. Quando sono uscito dopo due mesi fuori ad aspettarmi c'erano mia madre e la mia sorellina, invece il papà era a casa. Appena sono entrato in casa mio papà mi ha abbracciato piangendo e nello stesso istante mi ha dato uno schiaffo che non scorderò mai. Poco tempo dopo sono scappato di casa, anche perché avevo dimenticato in fretta la galera da dove ero appena uscito, in poche parole di fare una vita normale non ne volevo proprio sapere. E infatti, poco dopo, mi sono messo a spacciare per potermi divertire, drogarmi e soddisfare i miei vizi costosi, e ho cominciato a pensare che con i soldi facili potevo fare di tutto. All'età di 19 anni sono rientrato in galera per furto e spaccio e mi hanno condannato a dieci anni di pena, di cui cinque li ho scontati tra Trieste e qui a Padova. In questi anni ho preso un sacco di rapporti disciplinari e l'ultimo ha comportato cinque giorni di isolamento. È successo allora che uno dei ragazzi della sezione mi ha dato un paio di numeri di Ristretti Orizzonti, il giornale fatto dai detenuti del carcere Due Palazzi, e non avendo niente da fare li ho letti tutti. Mi ha colpito tanto il progetto che fate con i ragazzi delle scuole e ho pensato spesso che la mia infanzia, così brutta, potrebbe essere d'aiuto a qualcuno di loro. Scrivo questa lettera perché ho capito che tutto ciò che ho fatto era sbagliato e i consigli che mi davano i miei io non li ascoltavo, e facendo di testa mia mi sembrava di saperne più di loro, anzi di tutti. Chiedo che mi aiutiate ad essere inserito nella redazione e nel gruppo dove io possa essere utile, soprattutto a me stesso, ma anche per tutti quegli studenti che entrano in carcere per partecipare agli incontri con i detenuti della redazione, con loro sono disponibile a raccontare tutto di me. Bojan B. La morte di un "matto" fra le sbarre di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 12 gennaio 2015 "Gelida desolata vuota vita piatta / Eternamente uguale / Che fare? / Morire o fare il pazzo/ E levarsi in volo per essere liberi?". (Diario di un ergastolano, www.carmelomusumeci.com). Non so perché, ma penso che le brutte notizie in carcere fanno più male che fuori. L'altro giorno commentando il suicidio di un giovane detenuto di appena diciannove anni ho pensato che il carcere non è poi cosi bestiale e cinico come appare, perché esegue solo il suo compito per cui gli uomini l'hanno creato. E semmai sono gli uomini che lo rendono cinico e crudele. Oggi invece ho letto questa notizia sulla rassegna Stampa di Ristretti Orizzonti: "Un altro internato muore in cella come un cane… e gli opg restano aperti. Nonostante la proroga a marzo, le nuove strutture non saranno pronte prima di due anni: la brutta storia dei "luoghi di tortura". Lo hanno trovato immobile sul letto. Insospettiti dalla sua strana posizione, gli uomini della Polizia penitenziaria dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa non hanno potuto fare altro che accertare la sua morte" (Fonte: "Il Garantista" del 10 gennaio 2015). E chissà perché quando muore un "matto" in carcere, che le persone perbene chiamano ospedali psichiatrici, mi incazzo di più. Forse perché nelle carceri ci si finisce perché lo vuoi tu o lo vuole la tua vita, invece nei manicomi ci vai da innocente perché lo vuole Dio o la natura per lui. Forse semplicemente quando muore un matto in carcere mi incazzo perché mi ricordo di quella volta, appena ventenne, che mi mandarono al manicomio di Montelupo Fiorentino dove mi riempirono di pugni nel cuore e calci nel corpo e mi legarono per lungo tempo al letto di contenzione. Fu lì che conobbi Concetto. Chissà se è ancora vivo. Non penso, almeno lo spero per lui. Probabilmente, a quest'ora, per sua fortuna, sarà nel paradiso dei matti. Spero solo che non sia morto legato nel letto di contenzione o con la camicia di forza. Mi ricordo che Concetto per il carcere dei matti era un osso duro. E gli operatori del manicomio potevano fare ben poco contro di lui perché lui non aveva più né sogni né speranze. D'altronde non ne aveva quasi mai avuti. Non c'era con la testa. Era quasi tutto cuore e poco cervello, ma era buono e dolce come lo sanno essere solo i matti. Non parlava quasi mai con nessuno. Lo faceva solo con me. Mi ricordo che Concetto viveva di poco e di niente. Il mondo non lo interessava più. Il mondo lo aveva rifiutato e lui aveva rifiutato il mondo. Non gli interessava neppure più la libertà perché lui ormai si sentiva libero di suo. E non dava confidenza a nessuno, ma non gli sfuggiva niente. Concetto mi aveva raccontato che era cresciuto da solo. Senza nessuno. Prima in compagnia delle suore. Poi dei preti. La sua infanzia non era stata bella. Non aveva mai avuto famiglia. Nessuno lo aveva mai voluto. Nessuno aveva mai voluto stare con lui. Fin da bambino aveva imparato a tenersi compagnia da solo. Solo con il suo cuore. E con la sua pazzia. Neppure il carcere lo aveva voluto. E lo avevano mandato al manicomio. Si era sempre rifiutato di sottomettersi alla vita e al mondo. E dopo si era rifiutato di sottomettersi all'Assassino dei Sogni dei matti per questo lo tenevano quasi sempre legato. Tutti pensavano che fosse pazzo da legare. Lo pensava pure lui. Io invece non l'ho mai pensato. E non l'ho mai dimenticato nonostante siano passati quarant'anni. Nel suo sguardo non c'era nessuna cattiveria come vedo spesso anche adesso nelle persone "normali". Spero che chiudano molto presto gli Opg perché non sono altro che luoghi di tortura. E chissà quanti Concetti ci saranno ancora dentro quelle mura. Francesco Viviano, autore di "Io, killer mancato", incontra la redazione di Ristretti Orizzonti Ristretti Orizzonti, 12 gennaio 2015 "Non c'è dubbio che crescere per strada mi abbia aiutato in questo mestiere: io conoscevo la psicologia dei boss mafiosi, capivo cosa pensassero quando dicevano qualcosa in un determinato modo. È stato un vantaggio, anche se le minacce o i momenti di paura non sono mancati". Il mestiere è quello di giornalista, a raccontare una carriera che poteva essere da killer della mafia e invece è stata da fattorino dell'Ansa fino al traguardo di diventare un grande giornalista è Francesco Viviano, inviato di Repubblica e autore del libro "Io, killer mancato". E il suo racconto venerdì 16 gennaio Viviano lo porterà nella Casa di reclusione di Padova, e si confronterà con la redazione di Ristretti Orizzonti, e con chi, a quel bivio tra diventare malavitoso e cercare disperatamente (perché in Sicilia non è così facile vivere nella legalità) la strada dell'onestà, non ha saputo o non ha voluto o non ha potuto fare la scelta giusta. Con l'occasione, presentiamo una recensione del libro di Francesco Viviano fatta da Carmelo Musumeci, ergastolano e "giornalista mancato", che insieme alla redazione di Ristretti aspetta l'incontro con Francesco Viviano per parlare di vite difficili, di scelte sbagliate, di regimi come il 41 bis, che al male pensano di rispondere con altrettanto male, di mafia e di una "cultura" mafiosa che forse può essere sconfitta proprio con una idea diversa di giustizia. Recensione di un ergastolano di "Io, Killer mancato" di Francesco Viviano "Oggi è l'ultimo giorno dell'anno. Ed io mi sento già stanco come se avessi già vissuto e sofferto anche per questo nuovo anno che verrà". (Diario di un ergastolano, www.carmelomusumeci.com). Nella riunione della redazione di oggi nel carcere di Padova il direttore di "Ristretti Orizzonti" ci ha comunicato che il 16 gennaio 2015 avremo la visita dello scrittore e giornalista Francesco Viviano inviato di Repubblica. Poi Ornella Favero ha tirato fuori dalla sua grande e profonda borsa nera, che sembra il pozzo di San Patrizio, il libro del giornalista fresco di stampa. E ci ha chiesto chi lo leggeva per primo. Di solito non mi tiro mai indietro quando c'è da fare una buona lettura, ma non mi sono fatto subito avanti perché sto preparando l'esame universitario di "Storia della filosofia morale". Ed ho pensato al libro di Immanuel Kant "Critica della ragion pratica" posato sopra lo sgabello della mia cella accanto alla mia branda che mi aspettava. Poi però Ornella ci ha letto il titolo "Io, killer mancato" (edito da "Chiarelettere") e mi sono subito incuriosito perché fin da bambino avevo sempre sognato di fare da grande il giornalista, invece mi è toccato fare l'ergastolano, ma questa è un'altra storia. Quando poi Ornella ha aggiunto che il giornalista scrittore era siciliano, non ho avuto più dubbi ed ho alzato la mano. Sono rientrato in cella con il libro di Francesco Viviano ed ho iniziato subito a leggerlo. Quando sono arrivato all'ultima pagina ci sono rimasto male che era già finito, perché le parole dell'autore mi hanno fatto sentire il profumo e vedere i colori della mia terra. E mi hanno fatto ricordare la mia infanzia di un bambino criminale. Poi mi hanno fatto anche riflettere che mentre io ero nato colpevole e avevo fatto di tutto per diventarlo, lui, pur nascendo colpevole, era riuscito a diventare innocente. Ed ho pensato che per fortuna uno su mille ce la fa. Penso che spesso in Sicilia, come in buona parte del profondo sud, i forti riescono a diventare persone perbene, mentre i deboli diventano mafiosi, eppure sia uno che l'altro hanno le stesse radici e la stessa cultura. E spesso abitano nello stesso quartiere e frequentano gli stessi luoghi. Francesco, nel tuo libro leggo "La mia esperienza di strada e la consuetudine con i mafiosi", "Sapevo come avvicinarmi ai mafiosi perché capivo la loro psicologia" e queste frasi mi confermano che nella nostra terra si nasce quasi sempre culturalmente mafiosi, poi alcuni riescono a non esserlo, altri invece come me non ce la fanno. Tu però sai che nella nostra terra si può rispettare la legge ed essere disonesti, mentre si può violare la legge ed essere onesti, ma anche questa è un'altra storia. Francesco, nel tuo libro ho trovato nomi di spessore che ho incontrato quando ero sottoposto al regime di tortura del 41 bis nell'isola del Diavolo, come chiamavamo noi l'Asinara, dove ho visto tanto, di tutto e di più: uomini trattati alla stregua di bestie da altri uomini. Ed io sono fortemente convinto che dal male può nascere solo il male. In quel periodo imparai e scoprii che a volte lo Stato si comporta uguale al nemico che combatte. E non credo che il fine giustifichi i mezzi perché senza legalità, perdono e umanità la mafia vincerà sempre. E ti chiedo già da adesso, in attesa di poterlo fare a voce, se pensi che il regime di tortura del 41 bis o la condanna alla "Pena di Morte Viva" (la "Pena di Morte Nascosta" come la chiama papa Francesco), serva a sconfiggere la cultura mafiosa, perché ti confido che a volte mi sembra che sono proprio i "baroni" mafiosi che urlano e fingono di lottare contro la mafia. E spesso mi domando perché nell'isola dell'Asinara, e in tutti gli altri carceri, non ci ho mai trovato politici, banchieri e notabili di Chiesa e di Stato, ma solo carne da cannone come te o come me. Un sorriso fra le sbarre. Carmelo Musumeci Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia: urge nomina Garante nazionale dei detenuti di Elisabetta Laganà (Presidente Cnvg) Ristretti Orizzonti, 12 gennaio 2015 L'auspicio della Cnvg è che l'appello dello scorso 7 gennaio di Stefano Anastasia per una rapida nomina del Garante nazionale dei detenuti non cada nel vuoto, e auspica che tra i favoriti alla carica vi sia un esponente dell'Associazione Antigone, da sempre impegnata nella tutela dei diritti delle persone private della libertà e promotrice di importantissime azioni e proposte sui temi del carcere e della pena. Storica è infatti la mobilitazione di Antigone, insieme ad altre associazioni impegnate nella tutela e nella promozione dei diritti dei detenuti, per l'istituzione di un'autorità indipendente non giurisdizionale, insieme a tante altre iniziative sostenute anche dalla Cnvg, tra cui quella dell'approvazione di una legge per il reato di tortura. Ad un anno dall'approvazione del Decreto Legge 23.12.2013 n° 146 convertito in L. 21 febbraio 2014, n. 9, nato dalla necessità di restituire alle persone detenute la possibilità di un effettivo esercizio dei diritti fondamentali e di affrontare il fenomeno dell'ormai persistente sovraffollamento carcerario, tra le varie norme approvate viene istituita la figura del "Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o comunque private della libertà personale"; della cui nomina però nulla è stato fatto sinora. Il 5 giugno scorso l'Europa ci ha valutato come "sorvegliati speciali" per un anno. Un anno passa rapidamente. La popolazione penitenziaria è notevolmente diminuita, ma il carcere è ancora sovraffollato e molti ancora sono i problemi da risolvere. L'anno di tempo concesso dalla Cedu richiede rapidi passaggi che sanciscano una netta discontinuità da un trascorso politico che si è caratterizzato come una lunga stagione orientata al privilegiare l'allargamento delle risposte penali a scapito del sociale. La speranza è che la scelta di una così importante funzione si orienti nella direzione di chi, concretamente, si è impegnato in questi anni per la soluzione di questo problema, e che la scelta converga su un nome che susciti il più largo consenso delle rappresentanze del mondo della società civile, del volontariato, dell'accademia. L'auspicio della Conferenza per una celere nomina da parte del Governo si associa quindi a quello di Anastasia, perché questo nuovo anno possa iniziare con questo necessario traguardo raggiunto. Giustizia: la carcerazione preventiva, un "un atto illecito, illegale ed immorale" di Fausto Cerulli Il Garantista, 12 gennaio 2015 "La carcerazione preventiva deve considerarsi un atto illecito, illegale ed immorale". A pronunciare queste parole non è stato Napolitano, e neppure quel Renzi che all'inizio della carriera di premier si sbracciava a quel modo che gli è così convulsamente congenito, e non l'ha pronunciata la Corte Costituzionale, che pure dovrebbe conoscere il dettato, appunto costituzionale, della presunzione d'innocenza fino a condanna definitiva. A pronunciare questa frase è stato Papa Francesco, che per averla pronunciata si è sentito dire che deve essere uscito fuori di testa, da un giornalista altre volte meno avventato come Socci. Il Papa, dunque, in uno stato formalmente laico, ha gridato un messaggio più laico del laico, non dimenticando di condannare la pena dell'ergastolo. Le sue parole sono state gettate al vento del conformismo, della convinzione che solo il carcere, anche quello preventivo, può rassicurare il popolo italiano, impaurito dalla delinquenza di quartiere, e che non ha nulla da dire sul fatto che in genere per "i colletti bianchi" non esiste la carcerazione preventiva; per loro, al massimo, la custodia cautelare, espressione più dolce di carcerazione preventiva, agli arresti domiciliari nelle loro comode case di "colletti bianchi". Le statistiche ci dicono che la maggioranza dei detenuti sta in galera non per scontare una condanna, ma in attesa di una sentenza che potrebbe essere, e spesso è, di assoluzione. Siamo di fronte ad all'anticipo di una pena che potrebbe non essere inflitta. Esiste, questo è vero la convalida dell'arresto da parte del Giudice delle Indagini preliminari: ma poche rare volte il Gip si discosta dalla richiesta di carcerazione preventiva scagliata da un Pm che si preoccupa solo di accusare. Mentre dovrebbe valutate anche gli elementi favorevoli all'imputato. Esiste anche il Tribunale del Riesame, che raramente riesamina. Cane non morde cane, giudice non contraddice giudice, se mi si consente di scriverlo senza correre il rischio di essere indagato per vilipendio di quella magistratura che spesso si auto-vilipende. Nei Paesi di common law, giova ricordarlo, esiste un istituto, vigente sin dalla Magna Charta, a troppi ignota, anche a chi dovrebbe conoscerla per cultura professionale, che si chiama "habeas corpus", che serviva un tempo a garantire i cittadini dalla prepotenza di giudici asserviti al potente di turno. Oggi l'habeas corpus" è ancora un rimedio difensivo contro la strapotenza della pubblica accusa, che poi in quei Paesi, è un'accusa privata. In quei Paesi il gestore dell'accusa è parificato in tutto e per tutto al difensore. E l'accusatore non appartiene alla casta dei giudici. E il principio dell'habeas corpus consente la carcerazione soltanto in casi gravissimi, e quando le prove a carico dell'imputato sono veramente e senza possibilità di errore, fondate. Tutto questo non accade nella patria di Cesare Beccaria, nel Paese che si vanta di essere maestro di diritto. Ma quello che più grida vendetta è l'assordante silenzio della nostra classe giudizaria, che resta al Codice Rocco, e della classe politica, preoccupata di non turbare il sonno dei benpensanti, generalmente forcaioli, ma che portano voti. Non sono d'accordo, o lo sono poco, con chi sostiene che l'eliminazione del carcere preventivo, o la sua attenuazione, servire a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri italiane. Questo mi sembra un argomento di carattere logistico, quasi urbanistico. La questione vera, anche questa volta è una questione di garantismo. E la nostra giustizia e la nostra politica sono state schiaffeggiate, sul punto. Un Pontefice veramente garantista, e lo scrivo da laico, attento ai diritti essenziali della persona umana, diritti su cui sorvolano politici imbelli e giudici spesso preoccupati di salvare la carriera sulle spalle di gente che sta in carcere a scontare una "non pena", ma un insulso ed orrendo anticipo di essa: una scommessa ignobile, in cui perde sempre e comunque il detenuto in attesa di processo. Giustizia: ripartizione fondi legge "Smuraglia", nuove difficoltà per cooperative in carcere da "Gruppo emergenza lavoro detenuti" Ristretti Orizzonti, 12 gennaio 2015 È stato pubblicato sul sito internet del Ministero della Giustizia il provvedimento del 17.12.2014 a firma del Capo del Dap che ha approvato la ripartizione del credito d'imposta fruibile dalle cooperative sociali che impiegano detenuti. La ripartizione discende dall'applicazione dell'art. 6, comma 1, del Decreto del Ministro della Giustizia 24 luglio 2014 n. 148 attuativo della Legge 193/2000 "Smuraglia" (Regolamento recante sgravi fiscali e contributivi a favore delle imprese che assumono detenuti). Detto articolo ha stabilito le nuove modalità di utilizzazione del credito d'imposta, imponendo alle cooperative interessate di presentare "entro il 31 ottobre dell'anno precedente a quello per cui si chiede la fruizione del beneficio, una istanza presso l'istituto penitenziario". Ora, è successo che le cooperative entro il termine di legge hanno comunicato ai propri istituti penitenziari il fabbisogno per l'anno 2015, basato sui detenuti già in forza e su quelli di prossima assunzione in base al volume delle attività e delle commesse acquisite. Il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria si è così accorto che l'ammontare complessivo richiesto (circa 9 milioni di euro) era superiore del 34% a quanto previsto nel fondo a disposizione (€ 6.102.828,00 le risorse destinate al credito d'imposta per l'anno 2015, poi ridotte ad € 5.893.500,00 in seguito alla rimodulazione del budget disposta con nota n. 415129-2014 del 3 dicembre 2014 della Direzione Generale del Bilancio del Dap). Il risultato è stato un taglio proporzionale di tutte le richieste, così oggi le cooperative sanno di avere a disposizione il 34% in meno di credito d'imposta per l'anno 2015. Come può capire facilmente anche chi non è addetto ai lavori, le conseguenze di questo vincolo burocratico daranno un'altra tremenda mazzata al lavoro penitenziario gestito dalle cooperative, a brevissima distanza dalla nota vicenda delle cucine. Come può un'impresa programmare le proprie attività se discrezionalmente le risorse a disposizione vengono ridotte del 34%? A bocce ferme chi nel 2014 aveva 10-50-100-150 detenuti assunti si troverà nel 2015 a licenziarne 3-15-30-50 e ad andare dall'imprenditore, con tanta fatica portato in carcere, e comunicare che abbiamo scherzato, che eravamo su "Scherzi a parte". Non parliamo di percorsi di sviluppo, di assumere nuovo personale, di avviare nuovi progetti. Chi dovrebbe, in linea teorica, favorire e incentivare i percorsi rieducativi dei detenuti, il Ministero della Giustizia attraverso il Dap, costringe le imprese sociali piano piano a chiudere. Prima dell'emanazione del nuovo regolamento le cooperative, sia direttamente che a mezzo delle federazioni di rappresentanza, avevano fatto presente in diverse occasioni che si trattava di un vincolo burocratico troppo stringente e troppo penalizzante per l'attività imprenditoriale e per le possibilità di incremento dei percorsi di inserimento. Tra l'altro, come accade sempre quando la legge stabilisce crediti d'imposta previsionali, sarebbe quasi impossibile per le cooperative presentare un'istanza attendibile, perché nel dubbio e comunque in buona fede, tutti sono indotti a stime in eccesso, a causa dell'elevato turnover dei detenuti all'interno delle carceri e della variabilità in più o in meno delle commesse e delle risorse necessarie. Coscienti del rischio che si stava profilando, le cooperative avevano anche suggerito di dividere in modo diverso la dotazione economica della Legge "Smuraglia", suddivisa oggi tra credito d'imposta (€ 6.102.828,00, poi ridotti a € 5.893.500,00) e sgravi contributivi (€ 4.045.284,00 ridotti poi a € 3.906.500,00). Era stato chiesto di aumentare di almeno un milione il fondo per il credito d'imposta e ridurre proporzionalmente quello dello sgravio contributivo, proprio per far fronte alla quasi certa insufficienza del credito d'imposta, oggi puntualmente avveratasi. Nessuno dal Ministero della Giustizia ha prestato ascolto, ogni suggerimento è caduto nel vuoto e oggi le cooperative si trovano costrette a fare i conti con un problema gravissimo, perché dovranno licenziare i lavoratori in esubero e riprogrammare al ribasso le attività per il 2015, rinunciando probabilmente a commesse già acquisite. Dal Dap è stato promesso che in corso d'anno sarà possibile rivedere gli stanziamenti, sulla base delle verifiche che saranno effettuate. Ma quale imprenditore rischia la propria attività se non può prevedere con sufficiente certezza quante risorse avrà l'anno dopo? Forse, dopo la chiusura delle cucine in dieci istituti questo fatto conferma l'esistenza di un disegno di progressivo smantellamento del lavoro in carcere, così come oggi è organizzato e gestito dalle cooperative sociali. In un Paese alla deriva umana, economica e sociale come l'Italia ci aspetteremmo che chi è chiamato a governare riconosca e valorizzi le poche cose che funzionano e intervenga per correggere quelle che non funzionano. Nel caso del lavoro penitenziario sta accadendo esattamente il contrario. Se questo processo non verrà arrestato ci troveremo nel giro di uno, due anni ad assistere all'abbandono totale di tutte le attività lavorative vere dalle carceri italiane come successo a fine anni settanta e inizio anni ottanta a causa scelte politiche sbagliate. Qualcuno forse vuole rimanere nella storia. Giustizia: bocconi amari per le cooperative che portano lavoro nelle carceri di Ilaria Sesana Avvenire, 12 gennaio 2015 Lo hanno fatto ogni giorno, per dieci anni, con passione e competenza. Ma giovedì 15 gennaio, i detenuti impiegati dalle cooperative sociali che gestiscono le mense di dieci carceri italiane scenderanno in cucina per l’ultima volta: una volta terminato il servizio, dovranno riconsegnare le chiavi all’amministrazione penitenziaria. A sorpresa, con 16 giorni d’anticipo rispetto a quanto stabilito durante l’incontro del 30 dicembre scorso tra i rappresentati delle cooperative, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il capo di gabinetto Giovanni Melillo e Santi Consolo, capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Cassa delle Ammende - che per dieci anni ha finanziato il progetto - aveva infatti deciso di non sostenerlo ulteriormente, considerando conclusa la fase di sperimentazione. Ma il 30 dicembre era stata concessa una breve proroga alle cooperative fino al 31 gennaio 2015, con l’obiettivo di verificare le esperienze in atto e individuare soluzioni ad hoc. Una proroga che purtroppo non è arrivata nonostante una mozione parlamentare presentata in settimana dai deputati Pd Iori e Verini. "Siamo senza parole!" è il commento dei rappresentanti delle cooperative, riunite per l’occasione nel "Gruppo emergenza carcere" che, in un comunicato, denunciano: "Inizia a delinearsi un vero e proprio smantellamento" del lavoro in carcere così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi. Per fare spazio a un sistema "velato di nuovo lavoro forzato, di quello che Papa Francesco chiama le nuove forme di schiavitù". "Mi sento come se mi avessero dato una coltellata al cuore". Silvia Polleri è la presidente della cooperativa "ABC-La sapienza in tavola" che gestisce la mensa del carcere di Bollate (Milano) cui ha affiancato un servizio di catering. Attualmente impiega nove detenuti per la gestione della cucina e dei servizi esterni, più altri due per il bar. "Dovrò licenziare. Potrò tenere solo due persone a tempo pieno per il catering, se dovessi aver bisogno di altro personale lo prenderò a chiamata, con i voucher - spiega con amarezza. Vediamo quanto riusciremo ad andare avanti". Senza una solida base come la gestione della mensa, i servizi di catering restano troppo sporadici per reggere tutta l’attività della cooperativa. Ma c’è un altro elemento che preoccupa i rappresentanti di aziende e cooperative sociali che, in questi anni, hanno investito sul lavoro in carcere. E che comporterà ulteriori licenziamenti tra i detenuti-lavoratori. Nel corso del 2014, il Dap aveva infatti chiesto alle cooperative di indicare, entro il 31 ottobre, il fabbisogno per il 2015: ovvero il numero di detenuti già in forza e quelli di prossima assunzione per poter usufruire dei benefici contributivi e fiscali previsti dalla Legge Smuraglia. "Il dipartimento però si è accorto che la richiesta era superiore del 34% rispetto al fondo a disposizione. È paradossale: prima ci viene chiesto di indicare quanto serve per mandare avanti il lavoro, poi scopriamo che il budget è stato ridotto", commenta ancora Silvia Polleri. Complessivamente sono state presentate richieste per un totale di 9 milioni di euro, ma il budget concesso è di poco inferiore ai 6 milioni. Un taglio lineare secco, che obbligherà aziende e cooperative a licenziare un terzo del personale assunto il carcere. Il danno è evidente non solo nei numeri, ma anche nelle modalità di lavoro: come può un’azienda programmare le proprie attività se - nel volgere di poche settimane - le risorse a disposizione vengono tagliate del 34%? "Il 30 dicembre il ministro Orlando ci aveva chiesto di continuare a portare lavoro in carcere. Poi scopro che pochi giorni prima è stato ridotto il budget della Smuraglia. Mi sento presa in giro", commenta Polleri. In questi dieci anni dalle cucine di Bollate sono passati una cinquantina di detenuti: solo cinque sono ritornati dietro le sbarre. "Perchè noi portiamo lavoro vero in carcere, lavoro che qualifica e che offre la possibilità di reinserirsi nella società. Pensare che i nostri sforzi non sono stati compresi mi provoca una grande amarezza". Giustizia: Violante (Pd); via il lavoro dalle carceri? un errore, che aumenterà la recidiva di Pietro Vernizzi www.ilsussidiario.net, 12 gennaio 2015 "La riconciliazione tra chi ha commesso un crimine e la società è il terreno su cui occorre costruire, mettendo da parte obiezioni che nascono da una gestione meramente burocratica delle carceri". Lo afferma Luciano Violante, ex presidente della Camera dei deputati ed ex presidente della Commissione Nazionale Antimafia, a proposito del recente caso relativo al lavoro nelle carceri. Un progetto realizzato da cooperative sociali ha dato lavoro per dieci anni ai detenuti in dieci carceri italiane, un'opportunità importante per rieducare e riscattare chi in passato si era macchiato di crimini. L'affidamento del servizio è scaduto a fine 2014, e per ora la pubblica amministrazione ha deciso di prorogarlo solo fino al 15 gennaio 2015, poi non si sa. Che cosa ne pensa della scelta di non confermare il progetto per il lavoro nelle carceri? Alcune di queste cooperative preparano pasti, servizi di cucina e catering molto apprezzati. Questo vuol dire che la qualità del cibo offerto ai detenuti in questi dieci carceri è molto migliore rispetto a molti altri penitenziari, dove tra l'altro si buttano grandi quantità di cibo perché di qualità molto scadente e certamente non salutare. Qual è la vera posta in gioco di questa vicenda? Quello che dobbiamo chiederci è che cosa vuole dire far lavorare i carcerati. Significa fare lo scopino, il portalettere, pulire i corridoi e i bagni? Oppure significa insegnare un lavoro ai detenuti, in modo che quando escono dal carcere abbiano prospettive di occupazione reale? Il dato non è ininfluente, perché nel primo caso un detenuto resta a galleggiare nella melma del carcere, nel secondo caso gli si offrono gli strumenti per uscire, in modo che possa reinserirsi e ricostruire un rapporto di riconoscimento nella società. Che cosa ne pensa del metodo adottato dalle cooperative che offrono lavoro ai carcerati? I dati sulla recidiva ci dicono che la strada giusta è questa. Mentre la recidiva di quanti non lavorano è altissima, quella di quanti lavorano è bassissima. Quindi c'è un vantaggio nel medio periodo anche per lo Stato stesso. Bisogna tornare ai fondamentali, altrimenti avremo un "ping pong" per cui si cerca di risparmiare un euro di qui e uno di là. Se poi di queste cooperative ce ne fosse una che si è comportata male va subito esclusa, ma non è giusto che a pagare siano anche le altre. E poi vorrei capire com'è la situazione dell'alimentazione e delle cucine nelle altre carceri, nonché quali siano i costi del vitto che si butta. Insomma le cooperative sociali hanno permesso allo Stato di risparmiare? Sì. La vera questione però non è quella dei costi, bensì di che cosa vogliamo fare. Vogliamo fare del detenuto un soggetto che entra ed esce continuamente dal carcere perché non riesce a reinserirsi, in quanto lo Stato non gli ha dato la possibilità di riconciliarsi nella società? Se chi sei anni fa ha commesso una rapina ora diventa un bravo cuoco, o piuttosto un pasticcere o giardiniere, ha la possibilità di cambiare vita. Se una persona vede che lavorando onestamente è riconosciuta, si riconcilia con la società. La riconciliazione è il terreno su cui costruire. Da dove nascono le resistenze al cambiamento? A volte è presente una forte logica burocratica, per cui se si cambiano determinate prassi si va incontro all'ignoto. Capisco che il burocrate sia poco interessato al meccanismo della riconciliazione di cui le ho parlato, e preferisca invece lasciare le cose come stanno. Tanto più che i direttori dei penitenziari, gli educatori e tutti coloro che vivono la vita del carcere in un'ottica di riconciliazione apprezzano il lavoro svolto dalle cooperative. Perché allora l'amministrazione non ha ancora rinnovato il progetto per il lavoro nel carcere? Non conosco le vicende interne, e non posso esprimere un giudizio su cose che non conosco. Quello che mi sento di dire però è che prima bisogna discutere del merito e dei fondamentali, e poi vedere tutto il resto. Se si considera come positiva questa esperienza, non bisognerà discutere se chiuderla o non chiuderla, ma di come farla vivere. Tutti sanno che non ci sono molte risorse, ma non vorrei che arrivasse poi una sanzione europea che ci farà pagare molto di più di quello che pensavamo di aver risparmiato. Giustizia: il ministro Orlando "Italia pronta per una super-procura antiterrorismo" di Francesco Grignetti La Stampa, 12 gennaio 2015 "Spesso il carcere diventa un luogo di reclutamento e proselitismo. Bisogna armonizzare le legislazioni Ue per un'azione più efficace". Ministro Andrea Orlando, dopo fin troppi anni di discussione, è arrivato il momento di una superprocura antiterrorismo? "È vero, se ne parla da molto tempo. Ma ora un coordinamento unico nazionale è divenuta un'esigenza riconosciuta da tutti. Non è più questione di discutere del se, del quanto, del come. Il punto di partenza è un ddl presentato alla Camera dall'onorevole Stefano Dambruoso, che allarga alla procura nazionale antimafia le competenze antiterrorismo. Procederemo, come annunciato da Angelino Alfano, a un tavolo di confronto tra governo e le grandi procure italiane, comunque è chiaro che occorre un salto di qualità, essendo il terrorismo islamista un fenomeno sovranazionale e la dimensione locale delle singole procure è sempre più in difficoltà". Lei è più favorevole a raddoppiare le competenze dell'Antimafia oppure a creare un'analoga struttura antiterrorismo? "Prima di prendere decisioni, è necessario un confronto, quindi ci incontreremo con i magistrati che si occupano di terrorismo per poi procedere in tempi rapidi". Perché ha segnalato l'opportunità di coordinare tra i Paesi Ue le norme di contrasto al terrorismo, in particolare contro i "foreign fighters". Ci sono problemi? "Abbiamo toccato con mano, nel corso del Semestre a guida italiana, le resistenze ai processi di integrazione europea. Siamo riusciti a portare il tema del terrorismo internazionale al tavolo dei ministro della Giustizia, essendo stato finora un tema trattato esclusivamente dai ministri dell'Interno nella consapevolezza che non può essere sufficiente la dimensione di polizia, ma è necessario uniformare le legislazioni. È troppo pericoloso ricadere negli errori che si sono fatti in passato; a lasciare discrasie tra le legislazioni europee, si rischia di creare delle maglie nelle quali il terrorismo può agire. Queste organizzazioni sono fin troppo abili ad inserirsi tra le pieghe. Abbiamo operato quindi per una parziale cessione di sovranità per investire del tema antiterrorismo le istituzioni comunitarie. Di pari passo nel confronto è emersa anche la questione dell'esecuzione della pena. Il carcere, come s'è visto, rischia di essere un veicolo di proselitismo, motivo per il quale si è posto il problema di come una misura repressiva rischi di trasformarsi in un aiuto per queste organizzazioni". Risultato? "Diversi Stati europei sono gelosi dei propri ordinamenti, temono fortemente ogni cessione anche minima di sovranità alle istituzioni europee. Riconoscono che il problema di una risposta comune al terrorismo internazionale esiste, ma diventano molto timidi, per non dire di più, quando si tratta di accedere a una dimensione comunitaria. Al termine della discussione, siamo giunti a un approdo realistico che costituirà il punto di partenza per la nuova presidenza lettone: l'impegno a un confronto costante tra ministri della Giustizia affinché ci sia una progressiva armonizzazione dei singoli ordinamenti". Torniamo all'Italia. Delle tante riforme annunciate sulla giustizia, quali vedremo convertite in legge per prime? "A febbraio, subito dopo l'elezione del nuovo Capo dello Stato, potrebbe diventare legge la responsabilità civile dei magistrati. Poi verranno tante altre riforme. Segnalo infine che è ripresa la discussione al Senato sui reati ambientali, che prevede la riconfigurazione del disastro ambientale: approvarlo rapidamente sarebbe la nostra migliore risposta alla vicenda dolorosa del processo Eternit". Giustizia: terrorismo islamico, potenziali reclute anche nelle carceri italiane di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2015 Se, come ha detto ieri il ministro dell'Interno Alfano, l'Italia non è esposta a forme di rischio terroristico di matrice islamica è anche perché mai come nel 2014 sono state dispiegate attività di vigilanza e intelligence. La mappa del rischio jihadista in Italia vede solo il Molise escluso dall'apertura di dossier su personaggi o cellule e sui loro collegamenti terroristici . La mappa aggiornata del rischio jihadista in Italia vede la sola regione Molise esclusa, al momento, dall'apertura di dossier delle forze di polizia e dei servizi segreti su singoli personaggi o cellule e sui loro collegamenti terroristici nazionali e internazionali. Le regioni maggiormente seguite nel 2014 sono state Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana e Lazio mentre al Sud a destare allarme sono state la Sicilia e la Calabria, ricche di approdi nei quali gli sbarchi possono portare a riva anche manovali del terrore, messaggeri e intermediari. La Calabria da tempo è considerata un fronte sensibilissimo, al punto che già nel 2002 l'allora procuratore di Catanzaro Mariano Lombardi ebbe modo di dolersi di alcune scelte politiche nel corso dell'audizione in Commissione parlamentare antimafia del 6 maggio 2002. Rispondendo a una domanda del senatore Donato Veraldi affermò che "pur non avendo sentore preciso in zona di attività riconducibili al terrorismo, ho allertato tutte le Forze di polizia avvertendole che da quel momento il procuratore competente sarebbe stato il procuratore distrettuale. Sono in contatto con molti operatori di polizia, ma non per il censimento dei palestinesi o dei credenti nell'Islam, bensì per individuare i gruppi maggiormente presenti sul territorio e per sviluppare nei loro confronti un'azione conoscitiva che miri al controllo e al collegamento con altre zone. Ho appreso con sgomento che l'ufficio del Sisde veniva smantellato proprio quando da altre mie fonti sapevo che anche in Calabria vi erano grosse comunità islamiche". Quello appena passato è stato un anno in crescendo, tanto che a fine 2014 il Comitato di analisi strategica antiterrorismo (Casa) ha messo in fila 53 riunioni (in media una a settimana) e da alcuni mesi è convocato in seduta permanente a causa della recrudescenza internazionale di atti terroristici di matrice jihadista di cui i criminali fatti francesi rappresentano solo l'ultimo anello. La prima riunione del Comitato si è tenuta all'indomani della strage di Nassiriya del 12 novembre 2003, mentre la sua costituzione e composizione è stata formalizzata il 6 maggio 2004, con il decreto del ministro dell'Interno che ha disciplinato il Piano nazionale per la gestione di eventi di natura terroristica. Da allora l'impegno è stato crescente. Negli ultimi 12 mesi il Comitato - che nel semestre europeo a conduzione italiana è stato preso a modello dalla Ue - ha affrontato 465 casi (in media nove a riunione) e, tra questi, in particolare, ha vagliato 255 segnalazioni relative a criticità da approfondire, delle quali 212 hanno riguardato il contesto internazionale, Italia inclusa. Per dare l'idea del crescendo di questo tavolo permanente - presieduto dal Direttore centrale della Polizia di prevenzione Mario Papa con Carabinieri, le due Agenzie di intelligence, Gdf e Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e nel cui ambito vengono condivise e valutate le informazioni sulla minaccia terroristica interna ed internazionale - al 9 settembre 2014 aveva passato al vaglio 162 casi, di cui 129 relativi a gruppi terroristici internazionali. Nel dettaglio 81 segnalazioni hanno riguardato specificamente l'Italia e l'altra metà gli Stati occidentali, Italia compresa. Un altro dato esemplificativo: in appena tre mesi (da giugno a fine agosto) il Comitato ha diramato 25 allerte relative a possibili minacce riconducibili in Italia all'"Islamic State". La maggior parte dei dossier viene aperta grazie al monitoraggio sistematico e costante dei siti web. Accedere senza conoscere l'arabo sarebbe praticamente inutile perché sono soprattutto i forum che diventano scambio, spesso cifrato, di informazioni e notizie e, dunque, le forze di polizia e di intelligence hanno affidato questo delicatissimo compito a persone che conoscono l'arabo. Attenzione viene inoltre dedicata alle carceri, nelle quali sono recluse decine di migliaia di stranieri, molti dei quali provenienti dal mondo arabo. Per dare un'idea del potenziale di reclutamento, basti riferirsi a quanto ebbe modo di dire nel 2010 l'allora capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria Franco Ionta, che parlò di circa 40mila detenuti sensibili al richiamo integralista islamico. Giustizia: l'Europa è "disunita" anche sulla povertà di Rossella Cadeo Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2015 Il divario economico tra Nord e Sud e tra settori di popolazione non è una caratteristica solo italiana, ma investe l'intera Europa. In Italia, tuttavia, l'allarme disuguaglianze e indigenza è particolarmente elevato. I fattori critici Nel nostro Paese infatti - come ha osservato Luca Ricolfi nell'editoriale sul Sole 24 Ore del 2 gennaio scorso - oggi esiste "una terza società, la società degli esclusi", che negli anni della crisi è cresciuta di dimensioni, fino a superare quota dieci milioni di persone tra disoccupati, occupati in nero e inattivi ma disponibili a un impiego. Una schiera che più o meno coincide con l'ultima statistica Istat su quanti vivono in condizioni di povertà relativa (il 16,6% della popolazione sotto la soglia mensile di 972 euro di spese per nuclei con due componenti). E che non accenna a diminuire, visto che nel novembre scorso il tasso di disoccupazione ha raggiunto il record del 13,4% (+0,9% rispetto a 12 mesi prima), sfiorando il 44% tra i giovani, quando invece a fine 2014 la Germania è riuscita a mettere a segno il minimo storico del 6,5 per cento. Ulteriore elemento che rende ancor più preoccupante lo scenario italiano: il nostro Paese - clandestini ed emergenza sbarchi a parte - è il quarto in Europa (dopo Germania, Spagna e Regno Unito) per presenza di immigrati regolari (sono circa 4,4 milioni, il 7,4% della popolazione residente totale), ma si tratta di soggetti prevalentemente con titoli di studio bassi e con scarsa qualificazione professionale. Una recente ricerca realizzata dalla Fondazione Moressa su dati Eurostat, che mette a confronto le differenze di reddito e i tassi di povertà in Italia e in Europa, conferma ulteriormente la posizione critica in cui si trova il nostro Paese e spiega in parte la perdita di appeal dell'Italia (basti pensare che nel 2013 sono aumentati i trasferimenti all'estero,+ 21% tra gli italiani e +14% tra gli stranieri, mentre sono calati del 13% gli ingressi). I flussi Se le destinazioni più gettonate sono Regno Unito e Germania, la principale spinta a questi flussi in uscita è la possibilità di ottenere un reddito superiore. In questi due Paesi, infatti, l'importo medio per uno straniero può oltrepassare i 20mila euro, superando addirittura quanto possono guadagnare un italiano o uno spagnolo nei loro Paesi (rispettivamente 18.800 e 16.700 euro, si veda la tabella). Ma non è tutto. Se si osserva il divario tra i redditi medi percepiti dai nativi e quelli cui possono aspirare gli stranieri, l'Italia si trova al 22° posto nella classifica Ue 28 elaborata dalla Fondazione Moressa: circa 6mila euro di differenza sia nel nostro Paese sia in Spagna (al 24° posto) rispetto ai 2mila euro della Germania (13°) e agli appena 332 nel Regno Unito (settimo). Certo, anche in altre aree del Nord come Svezia, Francia o Austria si rileva una forte differenza di reddito tra autoctoni e immigrati, ma va osservato che nel "gruppo Nord" gli importi medi degli stranieri sono molto più alti di quelli percepiti da un immigrato nel "gruppo Sud" (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia). Inoltre, in questi anni di crisi (dal 2008 al 2013), in Italia e in Spagna i redditi degli immigrati - impegnati in gran parte in settori come l'edilizia o i servizi domestici, poco remunerativi e più colpiti dalla congiuntura negativa - hanno subìto una contrazione del 10% circa; in Svezia, Francia e Austria sono invece aumentati con percentuali a doppia cifra. E poi nell'appeal di un Paese contano anche le chance lavorative: il tasso di occupazione degli autoctoni in Italia e in Spagna si aggira sul 55% (quasi dieci punti in meno della media Ue 28), mentre per tedeschi e inglesi supera il 70 per cento. L'indigenza Tutti fattori che concorrono a posizionare il nostro Paese in una situazione allarmante sul fronte dell'esclusione sociale. Secondo la ricerca della Fondazione Moressa, in Italia oltre il 26% degli italiani e il 43% degli stranieri si trova a "rischio di povertà" (secondo l'indicatore adottato nell'ambito della strategia Europa 2020, che deriva dalla combinazione del rischio di povertà, della grave deprivazione materiale e della bassa intensità di lavoro: in totale, oltre 16 milioni di persone). Valori che pongono l'Italia agli ultimi posti nella Ue assieme alla Grecia (unico Paese Ue privo di una misura nazionale contro la povertà, come evidenziato da Cristiano Gori sul Sole 24 Ore del 4 gennaio), Spagna e Portogallo. "A distinguersi positivamente sono, anche in questo caso, Regno Unito e Germania, con valori inferiori alla media Ue - osserva Stefano Solari, direttore scientifico della Fondazione Leone Moressa -. In conclusione: l'Europa è profondamente divisa tra Nord e Sud sul versante dei redditi, delle chance occupazionali, del trattamento economico riservato a nativi e stranieri, della quota di popolazione da considerare a rischio povertà". Una porzione di residenti che - in Italia, oltre a non aver trovato rappresentanza né risposte neppure nelle ultime manovre economiche, va a scalfire ulteriormente il grado di attrattività del Paese. Trani: attività lavorative in carcere, i detenuti si sono dedicati alla produzione di taralli di Martina Tortosa www.traniviva.it, 12 gennaio 2015 Nel 2003 il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha avviato un progetto sperimentale in dieci istituti penitenziari italiani. Tre le carceri di Siracusa, Ragusa, Rebibbia circondariale, Rebibbia reclusione, Torino, Milano-Bollate, Padova e Ivrea, spicca anche il recentemente "ambito" carcere di Trani. Il progetto è nato per promuovere l'attività lavorativa in carcere, attraverso la ristrutturazione delle cucine e l'affidamento della gestione ad alcune cooperative sociali, con il compito di formare professionalmente i detenuti. Gli "ospiti" sono assunti con paga regolare dalle cooperative, usufruiscono di periodi di formazione ed hanno a loro disposizione professionisti del settore. Anno dopo anno, i risultati del progetto sono stati giudicati molto positivi. In alcuni casi è stato possibile assistere alla nascita di una vera e propria realtà imprenditoriale. A Trani, infatti, i detenuti si sono dedicati alla produzione di taralli, raccogliendo, senza difficoltà, l'apprezzamento di consumatori esterni. Un grande progetto con grandi obiettivi. Alla base della sperimentazione vi è l'idea che, anche nella nostra città, l'impiego dei detenuti in attività lavorative possa aumentare le loro possibilità di reinserimento nella società ed eventualmente abbattere l'eventualità di recidiva. Nonostante i riscontri molto positivi e una proroga che ha rimandato il termine dell'attività di qualche mese, la chiusura della sperimentazione è prevista per il 15 gennaio, con il ritorno della gestione delle cucine all'amministrazione penitenziaria. In vista dell'imminente scadenza, i deputati Rossomando, Amoddio, Sorial e Iacono hanno chiesto al ministro della giustizia "quali iniziative intende avviare per dare continuità all'esperienza del progetto, anche con forme di finanziamento diverse da quelle adottate finora, al fine di non vanificare gli importanti risultati fin qui ottenuti negli istituti penitenziari interessati". Ma lasciamo parlare i numeri. Il lavoro dei detenuti è passato dal 20,87 per cento del 2011, al 26,25 per cento del 2014. Un piccolo, grande traguardo raggiunto anche grazie al contributo del carcere di Trani. Macomer (Nu): primi segni di degrado nel carcere deserto, nessuno interviene di Tito Giuseppe Tola La Nuova Sardegna, 12 gennaio 2015 Detenuti e agenti di custodia hanno lasciato il carcere di Macomer meno di un mese fa e nei locali semivuoti è già iniziato il degrado. Sulle proposte alternative di utilizzo della struttura avanzate dall'amministrazione comunale di Macomer, intanto, non è arrivata nessuna risposta né dai parlamentari coinvolti né dalla Regione. Sta accadendo ciò che si temeva. Il carcere non è un edificio riciclabile se non demolendo tutto per costruire qualcosa di diverso, per cui non è ipotizzabile un impiego con destinazione molto diversa da quella per il quale era stato costruito. Ancora non si segnalano atti di vandalismo, ma con la partenza dei detenuti è rimasto il degrado, al quale pare contribuisca anche l'abbandono di rifiuti di ogni tipo, compreso del cibo ormai guasto che richiamerebbe topi e insetti. Questo, almeno, è quando riferito da voci che sarebbero giunte in comune. La preoccupazione è che si creino problemi igienici. È per questo motivo che l'amministrazione comunale ha chiesto e ottenuto l'autorizzazione a effettuare un sopralluogo nella struttura. Lunedì mattina il sindaco e il vice sindaco, accompagnati da un tecnico dell'ente, visiteranno il carcere per vedere come stanno effettivamente le cose. La paura, intanto, è che la struttura rimanga in abbandono. Ancora non vengono segnalati atti di vandalismo, anche perché è rimasta al lavoro una parte del personale civile, che comunque andrà via entro il 15. Temporaneamente è rimasto a Macomer anche il nucleo cinofili della polizia penitenziaria. Ci rimarrà finché non sarà completata un'apposita struttura nel carcere di Nuoro, attualmente in corso di realizzazione, nella quale il reparto sarà poi trasferito. "Per realizzare la struttura di Macomer destinata al nucleo cinofili - dice il sindaco, Antonio Succu, - sono stati spesi negli anni scorsi 200 mila euro. Soldi bruciati. Realizzarne un altra per trasferire il reparto mi sembra uno spreco ingiustificato. Se si è chiuso il carcere di Macomer con l'obiettivo di ridurre la spesa, mi chiedo dove sia il risparmio". L'amministrazione comunale di Macomer, intanto, avanza anche un altra proposta di utilizzo del carcere. "L'idea sarebbe quella di utilizzarlo per detenuti tossicodipendenti - prosegue il sindaco -, presso il distretto sanitario di Macomer opera un servizio per il trattamento delle dipendenze che potrebbe fornire un supporto sanitario importante. Restano in piedi anche tutte le altre proposte che abbiamo presentato al senatore Giuseppe Luigi Cucca, della commissione Giustizia del Senato, e al presidente Pigliaru, che finora non hanno risposto". Tra le proposte di utilizzo avanzate la creazione di una struttura alternativa all'ospedale psichiatrico. Trieste: filatelia nelle carceri, il Circolo Filatelico "26" ritorna protagonista www.info.fvg.it, 12 gennaio 2015 Si chiama Circolo Filatelico "26" perché ha residenza al medesimo numero civico di via Coroneo dove è sito il carcere. Ne fanno parte alcuni ospiti della struttura di detenzione e rieducazione che hanno aderito già dall’anno scorso al progetto "Filatelia nelle carceri" promosso da Poste Italiane. Si tratta della seconda iniziativa di questo tipo nel Paese, a seguire il progetto pilota realizzato nel carcere milanese di Bollate. La prima in assoluto per il Friuli Venezia Giulia. L’idea è semplice: dare agli ospiti del Coroneo la possibilità di approfondire i temi legati alla Filatelia con l’intento di aiutarli a realizzare una propria collezione. Un percorso didattico utile a fornire nuovi elementi di rieducazione e reinserimento per chi inizia già dalla detenzione a reimpostare la propria esistenza. Allo Spazio Filatelia di via Galatti 7/d, nel Palazzo centrale delle Poste, una mostra delle collezioni realizzate dagli ospiti della struttura carceraria verrà inaugurata sabato 17 gennaio alle ore 11.00. Saranno presenti, oltre alla responsabile dello spazio filatelico Daniela Catone, Igor Tuta e Claudio Bacco del Circolo Filatelico triestino Laurenc Kosir, che hanno contribuito in qualità di insegnanti alla riuscita del progetto. I tre mentori hanno condotto una serie di lezioni filateliche all’interno del Coroneo. Gli ospiti che hanno aderito all’invito hanno potuto conoscere gli elementi fondamentali della storia della Filatelia e apprendere tecniche e rudimenti per creare una collezione di francobolli, utilizzando strumenti appropriati: lenti di ingrandimento, pinzette, manuali e cataloghi filatelici. Allo Spazio Filatelia, dopo l’esposizione dello scorso anno, avrà corso la seconda parte del progetto con l’allestimento delle collezioni di Luca sul tema dello Sport, quella di Francesco con "Le donne nell’arte", Massimo con le "Auto d’epoca", Rossano con i francobolli dedicati al Vaticano, Saimon con una collezione dedicata a Walt Disney. E ancora quelle di Franco sui "Fiori e farfalle", Giuseppe e i suoi "Paesaggi", Mauro con la "Vita degli scout". Gli orari per la visita alla mostra sono i seguenti: dal lunedì al venerdì dalle 8.20 alle 13.35, il sabato dalle 8.20 alle 12.35. "Filatelia nelle carceri" è frutto di un protocollo d’intesa sottoscritto da Poste Italiane, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Ministero per lo Sviluppo Economico, Federazione tra le società filateliche italiane e l’Unione Stampa Filatelica Italiana. L’inedita rassegna triestina sarà visitabile sino alla giornata di sabato 31 gennaio. Per informazioni, il telefono è lo 040.6764305. Pescara: cantanti "giudicati" dai detenuti, una Giuria speciale al Festival della Melodia Il Centro, 12 gennaio 2015 Note di solidarietà oggi pomeriggio nel penitenziario San Donato di Pescara. Per il 21esimo anno consecutivo tornerà l'appuntamento canoro con il Festival della Melodia che vedrà una particolare giuria di detenuti nelle vesti di giudici per assegnare al più votato degli artisti in gara il lasciapassare per le finali nazionali del concorso previste a metà febbraio a Sanremo. Musica di qualità con giovani e talentuosi artisti che si alterneranno sul palco con brani editi o inediti cercando di conquistare le simpatie della speciale commissione. L'evento è promosso dalla direzione del carcere e dall'agenzia Promozione Spettacoli di Montesilvano. Sarà una sfida all'ultima nota per Emanuele Cestari, Piera Luisi, Giacinto Ceroni, Ioara Fanfoni, Carlo Di Fabbio, Silvia Vicario, Cristian Bevilacqua, Priscilla Di Benedetto, Maria Luigia Tacconelli, Angelica Pompeo e Gaia Anglani. Lo spettacolo, poi, sarà impreziosito dagli interventi della vincitrice nazionale in carica Danira Micozzi, dal cantautore Franco Midiri, reduce da una tournée in Romania, dal "Vasco Rossi d'Abruzzo" Marco Corneli e dal cantante partenopeo Genny Cusopoli per un doveroso omaggio all'indimenticato Pino Daniele. "È uno dei primi spettacoli ospitati in questa casa circondariale", ha riferito il direttore Franco Pettinelli, "con tanti artisti che abbiamo visto crescere nel tempo. È un evento di qualità molto atteso e che ripetiamo ogni anno con piacere". Montenegro: caso Romagnoli; un trafficante senza armi, detenuto in attesa di prove www.italiachiamaitalia.it, 12 gennaio 2015 Parla Nicola Pisani, leale dell'ex deputato Fi: "Romagnoli dal carcere ripete ossessivamente di essere innocente ed estraneo a questa vicenda e di non aver avuto neanche per un attimo il sospetto che le armi fossero destinate ad azioni terroristiche, contro il governo americano o contro cittadini americani". Massimo Romagnoli, ex parlamentare di Forza Italia, è detenuto nel carcere di Podgorica da prima di Natale, accusato di traffico d'armi. L'arresto è avvenuto su richiesta degli Stati Uniti. ItaliaChiamaItalia, che segue il caso fin dall'inizio, oggi vi propone ampi stralci dell'intervista che il quotidiano "il Garantista" ha voluto fare a Nicola Pisani, avvocato italiano di Romagnoli. Fra le altre cose, Pisani ricorda di essere stato in carcere a visitare il suo cliente, insieme al senatore Aldo Di Biagio. E poi spiega: "Romagnoli sta abbastanza bene sul piano fisico, ma è letteralmente devastato sul piano psicologico da questa vicenda e durante il nostro incontro ha pianto tutto il tempo, protestando con forza la sua innocenza". Quali sono gli elementi di prova a oggi resi noti dall'accusa? "Vorrei precisare che a oggi quella che noi chiamiamo la discovery degli elementi di accusa è solo parziale: le carte della Procura statunitense verranno scoperte integralmente solo con la formale richiesta di estradizione che ancora non è pervenuta alle autorità montenegrine dagli Stati Uniti. Nell'atto di accusa (Indictment) - che è pubblicato sul sito della Procura di Manhattan - si parla di una serie di incontri videoregistrati tra due cittadini rumeni, Vintila e Georgescu, e tre agenti sotto copertura della Dea, nel corso dei quali questi ultimi, interessati all'acquisto di armi, avrebbero dichiarato che le armi erano destinate al compimento di atti di terrorismo contro cittadini statunitensi. A Romagnoli si contesta un unico incontro dell'8.10.2104 a Tivat in Montenegro, durato pochi minuti". Come ha reagito Massimo Romagnoli alle accuse? "Ripete ossessivamente di essere innocente ed estraneo a questa vicenda e di non aver avuto neanche per un attimo il sospetto che le armi fossero destinate ad azioni terroristiche, contro il governo americano o contro cittadini americani; dice che era sicuro che l'operazione commerciale - perché per lui di questo si trattava - si sarebbe svolta in piena trasparenza e nel rispetto delle regole. Un dato emerge comunque dalla lettura degli atti: non vi è stata nessuna vendita di armi ma neanche il benché minimo accordo finalizzato a una vendita; si può forse parlare di una generica disponibilità al reperimento di armi? E comunque, al momento degli incontri incriminati, la merce non solo non era stata acquistata dai fornitori ma neanche definita per qualità e quantità. Inutile dire che di passaggi danaro in questa vicenda non v'è neppure l'ombra". Eppure gli americani dicono di avere le prove di una consapevolezza di Romagnoli e degli altri due rumeni che queste armi fossero destinate alle Farc. "Senta io questi video non li ho ancora visti. Ha idea di quante accuse si smontano solo dopo aver ascoltato registrazioni, intercettazioni etc.? Ma poi di quali armi parliamo, se non si era deciso nulla? Qui c'è un dato: Romagnoli ha una conoscenza davvero rudimentale della lingua inglese, mi creda. Non vorrei scendere troppo nei particolari in questa fase: mi chiedo comunque come sia possibile incriminare con accuse così pesanti una persona solo sulla base di un colloquio preliminare, e senza che ci siano stati sviluppi concreti della vicenda. Dalle nostre parti, si direbbe - traducendo un brocardo latino che esprime uno dei cardini del garantismo penale - che nessuno può essere punito per la manifestazione di un mero proposito. Ma c'è di più: ci troviamo di fronte a comportamenti (incontri, riunioni etc.) tenuti su istigazione, per così dire, di agenti provocatori con tutte le conseguenze immaginabili sul piano della correttezza e lealtà nel processo di formazione della prova". Si spieghi meglio. "Sembra, almeno dalla lettura dell'atto di accusa, che gli incontri incriminati si siano svolti su input degli agenti della Dea sotto copertura, che, come dire, avrebbero "provocato" la trattativa allo scopo preciso di acquisire la prova e successivamente arrestare i tre. La Corte europea dei diritti dell'uomo si è espressa in proposito affermando un precedente per noi importantissimo nel caso Furcht c. Germania deciso con la sentenza del 23 ottobre 2014: l'interesse pubblico alla lotta al crimine, ha detto la Corte di Strasburgo, non può giustificare l'uso in sede processuale di prove ottenute all'esito di istigazioni compiute da agenti di polizia, poiché ciò esporrebbe l'imputato al rischio di una irreparabile lesione del diritto a un equo processo". Professore ci può spiegare allora su che basi la Procura di Manhattan afferma la sua giurisdizione in questo caso? "Guardi questa è una domanda da un milione di dollari! A ben vedere nessuno dei comportamenti che vengono contestati a Romagnoli e agli altri due rumeni sarebbero stati compiuti - sempre stando all'Indictment - sul territorio degli Usa. Gli Stati Uniti però come si sa, affermano la loro giurisdizione soltanto perché il reato sarebbe commesso in loro danno; e la giurisdizione è esercizio di sovranità". Cosa rischierebbe Romagnoli se venisse estradato negli Stati Uniti? "Negli Usa, per la partecipazione a questa pre-trattativa - perché niente di più sembra emergere dall'atto di accusa della Procura di Manhattan, ove fosse provata la sua consapevolezza di questo fantomatico collegamento con le Farc, Romagnoli rischierebbe l'ergastolo. Pre-trattativa, lo si ripete, che sembra essersi avviata su input di agenti provocatori. Fatto sta che le pene previste nella legislazione statunitense per i reati contestati al Romagnoli, in ogni caso andrebbero da un minimo di 17 anni sino all'ergastolo". Ci sono differenze rilevanti tra il trattamento previsto dalla legislazione statunitense e quello previsto in Italia? E con quali conseguenze? "Differenze rilevantissime direi. Nel nostro ordinamento, ad esempio, esiste una fattispecie criminosa punita con la pena fino a quattro anni di reclusione (quindi da quindici giorni a quattro anni), per il sol fatto di prendere parte a trattative commerciali che hanno ad oggetto la vendita di armi, senza aver preventivamente comunicato al ministero degli Affari esteri e al ministero della Difesa l'inizio delle trattative contrattuali. Insomma se fosse giudicato secondo la legislazione statunitense, il Romagnoli sarebbe trattato in modo gravemente discriminatorio rispetto a qualunque altro cittadino italiano giudicato in Italia, e direi anche in Europa, per fatti analoghi". Lei ritiene che ci siano i presupposti per affermare la giurisdizione italiana e per far sì che il Romagnoli venga estradato e processato secondo la legislazione nazionale? "Ne sono convinto e sto facendo di tutto perché ciò avvenga. Dall'atto di accusa emesso dalla procura di Manhattan emergono elementi chiarissimi per affermare la giurisdizione italiana in base alla Convenzione di Palermo e alla disciplina del cosiddetto ‘crimine transnazionalè. Per parte mia sono convinto che se fosse processato secondo le nostre leggi, Romagnoli sarebbe certamente giudicato innocente, perché, come ho detto prima, manca del tutto la materialità dei comportamenti". Quali sono le iniziative intraprese dalle istituzioni nazionali e, in particolare, dalla magistratura italiana nei confronti del Romagnoli? "Preferirei mantenere il riserbo sulla situazione processuale in Italia. Posso solo dire che allo stato non ci risulta che la procura della Repubblica di Roma abbia iscritto un procedimento penale in senso stretto nei confronti di Romagnoli per un reato giudicabile secondo la nostra legislazione". Quale pensa che sarà l'esito della richiesta di estradizione dal Montenegro agli Usa? "La risposta deve essere articolata. Bisogna considerare che la decisione finale sull'estradizione spetta al ministro della Giustizia in Montenegro: è quindi inevitabile che la questione si sposti sul terreno politico, dei rapporti tra Stati. Da avvocato dico solo che mi sentirei molto più tranquillo a difendere un cittadino americano davanti a una richiesta di estradizione avanzata dal Montenegro! Ma sono anche convinto che esistono molte buone ragioni per i Giudici del Montenegro per negare l'estradizione richiesta dagli Usa. Anzitutto perché, nella peggiore delle ipotesi, questo fantomatico reato si sarebbe consumato in parte anche sul territorio del Montenegro e quindi andrebbe giudicato in quello Stato. Inoltre, la concessione dell'estradizione del Romagnoli verso gli Usa, per reati che secondo la legislazione statunitense sarebbero puniti con una pena assolutamente sproporzionata alla gravità del fatto (da 17 anni all'ergastolo) violerebbe l'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, come di recente affermato nel caso Trabelsi c. Belgio dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Lo stesso discorso vale in relazione alla potenziale violazione dell'art. 6 della Convenzione europea e al principio del giusto processo. A questo punto resta solo da chiedersi se, come spero, la Corte di Podgorica sia realmente intenzionata ad applicare la Convenzione europea dei diritti dell'uomo alla quale il Montenegro, almeno sulla carta, ha aderito. Sarebbe un bel visto d'ingresso nell'Unione europea". India: caso marò; rinviata a mercoledì decisione su rientro di Massimiliano Latorre Adnkronos, 12 gennaio 2015 La Corte Suprema dell'India oggi non si è pronunciata sulla richiesta di estensione del soggiorno in Italia per Massimiliano Latorre, sottoposto il 5 gennaio scorso ad un intervento al cuore. La Corte ha infatti trasferito ad altri giudici la decisione che dovrebbe essere presa mercoledì prossimo. All'indomani della storica manifestazione contro il terrorismo di Parigi, il governo francese oggi inizia a varare una serie di misure coordinate con una nuova riunione convocata da Francois Hollande questa mattina all'Eliseo. Tra le misure che saranno adottate, la mobilitazione di 5mila agenti per la protezione delle scuole ebraiche e l'isolamento per i detenuti estremisti islamici. Francia: il primo ministro Valls "isolamento carcerario per i detenuti estremisti islamici" Adnkronos, 12 gennaio 2015 Il primo ministro, Hayat Boumeddiene probabilmente in Turchia o in Siria Parigi, 12 gen. () - Isolamento per i detenuti estremisti islamici nelle carceri francesi. È quanto ha annunciato il primo ministro Manuel Valls, secondo Le Figaro. "Separeremo questi detenuti dagli altri" nelle prigioni, "bisogna rendere generale" questa misura ma, ha affermato Valls, "bisogna farlo con "giudizio e intelligenza". Il primo ministro francese ha poi precisato che "il lavoro della giustizia" prosegue: "Stiamo considerando come effettivamente probabile l'esistenza di altri eventuali complici" dei fratelli Kouachi e di Amedy Coulibaly. Valls ha anche confermato che Hayat Boumeddiene, compagnia di Coulibaly, si trova probabilmente "in Turchia o in Siria". Turchia: è il Paese con più giornalisti in carcere, situazione stampa peggiore da 60 anni Ansa, 12 gennaio 2015 Secondo il presidente della Associazione dei giornalisti turchi Tgc Nami Bilgin la situazione della libertà di stampa in Turchia è la peggiore degli ultimi 60 anni. In dichiarazioni riferite da Zaman online, Bilgin ha denunciato in particolare gli arresti e i licenziamenti di giornalisti e il rifiuto di accreditare media di opposizione da parte delle autorità governative. Secondo le organizzazioni internazionali della stampa, la Turchia è il paese del mondo con il maggior numero di giornalisti in carcere. Diversi cronisti e i direttori di due importanti testate di opposizione - il quotidiano Zaman e una rete televisiva - vicine al movimento Hizmet dell'imam Fetullah Gulen, ex-alleato ed ora arci-nemico del presidente islamico Recep Tayyip Erdogan sono stati arrestati ancora in dicembre. Diverse organizzazioni fra cui Reporter Senza Frontiere hanno contestato la presenza ieri alla grande manifestazione di Parigi contro la strage di Charlie Hebdo e per la libertà di espressione del premier di Ankara Ahmet Dautoglu, denunciando la situazione della stampa in Turchia. Libano: raid di polizia sulla prigione di Roumieh, obiettivo gli islamisti detenuti di Giusy Regina www.arabpress.eu, 12 gennaio 2015 Dopo l'attentato suicida del 10 gennaio scorso avvenuto in un bar a Tripoli, le forze di sicurezza libanesi hanno fatto irruzione in una delle più grandi prigioni del Paese, quella di Roumieh, in cui sono detenuti molti militanti islamisti. Pare che la polizia stesse cercando oggetti vietati che collegassero gli islamisti detenuti ai due attacchi suicidi. I detenuti dal canto loro, hanno bruciato materassi per protesta, senza causare fortunatamente feriti. Roumieh è stato originariamente costruito per contenere circa 1.500 detenuti, anche se ora ne contiene circa 3.700. Russia: l'ultima sfida di Navalny a Putin "non riuscirà a farmi tacere" di Mark Franchetti* La Stampa, 12 gennaio 2015 È stato arrestato diverse volte, ha subito due processi in cui è stato condannato con accuse costruite dal Cremlino, da marzo è agli arresti domiciliari e per mesi gli è stato proibito di usare Internet e il telefono. Infine, per metterlo a tacere suo fratello è stato incarcerato per tre anni e mezzo. Ma Alexey Navalny, il più tenace e agguerrito critico di Vladimir Putin, continua con la sua sfida. In segno di protesta contro i domiciliari, che denuncia come illegali, la settimana scorsa ha twittato una foto del braccialetto elettronico che gli era stato messo sulla caviglia e che lui ha tagliato con un coltello da cucina. La provocazione Poi ha sfidato i suoi oppositori uscendo a comprare il latte, solo per venire fermato da tre poliziotti in borghese che gli hanno intimato di rientrare in casa. E la tensione non potrà che salire oggi, quando Navalny metterà in atto il suo piano di andare a lavorare nell'ufficio della fondazione anti-corruzione che ha fondato, per la prima volta in dieci mesi. Il risultato probabilmente sarà un suo ennesimo arresto oppure nuovi avvisi di garanzia. "Mi rendo conto del rischio, ma non mi farò silenziare", dice il 38enne Navalny nella prima vera intervista che rilascia da quando, il 30 dicembre scorso, lui e suo fratello Oleg sono stati condannati per appropriazione indebita in un processo che molti considerano una parodia della giustizia. "La scelta per me è semplice: lasciare la politica e abbandonare il mio Paese, o continuare a combattere per una Russia migliore, più democratica e meno corrotta. Per me ovviamente c'è una sola soluzione: restare, e non importa cosa mi faranno. Non mi farò intimidire. Putin vuole il potere assoluto e non tollera il dissenso, non possiamo concederglielo". La vendetta del potere Piedi nudi, jeans e t-shirt nera, Navalny è seduto nella cucina del suo trilocale in una periferia operaia di Mosca, mentre la figlia adolescente e il figlio più piccolo giocano nella stanza accanto. Parla con rabbia della decisione del Cremlino di dargli una condanna con la condizionale e mandare invece il fratello in prigione. Il 31enne Oleg, padre di due figli piccoli, non ha mai fatto politica. Ora è chiuso nella Butyrka, una delle più famigerate prigioni russe. I fratelli sono stati condannati per aver frodato la sede locale della marca di cosmetici Yves Rocher, nonostante la società avesse ripetutamente negato di essere stata vittima di un crimine. "Incarcerare Oleg al posto mio è la decisione più vile che il Cremlino poteva prendere", dice Navalny, che è già stato condannato nel 2013 in un altro processo per frode e appropriazione indebita con una sentenza condizionale di 5 anni considerata dai più politica. "È un ricatto vigliacco. Sanno che non possono farmi tacere perciò vanno a colpire lamia famiglia. Oleg è diventato un ostaggio. È un grande dolore per me stare seduto a casa mentre lui è in prigione, ma accettare di tacere significa lasciarli vincere". "Non c'è altra strada", interviene la moglie Yulia, "uno non può arrendersi a gente come questa". L'attività Avvocato e attivista anti-corruzione che nel 2013 è arrivato secondo alle elezioni del sindaco di Mosca, Navalny è stato il bersaglio principale di una pesante campagna del Cremlino contro un'opposizione già perseguitata. Le pressioni sono aumentate con la crisi in Ucraina. Decine di critici di Putin sono stati incarcerati, costretti all'esilio o messi ai domiciliari. Nuove leggi draconiane puntano a bloccare il dissenso in Rete. I magistrati stanno mettendo in piedi altre due incriminazioni contro Navalny: in una viene accusato di aver rubato un quadro, nell'altra di aver stornato i fondi della sua stessa campagna elettorale. Il leader dell'opposizione dice di aspettarsi che Putin diventi ancora più repressivo man mano che la Russia scivola nella recessione. "È tenuto al potere da un sistema di ladri e cialtroni, di corruzione e propaganda", dice Navalny, prolifico blogger molto presente su Twitter. Intelligente, carismatico, populista, famoso per il suo umorismo caustico e le denunce della corruzione degli uomini del Cremlino, è salito alla ribalta con le manifestazioni anti-putiniane a Mosca del 2011-13, ed è diventato una spina nel fianco del presidente. "Ci dicono che la sua popolarità resta all'80%. Ma è un mito. Resta al potere perché impedisce l'esistenza di una vera opposizione, di elezioni oneste e di media liberi". Alla domanda se teme le prossime mosse del Cremlino contro di lui, Navalny - che cova ambizioni presidenziali - risponde sicuro come sempre: "La persecuzione è diventata parte della nostra vita. Non è facile, ma ci siamo abituati. Non funzionerà comunque. Non mi faranno stare zitto". *Corrispondente da Mosca per il "Sunday Times" di Londra. Traduzione di Anna Zafesova