Giustizia: arrivederci… alla prossima strage di Roberto Saviano La Repubblica, 11 gennaio 2015 "Sapete quanti giornalisti sono morti ammazzati lo scorso anno? E quanti incarcerati, torturati?". Arrivederci alla prossima strage. Arrivederci a quando il sangue farà essere tutti facilmente solidali. Tutta quest'attenzione, tutta la vicinanza si stempererà, si annacquerà e ci ritroveremo alla prossima strage tutti abbracciati e convinti che la libertà d'espressione va difesa come origine d'ogni altro nostro diritto. Ma sino ad ora dove sono stati tutti? Mi ha impressionato la frase profetica che aveva pronunciato il direttore di Charlie: "Non ho paura delle rappresaglie. Non ho figli, non ho una moglie, non ho un'auto, non ho debiti. Forse potrà suonare un po' pomposo, ma preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio". Sembra la dichiarazione di un monaco guerriero, di un volontario, di chi sa che ogni propria scelta può ricadere su chi gli sta intorno. Charb, Stéphane Charbonnier, disegnava vignette, era direttore di una rivista d'essai di satira. Eppure le sue parole sembrano quelle di un soldato che va a combattere, di un medico che parte in missione sanitaria per luoghi contagiosi. Il ricatto e la paura sono gli strumenti con cui si sta distruggendo la libertà d'espressione. E la si sta distruggendo, si badi. Non credo alle posizioni romantiche di chi commenta: "Adesso che il loro messaggio è arrivato dappertutto, quei giornalisti hanno vinto". No, no, e no. La vita era più preziosa dell'affermazione del diritto per mezzo di un sacrificio. Eppure si era sottovalutato il rischio. La scorta a Charbonnier non era una vera scorta, bensì una semplice tutela (un autista e un uomo armato) e la redazione, quando si spostò, perse il presidio davanti all'ingresso, venendo dotata della nota Vgr ("vigilanza generica radiocollegata"), ben poco efficace in casi simili: una pattuglia che saltuariamente passa e osserva. Lo stesso accadde a Salman Rushdie, al quale ripetevano parole che conosco fin troppo bene: "Porta fiori sulla tomba di Khomeini, senza di lui non saresti famoso come sei". Dinanzi a una situazione di minaccia non c'è quasi mai una vera solidarietà, quanto il sospetto di aver trovato una strada furba per emergere. La libertà d'espressione non è un diritto acquisito da praticare solo nei giornali e nelle aule di tribunale, è un fatto, un principio, che trascende tutte le scartoffie legali e si incarna come la caratteristica sostanziale che rende, pur con tutte le sue contraddizioni e progressive limitazioni, il mondo occidentale un mondo libero. Il mondo verso cui milioni di esseri umani si muovono. Scrivere può essere pericoloso, questo è innegabile, ma quando c'è un ricavo da parte dell'autore, quando viene fuori che i suoi scritti sono al centro di un commercio (libri, giornali, fumetti, film) allora si ritiene misteriosamente che questi sia meno degno di tutele, che la sua sicurezza sia un affare trascurabile, che in fondo lo faccia solo per se stesso e che quindi, sì, è come se andasse a cercarsele. Anche Wolinski e i suoi compagni hanno ricevuto accuse simili. In realtà, nonostante la Francia abbia risposto assai meglio degli altri governi europei (in situazioni simili) alle prime minacce e al primo attacco a Charlie Hebdo, dichiarando che se qualcuno si fosse ritenuto offeso dal loro lavoro poteva ricorrere ai tribunali, l'attacco è piovuto proprio addosso ai francesi, ed è arrivato non con una querela o una richiesta di risarcimento danni; è arrivato per mezzo dell'unico tribunale che questo manipolo di esaltati conosce e frequenta: quello del fucile. A mezza bocca ovunque si ascoltavano critiche verso quelle vignette, il settimanale era accusato di alzare il tiro per riequilibrare i conti in rosso: un umorismo forte, senza mezze misure, perfino inelegante, fa maggior presa, salta subito all'occhio. Ma è pur vero che persino la blasfemia diventa un diritto quando vengono poste determinate questioni di principio, perché riaffermarlo diventa, appunto, una questione di principio imprescindibile. Va ricordato che gli stessi giornali che trovavano indecorose le bestemmiacce di Charlie pubblicavano ogni sorta di foto di gossip e violavano privacy senza alcun pudore, cosa che invece la redazione di Charlie non fece mai. Nessuno deve mai praticare il mutismo o l'autocensura per il timore di essere ucciso o minacciato o ricattato, o semplicemente odiato, questo è lampante. In tal senso, il diritto al travestimento e all'ostentazione del kitsch quando l'omofobia occupa spazi preoccupanti, sembra speculare. L'Europa, oggi, ha dimenticato il diritto alla libertà d'espressione. Dimenticato non significa che ha cancellato il diritto ma che l'ha trascurato, l'ha lasciato difendere per inerzia, finché è arrivato qualcuno che l'ha seppellito sotto una montagna di proiettili. Al di là del terrorismo islamico, la questione si riflette anche nelle vicende mafiose: i governi tentennano, i tribunali considerano i meccanismi di minaccia come reati corollari, riconoscendoli solo in presenza di sangue. Mi chiedo: sapete quanti giornalisti sono morti l'anno scorso? Sessantasei sono stati uccisi, e cento settantotto arrestati. In Turchia ventitré giornalisti sono in carcere per la sola colpa di scrivere su un quotidiano critico verso il governo. Mi chiedo: com'è stato possibile dimenticare immediatamente che in Messico si è ucciso per un tweet, che in Arabia Saudita si fustiga con mille frustate (le prime cinquanta date l'altro ieri) Raif Badawi "colpevole" di aver aperto un forum online di dibattito su Islam e democrazia; che in Italia decine di persone vivono sotto protezione, che in Danimarca già provarono ad ammazzare il vignettista Kurt Westergaard per aver disegnato una caricatura del profeta Maometto? Abbiamo già scordato il regista Theo van Gogh assassinato in Olanda? Maria del Rosario Fuentes Rubio viene uccisa in Messico per le sue campagne su twitter e decine di studenti per aver partecipato a una manifestazione. Bastava che queste cose non fossero avvenute a Parigi o Berlino per ignorarle? Certo, siamo tutti Charlie Hebdo, ed è una solidarietà emotiva istintiva, quella pulsione che Kant descriveva come la capacità immediata di percepire ancor prima della ragione ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Come se fosse iscritta dentro di noi la capacità di discernimento. Ma si tratta pur sempre di un'adesione avvenuta a sangue versato. Charlie Hebdo non era un giornale in grado di arrivare a milioni di persone, era in crisi, sempre sull'orlo della chiusura. Non stiamo parlando di un attacco alla Cnn né al più grande giornale di Francia. La spiegazione la potremmo trovare forse nella tattica: facile assaltare un piccolo giornale piuttosto che una grossa struttura, con un grosso apparato di vigilanza. Ma il motivo non è solo questo, c'è di più: indipendentemente da quanto si è grandi, quando un messaggio riesce a passare attraverso la marea di articoli e di materiale stampato, questo messaggio fa più male, dà più fastidio, è come un chiodo. Non mette paura il più grande, mette paura chi riesce a innovare un codice espressivo, a farlo passare, a misurarne la contraddizione, a superare l'identica partitura. Del resto ogni strategia militare di difesa identifica i luoghi sensibili del proprio territorio, che qui, come si è visto, non sono più i parlamenti, i ministeri o le caserme. Sparare in una caserma è un atto di guerra che relega il conflitto a una questione tra divise e divise. Colpire politici significherebbe "annacquare" il proprio messaggio militare: siccome non esiste più nella politica europea un personaggio simbolo che sintetizzi la storia e i valori europei, rischierebbe di sembrare un attacco parziale. Colpire artisti, invece, colpire intellettuali, colpire blogger, per il terrorismo islamico, come per quello dei narcos e per i regimi tirannici, significa colpire il pensiero. Vuol dire intimidire chiunque, creare un'identificazione immediata tra l'opinione pubblica e la persona colpita, rendere punibile la riflessione e la diffusione dell'idea. Non è un assalto ai ruoli o alle istituzioni ma all'ultimo territorio che rende l'occidente ancora un luogo diverso: la libertà d'espressione. Ma presto tornerà il silenzio, se non ci muoviamo. Chiedo al parlamento europeo, chiedo a Matteo Renzi, Angela Merkel, François Hollande, David Cameron, e ai capi di Stato, di organizzare a un mese dalla strage un consiglio europeo dedicato a tutti coloro che pagano e hanno pagato sulla propria pelle il prezzo della libera espressione, che vivono sotto scorta, che hanno subìto minacce, attentati, ricatti, violenze di ogni tipo. L'Europa si riunisca, e ascolti chi rischia in nome della cultura, dell'arte, dell'informazione, comprenda che in queste libertà risiedono i suoi - i nostri - pilastri. Se la mobilitazione di uomini e coscienze che sta scuotendo oggi il mondo occidentale dovesse spegnersi presto, risolvendosi in qualche giorno di sdegno e in manciate di minuti di silenzio, allora sì, dobbiamo dire: arrivederci alla prossima strage. Giustizia: le colpe dell'islam e le nostre di Roberto Toscano La Stampa, 11 gennaio 2015 Si è quasi esitanti a cercare di riflettere sui tragici eventi di Parigi quando sembrerebbe invece giusto limitarsi a respingere categoricamente una disumana barbarie. E invece proprio adesso è necessario cercare di ragionare. Perché se c'è una finalità che accomuna i terroristi di tutte le cause, politiche o religiose che siano, è quella di produrre reazioni emotive e violente al termine delle quali non vi sarà più distinzione fra loro e le società da loro prese come bersaglio. Vorremmo poter dire che questo non succederà, che - come i dirigenti della Francia e non solo ripetono come un mantra - la democrazia manterrà i nervi saldi, non si farà assimilare agli intolleranti e ai violenti. Oggi però in Europa sentiamo parlare di misure che non sono anti-terroriste ma piuttosto anti-musulmane e anti-immigrati, di espulsioni in massa, e persino di ristabilimento della pena di morte. Ma non si tratta solo del pericolo di una deriva autoritaria ed intollerante. Quello che è accaduto a Parigi ci obbliga anche a riflettere su alcuni aspetti della nostra società. In primo luogo la libertà di stampa e delle sue possibili contraddizioni con il rispetto di quello che dai credenti è considerato sacro ed intoccabile. Qui sembra subito importante fare chiarezza su una distinzione irrinunciabile. Possiamo criticare come politicamente irresponsabile, moralmente ambiguo e anche esteticamente volgare la satira e la critica ad una fede religiosa, ma non tutto quello che è inopportuno o criticabile dovrebbe essere considerato proibito o illegale. Il limite giuridico può essere solo quello del codice penale (ingiuria, diffamazione) - una tutela, va aggiunto, che non si deve riferire solo alla religione ma deve proteggere ogni tipo di valore individuale o di gruppo. Un'etica della responsabilità dovrebbe poi imporre a tutti di vagliare i propri comportamenti alla luce delle loro prevedibili conseguenze. Sarebbe comunque devastante per una convivenza basata sulla libertà e il dialogo concedere a ciascuno il diritto di definire quello che costituisce un'offesa intollerabile. Recentemente, in Iran, alcune donne sono state attaccate con l'acido da chi, musulmano tradizionalista, si riteneva offeso dal fatto che camminavano per la strada con un abbigliamento "poco ortodosso". In India un grande artista musulmano, M.F. Husain, è morto in esilio dopo che aveva dovuto abbandonare il Paese a seguito delle minacce di morte di induisti radicali che ritenevano offensivo il suo modo di rappresentare le divinità femminili indù, mentre il libro di una eminente ideologa americana, Wendy Doniger, è stato ritirato dalle librerie dall'editore, Penguin India, spaventato per le minacce di chi lo considerava offensivo per la religione. Come si vede, il problema non è solo l'Islam, anche se è l'Islam a costituirne oggi l'aspetto più drammaticamente attuale. A questo proposito va detto che, nel momento in cui respingiamo l'islamofobia e l'attacco a un'intera comunità religiosa, arbitrariamente inclusa nella categoria della violenza terrorista, non possiamo non auspicare che dall'interno stesso di quella comunità vengano non solo condanne non ambigue della violenza, ma anche una riflessione autocritica alla quale purtroppo viene spesso sostituita la denuncia delle responsabilità altrui, quando non allucinate teorie cospirative. Le responsabilità dell'Occidente sono pesanti e innegabili: prima il colonialismo, con l'umiliazione di una grande civiltà; poi il prolungato appoggio a dittatori seguito più recentemente da interventi militari che non hanno solo rovesciato i tiranni, ma hanno smantellato gli Stati che si pretendeva di liberare generando anarchia e frammentazione politico-territoriale; l'integrazione solo apparente di comunità di vecchia e nuova immigrazione in realtà discriminate e ghettizzate economicamente e socialmente. Questo dovremmo riconoscerlo noi, come primo passo nella ricerca di una politica più rispettosa, più solidale e soprattutto più sensata. Ma il compito spetta anche agli islamici. Vi è chi ritiene oggi inaccettabile pretendere da chi non ha alcun rapporto con i violenti una presa di distanza dalle loro azioni. Eppure è importante ed è necessario, come lo fu la condanna, e non solo la presa di distanza, dei comunisti italiani rispetto alle Brigate rosse, destinate ad essere sconfitte dal momento in cui nel Pci si smise di considerarli "compagni che sbagliano". Questo negli stessi anni in cui nel partito giungeva alla sua piena maturazione una profonda riflessione autocritica su rivoluzione e modello sovietico. Lo ha scritto in questi giorni un filosofo, Abdennour Bidar che, in una "lettera aperta al mondo musulmano" pubblicata su Huffington Post, ha denunciato "il rifiuto di riconoscere che questo mostro è nato da te" ed ha lanciato un appello angosciato e coraggioso, formulato con parole che, se usate da un non-musulmano, verrebbero certamente tacciate di "islamofobia". "Ecco quali sono le tue malattie croniche: incapacità di costruire democrazie durevoli in cui la libertà di coscienza rispetto ai dogmi della religione venga riconosciuta come diritto morale e politico; difficoltà cronica a migliorare la condizione femminile in direzione dell'uguaglianza, della responsabilità e della libertà; incapacità di separare sufficientemente il potere politico dal controllo dell'autorità religiosa; incapacità di instaurare il rispetto, la tolleranza e un effettivo riconoscimento del pluralismo religioso e delle minoranze religiose". Se vogliamo spezzare una spirale che minaccia di travolgerci tutti e ridurci tutti a un più basso livello di umanità e di civiltà, ci sarà molto lavoro da fare. Per noi e per loro. Ma ciascuno dovrà avere il coraggio di partire dal riconoscimento delle proprie colpe, delle proprie responsabilità. Solo così potremo costruire una convivenza in cui sarà finalmente possibile, pur nel rispetto di tutte le differenze, religiose e non, abolire la stessa contrapposizione fra "noi" e "loro". Giustizia: bavaglio ai siti internet, Alfano cala l'asso contro il terrorismo Il Garantista, 11 gennaio 2015 Il ministro: misure per facilitare l'oscuramento. Salvini contro Calderoli: non pena di morte ma lavori forzati. Fi e Ncd: rinviare voto sulla mozione pro-Palestina. Non solo l'estensione delle restrizioni già previste per i mafiosi ai presunti terroristi, i monitoraggi delle moschee o "lo stop alla vendita dei precursori di esplosivi", già annunciati alla Camera. Nel pacchetto di Angelino Alfano per frenare l'ondata jihadista è prevista anche una stretta su "web e comunicazione su internet". A Skytg24 il ministro ha spiegato che "fanno parte delle strategie moderne di reclutamento" di organizzazioni, che "non necessitano di far parte di una organizzazione complessa, ma che invece alimentano i fanatismi dei lupi solitari, dei "Lone wolf". Da qui l'attivazione di "una cooperazione più forte con i colossi del web" per dare strumenti più significativi alla magistratura e alle forze dell'ordine per spegnere i siti intervenendo sui provider". Più sobriamente Matteo Renzi ha detto che "la ricerca è l'antidoto al fanatismo e la cultura è l'antidoto al terrore". Invece Alfano non si perde in giri di parole: "Per chi vuole fare attentati di questo tipo la morte è una prospettiva concreta". Oggi volerà a Parigi a spiegare ai suoi colleghi ministri degli Interni come si fa la lotta al terrorismo. "Andrò con alcune proposte", ha spiegato ai microfoni di SkyTg24, "Una su tutte esportare: il modello italiano di analisi strategica antiterrorismo a livello europeo. Abbiamo la necessità di avere informazioni di prima mano, di tenerle riservate e al tempo stesso di farle circolare tra i Paesi europei attraverso un'analisi che metta insieme tutte le fonti informative di cui ciascuno dispone". L'ex delfino di Berlusconi definisce premature le analisi sulle presunte mancanze dell'intelligence francese. Detto questo - e forte del fatto che in Italia non si sono mai verificati attentati come la mattanza alla redazione di Charlie Hebdo - ecco Alfano vantare il modello italiano: "Una volta alla settimana riuniamo il Comitato di analisi strategica antiterrorismo ed è un comitato del quale fanno parte l'intelligence, i responsabili dell' antiterrorismo e le forze dell' ordine. Questo ci consente un aggiornamento di tutti gli elementi, anche quelli apparentemente meno rilevanti, per un quadro diagnostico che è essenziale nel contrasto e nella prevenzione alla minaccia terroristica". Intanto in Italia il dibattito politico fa di tutto per ricalcare il modello Marine Le Pen. Negli ultimi due giorni la leader del Front National ha chiesto un referendum per la pena di morte; ha disertato, svilendole le manifestazioni popolari nelle piazze delle principale città; ha accusato il governo di complicità con i terroristi per non aver impedito un atto previsto. E i falchi nostrani non vogliono essere da meno. A scandire temi e ritmi delle discussioni è la Lega Nord. Diventata essa stessa materia del dibattito, che è seguito agli attentati francesi. Ieri il suo segretario federale, Matteo Salvini, era a Milano a un volantinaggio organizzato davanti al Pala-Sharp, in una delle tre aree indicate dal sindaco Pisapia per ospitare una grande Moschea, che nel capoluogo lombardo manca. E Salvini ne ha approfittato per annunciare "un referendum per bloccarne la costruzione". Per poi concludere: "Sono preoccupato sia per il governo di Roma sia per la giunta di Milano per come gestiscono il problema, perché non hanno capito cosa stanno facendo". La manifestazione non ha ottenuto l'interesse sperato, ma Salvini non si è perso d'animo, e dopo aver distribuito con le vignette "blasfeme" pubblicate da Charlie Hebdo, eccolo attaccare Renzi di essere complice con "le sue politiche per l'immigrazione" dei terroristi. Perché "nel nome dell'Islam ci sono milioni di persone in giro per il mondo e anche sui pianerottoli di casa nostra pronti a sgozzare e uccidere". Visto il clima, e l'idea più o meno generalizzata di stare vivendo in una crociata al contrario, Calderoli rivendica il copyright di questi messaggi. "Oggi", ha detto, "molti parlano di guerra santa, dell'inesistenza di un Islam moderato, di limiti all'immigrazione e controlli nelle moschee. Ma non può essere che se le stesse cose le dice un leghista si tratta di xenofobia, mentre se le propone un intellettuale o un giornalista, magari di sinistra, diventano buone idee". Secondo l'ex ministro, la guerra si vince sia con la pena di morte sia "smettendola col miserabile buonismo". Ipotesi che non convincono del tutto Salvini: "Per i terroristi vorrei ergastolo vero e lavori forzati". Dal fronte centrista replica Matteo Librandi (Scelta Civica): "Salvini e le sue disgraziate dichiarazioni su sedicenti "milioni di islamici pronti a sgozzare" fa lo stesso gioco del fondamentalismo islamico, il cui obiettivo è spingere l'opinione pubblica a pensare che tutto l'islam sia violento, portando inevitabilmente così anche i musulmani moderati su posizioni radicali". Nella mattinata di ieri Arturo Scotto, Capogruppo di Sel alla Camera, ha denunciato nelle uscite della destra, "ricompattatasi" sulle questioni del terrorismo, il tentativo dell'area che va "da Brunetta a De Girolamo, da Gelmini a Cicchitto" ne approfitti per boicottare la mozione parlamentare per il riconoscimento della Palestina. Poche ore dopo ecco arrivare richiesta in questa direzione da parte degli ex ministri di Istruzione e Politiche agricolture. Soprattutto nel centrodestra gli animi sono accesi. Giorgia Meloni suggerisce di non "cedere di mezzo millimetro sulla difesa della nostra identità, e quindi non accettando quell'Europa e quell'Italia che ci impongono di non esporre il crocifisso perché qualcuno si sente offeso: quel qualcuno può andare a vivere da un'altra parte". Da Roccaraso, ospite della festa "Neve azzurra" di Forza Italia, l'ex ministro della Difesa, Ignazio La Russa, sentenzia: "Quando qualcuno ti dichiara guerra devi rispondere, devi combattere altrimenti hai già perso, con le armi della cultura, dell'economia, dell'intelligenza ma anche con le armi della forza, se è indispensabile". Si stacca dal coro e prova a ragionare sul problema il sottosegretario agli Esteri, Benedetto. Dalle colonne di Avvenire chiede uno sforzo in più all'Islam moderato. "I milioni di islamici che da Roma, Londra, Berlino o Parigi hanno assistito con raccapriccio e sgomento all'attentato di mercoledì non sono spettatori e vittime collaterali, ma protagonisti di questa sfida. E per non essere confusi con una parte del problema devono divenire parte della soluzione, cioè della lotta culturale e politica attiva contro la violenza". Giustizia: mense delle carceri gestite dai detenuti, niente proroga alle cooperative di Paolo Colonnello La Stampa, 11 gennaio 2015 Niente da fare: la proroga di altri quindici giorni alle cooperative di detenuti che gestiscono le mense in dieci carceri italiane, non è stata concessa. Fine dell'esperimento? "Non proprio. Entro la fine del mese comincerò ad incontrare singolarmente i responsabili delle cooperative e vedremo come continuare", risponde Santi Consolo, magistrato, nuovo capo del Dap, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del ministero di Giustizia da cui dipendono tutti gli istituti di pena italiani. Possibile che non vi fosse un'altra via d'uscita per impedire che un'esperienza del genere terminasse così bruscamente? "È una questione di legge e regolamento. L'iniziativa era nata nel 2003 con l'obiettivo di crescere e camminare con le proprie gambe, ma così non è stato. Dal 2009 era finanziata dalla Cassa delle Ammende che però per legge può finanziare solo delle start up e non in maniera permanente delle iniziative imprenditoriali. Ci sono state diverse proroghe ma ormai non era più possibile continuare. L'attività delle cooperative non era più in linea con la finalità delle Cassa, la cui attività è ora monitorata dal Ministero delle Finanze". Inoltre, risponde anche alla Corte dei Conti e da qui nasce la maggiore prudenza nei finanziamenti. "L'esperimento è ottimo intendiamoci, e auspico che con i responsabili di queste coop si trovino progetti in grado di sostenersi da soli. L'impegno originario era di ridurre il gettone giornaliero per il confezionamento dei pasti nelle carceri incentivando attività collaterali e aumentando le assunzioni dei detenuti. Purtroppo, colpa della crisi e di varie difficoltà, così non è stato tranne forse per il solo carcere di Bollate. Non ci sono altri fondi, questa è l'amara verità. D'altronde non si può sperare in un finanziamento permanente da parte di un dipartimento che ha già scarse risorse e solo per 10 realtà rispetto alle oltre 200 carceri in Italia con una popolazione di 54 mila detenuti. Avremmo creato delle evidenti disparità. Se poi ci saranno progetti di fattibilità, ben vengano". I responsabili delle coop (che non sono detenuti, ma imprenditori civili) riuniti nel Gruppo Emergenza Carceri, non sembrano essere dello stesso avviso: "Dal punto di vista economico - spiegano - così facendo l'amministrazione non realizzerà alcun risparmio. Anzi il rischio è quello di maggiori costi sul lungo periodo. Dal punto di vista della legalità c'è un incremento dei rischi e dal punto di vista del trattamento rieducativo si tratta di un enorme passo indietro". "Sono dispiaciuto e amareggiato - rimarca il garante dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano. Il 30 dicembre il ministro orlando e il capo del Dap avevano preso impegni e dato rassicurazioni. Ora invece si disperde una preziosa esperienza. Una brutta pagina, fra le tante, dell'amministrazione penitenziaria". Giustizia: quel dietrofront sul lavoro in carcere (che funziona) di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 gennaio 2015 Detenuti e lavoro: in queste ore il ministero chiude (come annunciato un mese fa) 10 anni di esperimento del servizio cucine fornito - grazie a 3,5 milioni di Cassa delle Ammende come start up del 2003 - da coop di detenuti in 10 (su 205) carceri, i cui direttori attestano minor recidiva in chi lavora, cibo migliore e risparmi per lo Stato. Ma 10 dirigenti delle coop sociali come Nicola Boscoletto di Padova, presenti con tre garanti dei detenuti, sostengono che "nella riunione del 30 dicembre il ministro Orlando, il capo di gabinetto Melillo e il nuovo capo del Dap Consolo promisero la mini proroga all'1 febbraio". "Non c'è mai stata la promessa di proroga, ma di un impegno a proporre alla Cassa delle Ammende di valutare nella sua autonomia 15 giorni di proroga, con un possibile rilievo contabile di 140.000 euro - ribatte Consolo. La Cassa ha detto no, a mio avviso con buoni argomenti economici e giuridici". Incontri con singole coop cercheranno "soluzioni diverse e sostenibili". Ma il vento ministeriale è cambiato: "Verificherò se i dati forniti dai direttori delle 10 carceri siano corretti. In caso contrario, assumerò iniziative - dice Consolo. In un incontro con alcuni provveditori (capi regionali dei direttori, ndr) è emerso un quadro dissonante". Problemi anche sui 6,1 milioni (ridotti a 5,8 dai tagli di spesa) di credito d'imposta della legge Smuraglia alle coop che assumono detenuti. A fronte di progetti per 9 milioni il Dap ha scelto di tagliare un 34% lineare a tutte le coop, alcune ora o rinunceranno a commesse esterne già acquisite o licenzieranno lavoratori/detenuti in esubero. Giustizia: effetto Buzzi, coopetative via dalle mense in carcere di Annalisa Dall'Oca ed Emiliano Liuzzi Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2015 Il Ministero della Giustizia elimina l'esperimento, ma dà l'ok alla coop "29 Giugno" per gli sgravi fiscali e poi l'antimafia blocca. Dieci anni cancellati in meno di un mese. A partire dal 15 gennaio vedrà sparire una delle poche eccellenze del suo sistema carcerario, settore mense. L'annuncio è già arrivato in via ufficiale: la sperimentazione avviata nel 2004 dal Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria con 10 cooperative sociali, impegnate a insegnare un mestiere ai detenuti occupandosi delle mense di altrettante carceri, con ottimi risultati, tra l'altro, in termini di diminuzione della recidiva, verrà cestinata. Si tornerà al vecchio sistema, alla gestione pubblica delle cucine delle prigioni e ai reclusi che attendono di scontare la pena senza imparare una professione che, una volta usciti di galera, li riabiliti alla vita nella collettività, con buona pace per chi in questi anni ha investito tutto in un progetto che si era trasformato in un'eccellenza. Un paradosso, accompagnato da un altro paradosso: negli stessi giorni in cui il Guardasigilli Andrea Orlando annunciava alle 10 coop (Ecosol a Torino, Divieto di sosta a Ivrea, Campo dei miracoli a Trani, L'Arcolaio a Siracusa, La Città Solidale a Ragusa, Men at Wotk e Syntax Error a Rebibbia, Abc a Bollate, Pid a Rieti e Giotto a Padova) che il progetto sarebbe finito nella spazzatura, "ma le invito ad aiutarci nell'impresa di creare lavoro in carcere", il ministero della Giustizia includeva la cooperativa 29 Giugno, il cui presidente è quel Salvatore Buzzi braccio destro del boss Massimo Carminati, nell'elenco delle realtà destinate a ricevere gli sgravi fiscali previsti dal governo per chi opera nel sociale. A scandalo Mafia Capitale già sui giornali. A rimediare all'errore ci ha pensato l'Antimafia, che ha subito bloccato tutto, però il timore delle coop che il 15 gennaio prossimo verranno licenziate dal ministero è che l'ombra del Cupolone mafioso la stiano pagando anche loro. Il Guardasigilli Andrea Orlando nega, assicura che l'intenzione di abbandonare la sperimentazione era in odore da tempo, i soldi per andare avanti non ci sono. Ma il dubbio resta. "Non è che se domani arrestano un carabiniere poi chiude l'Arma, non possiamo pagare tutti per il caso Buzzi", sospira Nicola Boscoletto, presidente di Giotto, che trasforma in pasticceri i detenuti del carcere di Padova, "ma sappiamo anche che è facile puntare il dito contro tutti e dire ‘avete lucrato' anche se non è la verità, anche se ci sono persone che hanno speso anni a mettersi al servizio del prossimo", ammette Luisa Della Morte, numero uno della cooperativa Alice, che gestisce la piccola sartoria della casa di reclusione Bollate. Basta un dato a dimostrare la qualità del progetto decennale che il ministero ha deciso di chiudere: la recidiva tra i reclusi che hanno partecipato, "migliaia in 10 anni", è crollata dal 70% al 2%. "Questo perché imparavano un mestiere" spiega Boscoletto. L'iter, infatti, era quello seguito da un qualsiasi lavoratore: un corso di formazione, poi l'impiego in cucina. Il risultato? Pasti più sani per tutti i carcerati e condizioni igieniche migliori, per cominciare. Ma non solo: il meccanismo funzionava così bene che accanto alle mense sono nati piccoli reparti di produzione che sfornavano eccellenze. I panettoni dei reclusi di Padova, ad esempio, sono finiti sulla tavola del Papa e del Presidente della Repubblica e Abc di Bollate ha fornito il catering alla Farnesina. Il tutto, secondo le coop, con un risparmio per lo Stato: "Insegnare un lavoro ai detenuti fa sì che usciti di prigione possano ricollocarsi nella società, un vantaggio sia per i cittadini, in termini di sicurezza sociale, sia per lo Stato, che un carcerato ci costa 250 euro al giorno", calcola Boscoletto. Senza dimenticare che l'Italia ha recentemente schivato una sanzione europea proprio nel semestre di presidenza UE, e che tuttora rischia di venire multata per le paghe troppo basse che lo Stato eroga ai reclusi che lavorano: "È un paradosso", allarga le braccia Polleri, "non solo gettiamo nella spazzatura una delle poche esperienze positive del nostro sistema carcerario, ma nel farlo rischiamo pure una multa dall'Ue. Perché in Italia deve vincere sempre la burocrazia?". Giustizia: via il lavoro dalle carceri? il governo toglie dignità a quegli uomini di Pietro Vernizzi www.ilsussidiario.net, 11 gennaio 2015 Per dieci anni un progetto realizzato da cooperative sociali ha dato lavoro ai detenuti in dieci carceri italiane. Un'opportunità importante per rieducare e riscattare chi si è macchiato di crimini anche gravi, restituendo loro la dignità e la possibilità di guadagnare uno stipendio in modo onesto, spesso per la prima volta nella vita. L'affidamento del servizio è scaduto a fine 2014, e per ora il ministero della Giustizia dopo lunghi silenzi immotivati ha deciso di prorogarlo solo fino al 15 gennaio 2015, poi non si sa. Come ha scritto Luigi Ferrarella, cronista giudiziario del Corriere della Sera, dietro questa strana vicenda c'è "lo scandalo delle coop sociali di Roma fatto pagare ai detenuti che lavorano". Ne abbiamo parlato con Margherita Coletta, vedova del brigadiere Giuseppe Coletta, ucciso nella strage di Nassiriya. La signora Coletta ha conosciuto le cooperative che danno lavoro ai carcerati attraverso le attività della sua associazione che si occupa dei bambini nel Burkina Faso. C'è un nesso tra lo scandalo delle coop sociali di Roma e il fatto che il ministero abbia scelto di non prorogare il progetto per dare lavoro ai carcerati? È sbagliato fare di tutta l'erba un fascio, penalizzando chi aiuta le persone a riacquistare dignità. Io ho avuto personalmente a che fare con la cooperativa Giotto che lavora nel carcere di Padova. Noi abbiamo un'associazione no profit e grazie all'aiuto dei carcerati e dei loro panettoni, riusciamo a mantenere i bambini in Burkina Faso. Già questo basterebbe per dire l'utilità e l'importanza delle cooperative che danno lavoro ai carcerati. Qual è la logica dietro la decisione delle autorità di non prorogare il progetto? Non riesco a comprendere perché si cerchi sempre di distruggere l'opera di chi sta cercando di costruire qualcosa di buono per tutti. E soprattutto non mi piace il metodo dei silenzi e delle mezze verità. Se il ministero della Giustizia ha delle riserve, lo dica chiaramente spiegando perché. Le cooperative dovrebbero poter continuare a essere attive in carcere? Sì. Anche un solo detenuto che lavora nel carcere grazie alle cooperative riesce a mantenere la sua famiglia. È quindi tutto un beneficio, non c'è nulla che va a pesare sullo Stato. Il fatto che il ministero della Giustizia si rifiuti di rinnovare l'affidamento del servizio significa che invece di edificare si vuole distruggere, rinunciando a incentivare questi ragazzi che hanno già acquistato dignità e che si sentono utili alla società. È proprio quest'ultimo il compito che le carceri dovrebbero svolgere. Non riesco quindi a comprendere questi tagli senza alcun senso, tanto più che in passato lo Stato non ha elargito fondi ma si è limitato ad affidare lo svolgimento di servizi. In questo modo si penalizza chi lavora rispetto agli altri che rubano. Qual è stata la sua esperienza a contatto con queste realtà? Ho visto dei detenuti che lavoravano al call center, nei laboratori della Roncato e nelle cucine. Vederli all'opera era una cosa splendida. Quelle mani macchiate di sangue che comunque riacquistano la dignità attraverso il lavoro è la cosa più bella che possa esistere e una vittoria anche per cercare di rimetterli sulla retta via. E soprattutto per farli sentire degni di essere persone vive. Mi sembra invece che si sia spostato il punto centrale, e che si sia pensato a tutto tranne che al bene della singola persona. Quale dovrebbe essere la priorità? Noi dobbiamo pensare alla dignità dell'uomo, e non a uniformare o omologare. Questo deve essere di sprone affinché in tutte le altre carceri si faccia così. Occorre un cambio di direzione rispetto alla realtà che si vive in alcune carceri. Il cambiamento "costa", non solo dal punto di vista economico ma anche in termini di organizzazione. Diciamo sempre di investire su questo, e non capisco perché adesso si faccia dietrofront. La stessa Unione Europea ha richiamato più volte l'Italia sulla questione carceri… Siamo in Europa quando ci conviene, mentre bisognerebbe starci da tutti i punti di vista. Ma poi chi amministra le carceri è il primo a trarre un beneficio dal fatto che i detenuti lavorino, e quindi il ministero è il primo che dovrebbe sentirsene fiero e gratificato, invece di non dare risposte quando le cooperative chiedono di sapere quale sarà il loro futuro. Io capisco che il mondo va al contrario, ma in questo caso abbiamo proprio superato il limite. Giustizia: dobbiamo chiudere il Partito Radicale, adesso rischiamo di essere solo un alibi di Angiolo Bandinelli (Direzione Nazionale di Radicali Italiani) Il Garantista, 11 gennaio 2015 Nel 1987 riuscimmo a salvarci. ma allora il contesto era diverso, l'attenzione nei nostri confronti era ancora molto forte, adesso rischiamo di essere solo un alibi. Tra pochi giorni, proporrò al comitato di Radicali Italiani lo scioglimento del Movimento, quale primo passo verso l'ugualmente necessaria, responsabile chiusura degli altri soggetti costituenti la "galassia" radicale. Oggi, la galassia radicale non vive: soffocata dal regime, sopravvive a se stessa. E ormai solo l'alibi altrui: "Non vi preoccupate, tanto ci sono i radicali", si dice quando si parla di giustizia, di diritto, di carceri, di debito pubblico, di crisi istituzionale e costituzionale. "Tanto ci sono i radicali". Ridotti, come si vede, ad alibi delle cattive coscienze. Non possiamo accettare un simile destino. O lo scegli o lo sciogli, fu lo slogan che, nel 1987, provocò uno slancio di entusiasmo e di generosità di oltre diecimila uomini e donne, da ogni parte del mondo, nei confronti del Partito Radicale e della sua decisione di cessare le attività. Contro il potere sovversivo dei mezzi di comunicazione che avevano stravolto l'immagine e l'identità del Partito Radicale, ci fu la rivolta di premi Nobel, di ministri, di parlamentari, di sacerdoti, di scrittori, di uomini di cultura, di ex terroristi, che presero per la prima volta nella loro vita, nel 1987, la tessera di un partito". Così, in sintesi, su Notizie Radicali, il resoconto della straordinaria iniziativa che ebbe, come insegna, "O lo scegli o lo sciogli": o tu lo scegli e quindi ti iscrivi, o il Partito radicale chiude, si scioglie, muore. Tra pochi giorni, io proporrò al Comitato di Radicali Italiani lo scioglimento del Movimento, quale primo passo verso la ugualmente necessaria, responsabile chiusura degli altri soggetti costituenti la "galassia" radicale. Le motivazioni della mia richiesta ricalcano quelle che giustificarono l'iniziativa del 1987. Identiche motivazioni ma profondamente diverso, infinitamente più deteriorato, sia il contesto che il testo. Allora fu possibile sperare che la salvezza fosse alla nostra portata; arrivò infatti, ottenuta però solo grazie ad uno sforzo di mobilitazione e di iniziativa eccezionale. Anticipo le conclusioni di questo intervento: oggi non è più così, la chiusura è obbligata. Non ci sono le condizioni - esterne ma anche interne al partito - perché il miracolo del 1987 si ripeta. Oggi, la galassia radicale non vive: soffocata dal regime, sopravvive a se stessa. E ormai solo l'alibi altrui: "Non vi preoccupate, tanto ci sono i radicali", si dice attorno quando si parla di giustizia, di diritto, di carceri, di debito pubblico, di crisi istituzionale e costituzionale. "Tanto ci sono i radicali". Ridotti, come si vede, ad alibi delle cattive coscienze. Non possiamo accettare un simile destino per il nostro partito. Quella del 1987 fu una sfida concepita al congresso del novembre 1985 nel quale, recita il resoconto già citato, "il Partito radicale aveva dovuto prendere atto che l'organizzazione della informazione e della comunicazione si era ormai costituita in potere sovversivo della democrazia. Che la stampa e la televisione privano ormai il cittadino, a Roma come a New York, del diritto primario e costituzionale di conoscere per poter giudicare, per poter di conseguenza esercitare la sua sovranità democratica. Che questa situazione rendeva, in partenza, sconfitti, marginali i valori e gli ideali del Partito radicale. Quei valori e ideali che nel passato era stato sufficiente comunicare all'opinione pubblica perché li riconoscesse come propri, meritevoli d'impegno civile e democratico". La campagna ebbe una risposta che "superò la nostra capacità di immaginazione". "Tre Premi Nobel così diversi nella loro storie e nelle loro scoperte: Vassily Leontief, Rita Levi Montalcini, George Wald; - tanti ex-terroristi che, dal profondo dell'ergastolo e di condanne quasi secolari, nella forza propositiva della nonviolenza radicale hanno ritrovato la speranza di vita; - ministri di governi anche africani, parlamentari italiani ed europei, israeliani e francesi; - autori riconosciuti come fra i maggiori del nostro tempo, quali Eugene Jonesco; - dissidenti sovietici o polacchi, come Leonid Pliusc o testimoni del nostro tempo come Marek Halter o tanti ebrei impegnati per il rispetto dei diritti in Urss, quali Avital Sharanskj, Haim Maragulis; - preti e religiosi come Jean Cardonnel, Christian Delorme, Guy Gilbert; -centinaia di criminali comuni detenuti nelle carceri, e tante loro famiglie; - donne e uomini di cultura, dello spettacolo, delle arti, del teatro, della musica, della pittura, del giornalismo, financo dello sport: in oltre diecimila - tutti o quasi tutti dichiarando di non essere mai stati iscritti a partiti nella loro vita - decisero, in poche settimane, di costituirsi nel Partito Radicale del 1986 perché potesse esistere il Partito radicale del 1987, del 1988". C'è qualcuno che oggi possa solo immaginare una risposta ugualmente planetaria alle attuali difficoltà di Radicali Italiani e dell'intera galassia? Ma già in vista del congresso del novembre 1972 era stata lanciata una analoga sfida: nella convocazione, il Partito si impegnava a raggiungere entro il congresso i mille - 1.000! - iscritti come "condizione necessaria anche se non sufficiente" per poter sperare di continuare la lotta radicale contro il regime. In alternativa, giudicava inevitabile lo scioglimento. Ero io il segretario, tesoriere Peppino Ramadori. L'obiettivo fu raggiunto per miracolo nelle ultime ore utili. Nello scrivere (con il contributo determinante, di cui ancora lo ringrazio, di Gianfranco Spadaccia) la relazione per il congresso di Torino, avevo lasciato in bianco lo spazio per inserirvi il numero di tessere raggiunto all'apertura dei lavori; la cifra dei mille venne superata in extremis, quello spazio bianco lo riempii a penna, lì per lì, sul dattiloscritto. L'obiettivo era stato raggiunto grazie all'impegno concorde e mirato del gruppo dirigente stretto attorno a Marco Pannella, la spinta forse decisiva arrivò da un articolo di Guido Calogero apparso su Panorama, incondizionatamente favorevole al partito. C'è qualcuno che veda oggi all'orizzonte una analoga forte convinzione, ma anche una paragonabile iniziativa di sostegno? Questi sono i tempi nei quali il messaggio alle Camere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, l'incoraggiamento di papa Francesco allo sciopero della fame di Marco Pannella vengono spudoratamente ignorati. E non parlo del silenzio che circonda lo sciopero della fame e della sete iniziato pochi giorni fa da Pannella. Turbe tanto inferocite quanto non informate o disinformate auspicano che il leader radicale muoia. Infine: le risorse finanziarie dell'intera galassia sono ridotte praticamente a zero. "Spes contra spem"? C'è un momento in cui anche la speranza ha diritto a morire. Già immagino le resistenze, l'opposizione che verrà dispiegata, nel prossimo Comitato, alla mia proposta. Le immagino, non riesco invece ad immaginare valide ragioni che possano essere addotte per sostenere quella opposizione e giustificarla in termini razionali, ragionevoli e convincenti. Non vi sono come non ve ne sono state al Congresso di novembre, quando furono avanzate (e accolte nella mozione finale) prospettive che non coglievano minimamente la gravità della situazione (testo e contesto), per adeguarsi piuttosto al clima "grillino" di una subcultura intrisa di furori anti-casta, di cupidigia di vendette tra giacobine e populiste, di incapacità di previsione e pianificazione politica, incapace dunque di aprire un minimo di orizzonte alla speranza alternativa che è nel cuore del progetto radicale, fin dai suoi lontani inizi: un progetto che discende direttamente dagli Einaudi e dai Rossi, dai Pannunzio ai Capitini e ai Calogero, dai De Viti De Marco, Salvemini e Benedetto Croce, nella loro lotta per la vita del diritto, già embrione della cinquantennale lotta del nostro Partito Radicale per il diritto alla vita e contro il moderno regime, la partitocrazia e le sue degenerazioni. Giustizia: Cav, si passa dalle leggi ad personam a quelle "contro"? di Fausto Cerulli Il Garantista, 11 gennaio 2015 Per essere garantista, stavolta mi tocca prendere le difese di Berlusconi, nei confronti del quale non nutro, per usare un eufemismo, soverchia simpatia. Mi riferisco alla vicenda della depenalizzazione della evasione fiscale nel caso in cui l'evasione non superi il tetto del 3% dell'imponibile. Non voglio entrare nel merito del decreto, che fa comunque parte di quelle norme che agevolano l'evasione invece di combatterla, Voglio invece intervenire sul fatto che un decreto, da valere fino a prova contraria, erga omnes, venga sottoposto a censura solo perché agevola, tra gli altri, anche Berlusconi. Passiamo, con queste censure, dalle leggi ad personam alle leggi contra personam... Non mi importa se questo decreto faccia parte del patto del Nazareno, anche se il funambulo Renzi, pensandoci su per qualche giorno, lui che è cosi veloce nelle decisioni "confindustriofile", ha infine ammesso non solo di essere a conoscenza dell'articolo sospetto del decreto, ma di averlo escogitato proprio lui. Ma torno al garantismo: Berlusconi è stato condannato a quattro anni di reclusione per il reato di evasione fiscale, con conseguente diminuzione dei diritti civili o almeno di parte di essi. A guardare anche fuggevolmente la giurisprudenza in merito, non si trova traccia di una pena così gravosa per questo tipo di reato. E qui scatta la prima violazione del garantismo: una pena speciale per un imputato speciale, alla faccia della Costituzione che prevede l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Io sono dell'opinione che le norme contro l'evasione fiscale debbano prevedere pene più severe di quelle attuali, ma debbano prevederle, come dice la parola, per i reati futuri e soprattutto le debbano prevedere per tutti. Ricordo che i difensori di Berlusconi sostenevano che, essendo il loro cliente uno dei maggiori contribuenti di questo Stato per sua natura "elusivo", non sarebbe stato giusto condannarlo per una evasione tutto sommato quasi insignificante rispetto alle somme da lui versate, come tasse, nelle casse dello Stato. Ma Berlusconi è stato condannato, e oggi il famoso e discusso decreto prevede proprio che si debba fare un rapporto tra imponibile dichiarato e l'evasione. Un rapporto che, se applicato al Cavaliere, gli avrebbe evitato la condanna. Arrivo a dire che se il decreto dovesse passare, Berlusconi potrebbe chiedere i danni per condanna ingiusta, ma non voglio giungere a tanto. Quello che importa rilevare è che la stampa e la cosiddetta sinistra della sinistra fantasma, sono insorti contro quell'articolo del decreto non perché poteva agevolare l'evasione, ma soltanto e perché finiva per favorire, tra tutti i cittadini, anche Berlusconi. Viene così ventilata l'idea che una legge può essere considerata giusta o ingiusta non in considerazione della sua valenza, ma in considerazione di chi ne viene colpito e di chi ne viene agevolato. Siamo con questo all'incredibile, sul piano legale e su quello del buon senso. Un quotidiano come La Repubblica, che non può essere considerato neppure per celia berlusconiano, ammette qualcosa: cita la sentenza di condanna di Berlusconi, ed è costretto a ricordare che in essa si legge come il Cavaliere, nell'anno incriminato, abbia dichiarato un imponibile di 397 milioni di euro, beato lui, mentre gli accertamenti puntualmente condotti sulle sue dichiarazioni, abbiano accertato un reddito effettivo di 410 milioni, con una evasione dunque del 4,9 per cento. Una magra evasione, ancora più magra per il 2003: reddito dichiarato 312 milioni, reddito accertato 320 milioni, una differenza ancora minore della precedente; 0,70 per cento. Queste percentuali sono costate a Berlusconi una condanna a quattro anni di reclusione. Ma il funambolo Renzi, dopo molto cogitare, ha promesso che cambierà quell'articolo del decreto, articolo da lui stesso incluso nel decreto. Siamo in un paese in cui le norme vengono cambiate a furore di popolo e di stampa. Sembrerà, questo, un articolo che manco Sallusti, ma è il giusto prezzo da pagare al garantismo. Giustizia: l'avvocato Diddi "Salvatore Buzzi è in galera sulla base di chiacchiere" di Francesco Lo Dico Il Garantista, 11 gennaio 2015 All'indomani della lettera che Salvatore Buzzi ha indirizzato dal carcere di Nuoro al nostro direttore, ci è sembrato opportuno, visto che le ragioni dell'accusa sono stranote e mediaticamente avvincenti, cercare di comprendere anche le istanze della difesa, ad oggi poco esplorate, per usare un eufemismo. "Buzzi resta in galera - ci spiega il suo legale Alessandro Diddi - sulla base di semplici indizi: di intercettazioni telefoniche alle quali non hanno fatto seguito accertamenti che potessero confortare le esultanze proprie delle sue chiacchierate al telefono. Non ci sono state acquisizioni documentali, nessuna verifica sui conti correnti. È in galera sulla base di chiacchiere". "Sono accusato di essere un mostro, un mafioso, un corruttore e non ho alcuna possibilità di difendermi", scrive Salvatore Buzzi in una lettera scritta a mano la notte di Natale dal carcere di Nuoro che è giunta al Garantista soltanto ieri "Sono stato condannato a mezzo stampa - spiega il patron della Cooperativa 29 giugno a Piero Sansonetti - e solo tu, Bordin e Ferrara avete un minimo provato a prendere le distanze dall'inchiesta; ma la presunzione di innocenza non dovrebbe valere anche per me?". Difficile, visto il clima di gogna mediatica venutosi a creare, ignorare anche solo parte delle accuse rivolte a Buzzi da tribune e talk di ogni genere. E ancor più difficile, dato il visibilio scandalistico suscitato da "Mafia capitale", porsi semplici domande come "E se fosse tutta una montatura?", oppure, "Ma Salvatore Buzzi che cosa ne pensa di questa inchiesta? E se ha intenzione di difendersi, su quali basi?". Temi di questo genere sono piuttosto invisi, e suonano quasi come sacrileghi. Ma modestamente confortati dalla Costituzione, ci è parso doveroso parlare della vicenda Buzzi, con Alessandro Diddi, il legale che lo rappresenta. Avvocato, Buzzi è attualmente detenuto nel carcere di Nuoro ed è stata respinta l'istanza di scarcerazione. Su quali basi il suo cliente resta in cella? Salvatore Buzzi resta in galera sulla base di semplici indizi: di intercettazioni telefoniche alle quali non hanno fatto seguito accertamenti che potessero confortare affermazioni ed esclamazioni proprie delle sue chiacchierate al telefono. Non c'è stata nessuna verifica amministrativa. Non ci sono state acquisizioni documentali, nessuna verifica su conti correnti e libri mastri. È in galera sulla base di chiacchiere. Ma quali sono dunque i gravi e sufficienti indizi di colpevolezza che dovrebbero trattenerlo in carcere? Ogni volta che Buzzi diceva al telefono "Abbiamo vinto!", il carabiniere all'ascolto ne deduceva che aveva vinto grazie a una turbativa d'asta. A nessuno è venuto in mente di verificare se dalle carte risultassero irregolarità. In assenza dei verbali di aggiudicazione, si presume che gli appalti che si è assicurato Buzzi sono frutto di azioni delittuose... Gioire per una gara vinta, non è la stessa cosa che gioire perché un piano criminale è andato a compimento. Le gare possono essere vinte legittimamente, e dai miei riscontri stanno emergendo numerose assurdità in proposito. A che cosa si riferisce? Intrapreso lo studio dei fatti contestati, ed avuto accesso alle relative carte, mi sono imbattuto in gare d'appalto nelle quali le cooperative di Buzzi erano l'unico concorrente in lizza. Mi spiega quale utilità avrebbe il pagamento di una tangente, per una gara alla quale partecipa un solo concorrente? E in secondo luogo faccio un'altra rivelazione. Si parla di corruzione per alcune gare che, dati alla mano, non sono state vinte dalla cooperativa di Buzzi. Ma allora a che cosa sarebbe servito elargire mance così generose e tessere trame tanto diaboliche? Nella lettera che ci ha inviato, Buzzi ammette di aver detto "tante parole in libertà". "Ma sfido chiunque - ha scritto nell'intimità, se registrato, a non doversi poi scusare per qualche giudizio avventato espresso". Soltanto eccessi verbali, dunque? È questa la colpa del suo cliente? Chi è di Roma, o ci vive da molto tempo, sa molto bene che in questa città vige una "romanitas" del tutto dissimile da quella augustea. Il linguaggio in voga, in pressoché ogni ambiente, è sempre molto colorito e guascone. Si tende a dar vita a dialoghi intercalati da eccessi caricaturali, spavalderie assortite, battutacce a volte esilaranti. E talvolta ci scappano anche improperi e si fa la voce grossa, per darsi l'aria da rodomonte. È questo che fa delle intercettazioni uno strumento talvolta pericoloso: l'interpretazione letterale di parole in libertà come tante ne diciamo tutti noi nelle conversazioni private di ogni giorno. E ritorniamo alla domanda di prima: reputa fondata la carcerazione preventiva? In qualità di docente universitario, e non come suo avvocato, la reputo una scelta irragionevole. Pericolo di fuga? Non ce n'è, Buzzi è da due mesi un sorvegliato speciale. Reiterazione del reato? Un po' complesso, visto quello che Buzzi ormai rappresenta per l'opinione pubblica. Inquinamento delle prove? Proprio no, perché tutto è stato sequestrato. E in qualità di avvocato? In qualità di avvocato non posso che constatare come la nostra giurisprudenza abbia intrapreso da qualche tempo una bruttissima china. L'idea di trattenere in carcere qualcuno sulla base dei "gravi indizi di colpevolezza" è diventata piuttosto desueta. Sempre più spesso si fa strame delle garanzie che normano le esigenze cautelari. Con il risultato che noi tutti siamo meno a piede libero di quanto possiamo immaginare. Finire in prigione, è diventato più semplice di quanto ciascuno di noi si aspetta. A un certo punto Buzzi ci scrive: "Non ho mai corrotto un politico, ma ho finanziato legalmente moltissimi esponenti politici". Che cosa può dirci di questi rapporti intrattenuti con la politica? Buzzi ha fatto versamenti legittimi e documentati a fondazioni politiche che ne hanno sostenuto le istanze. Sono state considerate erogazioni illecite e invece ce n'è regolare traccia. Buzzi ha sostenuto candidature, ha pagato eventi e manifestazioni. Buzzi dice peraltro di non aver mai sottratto un euro dalle aziende che amministra. Nessun contraccambio da queste attività? Buzzi non è l'inventore geniale di un business fatto sulla pelle delle persone disagiate. Le cooperative come quelle di Buzzi lavorano nel sociale, e hanno bisogno dell'aiuto dello Stato che le finanzia nel tentativo di colmare il gap tra un libero cittadino e uno svantaggiato. Chi darebbe lavoro a ex carcerati come quelli cui Buzzi ha dato un orizzonte di vita nuova e dignitosa? È del tutto evidente che il fondatore di una cooperativa esprima la propria predilezione per questo o quel candidato più sensibile ai temi sociali. E del tutto legittimo che possa scegliere di sostenere questa persona o quell'altra. Questa si chiama democrazia, non corruzione. Siamo un Paese di grandi ipocriti. Ci ha colpito molto un altro passaggio della lettera. Buzzi dice che non solo non ha mai corrotto, e che casomai è stato lui "a subire qualche delicata estorsione da qualche solerte funzionario e/o dirigente". Ne parliamo? Su questo aspetto devo attenermi al momento al segreto professionale. Mi limito a ricordare su tutti la vicenda dell'appalto per il Cara di Castelnuovo di Porto. Il giudice del Tar Linda Sandulli sospese l'assegnazione dell'appalto a Buzzi: deteneva quote in una società che faceva manutenzione nello stesso centro. Lui di sinistra, Carminati di destra: quanto appeal mediatico ha avuto l'idea di larghe intese delinquenziali in questo caso? Buzzi è sempre stato e resta un comunista. La conoscenza di Carminati l'ha fatta in carcere trent'anni fa. Ma Buzzi lo ha frequentato solo a partire dal 2012, quando era un uomo libero e senza pendenze. Il suo cliente tiene a precisare che non ha "mai commesso reati con lui né, tanto meno, l'ho visto commetterne". Tutta la vicenda si è innescata nel 2010, perché Carminati venne sospettato di aver avuto un ruolo nella rapina di un caveau. Da allora si cominciarono a conoscere vita, morte e miracoli di quest'uomo, sebbene venne riconosciuto del tutto estraneo al delitto per il quale partì la sua "marcatura a uomo". Intercettazione dopo intercettazione, venne il momento dell'incontro tra Buzzi e Carminati in un bar. Carminati si offrì di mediare per un credito che Buzzi doveva riscuotere. E da lì, successe il pandemonio. Se Carminati non avesse fatto capitolino in questa vicenda, altro che mafia capitale. Salvatore Buzzi avrebbe continuato a godere della fama di uomo buono, intelligente, e impegnato. Giustizia: Roberto Saviano sul caso Aldrovandi "in Italia serve il reato di tortura" www.estense.com, 11 gennaio 2015 "Senza sarà un Paese nel quale si potranno applaudire i poliziotti che lo hanno ucciso". "Un Paese che non contempla nel proprio codice penale il reato di tortura, sarà un Paese nel quale si potranno applaudire i poliziotti che hanno ucciso Federico Aldrovandi". Il caso del ragazzo ferrarese ucciso durante un controllo di polizia il 25 settembre del 2005 diventa per Roberto Saviano "l'esempio principe" del malcostume italiano in tema di abusi di potere e morti di stato. Il settimanale l'Espresso ha infatti pubblicato sulle proprie colonne un intervento del noto giornalista e scrittore napoletano, che elenca una lunga lista di critiche al governo Renzi e mette in risalto come le modalità di fare informazione nel Belpaese abbiano creato un'opinione pubblica quasi isterica, che passa senza troppe vie di mezzo dal disinteresse più totale alla condanna generalizzata e disinformata verso ogni personaggio o avvenimento pubblico. "Cambiare il Paese non è facile - scrive Saviano -, e farlo in poco tempo è impresa complicatissima. Ma da questo Governo, da quasi un anno in carica, mi sarei aspettato un'apertura maggiore a riforme a costo zero, a riforme necessarie che avrebbero avuto come effetto immediato un miglioramento delle condizioni di vita di molti italiani". Tra queste, appunto, anche l'introduzione del reato di tortura, richiesta pubblicamente in più occasioni sia dai genitori di Federico, Patrizia Moretti e Lino Aldrovandi, che dal loro legale Fabio Anselmo, ma mai messa in atto dai governi che si sono succeduti dalla data dell'omicidio del 18enne. Il rischio, secondo Saviano, è quello di rendere l'Italia un Paese "in cui le forze dell'ordine si sentiranno perennemente immuni da ogni accusa e i cittadini sempre più distanti da chi dovrebbe rappresentare una garanzia e invece si trasforma in potenziale pericolo". Un tema che va a braccetto con quello della detenzione durante lo sconto della pena, dal momento che secondo Saviano "l'Italia non ha carceri, ma luoghi di tortura e viene costantemente sanzionata dalla Corte Europea per i Diritti dell'Uomo. Le carceri italiane non sono luoghi di rieducazione ma di affiliazione. Entri da povero cristo ed esci con una protezione importante e un ingaggio nelle organizzazioni criminali". Il discorso si allarga ad altri argomenti, in particolare relativi a diritti civili come l'eutanasia, i matrimoni omosessuali o il sostegno alle disabilità. "L'Italia - conclude Saviano - resta un paese in cui i diritti civili e umani si continua a farli passare per concessioni, per elemosina. Resta un Paese dove per nascere, studiare, sposarsi, lavorare, essere felici e morire dignitosamente bisogna emigrare. Ma siamo certi che tutto questo dipenda solo da chi ci governa? Siamo certi di non essere anche noi sordi ai bisogni di chi ci sta accanto? Io so solo che quando parlo di eutanasia, immigrati, carceri, disabili, unioni gay mi si risponde che farei meglio a occuparmi d'altro, magari di mafia, di economia, dell'articolo 18, dello scempio che si starebbe facendo alla Costituzione. Eppure per me, un Paese in cui le minoranze non vengono ascoltate, un Paese in cui i deboli sono ignorati, abbandonati, vessati, è un paese in cui la Costituzione viene tradita ogni giorno, ogni ora, ogni momento". Lettere: carceri & civiltà di Claudio Sabelli Fioretti Io Donna, 11 gennaio 2015 L'eterna telenovela dei due Marò è di nuovo al capolinea. L'Italia vuole che siano restituiti all'affetto delle loro famiglie e gli indiani vogliono processarli per omicidio. Quando i piloti americani causarono la strage del Cermis (19 sciatori uccisi nella funivia precipitata a causa di un aereo militare Usa che aveva tranciato le funi) si sosteneva a ragione, secondo me - che l'Italia aveva diritto a processarli. Oggi invece gli italiani si arrabbiano addirittura perché l'India non concede una "licenza" natalizia al marò bloccato in India. Leggiamo che Totò Cuffaro, l'ex presidente della Regione Sicilia condannato a sette anni per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra, ha chiesto al magistrato Valeria Tomassini di poter visitare l'anziana madre ottantenne. Il tribunale ha negato il permesso perché la mamma di Cuffaro ha l'Alzheimer e non potrebbe riconoscere il figlio. Commentare una motivazione del genere è solo tempo perso. Ma è interessante un'altra parte della motivazione, quella in cui il tribunale sostiene che Totò Cuffaro ha già visto sua madre in occasione del funerale del padre. Il tribunale dimentica che in quell'occasione la giustizia italiana fece una pessima figura. Cuffaro non fece in tempo ad arrivare al funerale del padre perché l'autorizzazione arrivò, sì, ma in ritardo. Direte: che fai difendi i mafiosi? Sì. Insieme a molti illustri intellettuali ben più autorevoli di me, sono convinto che la civiltà di una nazione si misuri sulle condizioni in cui fa vivere i suoi carcerati. Roma: una giornata a Regina Coeli di Maria Laura Turco www.agenziaradicale.com, 11 gennaio 2015 "Soltanto le razze che portano i vestiti capiscono la bellezza di un corpo nudo. Il pudore vale soprattutto per la sensualità, così come l'ostacolo per l'energia. Colui che non ha mai vissuto in costrizione non capisce la libertà", così a pagina 76 si esprimeva il Bernardo Soares del libro di Fernando Pessoa che sto rileggendo. Strana coincidenza con la nostra visita Radicale al carcere di Regina Coeli. Un mondo che spesso ci fa comodo dimenticare, come se coloro che vi abitano non facessero parte della nostra umanità e fosse invece un mondo a parte. A Regina Coeli vivono attualmente 805 detenuti e 130 agenti di polizia penitenziaria. Non è un carcere che attualmente soffre di sovraffollamento (circa 615 posti nelle 8 sezioni), rispetto alla media italiana, e ciò consente l'attuazione di programmi di recupero e iniziative educative. Le condizioni igieniche, per quello che abbiamo potuto constatare, appaiono accettabili anche se necessiterebbe una generale manutenzione ordinaria volta soprattutto a eliminare infiltrazioni, umidità e muffe dei bagni che causano in tali locali ampi distacchi di intonaco ormai completamente nero. Le celle visitate, a nostra scelta, si presentano tutte tenute molto pulite e in ordine ed è forse logico che sia così, dato che nell'esiguo spazio di ognuna c'è un letto a castello a tre posti, un armadietto a due ante di 150 centimetri di altezza circa e un altro più basso sempre a due ante, un bagnetto di 2 metri quadrati circa con water, lavandino e doccia, un cucinino di 2 metri quadrati complessivi occupati per lo più da lavabo con piano e credenza a 2 ante sovrastante. Le celle, prive di finestre con luce a bocca di lupo, si affacciano su un ampio corridoio comune. I detenuti all'interno di ogni sezione sono lasciati liberi per ciascun piano. Essi sono divisi per pericolosità penitenziaria, ovvero per condizioni di salute; i tossicodipendenti sono raccolti in un'unica sezione e sono divisi tra coloro che seguono terapia con metadone e coloro che non la seguono più. Regina Coeli non ha più sezioni di massima sicurezza ed è un carcere di primo ingresso di media sicurezza, dove soggiornano detenuti non definitivi, vale a dire che un terzo di loro è in attesa del primo grado di giudizio, due terzi in attesa dell'appello. Sono pochissimi i detenuti che hanno ottenuto sentenza definitiva. Il carcere è diviso in otto sezioni: una attualmente chiusa, una con i detenuti che lavorano (che quindi sembrerebbero recuperati), un'altra con i detenuti comuni, composta per lo più da "rubagalline", voglio dire cioè persone che hanno commesso reati di non grave allarme sociale e non presentano pericolosità; una sezione contiene le persone che hanno problemi di droga, in un'altra sono reclusi insieme stupratori, pedofili, persone che hanno commesso reati finanziari e amministratori pubblici. La direttrice ci ha spiegato che gli altri detenuti non accettano queste persone e, in particolare, che chi amministra la cosa pubblica e chi commette reati finanziari (ed è una persona che gode della fiducia degli altri e ha disponibilità di denaro) è tenuto in grande spregio dalla popolazione penitenziaria perché ha commesso reato senza essersi trovato in stato di bisogno. Nel carcere di Regina Coeli c'è un centro clinico con due sale operatorie, anche se una delle due non è ancora in funzione perché vi sono problemi per un respiratore. Il Centro è attrezzato con fisioterapia, radiologia, gastroscopia e la prima osservazione psichiatrica con 3 posti sostitutivi di OPG. È assicurata la degenza post operatoria. Il centro clinico offre servizi solo per interventi programmati, nel senso che, come molti ospedali, non ha servizio di pronto soccorso ma qui pervengono da tutto il circondario del Lazio, e anche da più lontano, coloro che devono effettuare un'operazione e il loro istituto ha programmato l'intervento. Attualmente vi lavorano 5 chirurghi: due dipendenti dell'Istituto penitenziario per la chirurgia generale, 3 esterni specializzati rispettivamente in ortopedia, urologia, otorino; a breve è atteso un chirurgo specializzato in gastroenterologia. Ci viene riferito che con l'unica sala operatoria attualmente a disposizione sono effettuati circa 7 o 8 interventi al giorno. Nel reparto è presente la Asl Rma. La cucina è gestita infatti dalla Asl che riesce ad assicurare menù personalizzati secondo prescrizione medica perché, come detto, nel reparto è prevista la degenza post operatoria. In tutto il reparto clinico attualmente ci sono 50 ricoverati provenienti per lo più da altri istituti penitenziari di tutta Italia, principalmente del Lazio. Nel carcere di Regina Coeli la biblioteca del Comune di Roma, 3 volte a settimana, passa a prendere prenotazioni per libri che offre in prestito ai detenuti e agli agenti e siamo rimasti colpiti da quanti libri effettivamente ci siano nelle celle: quasi ogni detenuto prende un libro in prestito. La biblioteca è pure molto fornita, un'intera lunga parete, pari a quei corridoi di molti istituti universitari, anzi, ricorda proprio l'istituto di diritto romano della Facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza. Vitale, un agente penitenziario che sovrintende alle attività ricreative, ci ha spiegato che nell'istituto un'associazione gestisce il cineforum con dibattito successivo alla proiezione: degli 800 detenuti, circa 500 partecipano alle attività ricreative. Chi non partecipa è soprattutto a causa del fatto che è straniero e non capisce la lingua. Ci sono anche corsi di musicoterapia, un corso di buddismo e un laboratorio teatrale gestito da una compagnia, che avrà vinto la gara di appalto, composta da 15 attori esterni e 20 detenuti. Ci hanno mostrato un salone di lettura e qui riceve pure l'ufficiale di stato civile, delegato dal sindaco, quando viene per celebrare matrimoni, riconoscimento di figli. Si svolgono circa 200 colloqui al giorno. I colloqui sono consentiti tutte le mattine e anche il venerdì pomeriggio e una domenica al mese. Non abbiamo visto la sala dei colloqui perché il pomeriggio non c'è il responsabile che tiene la grossa chiave. Dopo la pronuncia di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi, gli ingressi in carcere si sono notevolmente ridotti ed è stato possibile concedere ferie e permessi al personale penitenziario in grande arretrato. Ovviamente la sezione dalla quale sono rimasta più colpita è la terza sezione, probabilmente influenzata dalla collocazione nel sito storico, cioè dove sono stati reclusi i detenuti politici durante il fascismo, nella parte architettonicamente più bella, ma ho anche avvertito qui un'armonia, ho sentito i detenuti interagire come un'unica anima, anima semplice di detenuti comuni che hanno commesso reati a causa delle loro condizioni di povertà. Nelle piccole celle i loro poveri indumenti rendevano bene l'idea. Tenerezza per le loro poche cose tenute con una cura come fossero gioielli preziosi, probabilmente unici ricordi del mondo di fuori, di giorni in cui la vita non si era ancora sospesa. Qui a Regina Coeli la vita scorre lenta ma scorre, in altri istituti si è proprio fermata ed è praticata la tortura a causa del sovraffollamento e della mancanza di programmi ricreativi. Nella terza sezione ho fatto un incontro con un ragazzo di circa 35 anni che mi ha riferito di un suo progetto in carcere per organizzare una scuola di cucina. Lui è pasticciere e mi ha confermato che il tedio è la peggiore rovina in carcere perché le persone parlano tra loro e cominciano a organizzare "cose" (così si è espresso). "Se invece gli insegni un'attività, qualcosa, quando usciranno avranno speranza di trovare un lavoro", queste le sue precise parole. Mi ha detto anche: "io lo so che quando esco di qui vado a fare il pasticciere, ma gli altri? Magari uno su dieci si può salvare e non tornerà a commettere reato se trova un lavoro". La popolazione carceraria che ho visto aveva per i tre quarti circa 30 o 35 anni. I detenuti comuni, che rappresentano la più alta fetta di persone recluse negli istituti penitenziari italiani, sono persone povere che hanno commesso piccoli reati per le condizioni di ignoranza ed economiche delle famiglie che non gli hanno consentito di studiare, né di imparare un mestiere. Nella terza sezione ho avvertito che i detenuti del piano terra erano come un'unica anima, un'anima semplice che ti guardava negli occhi come da tanto tempo non mi accadeva più fuori, occhi che davano risposte e attendevano risposte, come sempre dovrebbe accadere quando si parla tra persone. Qui fuori il nostro è spesso diventato un parlare da soli ma neanche a se stessi, a un qualcuno che ti è diventato sconosciuto come è normale che accada quando hai perso l'abitudine di cercare te stesso nell'altro. Nella terza sezione la vita scorre lenta, ma scorre. Qui fuori che succede? Agrigento: Uil-Pa; carcere senza direttore titolare e le condizioni igieniche sono scadenti di Francesco Di Mare La Sicilia, 11 gennaio 2015 Da giorni "Radio carcere" gracchia notizie sul presunto peggioramento delle condizioni di "vivibilità" al Petrusa. Uscendo dal penitenziario nei giorni scorsi, al termine di una visita programmata da tempo, l'arcivescovo e prossimo cardinale Francesco Montenegro almeno ai media presenti non ha fatto alcun cenno a docce fredde, umidità nelle celle o altre situazioni poco edificanti. "Radio carcere" però gracchia sempre. Ed ecco una prima presa di posizione al cospetto di tale "fenomeno": "Andare a visitare il carcere nella città natia dell'ex Guardasigilli Angelino Alfano, ora Ministro dell'Interno e leader del Ncd, e venire a scoprire che da oltre 2 mesi non c'è un direttore titolare, e i lavori per il nuovo padiglione da 250 posti sono oscenamente fermi da più di un anno è qualcosa di davvero incredibile". Con queste parole il Coordinatore Regionale della Uilpa Penitenziari Sicilia Gioacchino Veneziano entra direttamente nel cuore dei problemi che attanagliano la Casa Circondariale che visiterà il 23 gennaio alle 10, accompagnato dal Coordinatore Provinciale Uil Penitenziari Calogero Speziale e dal Segretario Aziendale Gioacchino Zicari. "Vogliamo vedere e fotografare situazioni che ormai hanno superato il limite della decenza", dichiara il leader siciliano della Uil di categoria, -poiché è davvero raccapricciante che una sede di importanza penitenziaria di primo ordine come Agrigento non vi sia assegnato un Dirigente titolare. Eppure, - continua Veneziano - l'allora Guardasigilli Alfano individuò la città dei Templi come struttura penitenziaria da potenziare con il c. d "piano carceri" - che di piano ha avuto solo la lentezza dei lavori mai ultimati, considerato che da più di un anno i lavori sono fermi, determinando che dopo il danno di non vedere alla luce la nuova struttura, vi è anche la beffa di non avere somme necessarie per mantenere la vecchia struttura, ridotta a un colabrodo. A questo punto è obbligatorio a tutela di tutti i poliziotti delle carceri di Agrigento garantire un sistema di adeguata sicurezza operativa e funzionale, quindi fotografare lo stato dei luoghi di lavoro e la loro funzionalità, e relazionare agli organi competenti del Ministero della Giustizia, del Dap, del Visag e nelle parti di pertinenza Asp e Nas, consegnando il cd con le 40 fotografie tramite conferenza stampa". Rossano Calabro: (Cs): carcere, l'on. Bruno Bossio (Pd) interroga il ministro Orlando www.radicali.it, 11 gennaio 2015 Nei giorni scorsi, il carcere di Rossano (Cosenza), è nuovamente ritornato in Parlamento. Come al solito, ad occuparsi delle reiterate violazioni dell'Ordinamento Penitenziario commesse dallo Stato in danno dei cittadini privati della libertà personale, è l'Onorevole Enza Bruno Bossio, Deputato del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia che, da circa un anno, unitamente ai Radicali, sta effettuando numerose ispezioni nelle Carceri della Calabria. Questa volta, gli atti di Sindacato Ispettivo, non riguardano però pestaggi o maltrattamenti come nelle precedenti occasioni ma, viceversa, il mancato rispetto - da parte del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria - del principio della territorialità della pena e cioè della possibilità per i detenuti condannati di espiare la propria pena o, per gli imputati di trascorrere la misura cautelare inframuraria, in Istituti Penitenziari prossimi alla residenza delle famiglie. Ma non è tutto perché l'attenzione della Parlamentare Democratica è stata rivolta anche all'operato della Magistratura di Sorveglianza di Cosenza, del Direttore dell'Istituto Penitenziario di Rossano e del Provveditore Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria della Calabria. Al Guardasigilli Andrea Orlando, il Deputato Bruno Bossio, con due distinte Interrogazioni (le nr. 5/04399 e 5/04400 del 08/01/2015), la cui risposta sarà fornita nella Commissione Giustizia di Montecitorio presieduta dall'On. Donatella Ferranti, ha chiesto di conoscere esaustive informazioni in merito ai fatti riscontrati durante l'ultima visita ispettiva svolta nel giorno di Natale al Carcere di Rossano insieme ad Emilio Quintieri dei Radicali e Gaspare Galli e Francesco Adamo dei Giovani Democratici di Cosenza. In parte, sia le lamentele afferenti il mancato rispetto del principio della territorialità della pena che le problematiche con la Magistratura di Sorveglianza, erano state già oggetto di altra Interrogazione Parlamentare al Governo Renzi (la nr. 5/03559 del 16/09/2014), allo stato rimasta inevasa e per la quale l'On. Bruno Bossio ha sollecitato risposta essendo ampiamente decorsi i termini previsti dal Regolamento della Camera dei Deputati. La popolazione ristretta nel Penitenziario rossanese ha denunciato alla delegazione in visita la scarsa presenza del Magistrato di Sorveglianza nell'Istituto e, nello specifico, la mancata attività ispettiva da parte dello stesso all'interno dei locali di detenzione; altre lamentele hanno riguardato l'impossibilità di avere colloqui con il Direttore dell'Istituto e con il Provveditore Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria come prevede la normativa vigente in materia. Per questi motivi è stato chiesto di conoscere se e quali informazioni disponga il Ministro della Giustizia, se non ritenga opportuno disporre degli accertamenti e se e quali iniziative di competenza intenda assumere anche con riferimento alla possibilità di incrementare l'organico dell'Ufficio di Sorveglianza di Cosenza (composto soltanto da 2 magistrati) avente giurisdizione su ben 4 Istituti Penitenziari (Rossano, Cosenza, Paola e Castrovillari). Per quanto riguarda, invece, la territorialità della pena, il Deputato ha chiesto al Ministro della Giustizia di conoscere se e quali informazioni disponga in merito e quale sia il suo orientamento al riguardo, quante siano le istanze di trasferimento - definitivo o temporaneo - formulate nell'anno appena trascorso ed indirizzate ai competenti Uffici del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria o, in alternativa, con reclamo giurisdizionale, all'Ufficio di Sorveglianza di Cosenza, quante tra queste siano state accolte e quante ne siano state rigettate nonché quante siano, allo stato, quelle rimaste inevase e quali siano i motivi di tale ritardo; quante siano le istanze di trasferimento pendenti innanzi detti Uffici ed entro quali tempi si prevede che le stesse possano essere definite. In conclusione, l'On. Enza Bruno Bossio, ha chiesto "cosa si intenda fare per garantire ai detenuti che l'espiazione della pena o, l'esecuzione della custodia per gli imputati, avvenga in Istituti prossimi alla residenza delle famiglie e, qualora esistano valide ragioni che non consentano di poter rispettare il principio di territorialità dell'esecuzione penale, se non si ritenga doveroso consentire agli stessi di ottenere dei trasferimenti temporanei - a giudizio dell'interrogante non inferiori ai 6 mesi - per poter fruire dei colloqui riconosciutigli dalla Legge Penitenziaria al fine di mantenere e migliorare i contatti ed i legami con i propri familiari e le altre persone autorizzate e, comunque, aventi diritto". San Cataldo (Cl): maxirissa in carcere, in 20 a processo per un episodio di quattro anni fa di Vincenzo Pane La Sicilia, 11 gennaio 2015 Un parapiglia non da poco quello che si scatenò all'interno del carcere di San Cataldo il 17 giugno 2010, quando venti detenuti vennero alle mani, scatenando una mega rissa nella quale rimasero contusi sei ospiti della casa circondariale e tre agenti della Polizia penitenziaria. Adesso i venti detenuti sono chiamati a rispondere dell'accusa di rissa davanti al giudice monocratico Simone Petralia, a conclusione dell'indagine coordinata dal sostituto procuratore Santo Distefano. E sarà il processo, attualmente in corso, a fare luce sulle cause che scatenarono la maxi rissa, che venne sedata grazie all'intervento della Polizia penitenziaria, e sulle dinamiche con cui si è svolta. Davanti al Tribunale monocratico sono imputati Giuseppe Mirulla (23 anni, catanese), Antonino Cattareggia (28 anni, di Messina), Giovanni Clemente (35 anni, di Catania), Francesco Leotta (49 anni, di Catania), Vincenzo Lafata (nato in Tunisia 54 anni fa), Mariano Calabrò (29 anni, di Barcellona Pozzo di Gotto), Pietro Musarra (27 anni, di Catania), Rosario Laudani (41 anni, nato in Germania), Costantino Talio (27 anni, di Taormina), Giovanni Moccia (33 anni, di Napoli), Massimo Ascione (25 anni, di Napoli), Angelo Paraninfo (26 anni, di Licata), Alessio Virzì (35 anni, di Palermo), Gianmario Zanca (39 anni, di Palermo), Giuseppe Viglianesi (35 anni, di Catania), Andrea Belladonna (47 anni, di Mussomeli), Angelo Passalacqua (31 anni, di Catania), Mario Marghella (45 anni, di Catania). A difenderli gli avvocati Massimiliano Bellini, Letterio D'Andrea, Pietro Luccisano, Giuseppe Ragazzo, Donatella Singarella, Antonia Lo Presti, Renato Penna, Rosalba Murgio Liuzzo, Viviana Giugno, Carmela Zarcone, Gaetano Giunta, Domenico Laudani, Alessandro Billè, Salvatore Falzone, Vania Giamporcaro, Giuseppe Glicerio, Vito Melfi, Salvatore Ferrante, Maurizio Abbascià, Giuseppe Antoci ed Angelino Alessandro. A marzo si torna in aula per ascoltare alcuni testimoni. Bologna: Sappe; detenuto aggredisce due ispettori e un agente alla Dozza Adnkronos, 11 gennaio 2015 "Nel carcere bolognese della Dozza, ieri pomeriggio, un detenuto ha aggredito due ispettori e un agente della polizia penitenziaria. I due ispettori hanno riportato lesioni giudicate guaribili in quindici giorni, mentre l'agente in sette giorni". A riferirlo, in una nota, Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario regionale. Il detenuto, si legge nella nota, "era ricoverato in infermeria, da dove era stato appena dimesso e doveva rientrare nel reparto detentivo, ma all'invito più volte rivoltogli dal personale di polizia penitenziaria ha risposto con una violenta aggressione. I due ispettori e l'agente sono stati colpiti più volte ed hanno dovuto fare ricorso alle cure mediche". Nel carcere di Bologna i detenuti presenti sono 680. "Riteniamo - sottolineano ancora Battista e Durante - che debbano essere assunte le necessarie iniziative disciplinari a carico del detenuto, oltre a quelle penali che l'autorità giudiziaria riterrà opportuno intraprendere, dopo la denuncia del personale di polizia penitenziaria coinvolto". Reggio Calabria: Sippe; carcere di Arghillà, agente aggredito da un detenuto www.cn24tv.it, 11 gennaio 2015 Un detenuto, proveniente dall'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), avrebbe aggredito violentemente un agente di polizia penitenziaria che è dovuto ricorrere alle cure del pronto soccorso. Il fatto, che è avvenuto ieri, sabato 10 dicembre, intorno alle 14.30 nel carcere di Arghillà (Reggio Calabria) è stato denunciato da Angelo Macedonio, Segretario Regionale del sindacato degli agenti penitenziari, il Sippe. Secondo la ricostruzione fornita da Macedonio il detenuto, dopo aver effettuato una telefonata, si sarebbe improvvisamente scagliato contro l'agente del reparto, procurandogli delle contusioni multiple al torace e al polso destro; ferite considerate guaribili in cinque giorni. Grazie all'intervento di un altro agente, è stato possibile chiamare i rinforzi e calmare l'uomo. "Il Carcere di Arghillà - affermano dal Sippe - doveva essere il fiore all'occhiello dell'Amministrazione Penitenziaria ma, a quanto pare, non può considerarsi tale vista la gravissima carenza del personale che non consente una gestione ottimale della struttura. Il carcere … infatti, ospita 220 detenuti uomini e 38 detenute donne che vengono gestiti solo da 85 poliziotti penitenziari, molti dei quali distaccati da altri istituti". "Questo carcere - aggiunge il segretario Macedonio - inaugurato nel 2013, fu definito una ‘struttura di civiltà' ma ogni giorno, proprio per la grave carenza di risorse umane, i poliziotti sono costretti a lavorare 12 ore al giorno e vedere sacrificati i loro diritti di lavoratori". Il Sippe, nei prossimi giorni, invierà una nota alle autorità competenti per chiedere quali iniziative si intendano adottare per scongiurare che il penitenziario "possa trasformarsi in una polveriera", così come - conclude il segretario del sindacato - "quello di Velletri (Roma) dove quasi ogni giorno si registrano gravi eventi critici". Napoli: martedì un convegno a Poggioreale sulla riforma sanitaria per i detenuti Ansa, 11 gennaio 2015 Quali risultati sono stati ottenuti? Quali criticità permangono? Cosa fare per migliorare la qualità dei servizi di chi vive ristretto? La Comunità di Sant'Egidio e il Provveditorato dell'Amministrazione penitenziaria della Campania hanno organizzato un convegno per parlare dei problemi della salute nel carcere dopo la riforma che ha sancito il passaggio della medicina penitenziaria dal ministero di Giustizia alle Asl. L'appuntamento è per martedì 13 gennaio alle 10 nel carcere di Poggioreale. Tra gli interventi: Roberto Di Giovanpaolo, presidente nazionale Forum Salute dei detenuti; don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri; Francesco Cascini, vicecapo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria; Stefano Caldoro, presidente della Regione Campania. Conclude Andrea Orlando, ministro della Giustizia. Siracusa: "La musica dentro", un concerto per i detenuti di Cavadonna www.siracusanews.it, 11 gennaio 2015 I brani degli Stadio saranno interpretati, rigorosamente dal vivo, giovedì 22 gennaio alle ore 14, dalla cover band "Ultimo Stadio" in concerto presso la casa circondariale di Siracusa "Cavadonna". Un concerto pensato per i detenuti al fine di creare un momento di sincera vicinanza nel pieno delle emozioni e sensazioni che solo la musica può regalare a chi vive un momento particolare della sua vita. Due diverse realtà che trovano un punto di incontro nella musica, perché la musica può abbattere qualsiasi tipo di confine. Un momento conviviale per offrire serenità e divertimento a tutti, da coloro che la musica la portano sempre dentro. L'idea del concerto era nata per il periodo natalizio ma purtroppo per motivi organizzativi è stato posticipato a gennaio. La band nasce dalla voglia di un gruppo di amici di suonare insieme, ispirandosi alla grande musica italiana degli anni 80 e 90. I membri del gruppo sono: Salvatore Correnti - bassista - la cui attività di musicista risale agli anni 70 dopo un periodo di fermo di qualche anno ricomincia la sua attività musicale con varie formazioni locali dove da il suo contributo e mette a disposizione la propria esperienza ai vari gruppi. Loris Amato - batterista - già membro del pluripremiato "Trio amato" di Canicattini Bagni, il citato Trio porta al seguito incisioni di parecchi album musicali nonché un enorme bagaglio di concerti nelle varie città d'Italia. Sandro Sciascia - Piano Tastiere e Sint - Palermitano di origine con una lunga carriera musicale alle spalle sia con gruppi musicali sia di intrattenimento serale piano-bar, nonché proveniente da una famiglia di musicisti. Nuccio Russo - chitarra elettrica ed acustica - inizia a suonare da ragazzo da autodidatta, partecipa a diverse formazioni e dopo una pausa musicale riprende la propria attività in diversi gruppi e Carmelo Castobello - voce solista - cantante dalla lunghissima esperienza e dalla voce strepitosa ed inconfondibile. Unione Europea: vittime di violenza, da oggi ordini di protezione validi in tutti i 28 Paesi Ansa, 11 gennaio 2015 Le vittime di violenza, in particolare di violenze domestiche o di stalking come le donne, da oggi saranno più sicure in tutta Europa. Entreranno infatti in vigore da domani le nuove norme Ue che fanno sì che gli ordini di restrizione, protezione e allontanamento siano validi in tutti i 28 paesi Ue. Una volta emessi da uno stato membro, infatti, mediante una semplice certificazione saranno riconosciuti in tutta l'Ue in modo rapido e immediato. Ora, infatti, ha spiegato la commissaria Ue alla giustizia Vera Jourova, "la nuova procedura garantirà alle vittime di violenza, siano esse donne o uomini, la protezione che meritano per andare avanti con la propria vita". Secondo i dati citati da Bruxelles, una donna su tre almeno una volta nella sua vita è vittima di violenze. Queste invece, da adesso in poi, ha sottolineato la commissaria, "potranno scegliere di vivere in un altro stato membro dell'Ue o di andare in vacanza senza temere per la propria sicurezza". Le misure europee, in vigore dall'11 gennaio 2015 dopo essere state adottate tra il 2011 e il 2013, consistono in due strumenti distinti, rispettivamente la direttiva sull'ordine di protezione europeo e il regolamento sul riconoscimento reciproco delle misure di protezione in materia civile. Insieme, garantiscono il riconoscimento degli ordini di protezione emessi per tutelare le vittime di violenza in qualsiasi stato membro (solo la Danimarca non vi partecipa, in linea con l'opt-out sui temi della giustizia concessole con il Trattato di Lisbona). In questo modo chi ha subito abusi domestici potrà d'ora in avanti viaggiare in sicurezza al di fuori del proprio paese di origine grazie al semplice trasferimento dell'ordine di protezione che lo tutela dall'aggressore. Fino ad oggi, invece, le vittime dovevano avviare procedure complesse per estendere gli effetti di una misura di protezione nazionale agli altri paesi Ue, ed erano costrette ad avviare una procedura diversa per ogni paese. "Le vittime di violenza - ha concluso Jourova - ora potranno far valere i propri diritti anche al di fuori del loro paese, ovunque vadano in Europa". India: "Buon Compleanno Tommy", l'augurio degli amici arriva al carcere di Varanasi di Mara Cacace www.savonanews.it, 11 gennaio 2015 Un altro compleanno in carcere per Tomaso Bruno accusato insieme ad Elisabetta Boncompagni di avere ucciso l'amico Francesco Montis, l'augurio quello che possa essere l'ultimo compleanno vissuto da detenuto. Un altro compleanno in Carcere a Varanasi per Tomaso Bruno detenuto in India insieme ad Elisabetta Boncompagni con la terribile accusa di aver ucciso l'amico Francesco Montis. Sulla pagina Facebook dedicata a Tommy imperversano da questa mattina gli auguri e nel cuore di tutti una speranza, quella che possa essere l'ultimo compleanno trascorso in carcere. Una vicenda che sta andando avanti ormai da troppo, da anni, la condanna all'ergastolo e le vicende giudiziarie che, dopo i numerosi rinvii della Corte Suprema di Nuova Delhi hanno portato finalmente alla chiusura del procedimento giudiziario. Resta oggi l'attesa, l'attesa per la sentenza che ci si augura possa, finalmente, mettere la parola fine alla triste vicenda e possa permettere a Tommy di tornare, finalmente a casa dove ad aspettarlo ci sono gli amici che in tutti questi anni, invece che perdere la speranza, hanno portato avanti un messaggio: "Forza Tommy. Ti vogliamo Libero". Spagna: a Bilbao per i prigionieri politici di Davide Angelilli Il Manifesto, 11 gennaio 2015 La tecnica della "dispersione" è utilizzata con lo scopo preciso di disintegrare i legami politici e umani dei prigionieri e rimarcare la differenza tra i detenuti "sociali" e quelli "politici". Come accade ogni gennaio, quando l'anno è ancora in punta di piedi, il movimento popolare basco già prende la rincorsa. Ieri, per i diritti dei detenuti e delle detenute, sono scese in piazza centomila persone. A Bilbao sono arrivati oltre 250 autobus provenienti da tutti gli angoli dei Paesi Baschi, anche numerosi solidali dall'Italia e da altri stati europei. Sono passati più di tre anni dalla decisione di Eta di porre fine alla lotta armata. Lo scorso maggio alle elezioni europee, la sinistra indipendentista - raccolta nella coalizione Bildu - si è consolidata come seconda forza politica nella Comunità Autonoma Basca e in Navarra, unendo proposte politiche alternative. Mentre gli ultimi sondaggi in terre basche danno in traiettoria ascendente Bildu, con Podemos, la cittadinanza vive con sempre maggior disapprovazione l'atteggiamento repressivo dello Stato spagnolo che - dicono - boicotta il processo di pace. Lo scorso dicembre, la Ertzaintza, la polizia autonoma basca, ha fatto irruzione nel tradizionale mercato di Gernika per arrestare la giovane Jone Amezaga, accusata di "apologia del terrorismo" per aver attaccato uno striscione. Di fronte alla resistenza di compagni e amici della ragazza, la violenta attuazione poliziesca aveva causato diverse ferite a un'anziana di 94 anni, evidenziando l'atteggiamento ostile al dialogo delle istituzioni spagnole e il "lavoro sporco" del Partido Nacionalista Vasco. Sare - la rete di solidarietà con i prigionieri politici - è stata la principale promotrice della giornata. Nata lo scorso anno, raccoglie cittadine e cittadini con diverse sensibilità politiche ma accomunati dall'impegno per costruire socialmente una risoluzione del conflitto che tenga conto di tutte le sue conseguenze. Chiedono un cambio radicale nella politica penitenziaria adottata dal governo spagnolo: la fine dell'isolamento e della dispersione; la messa in libertà dei prigionieri gravemente malati e sopra ai settanta anni; la fine di misure eccezionali che non rispettano i diritti umani. "Siamo coscienti che la sofferenza derivata da tanti anni di scontro rimane sulla pelle di chi ne ha sofferto le conseguenze - scrivono - però, mentre qui scompaiono le cause di nuove sofferenze, persiste e si aggrava il dolore di migliaia di persone: le detenute e i detenuti baschi, i loro cari e le loro famiglie". "Bisogna sottolineare questa incongruenza - dice con fervore Iratxe Urizar, avvocatessa dell'Osservatorio basco per i Diritti Umani - tra la direzione che si ostina a prendere il governo spagnolo, con quello basco che gli va dietro, e la cittadinanza che non smette di lottare, tanto per il riconoscimento istituzionale di tutto ciò che ha significato il conflitto, quanto per la fine di queste insensate e persistenti misure d'eccezionalità che si accaniscono sui detenuti". Ad oggi, sono 463 le detenute e i detenuti politici baschi. Sparsi in 44 prigioni, principalmente in territorio spagnolo e francese. Tra loro ci sono una dozzina di malati gravi, e casi di lungo isolamento totale. Questo, per esempio, il caso di Jon Enparantza, detenuto perché "avvocato di Eta", che vive da più di dieci mesi una condizione d'isolamento totale. Il corteo è soprattutto una manifestazione civica di vicinanza a chi non solo è privato della libertà, ma anche di diritti fondamentali come la salute. "Sare, come nuovo movimento popolare, spiega Iratxe - s'è fatta promotrice della giornata di lotta, ma a scendere in piazza è un estratto sociale ancora più ampio, che oltre a dimostrare il consenso per la risoluzione sociale del conflitto, rende visibile la tragedia della dispersione per le famiglie, che questo fine settimana rinunciano alle visite per marciare dietro lo striscione". Nell'applicare la politica penitenziaria, il governo spagnolo e francese utilizza la tecnica della dispersione per disintegrare i legami politici e umani dei prigionieri e rimarcare la differenza tra i detenuti sociali e politici. Nella pratica, la dispersione estende la condanna ai cari di chi è dietro le sbarre. Proprio lo scorso ottobre, ha compiuto quindici anni Mirentxin: una rete popolare di trasporto solidale che, grazie a un'associazione che si occupa di condurre e mantenere dei furgoncini, permette ad alcuni famigliari di visitare i loro cari nelle lontane prigioni dove si trovano. E solo un mese prima, uno studio realizzato da diversi medici e psichiatri aveva applicato il Protocollo di Istanbul, una metodologia elaborata dall'Onu, alle quarantacinque denunce di tortura di attivisti politici baschi, dichiarandole "veritiere". La commissione contava anche della partecipazione di alcuni esperti dell'Onu per la promozione e protezione dei diritti umani nella lotta contro il terrorismo, Ben Emmerson e Juan E. Méndez, che hanno definito lo studio come un passo in avanti "verso la trasparenza e il riconoscimento dei diritti". "Ma il governo spagnolo si gira dall'altra parte o ignora completamente anche questi organismi: firmano gli accordi internazionali ma non li rispettano", spiega ancora Iratxe. "Lo scorso sette ottobre, il Tribunale dei diritti di Strasburgo ha condannato per l'ennesima volta il regno di Spagna per non indagare sulle denunce presentate dai cittadini baschi, Oihan Ataun e Bea Etxebarria. Così siamo giunti a cinque condanne emesse da questo tribunale contro il governo spagnolo e in difesa di cittadini baschi". Nello sguardo della giovane Iratxe si legge lo spirito della manifestazione, con appassionata determinazione ci tiene a precisare che la denuncia della giovane attivista ha colpito molto per la brutalità dei fatti. "Beatriz Etxebarria denunciò al Cpt (Committee for the Prevention of Torture, del Consiglio europeo) di essere stata aggredita sessualmente durante le prime ore dell'arresto, quando le assurde misure d'eccezionalità permettono di tenere il detenuto senza contatti con nessuno". Invece, Oihan Atun, l'altro prigioniero che ha presentato la denuncia, ancora deve essere processato. Per il fiume umano che scende verso la parte storica di Bilbao, si incrociano mille correnti. Dall'allegra ribellione delle ragazze più giovani, alla fermezza incallita dei nonni col baschetto; dalla curiosità dei bambini che si guardano intorno dal passeggino alla compostezza delle anziane donne che nascondono tenerezza. Sono i mille volti solidali di questi indigeni d'Europa; sono le facce della complessità, della pluralità e della molteplicità di un movimento che riesce a farsi popolo in un corteo, delle sue nuove sfide in questo nuovo ciclo che si è aperto. Sorridendo emozionata arriva Nerea. "Perché noi giovani attivisti baschi siamo cresciuti in una situazione d'eccezionalità. Siamo arrivati a ritenere normali cose che sono assurde: per ultimo il processo a ventotto giovani accusati di appartenere a Segi", la vecchia organizzazione giovanile basca. "Li abbiamo accompagnati a Madrid al processo, e per fortuna alcuni già sono stati dichiarati innocenti. Ma per altri sedici ancora deve arrivare la sentenza. È un continuo trauma, per noi, per le nostre famiglie, per ciò vogliamo con determinazione che finisca questa situazione repressiva". Mentre si guarda intorno orgogliosa per la partecipazione, Nerea, che ha ventidue anni, spiega: "Non mi sento nazionalista, ma indipendentista e per questo rivoluzionaria, come i giovani curdi che oggi combattono a Kobane per la loro indipendenza". Più parla, più crolla la timidezza che si trasforma in fervore. "Si è aperto un nuovo ciclo e dobbiamo continuare a lottare, perché siamo orgogliosi della nostra storia di sinistra e volenterosi per il nostro futuro". L'ottobre scorso, Adolfo Pérez Esquivel - l'argentino premio Nobel per la pace - ha dichiarato che mantenere in prigione Arnaldo Otegi (leader storico della sinistra indipendentista) e i suoi compagni del partito socialista Herri Batasuna (Unione Popolare), reso illegale nel 2003, rappresenta una "offesa contro l'umanità". Mentre in un altro delicato processo di pace, quello colombiano, il negoziatore della Farc ha lanciato un monito: "La pace non è il silenzio dei fucili". Lo sa bene chi lotta per la liberazione nazionale e sociale nei Paesi Baschi. Qui dietro, nell'Europa liberale, dove spesso dietro lo Stato di diritto si cela il diritto dello Stato a castigare il cambiamento.