Chi meglio di noi "ristretti" in carcere può raccontare le cose che non funzionano? di Clirim Bitri Ristretti Orizzonti, 9 febbraio 2015 Per aderire alla campagna "Gli Stati Generali sulle pene e sul carcere: una occasione per riflettere CON le persone detenute" mandaci un messaggio, una lettera di suggerimenti, una firma di sostegno, o una mail all'indirizzo redazione@ristretti.it con le tue idee per gli Stati Generali. Il ministro della giustizia Orlando ha annunciato che nei prossimi mesi convocherà gli "Stati Generali" sulle carceri, cioè riunirà tutti gli operatori ed esperti che in qualche modo hanno a che fare con l'esecuzione delle pene, per trovare soluzioni nuove per affrontare e cercare di risolvere i problemi del mondo penitenziario. Spero che questa iniziativa porti a riflessioni utili, ma sono certo che se non si conosce realmente il problema da affrontare, difficilmente si può trovare la soluzione giusta. Chi meglio di noi che siamo "ristretti" in queste condizioni può raccontare le cose che non funzionano? Non metto in discussione la preparazione degli operatori ed esperti, ma sono esperienze, che se non le provi non le puoi descrivere. Faccio qualche esempio: Bambina di 2 anni - "Papa perché quel poliziotto mi ha fatto togliere le scarpe?", padre detenuto - "perché vuole regalartene un paio di nuove", questo è un episodio raccontato ad un incontro con le scuole da un detenuto della redazione di Ristretti Orizzonti, gli esperti possono dire che il 30% dei figli dei detenuti seguono le orme dei genitori, ma quella figlia, che oggi ha 20 anni, ha raccontato l'odio maturato verso quell'uomo in divisa che faceva solo il suo lavoro perquisendo anche le sue scarpe, e noi da sempre sosteniamo che basta aumentare i controlli sulle persone recluse quando escono dai colloqui e si risparmierebbero così le umiliazioni delle perquisizioni ai famigliari, provocando anche meno odio verso l'uomo in divisa. Su iniziativa della nostra redazione nel giro di qualche mese circa 9.000 detenuti da 54 istituti di pena hanno testimoniato con firme e lettere che hanno bisogno di una famiglia, della propria famiglia. Nessuno degli esperti può spiegarti bene come i diretti interessati che non si possono mantenere i legami famigliari con sei ore di colloquio al mese e dieci minuti di telefonata alla settimana. Solo noi detenuti possiamo raccontare la sofferenza che abbiamo provato dal confronto con le vittime di reati, dimostrando che è stato più rieducativo quell'incontro di poche ore che anni di detenzione. Ogni anno noi redattori di Ristretti Orizzonti incontriamo più di 6.000 studenti, non ci è difficile rispondere alle domande, o raccontare le scelte sbagliate e gli scivolamenti che ci hanno portato in carcere. Quello che invece non riusciamo a raccontare è la giornata tipica del detenuto, perché togliendo quei pochi "fortunati" che in qualche modo sono impegnati in qualche attività, tutti gli altri nella migliore delle ipotesi devono cercare il modo per "Ammazzare il Tempo". Non credo che siano tanti gli esperti che sanno come si ammazza il tempo in poco spazio e senza nulla da fare. Se Lei Sig. Ministro veramente ha intenzione di affrontare in modo nuovo il problema "Carcere", deve allora prendere in considerazione anche la componente "Detenuto". Nella nostra redazione non sentirà dire "Io detenuto ho bisogno di…", ma sentirà piuttosto dire "NOI, detenuti e non, noi società abbiamo un problema". Quello che possiamo mettere a disposizione da parte nostra è l'esperienza maturata in più di 18 anni in un laboratorio di studio, confronto, sofferenze, delusioni e conquiste, non per fare un buon carcere, che non esiste in nessuna parte del mondo, ma per far sì che le persone che entrano in carcere escano non peggiori, e se possibile un po' migliori di prima. La nostra direttrice spesso dice che siamo un "articolo" difficile da difendere anche quando abbiamo ragione, spero che Lei Sig. Ministro abbia il coraggio di affrontare il problema in modo diverso da quanto si è fatto sino ad oggi, e gli "Stati Generali" li convochi proprio qui nella Casa di reclusione di Padova. Riflettiamo su quello che davvero può dare un senso alla pena di Bruno Turci Ristretti Orizzonti, 9 febbraio 2015 Le carceri italiane hanno bisogno di grandi cambiamenti, se ne è reso conto anche il Ministro della Giustizia, che ha deciso di indire gli "Stati Generali", dai quali dovrebbero essere ripensate le pene, dentro a un sistema realmente risocializzante per le persone private della libertà, volto a prepararle a reinserirsi nella società, producendo sicurezza per tutti i cittadini. Perché è importante che gli Stati Generali siano organizzati qui nella Casa di reclusione di Padova con la collaborazione di Ristretti Orizzonti? -Perché a Ristretti Orizzonti facciamo prevenzione e produciamo sicurezza incontrando, nell'arco dell'anno scolastico, non meno di seimila studenti delle scuole superiori di Padova e del Veneto, trasmettendo loro le nostre esperienze affinché possano riuscire a riconoscere quei meccanismi perversi, che portano le persone a compiere dei reati, che le allontanano dalla società e dalla famiglia. Questa attività consente a chi vi partecipa di guardare in modo nuovo alla propria responsabilità, e dà un senso alla pena. -Perché abbiamo competenze dirette, giacché discutiamo quotidianamente di giustizia e carcere, e della necessità di modificare un Ordinamento Penitenziario che, dopo quaranta anni di vita, ha bisogno di essere rinnovato e adeguato a una società che ha al centro la comunicazione (mentre i figli dei detenuti, paradossalmente, per poter parlare con il genitore possono sperare al massimo in una telefonata di 10 minuti alla settimana da dividere con i fratelli e la madre). -Perché rispetto alle vecchie consuetudini, che vedevano gli esperti e i volontari occuparsi dei detenuti, nella redazione di Ristretti Orizzonti, invece, i volontari operano insieme ai detenuti per costituire un patrimonio di esperienze e di competenze, che permetta di confrontarsi sulle reali esigenze di una nuova cultura della pena, affinché la pena abbia davvero un senso. Ed è paradossale che quasi nessuno abbia mai creduto opportuno confrontarsi anche con i detenuti, invece che unicamente con quegli esperti che hanno importanti competenze, ma non possono sapere come è fatta una cella d'isolamento o un letto di contenzione, che non hanno mai preso visione dello squallore di una sala colloqui dove i detenuti incontrano le madri, le mogli e i figli, che non hanno vissuto la sofferenza dei familiari che fuori dal carcere sotto la pioggia attendono di entrare a colloquio con i propri cari. Per tutti questi motivi noi vorremmo potervi accogliere a Padova agli Stati Generali sulle carceri. Il carcere "maligno", che punisce e non fa capire, serve solo a rendere la società meno sicura Il Mattino di Padova, 9 febbraio 2015 La domanda che ci fanno spesso gli studenti quando si parla di pene è: ma se le persone in carcere sono trattate bene, non è che poi non hanno più paura della galera e quindi non si fermano di fronte ai reati? L'idea che il male si può fermare solo restituendo altrettanto male è ben radicata: ma bastano le testimonianze di due ragazzi giovani, che hanno vissuto prima la detenzione in galere dure, isolamento, noia, senso di inutilità, e poi sono arrivati a Padova, non in un "bel carcere", che non esiste, ma in un carcere dove hanno sperimentato una pena dignitosa e sensata, per far capire che il carcere "maligno", che punisce e non fa capire, serve solo a rendere la società meno sicura, restituendole gente arrabbiata, e non uomini responsabili. La più letale delle punizioni, la punizione del sorriso, dell'umanità È molto complicato raccontare la storia di un ragazzo difficile, dato che questa storia parte dall'età adolescenziale, da quando ero incazzato con tutti, da quando mi sentivo solo anche se attorno a me non mancava chi mi voleva bene. Arrivo in Italia a sei anni con tutta la mia famiglia, i miei sono persone che si sono sempre spaccate la schiena lavorando onestamente per cercare di non farci mancare nulla, ricordo quando mio padre si svegliava alle tre del mattino per andare a lavorare al mercato ortofrutticolo e mia madre quando andava a fare le pulizie a casa di due persone anziane, la stanchezza non è mai riuscita a toglier loro il sorriso. Io e mia sorella abbiamo frequentato le scuole medie con ottimi risultati, lei ha continuato gli studi e si è laureata, io invece con molta fatica mi do da fare per raggiungere il diploma in ragioneria qui all'interno del carcere. A quattordici anni delle idee hanno incominciato ad insinuarsi nella mia mente, non riuscivo ad apprezzare più i sacrifici della mia famiglia, in quanto non li valutavo come tali, mi creava insofferenza il fatto che mio padre si alzava alle tre del mattino per 50 mila lire al giorno, lavorava 10 ore, e mia madre che per fare due ore di pulizie doveva farne altrettante di strada fra andata e ritorno. Questa insofferenza mi ha accompagnato in tutta la mia adolescenza fino ai diciassette anni, quando ho cominciato a compiere dei gesti di ribellione come quelli di frequentare posti sbagliati e non rientrare mai a casa negli orari stabiliti dai miei genitori. Tra l'altro, dopo la terza media smisi di andare a scuola e fu un boccone amaro da mandare giù per i miei, ai silenzi di mio padre si alternavano i pianti di mia madre, ma io non sentivo e non vedevo. Quando ho iniziato a delinquere la mia premessa fu quella di farlo in quanto non volevo spaccarmi la schiena come i miei genitori, e volevo però cambiare il mio futuro status economico. A diciotto anni vengo arrestato per la prima volta e buttato in una sezione di Alta Sicurezza nel carcere di Lecce e ne esco dopo un mese per la giovane età. A casa mia erano più preparati a un lutto che a un figlio in carcere, mia madre ricordo che mi disse: mi ha fatto più male che tu sia stato in carcere un mese che trentacinque anni di povertà e fame nella dittatura comunista. Quelle parole su di me non ebbero effetto, pensavo mia madre non capisse in quanto loro avevano deciso di abbassare la testa ad un sistema che allora mi sembrava ingiusto, e così decisi di allontanarmi da casa per andare a vivere da solo, andai a vivere nelle Marche, in seguito conobbi una ragazza che divenne madre della mia bambina. La convivenza non mi ha fatto cambiare strada ed ho continuato con le mie idee, che mi portavano a fare reati. Nella primavera del 2004 vengo arrestato dopo un inseguimento nel quale i Carabinieri mi hanno sparato, dopo esserne uscito vivo per miracolo mi colse un delirio di onnipotenza e mi dissi: loro mi possono sparare o incarcerare ma io risorgerò lo stesso. Il periodo più duro l'ho passato dal 2005 al 2007, quando le istituzioni carcerarie hanno trovato la soluzione al mio carattere difficile con il carcere punitivo e isolamenti di lungo periodo: io ci ho sempre messo del mio per prendermi ogni sanzione possibile all'interno delle carceri, ma non concepisco come mai l'unica soluzione fosse quella di sbattermi in isolamento. Nel 2011 arrivo in questo carcere, vado in sezione e vedo le celle aperte, i primi giorni ero felice, potevo stare fuori dalla cella e farmi anche la doccia senza dovere aspettare che mi aprissero la cella, ma dopo un po' ho cominciato a stufarmi di quella monotonia e mi sono reso conto di essere sempre in un carcere, allora ho iniziato a frequentare la redazione di Ristretti Orizzonti e le scuole superiori, non è stato facile il percorso durante questi due anni, ma in questo carcere almeno un percorso c'è stato invece negli altri no. Ricordo quando dopo una sanzione disciplinare mi hanno fatto conoscere quella che io definisco la più letale delle punizioni, la punizione del sorriso, dell'umanità, quando le parole del direttore furono: ragazzo mio cosi non vai da nessuna parte e rovini la tua vita, ritorna in cella e cerca di uscire dalla galera. In questo carcere mi sono trovato a un bivio: essere l'ennesimo cretino sul pianeta o cercare di dare un significato a tutti questi anni di carcere. Ho scelto la seconda opzione, quella che mi ha fatto prendere per la prima volta lo sconto di pena, quella che mi appassiona di più. Mi guardo indietro e provo a cercare di capire, se queste opportunità mi fossero state date prima, se mi sarebbero servite, la mia risposta la trovo nei risultati raggiunti, mi domando se ogni mio errore fatto all'interno delle carceri andava punito con isolamenti e indifferenza, quando io parlavo male alle istituzioni le istituzioni urlavano, ma forse io avevo bisogno di altro. Tutto ciò lo racconto anche agli studenti delle scuole, con la convinzione di dover rendere qualcosa agli altri che va oltre la galera, perché la galera è un debito che io ho con lo stato, ma con la società ho un debito morale più profondo e l'unico modo ripagante lo trovo in quegli incontri con gli studenti. La strada che ho intrapreso non è nulla di straordinario, ma è vivere in un modo normale senza ledere gli altri per raggiungere i miei obiettivi. So che di errori ne farò ancora, ma almeno ci provo. Erion Celaj Entravo e uscivo dal carcere Mi chiamo Marsel, vengo da una città dell'Albania, da una famiglia povera e distrutta dal regime comunista. Quando ero piccolo mi appassionava tantissimo giocare a calcio. Frequentavo la scuola, non andavo bene, non ascoltavo i maestri e facevo casino. Nel 1997 in Albania è scoppiata la guerra civile, da lì è cambiato tutto perché si sono riaperte le vecchie faide tra la mia famiglia e un'altra famiglia della città. Subito è entrato in vigore il Kanun, un codice che esiste da più di 500 anni, non è riconosciuto dalle autorità, codifica le regole da osservare tra le famiglie "in faida". Permette solo alle donne e ai bambini di uscire liberamente di casa. Dal momento che ho compiuto 14 anni la mia vita non era più sicura a causa della faida. Tuttavia, mio padre decise di non farmi abbandonare la scuola e l'attività del calcio. Finché all'inizio del 2004 smetto tutto e vengo in Italia. Qui mi ospitava un mio parente che lavorava in regola e dopo una settimana mi prende con lui a lavorare. Il primo giorno mi sembrava che non finisse mai, ma piano piano mi sono abituato. Ben presto però dopo aver conosciuto dei miei paesani che rubavano e spacciavano non ci ho pensato neanche un po' e mi sono messo a rubare. Ho litigato con mio cugino che non voleva che io prendessi questa strada e sono andato via da casa sua, a Treviso. Lì ho incontrato dei ragazzi che vivevano di furti e di espedienti. Ho iniziato a fare questa vita che mi permetteva di avere i soldi che volevo, poi andavo in giro con le macchine anche se non avevo la patente ed ero minorenne. Andavo nelle discoteche e vivevo in maniera dissoluta, finché nel 2005 subii il primo arresto. Mi portarono nel carcere minorile e dopo 5 mesi uscii. I reati che facevo diventavano sempre più gravi e con la giustizia avevo ormai tanti debiti. Entravo e uscivo dal carcere. Durante la varie detenzioni non mi hanno mai dato la possibilità di fare un percorso rieducativo, stavo buttato in cella o nei cortili dei passeggi, a parlare con altri detenuti e progettare il modo di rubare più soldi. Finché mi arrestarono di nuovo nel 2008, avevo una fidanzata a cui volevo bene che era in attesa di nostro figlio. Mi portarono in carcere a Vicenza, dopo sei mesi uscii per la nascita di mio figlio, avevo l'obbligo di dimora nel comune di Treviso, ma dopo un mese scappai, e mandai la mia ragazza con mio figlio all'estero. Ben presto ci lasciammo, a lei non piaceva quello che facevo, voleva che mi mettessi a lavorare e che nostro figlio avesse suo padre sempre vicino. Nel 2011, quando mi arrestarono, mi arrivarono tutte le pene che avevo in sospeso, processi da fare e condanne definitive. Ho una condanna totale di 20 anni, ho 26 anni, ne ho fatti già 6 di galera, ho girato tutte le carceri di Veneto e Friuli e non me la sono passata bene, perché sono tossicodipendente di droga e alcool. Il 14 febbraio del 2013 vengo trasferito a Padova. Certamente qui si vive un po' meglio che in molte altre carceri ma per quanto riguarda la tossicodipendenza, si fatica a essere seguiti per il sovraffollamento. Io anche con la salute non stavo bene, fino a quando non sono entrato a far parte della redazione di Ristretti Orizzonti. Ero disperato e in depressione, ma grazie agli amici che avevano capito i miei problemi, ho iniziato anche a fare colloqui di sostegno con una psicologa volontaria, ed è lei che mi ha fatto sentire che anche io sono una persona. Marsel Hoxha Giustizia: inaugurazione dell'Anno giudiziario… buone intenzioni e numeri parziali di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2015 Sabato 25 gennaio si è tenuta la cerimonia di apertura dell'Anno giudiziario nei 26 distretti italiani. Sorvoliamo sulle polemiche tra il presidente del Consiglio e le toghe, seguite alle frasi non felicissime pronunciate da alcuni alti magistrati che parlavano nella loro veste ufficiale. Colpisce, invece, il quadro d'insieme fornito dai capi degli uffici giudiziari, in particolare sulla diffusione della corruzione, sul contrasto alle mafie, sul radicamento della criminalità organizzata al di fuori dei territori d'origine, tratteggiati con parole drammatiche e molto dure per il futuro a tinte fosche che attende l'Italia. Per limitarsi a pochi esempi, secondo il presidente della Corte d'appello di Milano "la ‘ndrangheta sta occupando il Nord", grazie a "un'interazione-occupazione nel tessuto dell'economia, della società e delle stesse istituzioni"; con accenti analoghi è stato evocato l'Expo e il fallimento delle misure anticorruzione. A Roma il Procuratore generale ha lanciato l'allarme sulle infiltrazioni mafiose nel mondo del calcio, a Reggio Calabria sul porto di Gioia Tauro, definito il "loro porto" (dove "loro" sono le ‘ndrine); Messina è indicata come la città in cui il pizzo imposto alle imprese è il più alto d'Italia, mentre da Palermo il presidente della Corte d'appello avverte che ormai "iboss sono infiltrati negli enti locali". Nonostante le ottime intenzioni che inducono a tali allarmi ed esclusa ogni volontà di danneggiare il Paese da parte degli uffici giudiziari (meritoriamente impegnati a contenere le patologie più gravi) resta che la fotografia fornita - specie agli osservatori esteri - è quella di un'Italia fuori controllo, in mano a orde di delinquenti che distruggono ricchezza e minacciano chi voglia crearne. Ovviamente le cose non stanno così, ma l'effetto di immagine prodotto è dannoso per il nostro bisogno di credibilità internazionale. Per questo risulta ancor più avventato il vecchio vizio di non considerare il contesto in cui risuonano simili analisi, per quanto pensate e prodotte in totale buonafede. È infatti improvvido trasformare una somma parziale di evidenze giudiziarie in apodittiche (e apocalittiche) tesi sociologiche, utili ai titolisti, ma che non accrescono la comprensione dei fenomeni criminali. Una modalità dannosa, non suffragata da uffici studi o da specialisti in analisi statistica e che dunque non discerne il grano dal loglio, finendo - per esempio - per gettare in un unico girone infernale intere categorie sociali, generalizzando concetti che ha invece senso focalizzare dopo una retata di funzionari corrotti o di imprenditori collusi, purché ci si limiti a quei nomi e a quei fatti. Il magistrato non è chiamato a produrre quadri statistici e, se lo fa, deve accuratamente ribadire che si tratta di dati riferiti a una specifica area, che non pretendono di descrivere l'andamento di un fenomeno e che si tratta, sostanzialmente, di annotazioni personali, ancorché ispirate, di chi le stila. Ben altro peso hanno i report scientifici della Banca d'Italia o dei diversi centri studi che, anno dopo anno, comunicano flussi realistici e correttamente gestiti. Le toghe dovrebbero sempre tenersi alla larga dai messaggi a effetto, utili solo a fuggevoli appagamenti personali o a schermaglie di categoria. Perché è così che spuntano cifre a casaccio, come i 60 miliardi l'anno bruciati in corruzione: un'invenzione statistica lanciata due anni fa dalla Corte dei conti, più volte confutata, ma ancora oggi scritta nei documenti, rilanciata in Rete, nei convegni e nelle chiacchiere da bar. Sarebbe molto più utile al loro ordine e al Paese se i responsabili degli Uffici giudiziari contenessero le velleità sociologiche nel momento di massima audience data dall'apertura d'Anno giudiziario, per dedicarsi con rinnovata cura ad aggiornare i risultati conseguiti dai loro uffici in termini di efficienza, di risultati e di obiettivi da raggiungere in nome del popolo italiano. Giustizia: ogni giorno in carcere ci sono 3 detenuti innocenti, risarcimento medio 26mila € Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2015 Dal 1991 sono stati 23mila i casi di ingiusta detenzione e 600 milioni di euro il totale delle somme liquidate dallo Stato come risarcimento. Ad affermarlo il vice ministro della Giustizia Enrico Costa durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario dell'Unione delle camere penali, al palazzo di Giustizia di Palermo. "Il tema delle carceri - ha proseguito - è fondamentale. Ogni volta che poniamo in essere una correzione al codice penale e di procedura penale, dovremmo pensare agli affetti che avrà sulle carceri. Forse questa sensibilità - ha concluso - è mancata in passato ma è giunta a questo governo con diversi richiami". Giustizia: dalla Bossi-Fini in poi è "boom" di detenuti stranieri di Andrea Oleandri (Associazione Antigone) Il Garantista, 9 febbraio 2015 Al 31 dicembre del 2014 i detenuti immigrati presenti nelle carceri italiane sono 17.462, pari al 32,56% del totale. I reati per i quali gli stranieri sono maggiormente imputati sono quelli a bassa offensività, per lo più legati alla droga, alla prostituzione o all'immigrazione. Su un totale di 34.957 reati, 9.277 sono le imputazioni per uno di questi tre motivi, una percentuale di 26,5%. I delitti contro la persona commessi da stranieri sono 6.963 (30,3% del totale), mentre solo 111 stranieri sono imputati per reati di associazione a delinquere, ossia l'1,6% del totale. All'allungarsi delle pene inflitte diminuisce la percentuale di stranieri e, in base al residuo pena da scontare in carcere, gli stranieri rappresentano una percentuale più corposa rispetto agli italiani. Questi sono alcuni dei dati che emergono dal rapporto di Patrizio Gonnella "Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti" che, edito da Edizioni Scientifiche, è stato pubblicato grazie al contributo del lavoro di ricerca dell'Associazione Antigone, di cui Gonnella è presidente, e al sostegno di Open Society Foundations. Le ricerche di questo genere, servono a fotografare una realtà carceraria spesso sottovalutata, con tutte le conseguenze del caso, in termine di politiche specifiche e, quindi, di diritti. Ma, andando con ordine, è bene partire come fa Gonnella dal perché e come la popolazione straniera sia cresciuta in maniera costante negli ultimi vent'anni, arrivando al numero attuale. Sicuramente grande impatto hanno avuto le politiche sulla cosiddetta "sicurezza" che, dal 1996 in poi, hanno portato a una sorta di "criminalizzazione" dello straniero. Basta guardare i numeri per capire quanto questa affermazione sia vera. Fino al 1996 la quota di stranieri detenuti in Italia si mantiene piuttosto bassa, sia in termini assoluti che percentuali. Dopo quell'anno e, ancora più segnatamente dopo l'entrata in vigore del Testo Unico sull'immigrazione, la componente straniera nelle carceri italiani comincia a crescere. Tra il 1998 e il 2000 toccherà la soglia del 30%, dalla quale non scenderà più. Nel 2002, poi, la legge Bossi-Fini porta a compimento il progetto di etnicizzazione del diritto penale, con l'introduzione di fattispecie delittuose intrinsecamente connesse all'immigrazione. In quegli anni la percentuale di detenuti stranieri arriva al 31,78% per giungere infine all'attuale 32,56%. Un dato questo che sarebbe potuto essere certamente più alto se non fosse stato per i provvedimenti legislativi degli ultimi anni, alcuni dettati dalle sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani e della Corte Europea di Giustizia che hanno condannato l'Italia a causa del trattamento degradante subito dai detenuti nelle carceri del nostro Paese. Tali provvedimenti hanno per lo più permesso la scarcerazione di quanti erano stati condannati a pene non elevate. Gli immigrati, che come è noto provengono da contesti sociali disagiati e marginali e sono puniti per reati meno gravi rispetto agli italiani, hanno potuto avvalersi di tale sconto. Proprio i contesti dal quale arrivano i detenuti stranieri è uno dei fattori sui quali si sofferma il re-port, partendo dalla premessa che non sia facile definire il profilo sociale di queste persone. Perché non esistono a livello istituzionale dati disaggregati per età, nazionalità o religione; perché le storie e progetti migratori di ogni persona sono molto diversi e perciò non paragonabili, Se una fotografia va fatta si può dire, comunque, che in Italia la popolazione detenuta straniera è per lo più costituita da persone più giovani rispetto agli italiani. Nella fascia di età tra i 18 e i 20 anni il 58% sono stranieri; questi sono inoltre il 51% tra i 21 e i 24 anni e il 54% tra i 25 e i 29 anni. Man mano che si va salendo la proporzione si inverte in maniera sempre più netta. Anche i dati sul livello di educazione, quando rilevati, risultano molto generici: non vi è distinzione per nazionalità, tipo di laurea, ecc. L'unico fatto certo è che i livelli di alfabetizzazione sono molto bassi, e questo vale sia per i detenuti italiani che per quelli stranieri. La grande maggioranza (4083) hanno un diploma inferiore. Solo 144 sono i laureati, mentre gli analfabeti sono 300. Un dato su cui occorre riflettere è quello degli stranieri in custodia cautelare che, rispetto al totale delle persone non condannate presenti in carcere, è in media del 28% contro il 21% del totale comprendente anche i condannati. Il 34% dell'intera popolazione straniera detenuta è in attesa di primo giudizio o comunque non giudicati in via definitiva. Lo stesso dato, ma relativo agli italiani, è del 29%. Lo scarto di 5 punti percentuali si spiega con la minore possibilità di accesso dei primi a una tutela legale qualificata. Gli stranieri sono soltanto il 17,3% delle persone che fruiscono di una misura alternativa alla detenzione. Si tratta di una percentuale molto più bassa (ben 14 punti in meno) rispetto agli stranieri che scontano la loro pena in carcere. Le ragioni di questo scarto così ampio sono da attribuire alla minore fiducia verso loro sia da parte dei magistrati di sorveglianza che da parte dei servizi sociali, e alle minori risorse economiche e legali a disposizione. Una situazione ancora più complessa per gli immigrati irregolari che, non avendo un permesso di soggiorno che ne attesti un domicilio stabile, non possono essere tenuti agli arresti domiciliari. Pertanto l'immigrato non regolare finirà più facilmente in carcere in custodia cautelare rispetto allo straniero regolare, anche perché le legislazioni di quasi tutti i Paesi europei non riconoscono i diritti di cittadinanza a coloro che entrano irregolarmente sul loro territorio. Ciò è segno di un sistema giudiziario fortemente discriminatorio da questo punto di vista. Un ulteriore dato raccolto nel rapporto è quello delle religioni degli stranieri in carcere. Anche in questo caso i numeri sono più un'indicazione che una reale fotografia della situazione, essendo questo un dato che non viene rilevato e, a volte, neanche dichiarato dal detenuto stesso. 5513 sono infatti gli stranieri di cui non e stato possibile rilevare l'appartenenza religiosa. Tra quelli rilevati spicca la presenza di detenuti di fede islamica (5.693), cattolica (2.663) e ortodossa (2.246). Gli italiani invece sono a stragrande maggioranza cattolica (28.131), seguiti dagli evangelici (94) e dagli islamici (93). Affrontati i numeri, nel rapporto vengono poi approntate 33 proposte di cambiamento legislativo e regolamentare che costituiscono un vero e proprio statuto dei diritti dei detenuti migranti in Italia. L'elenco evidenzia l'incompletezza della legislazione interna ancora troppo centrata sull'idea di un detenuto tipo che è italiano. Incompletezze che riguardano ad esempio il numero bassissimo di mediatori culturali presenti nelle carceri, quando la raccomandazione del 2012 del Consiglio d'Europa ci dice che bisogna investire su queste figure, sugli interpreti e sui traduttori, allo scopo di diminuire la conflittualità che. spesso nasce dall'incomprensione - da parte del detenuto straniero - di alcune disposizioni impartite in una lingua, l'italiano, che non padroneggia. Altre raccomandazioni riguardano l'inserimento della lingua inglese fra le materie d'esame per l'accesso ai vari ruoli della carriera penitenziaria e del servizio medico. E l'organizzazione nelle case di reclusione di corsi di educazione interculturale e l'inserimento di norme nel regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario che tengano conto delle identità culturali e religiose. Tra le proposte anche quella di cumulare le ore di colloquio oltre i limiti mensili per consentire a parenti che arrivano da paesi lontani, la concessione di un visto utile per entrare in Italia e far visita ad un proprio parente detenuto e l'accesso a internet, Skype o alle mail per tutti i detenuti che non hanno censura nella corrispondenza epistolare in modo da facilitare la comunicazione soprattutto agli stranieri che hanno parenti lontani. Giustizia: l'Associazione Nazionale Magistrati dice "no" a pene più alte per la corruzione di Errico Novi Il Garantista, 9 febbraio 2015 Tutti entusiasti dell'anticorruzione. Tutti in attesa del primo sì di Palazzo Madama, atteso per metà della settimana prossima, sul ddl Grasso, che contiene inasprimenti di pena per i corrotti e per il falso in bilancio. Tutti contenti? Non proprio. Intanto non lo sono i penalisti, non lo sono per nulla, e lo hanno detto molto chiaramente nel corso del maxi convegno da loro celebrato a Palermo tra venerdì e ieri mattina. Ma ci sono anche le perplessità della magistratura, a rendere imbarazzante il trionfale countdown in vista della seduta con cui mercoledì Palazzo Madama darà il primo via libera al testo con l'innalzamento delle condanne per corruzione. "Alzare le pene è un modo per inseguire il consenso, ma dire che è la strada più efficace per rispondere ai reati, corruzione compresa, è sbagliato", dice Rodolfo Sabelli, presidente dell'Anm, a sua volta intervenuto alla "Inaugurazione dell'anno giudiziario dei penalisti". Stavolta toghe e avvocati sono d'accordo. Nessuno è davvero convinto che la strada giusta sia quella di uno Stato che mostri la faccia feroce. Eppure il ddl anticorruzione è una specie di destino segnato, verso cui ci si avvia con un misto di rassegnazione e finto entusiasmo. Nessuno può dirlo, naturalmente. Tantomeno nel giorno in cui il Movimento Cinque Stelle, con Di Maio, torna ad accusare tutti, e più di tutti il Pd, di non volere davvero farsi paladino della legge Grasso all'esame del Senato, ma solo di reagire in modo scomposto e un po' ipocrita all'ultima spinta esterna arrivata in ordine di tempo, quella del presidente della Repubblica. Al maxi convegno organizzato dall'Ucpi a Palermo per la verità si finge poco, e anzi persino il presidente dell'Anm Rodolfo Sabelli si sofferma sul controsenso delle norme penali utilizzate come strumento di bonifica sociale (come riferito con ampiezza nell'intervista pubblicata in altra pagina, ndr). Nella seconda giornata di questa "Inaugurazione dell'anno giudiziario dei penalisti" si dedica molto spazio a interventi di grande spessore e profondità come quelli di Oreste Dominioni e del professore di Diritto penale di Firenze Fausto Giunta. Ma è anche l'occasione per ascoltare le considerazioni di un protagonista del processo legislativo che dovrebbe portare le condanne per corruzione propria dall'attuale limite di 6 a 8 anni di pena massima, il relatore il ddl Nico D'Ascola. Con doverosa diplomazia, il senatore dell'Ncd spiega che "il mio interlocutore non può che essere il Parlamento, ho il dovere di rappresentare solo in commissione Giustizia il mio punto di vista, a maggior ragione per la responsabilità che ho rispetto a questo testo". Ma D'Ascola non manca di ricordare i ritardi che si sono accumulati su molte questioni, e che ancora impediscono di affrontare la riforma della giustizia in modo davvero organico. "Intanto siamo di fronte a una quantità di provvedimenti davvero notevole. È anche la conseguenza dell'inattività registrata per anni sulla revisione del processo penale. Ma in ordine di priorità, dovremmo inevitabilmente dire che siamo costretti a lavorare a una serie di interventi non sempre caratterizzati dal tratto della sistematicità". I motivi non sono difficili da individuare: "Stiamo intervenendo su una situazione emergenziale, a cominciare dalle carceri. Quello è un intervento a cui siamo stati costretti dalla Corte europea, ma che affronta questioni relative alle sofferenze dei singoli individui. L'applicazione della norma sui rimedi risarcitori peraltro si è rivelata molto problematica. Dopodiché a mio giudizio, anche da professore di Diritto penale, direi che si dovrebbe innanzitutto intervenire sul processo. Ora registriamo una situazione che rimane identica a quella che era qualche anno fa su alcuni temi". E tra questi, dice D'Ascola, c'è proprio "l'eccesso di reati: quando da giuristi paliamo del carcere come extrema ratio alludiamo a qualcosa che nella pratica viene tradita quotidianamente". Ecco, e il punto è che l'obiettivo dichiarato del ddl anticorruzione, dopo le modifiche sull'entità della pena, è proprio quello di portare in carcere la quantità maggiore possibile di condannati per reati contro la pubblica amministrazione. Il tutto per rispondere allo sdegno generale provocato dalle inchieste mostre degli ultimi due anni, da Mafia Capitale fino a risalire al Mose. È il controsenso più chiaro dell'ultima svolta impressa dall'esecutivo alla legislazione in campo penale. Ed è una contraddizione che probabilmente non sfugge neppure al ministro della Giustizia Andrea Orlando, che nella prima delle due giornate del maxi convegno organizzato dall'Ucpi ha chiesto soprattutto di mantenere alta la guardia di fronte ai rischi del "populismo penale". D'altronde è difficile sottrarsi all'inerzia di questa spinta restrittiva, nel giorno in cui persino il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco evoca a sua volta la corruzione come un male assoluto. E non bastano a modificare questa specie di coazione a ripetere impadronitasi del premier e del suo esecutivo le parole del viceministro della Giustizia Enrico Costa: "Dovremmo avere maggiore cautela quando viene individuata una nuova fattispecie penale", dice, "bisogna cercare di comprendere le conseguenze per il cittadino di una norma". Evita di esprimersi in modo problematico sulle modifiche all'anticorruzione, si limita a rilevare che certamente con il nuovo impianto della legge Grasso "si affronta il nodo corruzione in modo diverso". Costa ricorda i dati sulla prescrizione e soprattutto quelli sull'ingiusta detenzione, sui risarcimenti che ogni anno lo Stato è costretto a pagare. In effetti anche su questo versante ci sarebbe una proposta di legge da un bel po' all'esame della Camere, quella che dovrebbe introdurre parametri più chiari e definiti per la custodia cautelare. Ma è assai ragionevole credere che a tagliare il traguardo dell'approvazione finale arriverà prima il testo che fa la faccia feroce con i corrotti. Giustizia: archiviazione reati per "lieve entità del fatto", discrezionalità dei pm nel mirino di Sara Menafra Il Messaggero, 9 febbraio 2015 La partita sulla riforma del Codice di procedura penale che introduce la possibilità di archiviare alcuni reati sulla base della "lieve entità del fatto" è ancora aperta. Ma dopo l'approvazione dei pareri delle commissioni giustizia di Camera e Senato al decreto legislativo, il governo si prepara a correggere il tiro e a delimitare il campo d'azione della riforma. Nel tentativo di spegnere le polemiche che si sono irradiate da numerosi ambienti, economici e non soltanto. Negli ultimi mesi, in particolare l'Ania (l'associazione nazionale che raggruppa delle imprese assicuratrici), la Confindustria cultura, l'Enpa e la Lav-Lega antivivisezione hanno sollevato diverse obiezioni alla struttura del testo. L'Ania, più di altri, sostiene che il decreto legislativo "arrecherebbe un pesante vulnus al principio costituzionale di legalità e certezza del diritto in quanto renderebbe di fatto discrezionale l'esercizio dell'azione penale". Va però detto che, nel corso della recente inaugurazione dell'anno giudiziario, il primo presidente della Cassazione Giorgio Santacroce si è espresso a favore del mutamento sottolineando che "il potenziamento delle misure deflative" tra le quali "la rilevanza della lieve entità ai fini della punibilità del reato" si muovono "nella direzione auspicata, tra gli altri, anche dal Consiglio superiore della magistratura". Il governo ha sempre respinto le obiezioni, sostenendo che i casi di non punibilità saranno limitati a casi specifici e davvero minori. E i pareri appena approvati dalle Commissioni giustizia di Camera e Senato hanno specificato meglio come sarà corretto il testo, chiarendo che l'archiviazione per "lieve entità del fatto" sarà solo per i reati davvero "bagatellari" (il furto della mela al supermercato, ad esempio) e - per quanto possa far rizzare i capelli in testa alle associazioni contro la violenza - per i maltrattamenti occasionali, come il calcio al gatto o lo schiaffo al minorenne. Per le truffe assicurative, la situazione è più complessa visto che il reato previsto dall'articolo 642 ha come pena massima 4 anni di detenzione e il decreto legislativo interviene su tutti i reati con pena massima di 5 anni. Ma viene assicurato che le tutele alla difesa delle parti offese saranno rafforzate più di quanto previsto oggi. Tre le correzioni principali proposte finora: prima di tutto sarà chiarito che la legge esclude la punibilità di "offese" tenui e non di "fatti" tenui, escludendo dall'ambito di applicazione della legge "le condotte che determinano la distruzione del bene protetto (ad esempio uccisione degli animali maltrattati), ovvero comportano una compromissione parziale anche non grave di tale bene". Quindi, saranno delimitate le modalità della condotta collegandolo ai criteri specificati dall'articolo 133 del codice penale, escludendo, scrive la Camera, l'"aver agito per motivi abietti o futili, aver adoperato sevizie o aver agito con crudeltà o in violazione del sentimento di pietà per gli animali o in condizioni di minorata difesa della persona offesa anche in riferimento all'età". Infine, una modifica che potrebbe incontrare il favore delle assicurazioni è la previsione che alla parte offesa sia sempre data notizia dell'archiviazione. Una tutela rafforzata rispetto a oggi, visto che il querelante attualmente deve precisare di voler essere avvisato, ma che comunque non basta all'Ania. Giustizia: i Sindacati della Polizia "è un ennesimo svuota-carceri, così c'è meno sicurezza" di Alessandra Vaccari L'Arena, 9 febbraio 2015 Fa discutere anche tra gli addetti ai lavori la scelta del Governo di depenalizzare i reati cosiddetti minori. E anche all'interno delle forze di polizia c'è dibattito. D'altra parte ogni giorno poliziotti e carabinieri fanno arresti e il giorno dopo le persone arrestate vengono rimesse in libertà. Roberto Grinzi, del Siap è chiaro: "I poliziotti e tutte le forze dell' ordine si sentono profondamente mortificate da quanto prevede il decreto legislativo sulla depenalizzazione. Chi ci governa deve capire che snellire i carichi di lavoro della magistratura non si concilia con la richiesta di sicurezza della cittadinanza, che quotidianamente ci chiede perché chi delinquere sia poi nuovamente messo in condizione di reiterare determinati reati, irridendo e svilendo il quotidiano lavoro degli operatori della sicurezza. Se non vi saranno modifiche sostanziali nel decreto in via di conversione, la sua approvazione sarà un ulteriore colpo basso per tutti coloro che vogliono una legge giusta ed equa e soprattutto al passo con la realtà odierna e vicina ai cittadini". Un poco più possibilista il Siulp, con Davide Battisti che afferma che di per sé, la depenalizzazione dei reati minori può non essere una scelta sbagliata "L'attuale sistema carcerario è senza ombra di dubbio da rivedere e, certamente, non è svuotando le carceri (o non riempiendole) grazie a mini-indulti che si risolveranno i problemi. Occorre ragionare in termini più seri e non ricorrere a soluzioni tampone e, per fare ciò, non si può non discutere dell'annosa questione della certezza della pena che, a quanto pare, nel nostro Paese non trova positivi riscontri". E aggiunge: "Sostanzialmente non potranno beneficiare delle possibili esimenti i delinquenti abituali o chi eccede nella condotta criminosa. Ciò si tradurrà in un potenziale sfoltimento della popolazione carceraria "di primo pelo" e, per l'appunto, attrice di reati minori". "Quello che più preoccupa è che la depenalizzazione va a toccare reati come il furto, lo stalking, i crimini della strada, e molti altri, cioè quei reati che più creano insicurezza nei cittadini, i cosiddetti reati predatori, e a farne le spese saranno come sempre i cittadini", sostiene Massimiliano Colognato dell'Ugl, "invece di punire si perdona il delinquente che continuerà ad agire forte di queste scelte scellerate in tema di sicurezza Forze dell'ordine prese in giro ancora una volta e sempre più impotenti e una magistratura obbligata ad applicare queste leggi e norme che sono solo una garanzia di impunibilità dei delinquenti. Aumenterà così la percezione di insicurezza proprio in un momento storico come questo dove tra attentati terroristici, furti, scippi, rapine, i cittadini chiedono sempre più sicurezza da parte delle istituzioni, per questo secondo noi queste non sono di certo le scelte più azzeccate in tema di sicurezza e contrasto alla criminalità". Altrettanto critico il Sap, con Nicola Moscardo: "Se la scelta del Governo è dare una velocità nuova alle procedure giurisdizionali non si può non affermare che in realtà tale provvedi mento è solamente finalizzato a svuotare le carceri italiane dal sovraffollamento. Non è solo di questi giorni la nostra contrarietà a questo tipo di manovre, anche con l'indulto il Sap si era schierato contro, quindi anche l'attuale indirizzo governativo merita una critica. Tali operazioni non hanno mai prodotto un vantaggio ai cittadini né hanno ridotto la morsa del crimine ma, anzi, hanno determinato, e gli ultimi episodi di cronaca ne sono testimoni, una notevole recrudescenza dei fatti delinquenziali tanto che il nostro territorio viene scelto da consorzi criminali quale miglior teatro dove operare tanto tra incertezza della pena e incertezza della esecuzione della stessa sono sinonimi di impunità". Giustizia: il boss Totò Riina, 84 anni, è stato ricoverato all'Ospedale Maggiore di Parma La Repubblica, 9 febbraio 2015 Il boss corleonese è stato trasferito sabato scorso nel reparto detenuti. Massimo riserbo sulle sue condizioni. L'avvocato: "Situazione grave e condizioni di detenzione assurde". Il boss di Cosa Nostra Totò Riina, dall'aprile dello scorso anno detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Parma, sabato scorso è stato ricoverato nel reparto detenuti del Maggiore. Le sue condizioni sono mantenute nel massimo riserbo per questioni di privacy, ma indiscrezioni parlano di una prognosi preoccupante. "Il dato del ricovero conferma la gravità della situazione - dichiara l'avvocato Luca Cianferoni, che assiste Riina insieme al collega Antonio Malagò - e conferma l'assurdità delle condizioni in cui Totò Riina viene mantenuto in detenzione". Il legale non entra nel merito delle condizioni di salute "per questioni di rispetto della dignità del mio cliente". Già da tempo gli avvocati di Riina hanno denunciato pubblicamente che il boss corleonese è molto malato, chiedendo al tribunale di Sorveglianza di valutare un'alternativa al carcere duro. Totò Riina, 84 anni, soffre da anni di problemi cardiaci. Ha avuto attacchi ischemici, ha subito interventi chirurgici al cuore per l'applicazione di pacemaker, ha una forma di Parkinson e problemi al fegato. Reggio Calabria: la morte del detenuto Roberto Jerinò finisce in Parlamento www.radicali.it, 9 febbraio 2015 Una interrogazione parlamentare a risposta in Commissione ai Ministri della Giustizia e della Salute, Andrea Orlando e Beatrice Lorenzin, è stata presentata dall'Onorevole Enza Bruno Bossio, Deputato del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia. La Parlamentare calabrese, che da tempo si occupa anche della tutela dei diritti umani fondamentali all'interno degli stabilimenti penitenziari, su sollecitazione di Emilio Quintieri, esponente del Partito Radicale, ha chiesto al Governo di chiarire le circostanze della morte del detenuto Roberto Jerinò, deceduto lo scorso 23 dicembre 2014 presso l'Ospedale Riuniti di Reggio Calabria. Il 60enne, di Gioiosa Ionica, Comune della Provincia di Reggio Calabria, si trovava in custodia cautelare presso la Casa Circondariale "Arghillà" di Reggio Calabria, dopo essere stato ristretto per un qualche tempo presso la Casa Circondariale di Paola, in Provincia di Cosenza. L'On. Bruno Bossio, nella sua interrogazione (la n. 5/04649 del 05.02.2014), riferisce quanto trapelato in merito agli ultimi momenti di vita del detenuto e narrato su "Il Garantista" lo scorso 6 gennaio 2015 ritenendo che "a giudizio dell'interrogante, i fatti esposti nel presente atto di sindacato ispettivo richiedono doverosi accertamenti dal momento che il signor Roberto Jerinò era affidato alla custodia dello Stato". In merito, c'è da dire, che a seguito di una denuncia dei familiari dell'uomo, il Sostituto Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Dott. Giovanni Calamita, ha aperto un fascicolo attualmente contro ignoti per accertare se ci siano eventuali responsabilità da parte del personale dell'Amministrazione Penitenziaria che lo aveva in custodia o dei Sanitari Penitenziari ed Ospedalieri che lo avevano in cura. Sul corpo di Jerinò, su disposizione del Magistrato, è stata eseguito anche l'esame necroscopico. Nei prossimi giorni, secondo quanto riferisce il radicale Quintieri, i congiunti del defunto che sono rappresentati e difesi dall'Avvocato Caterina Fuda del Foro di Reggio Calabria, saranno sentiti come persone informate sui fatti, presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. L'Onorevole Enza Bruno Bossio, nello specifico, ha chiesto ai Ministri della Giustizia e della Salute, se e di quali informazioni disponga il Governo in ordine ai fatti descritti; se e quali problemi di salute presentasse il detenuto Roberto Jerinò all'atto della visita obbligatoria di primo ingresso presso la Casa Circondariale di Paola e poi presso quella di "Arghillà" di Reggio Calabria ricavabili dal suo diario clinico e quali motivi abbiano determinato il trasferimento dello stesso dallo stabilimento penitenziario di Paola a quello di "Arghillà" di Reggio Calabria; se e come sia stata prestata l'assistenza sanitaria al detenuto durante la sua restrizione carceraria chiarendo cosa gli era stato diagnosticato ed a quali trattamenti terapeutici fosse sottoposto visto che, in pochissimo tempo, le sue condizioni si sono irrimediabilmente compromesse; quando, da chi e per quali ragioni il detenuto sia stato trasferito presso l'Ospedale Riuniti di Reggio Calabria specificando se il ricovero, in considerazione della gravità del quadro patologico, avrebbe potuto effettuarsi prima che le condizioni del signor Jerinò peggiorassero in modo fatale come è avvenuto; se siano noti i motivi per i quali sia stato negato al detenuto, da parte dell'Autorità Giudiziaria competente, di ottenere la concessione degli arresti domiciliari presso la propria abitazione e di quali elementi disponga il Governo circa la dinamica del decesso e le relative cause e se siano state ravvisate eventuali responsabilità del personale operante presso l'Amministrazione Penitenziaria. Inoltre, l'attenzione della Deputata democratica, si è focalizzata anche sulla struttura carceraria. Ed infatti, sono state chieste delucidazioni, su quali fossero le condizioni della Casa Circondariale "Arghillà" di Reggio Calabria all'epoca dei fatti (Dicembre 2014) facendo riferimento alla capienza regolamentare, a quanti detenuti vi fossero ristretti, quanti tra questi fossero tossicodipendenti e quanti affetti da gravi disturbi mentali o altri gravi patologie e se si fosse in grado di riuscire a garantire, in maniera sufficiente ed adeguata, non soltanto la sorveglianza dei detenuti ma anche l'assistenza sanitaria ed il sostegno educativo e psicologico nei loro confronti; se alla data odierna, si trovino ristretti in detto Istituto in custodia cautelare o in espiazione di pena detenuti con gravi problemi di salute e se risulti se siano state presentate dagli stessi alle Autorità Giudiziarie competenti istanze di concessione degli arresti domiciliari o di sospensione o differimento della esecuzione della pena ed, in caso affermativo, quali siano gli esiti delle stesse; se il predetto Istituto Penitenziario sia stato ispezionato dalla competente Azienda Sanitaria Provinciale ed, in caso affermativo, a quando risalgano le visite e cosa sia scritto nelle rispettive relazioni inoltrate ai Ministri interrogati, agli uffici regionali ed al Magistrato di Sorveglianza in merito allo stato igienico sanitario dell'istituto, all'adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive disposte dal servizio sanitario penitenziario ed alle condizioni igieniche e sanitarie dei detenuti ai sensi dell'articolo 11 commi 12 e 13 dell'Ordinamento penitenziario approvato con legge n. 354 del 1975 ed infine, se e con che frequenza il Magistrato di Sorveglianza competente abbia visitato, negli ultimi anni, i locali dove si trovano ristretti i detenuti ai sensi dell'articolo 75, comma 1, del regolamento di esecuzione penitenziaria approvato con decreto del Presidente della Repubblica n. 230/2000 e se abbia mai prospettato al Ministro della Giustizia eventuali problemi, disservizi o violazioni dei diritti dei detenuti nell'ambito della sua attività di vigilanza ai sensi dell'articolo 69 del citato Ordinamento Penitenziario. Lecce: Radicali; nel carcere situazione migliorata, ma la sanità è ancora un nodo dolente www.leccesette.it, 9 febbraio 2015 Ispezione stamattina di una commissione del Partito Radicale per verificare le condizioni del carcere di Borgo San Nicola. Il senatore Perduca: "La situazione migliora, ma è ancora critica". Ispezione questa mattina nel carcere di Lecce di Borgo San Nicola di una commissione composta dai Radicali e dell'associazione "Nessuno tocchi Caino". Obiettivo: verificare le condizioni di detenzione e l'allineamento con gli standard imposti dalla sentenza Torreggiani, che ha condannato l'Italia per la violazione dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani. In vigore fin dal gennaio 2013, questa storica sentenza impone difatti determinati criteri per la detenzione, con l'obiettivo di garantire ai detenuti adeguate condizioni di esistenza. Spiega all'uscita da Borgo San Nicola Marco Perduca, già senatore della Repubblica, eletto nel Pd in quota Radicali: "Nonostante le condizioni vadano lentamente migliorando, ancora siamo molto al di sotto di quanto richiesto dalla legge. Siamo a 1.013 detenuti contro i 630 possibili. Meglio dello scorso anno, ma comunque in una condizione di affollamento. Le nuove politiche carcerarie, che permettono ai detenuti di uscire dalla propria cella dalle 8 fino alle 18 - permettendo così delle interazioni sociali - hanno disteso il clima e alleggerito la pressione sui detenuti, ma ancora c'è molto da fare. Non dimentichiamo inoltre la grave carenza di organico tra le guardie carcerarie, utilizzate per il 15% in funzioni di accompagnamento. Il risultato è che la notte 30 agenti devono badare a circa mille persone". Una condizione comunque estremamente difficile, su cui pesa soprattutto il nodo dolente, l'assistenza sanitaria e il diritto alla cura: "La sanità rimane il punto debole del carcere di Lecce. Molto più che in altre realtà. I problemi sull'assistenza persistono e a breve - sempre che non vengano concesse ulteriori proroghe - la chiusura degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari, ndr) porrà nuovi problemi, con l'arrivo a borgo San Nicola di nuovi detenuti dai bisogni di cura speciali". Nonostante lo sforzo dell'amministrazione penitenziaria, anche i progetti di inclusione sociale non sono sufficienti: "Mancano i fondi" continua Perduca, "per cui con i progetti riesce ad essere coinvolto appena il 10% dei detenuti". Per quel che riguarda affollamento e composizione, i dati leccesi sono comunque nella media nazionale: circa 1/3 dei detenuti non sono italiani, altrettanto non ha ancora ricevuto la sentenza definitiva. Il giro ispettivo, prima di Lecce, ha toccato altre città italiane, dal Nord a Sud. Al termine, i dati saranno raccolti e inviati al Consiglio d'Europa, per comporre un resoconto nazionale. Della delegazione, oltre allo stesso senatore Perduca, hanno fatto parte anche Giuseppe e Ada De Matteis, della sezione leccese di "Nessuno tocchi Caino". Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; di nuovo a Uta detenuti trasferiti a Bancali 2 mesi fa Ristretti Orizzonti, 9 febbraio 2015 "Sono ritornati nella Casa Circondariale cagliaritana una trentina di detenuti che erano stati trasferiti a Sassari-Bancali, oltre due mesi fa, per favorire lo spostamento in giornata dei reclusi dal carcere di Buoncammino a quello di Uta". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", che si era fatta interprete del disagio espresso dalle famiglie per effettuare regolari colloqui a causa della distanza e dei costi dei viaggi. "È per noi un sollievo - hanno detto i parenti dei detenuti esprimendo soddisfazione per il ritorno a Cagliari-Uta dei propri cari - non dover affrontare una trasferta lunga e disagevole per poter incontrare i nostri familiari ristretti. Nelle ultime settimane abbiamo affrontato le difficoltà consapevoli che si trattava solo di un sacrificio transitorio, ma ormai non riuscivamo più a sostenere la fatica e la spesa. Desideriamo quindi ringraziare il Provveditore regionale dell'Amministrazione Penitenziaria di aver accolto la nostra richiesta". "Garantire regolari rapporti con i familiari ai cittadini privati della libertà - osserva Caligaris - non è soltanto un'esigenza condivisibile, ma necessaria proprio per rendere più incisiva, come del resto recitano l'ordinamento penitenziario e le circolari ministeriali, l'azione rieducativa del carcere. È evidente che condizioni socio-economiche difficili condizionano negativamente la possibilità di svolgere regolari colloqui con i parenti generando nei reclusi instabilità emotiva ciò a maggior ragione in presenza di figli minori". "Non si può del resto dimenticare - conclude la presidente di Sdr - che i detenuti hanno perso la libertà ma hanno diritto a coltivare i rapporti affettivi indispensabili per il loro reinserimento sociale. È altresì evidente che i loro parenti non devono scontare alcuna pena come implicitamente accade quando viene meno il rispetto della territorialità". Roma: il Comune di Valmontone avvia un progetto per dare lavoro ad ex detenuti www.lanotiziaoggi.it, 9 febbraio 2015 Con due progetti finanziati dalla Regione Lazio, il Comune di Valmontone prova ad offrire risposte all'inserimento lavorativo di ex detenuti e disagiati psichici trovando, al tempo stesso, idee e risorse per migliorare le aree verdi comunali, la fruibilità dei giardini pubblici e restituire, così, ai più piccoli spazi adeguati dove giocare e alla città un miglior decoro. Con oltre 50 mila euro del bando "Innova Tu" della Regione Lazio, infatti, il Comune di Valmontone è stato premiato per il progetto "L'orto e il vivaio" che potrà avviare all'inserimento sociale e lavorativo soggetti a fine detenzione. Realizzato insieme alla Cooperativa Sociale Gestcom, alla Cooperativa La Sonnina, all'associazione L'umana Dimora, in sinergia con l'amministrazione penitenziaria del carcere maschile di Rebibbia, il progetto consentirà di dare adeguata formazione a cinque persone che verranno inserite nel settore agricolo e vivaistico per produrre, su una serra costruita in un terreno di proprietà comunale, piantine da orto e piante ornamentali da utilizzare per gli arredi a verde e nei giardini pubblici. Mentre si lavora all'inclusione sociale e lavorativa degli ex detenuti, e delle loro famiglie, l'Amministrazione valorizza così le risorse agricole e naturalistiche locali, creando un circolo virtuoso che, attraverso la filiera corta, permette di creare un mercato per i prodotti del vivaio. Le attrezzature utilizzate per il progetto sono messe a disposizione dai diversi partner, che forniscono anche le competenze professionali, in particolare i due tecnici agronomi che curano la formazione. Oltre all'amministrazione penitenziaria di Rebibbia, hanno dato la propria disponibilità a partecipare anche l'Università Agraria di Valmontone, che fornirà altri terreni utili al progetto, e la Coldiretti Roma, per promuovere attraverso la rete dei Farmer's Market di Campagna Amica i prodotti agricoli e ornamentali prodotti nel vivaio. Un secondo progetto, avviato dall'assessorato alle politiche sociali del Comune di Valmontone e finanziato dal bando "Bene in Comune" della Regione Lazio, punta all'inclusione sociale e lavorativa di disabili psichici e fisici di lieve entità che, selezionati attraverso un bando comunale in pubblicazione e retribuiti attraverso i cosiddetti "buoni voucher", lavoreranno in team per prendersi cura della città, valorizzando e tenendo puliti in particolare parchi e giardini pubblici per restituirli al gioco e alla fruibilità da parte dei bambini. "Mentre rendiamo più bella e vivibile Valmontone - spiega Eleonora Mattia, vice sindaco e assessore alle politiche sociali - continuiamo il nostro lavoro in quel recupero delle categorie svantaggiate che ci vede da sempre impegnati. Ringrazio l'Amministrazione regionale, guidata da Nicola Zingaretti, per la sensibilità che dimostra continuamente con progetti originali sul sociale, ma anche tutti i partner che, con professionalità ed entusiasmo, hanno condiviso con noi idee che ci hanno permesso di classificarci tra i migliori nel Lazio". "Attraverso queste iniziative - aggiunge l'assessore all'ambiente Veronica Bernabei - riusciamo a dare risposte concrete al recupero delle aree verdi e dei parchi pubblici di Valmontone e ad investire su formazione, recupero e occupazione nell'ambito dell'agricoltura e della botanica, fondamentale in una città come la nostra visto il grande patrimonio di terreni dell'Università agraria". Monza: storia di un detenuto in cerca di riscatto, il carcere e il reinserimento di Valentina Rigano www.mbnews.it, 9 febbraio 2015 "Stavo percorrendo una strada sbagliata e mi sono trovato al capolinea, ora sono un uomo diverso, che cerca il riscatto". Inizia così il racconto, l'intervista a Orazio Pennisi, il 40enne di Muggiò che il 12 agosto 2011, al termine di una lite per un sorpasso, ha investito e trascinato sull'asfalto un libanese di 33 anni, mandandolo in coma. Oggi, giunto quasi al termine dei cinque anni di reclusione patteggiati con l'accusa di tentato omicidio, Orazio cerca la sua strada, dopo l'esperienza del carcere. È stato un giovane dal temperamento fumantino che, raccontando la mancanza delle persone giuste vicino, si è perso. E dopo aver quasi tolto la vita ad una persona, sul finire della condanna prova a cambiare la sua vita. Dopo aver conosciuto il pentimento, il dolore di essere andato troppo oltre, Orazio tenta la via del riscatto, ma le porte per una nuova vita sono difficili da aprire. Orazio, cosa ricorda di quel periodo? "Sono sempre stato un taciturno, non mi curavo del mondo che mi circondava, e mi sono ritrovato in un guaio più grande di me - racconta. Era estate e dormivo sempre poco da tempo a causa dei turni. Ero concentrato sul lavoro, a causa del mio caratteraccio mi ero dedicato solo al lavoro perché non avevo relazioni. Stavo andando a fondo, lo sentivo, ma allo stesso tempo volevo che la mia vita cambiasse. Ci ho provato tante volte, ma ad ogni fallimento cadevo sempre più giù". La mattina del 12 agosto 2011, cosa è successo? "Stavo percorrendo la strada sbagliata e mi sono trovato al capolinea. La droga nella mia vita scorreva a fiumi, così come l'alcol - prosegue Orazio. Non facevo mai quella strada, cominciavo sempre presto al mattino, ma il caso volle che il giorno prima avevo fatto un viaggio di notte e quindi la mattina avevo iniziato più tardi e poi, l'ho combinata. Non mi sono neanche accorto di quello che stava succedendo. So solo che all'una di notte ero a San Vittore". Nella dinamica ricostruita dagli inquirenti, Orazio ha litigato con un venditore di auto di lusso libanese per un sorpasso. Quando le due auto si sono fermate e il 33enne è sceso, Pennisi ha dichiarato di essersi spaventato all'idea di una colluttazione e di averlo investito per paura. Da allora come è trascorsa la sua vita in carcere? "I giorni e le notti passavano, non ci davo peso all'inizio. Poi sono trascorsi mesi e negli anni ho conosciuto altri detenuti, come ad esempio Renato Vallanzasca e Mario Maccione delle Bestie di Satana, che posso dire con onestà si è dimostrato pronto ad aiutare il prossimo. È stata certamente un'esperienza dura, che mi ha scavato e plasmato dentro senza che me ne rendessi conto. Alla fine di tutto posso dire che quello che è successo mi ha trasformato in un uomo diverso. Un ragazzo conosciuto dentro mi ha detto che "se Dio ci ha messo in quel posto di sofferenza non è sicuramente perché gli piaccia vedere i figli suoi che soffrono ma per proteggerli da cose più pericolose che potrebbero accadergli". Ecco io la penso proprio così, ha voluto farmi conoscere la sofferenza per rendermi uomo migliore, più sensibile e consapevole". Sono trascorsi quattro anni, la vittima di quella tragica giornata nel frattempo si è fortunatamente ripresa. Orazio intanto è uscito dal carcere, ed è in affidamento fino a fine pena. Il reinserimento però lo racconta difficile. "Quando entri in carcere le istituzioni si dimenticano di te. Il settore pubblico è un incubo, il reinserimento è pressoché una bufala - conclude Pennisi - sto davvero faticando per ottenere un briciolino di aiuto e dignità. È difficile capire come funzionano le cooperative, a chi rivolgersi e come tirarsi in piedi. Io ci credo, ci sto provando nonostante le porte chiuse in faccia, se qualcuno mi vuole dare una mano, sono qui". Teramo: appello dal carcere di Castrogno "un gomitolo di lana… per le detenute" Il Centro, 9 febbraio 2015 Un gomitolo di lana per le detenute del carcere di Castrogno. Perché nessuna può permettersi di comprarli, perché i fondi pubblici sono sempre più esigui, perché quelli che portano le volontarie non bastano mai, perché in quest'Italia dalle carceri sovraffollate e dai continui richiami della Corte Europea basta un gesto per accorciare le distanze: comprare un gomitolo di lana o recuperarne qualcuno in casa. È un appello che arriva direttamente dalle detenute della sezione femminile quello che l'area educativa della casa circondariale fa suo e rilancia: chiunque volesse partecipare alla raccolta può consegnare la lana ai sacerdoti della parrocchia Madonna della Salute di Villa Mosca che poi la farà arrivare in carcere. Perché per le 35 detenute il lavoro a maglia è un ponte con il futuro: molti lavori artigianali sono già stati esposti in alcune mostre e nei progetti c'è quello di realizzare un laboratorio dove creare maglie, sciarpe, centrini, borse e cappelli da vendere all'esterno. Il tutto ricorrendo all'antica arte dei ferri e dell'uncinetto, inventandosi trame che uniscono e avvolgono. Anche nel chiuso di un penitenziario Come quello di Castrogno, uno dei carceri più sovraffollati d'Abruzzo che ospita circa 400 detenuti a fronte di una capienza di 270. Insieme a quello di Chieti è l'unico della regione ad avere una sezione femminile. Gli agenti di polizia penitenziaria in servizio sono 192, un numero che secondo i sindacati è notevolmente sottodimensionato per far fronte alla presenza di così tanti reclusi. Basti pensare che la pianta organica del 2001 di agenti ne prevedeva 202. La carenza di personale è stata più volte al centro di interrogazioni parlamentari. Ospita detenuti con gravi patologie sanitarie e psichiatriche perché a Castrogno, unico caso in tutto l'Abruzzo, c'è un servizio di guardia medica 24 ore su 24 e uno psichiatra per alcune ore a settimana. Tra le tante iniziative avviate dalla direzione il progetto con l'istituto agrario Di Poppa-Rozzi con lezioni ai detenuti. Sono stati allestiti spazi verdi, in corrispondenza delle sezioni maschili e femminile, chiamati "Il giardino degli affetti": attrezzati con giochi, sono destinati a colloqui familiari e ad incontri tra i detenuti e i loro figli. Chieti: gli ex internati Opg in ospedale? Caramanico (Sel) dice sì "ma resti psichiatria" di Giovanni Iannamico Il Centro, 9 febbraio 2015 L'esponente di Sel è l'unica voce fuori dal coro dopo il no delle liste di centrosinistra e centrodestra. "Sì all'allocazione temporanea della Rems, la Residenza per la misura di sicurezza sanitaria, presso il locale ospedale Santissima Immacolata, purché non venga toccato il reparto di Psichiatria e il nuovo servizio trovi posto al secondo piano della struttura sanitaria". La posizione dell'ex consigliere regionale Franco Caramanico, in merito al preannunciato arrivo della Rems al nosocomio guardiese, rappresenta senz'altro una voce fuori dal coro, dopo il secco no espresso sia dalla lista di centrosinistra "Il bene in comune" che dall'amministrazione comunale di centrodestra, guidata dal sindaco Sandro Salvi. L'esponente del Sel, in una lettera inviata al commissario regionale alla sanità, Luciano D'Alfonso e all'assessore Silvio Paolucci, evidenzia che lo spostamento del reparto di Psichiatria dall'ospedale guardiese a quello di Ortona causerebbe molteplici danni, compromettendo il futuro del locale ospedale che verrebbe privato di un importante reparto di eccellenza. "L'assessore Paolucci", sostiene Caramanico, "dovrebbe ricordare che queste problematiche sono state inizialmente affrontare nell'incontro dello scorso 20 ottobre , quando si è deciso di sospendere i lavori da realizzare presso l'ospedale di Ortona e di accorpare nell'ospedale guardiese, sia i detenuti psichiatrici e sia i pazienti già presenti nei reparti di Psichiatria e di Riabilitazione psichiatrica". Caramanico ricorda quindi che, in un secondo incontro, svoltosi lo scorso novembre nella sede dell'assessorato regionale alla sanità, si decise di sentire anche il parere del primario del reparto di Psichiatria, Massimo Di Giannantonio, prima di prendere decisioni definitive. "Quest'ultimo", ricorda Caramanico, "riconoscendo la fondatezza delle obiezioni sollevate da me, suggerì di organizzare un ulteriore incontro che, nonostante le mie continue sollecitazioni, non fu però mai convocato". Caramanico, nella speranza di aver fornito utili elementi per assicurare una programmazione efficace e condivisa, che garantisca anche un futuro al nosocomio guardiese, nella lettera ribadisce la richiesta di bloccare lo spostamento del reparto di Psichiatria e di destinare gli spazi inutilizzati dell'ospedale, al secondo piano della struttura, al ricovero dei detenuti psichiatrici. L'esponente del Sel, ricorda infine, che per l'ospedale di Guardiagrele è necessario dare attuazione a quanto previsto dal piano sanitario regionale e dal piano di riorganizzazione della rete ospedaliera, valorizzando la sua vocazione di ospedale medico geriatrico e psichiatrico e potenziando la sua pianta organica e i suoi posti letto. "Alla luce di quanto esposto", conclude Caramanico, "è necessario assicurare un confronto chiaro, sereno e costruttivo su questi argomenti che porto avanti con determinazione e senso di responsabilità ormai da oltre vent'anni". Savona: Sappe: alla scuola agenti di Cairo Montenotte l'università delle Forze di Polizia Secolo XIX, 9 febbraio 2015 Un polo interforze all'interno della Scuola di Polizia Penitenziaria di Cairo Montenotte. Un'idea che, a onor del vero, era già stata proposta in passato, scontrandosi, però, contro il parere negativo dei vari Ministeri competenti. Ma che questa volta potrebbe avere una valenza maggiore, visto che arriva dal segretario regionale del Sappe. Spiega, Michele Lorenzo del Sappe: "L'ottica dovrebbe rimanere quella della formazione: una sorta di "Università delle Forze dell'Ordine" all'interno della Scuola cairese. Già ora ospitiamo colleghi di altri Corpi, così come la nostra struttura, dal poligono alle aule, alla mensa, viene utilizzata da altri Corpi per specifiche attività. Si potrebbe mettere a regime questa vocazione". Anche perché, continua Lorenzo, "attualmente nella Scuola si sta svolgendo il corso per centoventi allievi e l'organico in servizio, composto da trenta unità anziché i cinquanta del passato, per ora consente lo svolgimento del corso, ma a causa della spending review non abbiamo certezze sul futuro, nonostante le potenzialità della struttura". Potenzialità che potrebbero consentire addirittura di utilizzare la Scuola come un Polo Interforze a tutti gli effetti, viste anche la necessità, per i carabinieri, di avere una nuova caserma per il Comando Compagnia; nonché la situazione della Guardia di Finanza, ora "in affitto" in un appartamento a Cairo Due. Commenta, Lorenzo: "Si possono valutare soluzioni per convivenze con altri Corpi. Però, per farlo, ci devono essere progetti, proposte concrete. E finora non ce ne sono state se non quella di un eventuale carcere che, però, si è dimostrato irrealizzabile". Nuovo carcere di cui, però, Savona ha necessità, considerate le condizioni del Sant'Agostino: "È fuor di dubbio che serva un nuovo carcere. L'ipotesi di realizzarlo nella Scuola, oltre ad essere tecnicamente difficile, non risolverebbe il problema visto che serve un carcere in grado di ospitare duecento detenuti, non un doppione del Sant'Agostino. La Val Bormida ha le aree per poterlo ospitare in modo adeguato". Mentre la scuola agenti, nella idea del Sappe, potrebbe appunto diventare un'Università delle forze dell'ordine. Taranto: ping-pong, quadrangolare fra detenuti, magistrati, avvocati, polizia penitenziaria Quotidiano di Puglia, 9 febbraio 2015 Quadrangolare fra detenuti, magistrati, avvocati e polizia penitenziaria. Il torneo di tennis tavolo è un pretesto, lo scopo è provare a compiere percorsi rieducativi passando attraverso step culturali e sportivi. Così un'altra iniziativa promossa dalla Casa circondariale di Taranto diretta da Stefania Baldassari, è andata daccapo in rete. Con la collaborazione di magistrati, avvocati, poliziotti penitenziari e, naturalmente detenuti, quindici in tutto, in squadre miste per il "doppio", e l'ospitalità del Circolo Tennis Taranto del quale è presidente Francesco Marzo. A sostegno dell'iniziativa, non poteva mancare l'assistenza del Coni, presieduto da Giuseppe Graniglia, e del Comune di Taranto del quale si è fatto portavoce Francesco Cosa, assessore allo Sport. La cerimonia di premiazione di vincitori e vinti, con targhe e foto-ricordo per tutti, è stata presieduta dal procuratore capo Franco Sebastio. Un torneo di tennis tavolo, dunque, con uno scopo sociale. Organizzato lì, dove di solito s'incrociano racchette più grandi e robuste su rettangoli di gioco in terra rossa. A poca distanza da via Magli, sede della Casa circondariale dove in questi ultimi anni numerose sono state le iniziative all'interno e all'esterno del penitenziario. Fra le tante, l'ultima, "Storie di dentro, dentro le storie". E poi, "Fuorigioco", un vero fiore all'occhiello della direttrice Baldassari. Un quadrangolare di calcio giocato allo stadio Iacovone fra detenuti, polizia penitenziaria, magistrati e avvocati, e giunto alla seconda edizione. Ed è proprio a questa esperienza che si sono ispirati gli organizzatori. Ci sono dei vincitori, naturalmente. Dovrebbe essere un dettaglio, ma chi ha stretto il trofeo principale a fine torneo, non voleva ci fossero errori. Dopo una serie di sfide, quella più avvincente è stata la finale, che ha goduto di un tifo da stadio. Silenzio durante gli scambi, applausi in occasione di ogni punto. Ha vinto il doppio formato dal detenuto Hazizaj Abresh, e dal dottor Massimo De Michele del Tribunale penale. Hanno avuto ragione all'ultima "schiacciata" sulla coppia formata dal detenuto Emanuele Soliberto e dall'avvocato Davide Maggiore. Fra gli altri partecipanti, il pm Raffaele Graziano, il gip Martino Rosati e Alessandro de Tomasi del Tribunale penale. Non ci stanno a perdere. Soprattutto Rosati, più ragionatore su un rettangolo di calcio: sufficienza stiracchiata, impegno: dieci. La media meriterebbe un podio, ma il tavolo dice De Michele-Abresh. Alla manifestazione hanno partecipato in qualità di coach, campioni più volte balzati nelle cronache sportive nazionali, i tarantini Lino Catapano e Francesco Marangio. Visita a sorpresa nel corso del quadrangolare. Una rappresentanza di parlamentari radicali, formata da Marco Perduca, Nicola Maialetti e Michele Macelletti, impegnata nel giro fra le carceri italiane, ha incontrato il direttore Stefania Baldassari. È stata l'occasione per complimentarsi con la responsabile della struttura penitenziaria di via Magli per l'iniziativa e la serie di attività sportive e di spessore culturale promosse all'interno e all'esterno della Casa circondariale tarantina. Filippine: caso Bosio, lettera aperta al Ministro Gentiloni dal "Comitato Internazionale" www.liberoreporter.it, 9 febbraio 2015 Il Comitato Internazionale di sostegno a Daniele Bosio chiede al Ministro Gentiloni di occuparsi del caso Bosio, mostrando che lo Stato non abbandona un cittadino italiano, trattenuto nelle Filippine da quasi un anno e ancora in attesa di un processo. Daniele Bosio è stato arrestato nell'aprile 2014 sulla base di sospetti, per aver violato una legge filippina raramente applicata che vieta a qualsiasi adulto di trovarsi in compagnia di un minore senza un legame di parentela fino al quarto grado. Le testimonianze dei bambini delle baraccopoli con cui si trovava Daniele, che raccontano come dopo averli sfamati e rivestiti abbia offerto loro un pomeriggio in un parco acquatico, sono pubbliche e rivelano che Daniele ha mostrato nei loro confronti, massimo rispetto. Daniele Bosio si trova dunque da quasi un anno "sequestrato" nelle Filippine dopo aver subito una carcerazione preventiva e passato 40 giorni in una cella di 30 mq con altri 80 detenuti in condizioni che gli hanno causato gravi problemi di salute. Egli si trova senza stipendio e neppure un documento d'identità (il passaporto gli è stato sequestrato dalle autorità filippine) ed è ancora in attesa dell'inizio del processo malgrado la libertà su cauzione gli sia già stata accordata sulla base dell'assenza di prove determinanti di colpevolezza. Chi è Daniele Bosio? Daniele Bosio, è un diplomatico italiano, ex ambasciatore dell'Italia in Turkmenistan; nato a Taranto nel 1968 è entrato nella carriera diplomatica nel 1995. È stato arrestato a Manila con l'accusa di aver violato la legge sui minori nell'aprile del 2014. Come la stessa stampa italiana ha riportato, il processo langue e l'accusa - complice la scarsa efficacia del sistema giudiziario locale - ha assunto una strategia dilatoria. Il caso tende dunque a complicarsi ogni giorno di più e urgono interventi decisi da parte del governo italiano. A chiedere un cambio di atteggiamento da parte dell'Italia, anche l'ambasciatore Sergio Romano, che non ha dubbi: "Siamo stati accanto ai due marò quando il governo indiano li ha accusati di omicidio e ci siamo attenuti al principio della presunzione di innocenza. Credo che dovremmo dare prova di coerenza e fare altrettanto nel caso di Daniele Bosio". Testimonianze da tutto il mondo sono giunte al Comitato, una selezione è disponibile sulla pagina FB "Page for Daniele Bosio". Il Comitato confida in un riscontro rapido ed effettivo da parte delle autorità competenti. Il Comitato conta più di 1.300 persone tra cui autorevoli membri di entità governative e non governative che sostengono l'innocenza di Daniele Bosio. Spagna: carceri, cibo e affettività, progetto di "Taste of Freedom" dall'Italia alle Canarie di Laurita Lauretas www.blastingnews.com, 9 febbraio 2015 Carceri, cibo, affettività e integrazione: nuova tappa alle Canarie per la delegazione italiana impegnata nel progetto Taste of Freedom, promosso nell'ambito del Programma di apprendimento permanente dell'Ue (azione Grundtvig). Si è svolto questa settimana Las Palmas, nell'isola di Gran Canaria, il nuovo meeting dell'iniziativa che coinvolge cinque Paesi. I partner dell'Italia - che ha proposto il progetto attraverso la condotta Slow Food di Massa Marittima rappresentata da Fausto Costagli - sono la Spagna, la Turchia, la Lituania e il Portogallo. Il gruppo di coordinamento, a distanza di un anno dal primo incontro in Portogallo e a sei mesi dal convegno conclusivo del progetto che si terrà in Italia a Massa Marittima il 31 maggio 2015, si è riunito a Las Palmas, dove ha anche visitato il carcere, per fare una valutazione quantitativa e qualitativa sulle attività realizzate e di quelle in corso, quindi per migliorare la qualità del progetto mettendone in evidenza punti di forza e quelli di debolezza. A partecipare agli incontri tra il 3 e il 7 febbraio a Las Palmas, tra gli altri, la coordinatrice europea del progetto Manuela Sebeglia, il rappresentante del Centro territoriale per l'educazione degli adulti delle Colline Metallifere Diego Accardo; il funzionario dell'area pedagogica nel carcere di Porto Azzurro Barbara Radice; il funzionario di servizio sociale dell'ufficio esecuzione penale esterna di Siena e Grosseto e rappresentante il carcere di Massa Marittima Lucia Vespertino; il rappresentante della cooperativa sociale "Beniamino" Pietro Tatti, il responsabile della condotta Slow Food dell'Isola d'Elba Carlo Eugeni. L'obiettivo di Taste of Freedom è quello di promuovere nuove proposte educative negli istituti penitenziari mediante l'acquisizione di nuove conoscenze e competenze legate al cibo e al mangiare sano e alla sperimentazione di buone pratiche realizzando così nuove opportunità di integrazione per persone ad altro rischio di esclusione sociale quali sono i cittadini detenuti nelle carceri. Gli istituti penitenziari coinvolti sono quelli di Massa Marittima e Porto Azzurro (Italia); Panevezys (Lituania); Sintra (Portogallo); Las Palmas (Spagna); Ayas/Ankara (Turchia). Gli obiettivi specifici sono: educare a una sana alimentazione; promuovere la conoscenza di metodi di produzione e prodotti tipici locali; scoprire e apprezzare la propria cultura e quella degli altri paesi attraverso il cibo; diffondere l'idea di un consumo equo e sostenibile; educare alla cittadinanza attiva; scoprire e far emergere la creatività nei detenuti attraverso attività collegate al cibo e alle tradizioni locali; promuovere una collaborazione attiva tre persone di paesi diversi; contribuire a rendere le carceri realtà più vicine alla società promuovendo nuove politiche per l'integrazione degli ex detenuti. Tra le attività realizzate varie interviste e incontri con persone del luogo; scrittura creativa di ricette di cucina legate al proprio paese e alla propria cultura; creazione di un logo del progetto; realizzazione di un cook book (30 ricette, 5 da ogni paese partner, cartaceo e online come esempio di cittadinanza attiva e europea); realizzazioni di manufatti in ceramica, vetro e legno. Tibet: sono 2.110 i prigionieri politici, per i dissidenti situazione peggiorata nel 2014 Ansa, 9 febbraio 2015 La situazione dei diritti umani in Tibet si è deteriorata nel 2014, nonostante le promesse di riforme formulate dal governo cinese. È quanto emerge da un rapporto presentato a Dharamsala (India settentrionale) dal Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia (Tchrd). Nell'introduzione al documento di 206 pagine si legge che "lo scorso anno un crescente numero di tibetani è morto per maltrattamenti, pestaggi e torture ricevuti in carcere dove ai detenuti non vengono assicurate le necessarie cure mediche". Accanto a questo fenomeno, si dice ancora, sono stati segnalati in Tibet casi di punizioni collettive e di restrizioni imposte al diritto di libertà di assemblea e di associazione. In una conferenza stampa il direttore esecutivo del Tchrd ha sottolineato i gravi e sistematici problemi riscontrati in Tibet nei settori dell'assistenza sanitaria e dell'istruzione. "Al riguardo - ha insistito - nel rapporto vengono fatte emergere inquietanti tendenze nei dati del censimento ufficiale in Tibet di una diminuzione sia dell'assistenza sanitaria sia dell'istruzione per i tibetani". Nel 2014, ha infine detto, la base di dati dei prigionieri politici è stata "sostanzialmente migliorata" e uno speciale team del Tchrd "ha trasformato questa in una delle basi di dati sui prigionieri politici tibetani più esauriente del mondo". Essa include infatti informazioni da varie fonti su 2.110 prigionieri politici noti, di cui fanno parte i 137 tibetani che sono stati arrestati o condannati nel 2014. Arabia Saudita: attivisti marocchini chiedono liberazione detenuti per reati di opinione Nova, 9 febbraio 2015 La Coalizione delle associazioni marocchine per i diritti umani, che riunisce 22 associazioni e osservatori del paese nord africano, ha avanzato una richiesta formale alle autorità dell'Arabia Saudita, paese alleato del Marocco, affinché liberi i detenuti arrestati per reati di opinione nel suo paese. In particolare si chiede lo stop dell'esecuzione della condanna alla fustigazione del blogger Raif Badaoui. Il gruppo di Ong ha consegnato una lettera all'ambasciatore saudita a Rabat, per condannare l'aggressione subita da Badaoui il 9 gennaio scorso, per il suo attivismo e per aver creato un sito internet liberale saudita.