Giustizia: "riforma Gratteri", 30 anni di carcere per i mafiosi e bavaglio su intercettazioni di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 8 febbraio 2015 Ecco il testo che il capo del pool anticriminalità Gratteri ha consegnato a Palazzo Chigi. L'ipotesi di un decreto. Carcere fino a 30 anni per i capimafia, confisca obbligatoria dei patrimoni, processi più snelli, una nuova agenzia nazionale per la gestione dei beni sottratti alle mafie guidata da un manager e intercettazioni anche all'estero. E ancora: la riforma della polizia penitenziaria, l'inasprimento delle pene per i reati ambientali e la possibilità di utilizzare agenti dei servizi per infiltrare le cosche. È questo il cuore della relazione di 266 pagine che Nicola Gratteri, coordinatore del gruppo di lavoro per la riforma delle norme contro la criminalità organizzata, ha consegnato al Governo. Un testo che l'esecutivo è pronto a trasformare in un disegno di legge o addirittura in un decreto. Il documento, depositato all'Ufficio legislativo di Palazzo Chigi e consegnata al sottosegretario Graziano Delrio, ogni tema viene affrontato con alcune pagine di spiegazione generale a cui seguono delle vere e proprie schede operative divise in due parti. Si parte con l'inasprimento delle pene per i reati previsti dal 416 bis che saranno superiori o equiparate a quelle previste per i narcotrafficanti, arrivando a punire chi dirige un clan, dunque i boss, con pene che vanno fino a 30 anni di reclusione. Aumentata anche la pena minima per gli affiliati semplici da punire con "non meno di 12 anni". La nuova norma prevede inoltre la confisca "obbligatoria" dei patrimoni frutto del malaffare, da estendere anche ad eventuali complici e soci. Novità anche sul fronte delle intercettazioni - che potranno essere fatte anche all'estero - e della polizia giudiziaria. In questo senso è previsto, oltre a una più stretta collaborazione con i servizi segreti, l'utilizzo di uomini delle forze dell'ordine da infiltrare nelle cosche con modalità operative nuove (c'è ad esempio la possibilità di portare armi con matricola abrasa). Sul fronte dei processi, poi, sarà prevista l'uso delle videoconferenze: una novità che farà risparmiare circa 70 milioni l'anno, attualmente spesi per gli trasferimenti dei detenuti. Per snellire i processi la commissione prevede che, ad esempio, le eccezioni preliminari (che di solito occupano due o tre udienze) debbano essere presentate dalle difese una settimana prima della prima udienza in maniera tale da essere valutate per tempo da pm e giudici in anticipo rispetto all'inizio del procedimento. Niente più carte per i difensori che potranno ritirare tutti gli atti del processo digitalizzati direttamente nelle cancellerie delle procure. La polizia penitenziaria, sgravata di alcune incombenze, avrà compiti nuovi. Dovrà infatti dotarsi di un ufficio scorte per la sicurezza dei palazzi a rischio (tribunali, procure, ecc.) e sarà chiamata ad occuparsi in via esclusiva di pentiti e collaboratori di giustizia. Sarà riformata anche l'Agenzia dei beni sequestrati e confiscati alle mafie che attualmente si trova a Reggio Calabria. Avrà una sede unica a Roma. Sarà guidata da un manager e dotata di personale selezionato con bandi e concorsi pubblici. Altro settore rivoluzionato sarà quello dei crimini contro l'ambiente, che saranno considerati tutti reati penali puniti con il carcere. Novità anche sulle intercettazioni. La nuova norma mette sullo stesso piano le intercettazioni svolte per i reati ordinari e quelle per i reati di mafia prolungandone i decreti da 20 a 40 giorni. Ci sarà poi una stretta per la pubblicazione delle intercettazioni. Non sarà più possibile pubblicare quelle che non siano "strettamente legate al capo d'imputazione". Secondo gli estensori della proposta deve esserci un argine tra ciò che appartiene alla vita privata delle persone indagate e quello che è invece collegato al reato e quindi di interesse pubblico. Giustizia: Marco Pannella va dal neo-Presidente Mattarella "servono carceri più civili" La Repubblica, 8 febbraio 2015 Il primo dei politici ad essere ricevuto al Quirinale dal nuovo presidente della Repubblica è stato Marco Pannella. Sergio Mattarella ha dato udienza al leader radicale, che gli aveva chiesto formalmente un incontro nei giorni scorsi, ascoltando le richieste che sui temi della giustizia e delle carceri gli sono state avanzate. Pannella ha anche girato un video prima di entrare nello studio del presidente, trasmesso poi dalla tv dei radicali, e salutato Mattarella con un caloroso "Ciao Sergio". Nei prossimi giorni, il capo dello Stato ha in agenda diversi incontri, a cominciare da un importante colloquio sulla situazione economica del paese: vedrà infatti il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco. Al Quirinale è poi atteso, nell'ambito del giro d'orizzonte con gli esponenti del governo, il ministro della Difesa Pinotti. Il nuovo capo dello Stato sta anche completando la fase di presa di contatto con la "macchina" del Colle, e sta lavorando alla formazione del suo staff. Le nuove nomine di alcuni del suoi consiglieri sono attese entro la fine della prossima settimana, mentre il capo dello Stato sta ancora valutando le soluzioni per il delicato ruolo di segretario generale. Fra le diverse ipotesi (restano in corsa i nomi di Alessandro Pajno e Ugo Zampetti) anche quella di una proroga per qualche tempo dell'attuale segretario Donato Marra. Mattarella ieri ha anche inviato il suo primo messaggio nelle vesti di capo dello Stato alla cerimonia per l'Expo che si è svolta a Milano. "Serve un nuovo modello di sviluppo contro l'inaccettabile aumento delle diseguaglianze tra paesi ricchi e popolazioni povere, in costante lotta per sopravvivere alla denutrizione". Si tratta di "una sfida globale", che interessa l'intero pianeta e che richiede "scelte politiche e azioni condivise" per la gestione sostenibile delle risorse troppo spesso messe a rischio da "comportamenti egoistici ed irresponsabili". Giustizia: Orlando; 9mila assunzioni per i tribunali? non ci sono risorse, mobilità interna di Francesca Brunati Ansa, 8 febbraio 2015 Utilizzare la mobilità interna alla Pubblica Amministrazione, per risolvere l'annosa questione della carenza di personale per far funzionare la macchina della giustizia italiana. Mancano i fondi per assumere 9 mila persone ed allora il percorso per tamponare le situazioni più critiche è ricorrere alla mobilità interna alla Pubblica amministrazione non senza mugugni e proteste. Lo ha ribadito questa mattina il ministro Andrea Orlando nel corso dell'inaugurazione dell'Ufficio Relazioni con il Pubblico del Palazzo di Giustizia di Milano, alla presenza dei vertici della magistratura e dell'avvocatura, tra cui il presidente del Tribunale Livia Pomodoro e il Presidente della Corte d'Appello Giovanni Canzio. Cerimonia nella quale ha spiegato che "per la prima volta il Ministero gestirà fondi europei che saranno destinati all'innovazione", all'apertura sportelli per il pubblico e per il processo telematico. Prima di tagliare il nastro nel grande atrio dove sorgono i 16 sportelli dedicati a chi non sa come districarsi nei meandri del ‘palazzacciò, Orlando, davanti a telecamere e taccuini, ha risposto ad alcune domande. Sul ddl anticorruzione, presto pronto per l'aula del Senato, ha spiegato che né il discorso del neo Presidente della Repubblica Sergio Mattarella né la rottura del patto del Nazareno sono stati determinanti per l'accordo trovato nella maggioranza. "Dobbiamo dire grazie al calendario. Escluderei connessioni con il quadro politico generale: abbiamo fatto una riunione già prevista - ha precisato - perché c'era il problema di coordinare testi presenti in Parlamento, i testi del governo, alcune valutazioni su diverse norme. Era un passaggio che avevamo previsto da tempo e che abbiamo reso pubblico quando ha avuto buon esito". Quanto al nodo carceri ha ripetuto: "non è all'orizzonte alcun provvedimento di clemenza". Si va avanti "sulla linea che abbiamo definito cioè sviluppo pene alternative e interventi sui percorsi trattamentali interni" agli istituti di pena. E poi sul tema si terranno "gli stati generali in aprile e potenzieremo l'esecuzione penale esterna". Ritornando alla carenza cronica di organico Orlando ha ribadito che il problema "non si risolve solo con i lavoratori dall'esterno". E poiché non ci sono "le risorse per fare concorsi e assumere 9 mila persone dobbiamo utilizzare la mobilità all'interno della Pubblica amministrazione". "Questo è un punto fisso - ha sottolineato - dopodiché sappiamo che ciò si può fare se abbiamo un percorso di riqualificazione per il personale che opera nel servizio giustizia". Cosa che "avverrà naturalmente con le compatibilità di bilancio e inizierà a realizzarsi già dal 2015". E proprio la richiesta di riqualificazione campeggiava a caratteri cubitali su uno striscione esposto dai un gruppo di rappresentanti del personale amministrativo - in particolare alcune cancelliere che con il loro lavoro quotidiano e la loro professionalità mandano avanti gli uffici - che hanno accolto il Guardasigilli con un piccolo presidio. Richiesta messa anche per iscritto in una lettera che gli è stata consegnata in vista, appunto, della mobilità interna alla pubblica amministrazione e in sostanza del trasferimento dei dipendenti delle Province cancellate magari con qualifica superiore alla loro ma senza la formazione specifica per far funzionare la macchina della giustizia. Il Guardasigilli ha comunque rassicurato il personale accettando di incontrarlo a Roma e affermando pubblicamente che quest'anno "inizierà il percorso di riqualificazione" tanto atteso, che però per carenza di risorse "non sarà complessivo, ma andranno individuate le priorità". Nessun provvedimento di clemenza "Non c'è nessun provvedimento di clemenza svuota carceri". Lo ha assicurato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando (Pd), a margine dell'inaugurazione dell'Ufficio relazioni con il pubblico del Tribunale di Milano. "Continuiamo sulla linea che abbiamo definito - ha aggiunto - cioè sviluppo di pene alternative e interventi sui percorsi trattamentali interni al carcere. Ad aprile faremo gli stati generali su questo tema e potenzieremo l'esecuzione penale esterna". Giustizia, Sabelli (Anm); uscire da visione carcero-centrica, prescrizione gioca ruolo centrale Askanews, 8 febbraio 2015 "La prescrizione gioca un ruolo centrale nella costruzione del sistema penale che noi vogliamo realizzare, tuttavia, per come se ne discute, spesso rivela la sua ambiguità come istituto chiamato alla fine a svolgere un ruolo di carattere processuale, un rimedio alle disfunzioni del processo". L'ha detto il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli, intervenendo a Palermo alla seconda giornata dell'inaugurazione dell'anno giudiziario degli avvocati penalisti. Sabelli ha citato delle rilevazioni statistiche in base alle quali "Oltre il 70% delle prescrizioni si determina nella fase delle indagini preliminari". "La prescrizione del reato non è un diritto dell'imputato che identifica momenti di patologia del sistema - ha aggiunto Sabelli. Le inefficienze del processo andrebbero affrontate intervenendo sui meccanismi del processo e non affidandosi alla prescrizione che in sé non può essere mai un rimedio". "Bisognerebbe finalmente uscire da visione carcero-centrica che vede nella detenzione la sanzione privilegiata del sistema - ha concluso il presidente dell'Anm. Le sanzioni patrimoniali e interdittive possono essere soluzioni assai efficaci in molti casi". Costa: 23mila casi di ingiusta detenzione dal 1991, risarcimenti per 600 mln di euro "Dal 1991 ci sono stati 23mila casi di ingiusta detenzione con 600 milioni di euro di risarcimenti liquidati dallo Stato". A dirlo a Palermo è stato il viceministro della Giustizia, Enrico Costa, durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario dell'Unione delle Camere penali. "Il pianeta carcere è un settore e un segmento fondamentale - ha aggiunto - Dovremmo, ogni volta che poniamo in essere una correzione del codice penale e di procedura penale, pensare agli effetti sul sistema carceri. Forse questa sensibilità è mancata in passato, ma è giunta a questo governo con diversi richiami". Giustizia: un Dpcm che ha ridisegnato il Dap, sarà più snello e più efficiente www.polpen.it, 8 febbraio 2015 Verranno soppressi diversi uffici dirigenziali, cominciando da due Direzioni Generali per finire ad alcuni Provveditorati: in effetti erano davvero troppi 16 Provveditorati regionali, tenuto conto del livello di dirigenza amministrativa generale. Ne resteranno 11 con accorpamenti che riguardano Lazio-Umbria-Molise, Toscana-Umbria, Puglia-Basilicata, Emilia-Marche, Piemonte-Liguria-Val d'Aosta, Veneto-Friuli Venezia Giulia-Trentino Alto Adige. Il Dap avrà un Capo, un Vice Capo, una Direzione generale del Personale e delle Risorse, una Direzione generale della Formazione e una Direzione generale dei detenuti e del trattamento. Perde due Direzione generali: l'Esecuzione penale e Beni e Servizi. I dirigenti amministrativi penitenziari, di livello generale e di istituto penitenziario, saranno poco più di trecento. Del resto molte delle funzioni ingiustificatamente svolte dalla dirigenza amministrativa penitenziaria sono di competenza della classe dirigente della Polizia Penitenziaria, che dovrà riappropriarsene. Trecento dirigenti amministrativi penitenziari risultano anche in esubero se si considera che gli istituti penitenziari, per dirigere i quali sono stati assunti, sono poco più che duecento. È ora che di concorsi, personale, formazione, cerimoniale, disciplina, attività ispettiva, servizi operativi ed altro se ne occupi il personale della professionalità della Polizia Penitenziaria, inquadrato nei Ruoli Direttivi e degli Ispettori, che secondo molti oggi è svilito dalla gestione amministrativa della dirigenza del Comparto ministeri che pretende di monopolizzare la gestione di un Corpo di Polizia dello Stato di cui non fa parte. Rimane sempre il nodo però che vede la Polizia Penitenziaria in attesa di unificarsi alla Polizia di Stato, destino già previsti per il Corpo Forestale dello Stato. Giustizia: Orlando presenta iniziative con le quali il Ministero sarà presente a Expo 2015 www.giustizia.it, 8 febbraio 2015 Il Guardasigilli Andrea Orlando ha presentato ieri a Milano le iniziative con le quali il Ministero della Giustizia sarà presente all'Esposizione Universale che si aprirà il prossimo primo maggio. Il Ministero della Giustizia sarà presente al grande evento di Milano con progetti che seguiranno due filoni tematici. Su materie più legate al tema di Expo2015 saranno presentati progetti specifici nati in carcere sul settore alimentare, nell'ambito di una più generale prospettiva che, dopo aver superato la fase più drammatica dell'emergenza sovraffollamento carcerario, vede l'Italia impegnata a sviluppare una nuova prospettiva della detenzione, anche e soprattutto valorizzando la funzione del lavoro. Nello stesso tempo il ministero vuole presentare ad una vetrina planetaria così importante le innovazioni normative e organizzative finalizzate a restituire alla nostra giustizia - in particolare quella civile - velocità e certezza, volani indispensabili per tornare ad attrarre investimenti e favorire una ritrovata crescita economica. Progetti dal carcere: cento detenuti al lavoro Inclusione sociale, diminuzione della recidiva, scambio di conoscenze, impegno partecipativo: sono queste le parole chiave della partecipazione del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria a Expo 2015. Curato dal provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria della Lombardia e finanziato da Expo 2015, il progetto "Inclusione socio lavorativa", approvato e co-finanziato da Cassa delle Ammende, punta sul lavoro penitenziario come strumento più efficace per ridurre la recidività offrendo ai detenuti un'esperienza lavorativa eccezionale che possa essere utile ad un nuovo progetto di vita sui binari della legalità. Saranno circa un centinaio le persone in esecuzione penale che saranno dunque attivamente coinvolte nell'organizzazione logistica di Expo in servizi di facchinaggio, assistenza al personale ma anche accoglienza e supporto informativo. I cento detenuti saranno così suddivisi: 35 persone provenienti dalla Casa di Reclusione di Opera; 35 persone provenienti dalla Casa di Reclusione di Milano Bollate;10 persone dalla Casa Circondariale di Monza; 20 persone provenienti dagli Uffici di Esecuzione Penale Esterna di Milano tra persone sottoposte all'Affidamento in Prova ai Servizi Sociali. Il reinserimento dei detenuti e le produzioni agro-alimentari Al tema del lavoro sarà dedicato anche il grande convegno che si terrà entro l'estate presso la Casa di Reclusione di Milano Bollate, attigua a Expo 2015 e quindi immediatamente raggiungibile, al quale saranno invitati i Commissari dei 146 Paesi partecipanti. L'obiettivo dell'iniziativa sarà quello di illustrare la strategia del ministero della Giustizia in tema di lavoro nelle carceri come elemento fondamentale per il reinserimento sociale nell'ambito del community sanctions (misure sanzionatorie - sanzioni, pene - che vengono scontate dall'autore del reato fuori dal carcere e che consentono di mantenere e ricostruire il legame con la società, nei confronti della quale viene offerta una prestazione lavorativa, anche in un'ottica riparativa). L'amministrazione promuoverà percorsi di scambio di conoscenze e tecniche con i Paesi partecipanti sulle modalità di trattamento in tema di lavoro penitenziario e inclusione sociale. L'istituto di Bollate costituisce un progetto pilota sul trattamento avanzato dei detenuti, fondato essenzialmente sulla responsabilizzazione delle persone detenute, offrendo loro una gamma di opportunità scolastiche, formative, culturali ma soprattutto lavorative finalizzate a favorire processi di cambiamento per una pena autenticamente orientata al cambiamento, verso un modello di vita orientato alla legalità, nell'ottica del miglioramento delle condizioni detentive in linea con le raccomandazioni della Corte europea dei diritti dell'uomo. Il convegno sarà inoltre l'occasione per valorizzare le più significative produzioni agro-alimentari nei penitenziari italiani. In linea con il tema portante di Expo l'occasione consentirà inoltre anche un confronto sul tema dell'alimentazione in ambito penitenziario, regolamentata nel nostro paese da specifiche tabelle predisposte e approvate dal Ministero della Salute, sulle abitudini alimentari dei detenuti, sulla cultura alimentare in un contesto che vede la presenza di numerose e diverse etnie. Le carceri milanesi per Expo Numerose sono le iniziative messe in campo dai due istituti penitenziari del territorio milanese. La casa circondariale di Milano "San Vittore" propone "libera scuola di cucina" nella sezione progetti per le donne di Expo 2015 che considera il valore del cibo anche come elemento privilegiato per il dialogo e la conciliazione; eventi didattici, comprese visite in istituto, per comprendere meglio l'azione di inclusione sociale a partire dal penitenziario; eventi nell'ambito di "Expo in città" per la conoscenza e degustazione di cibi con forte impronta etnica da parte dei cuochi coinvolti nel progetto Libera scuola di Cucina. Ancora a Bollate ci sono invece in programma Visite guidate multilingue all'interno del carcere, sfruttando la particolare vicinanza a Expo; "Mercatini con aperitivo" per mostrare le potenzialità delle produzioni penitenziarie; un calendario "Eventi e concerti" per sensibilizzare la collettività e l'utenza di Expo ai temi dell'inclusione sociale attraverso discussioni; infine "percorsi artisti e mostre" per mostrare le capacità artistiche generate durante progetti trattamentali. La riforma della giustizia, una sfida per il Paese L'Auditorium del Padiglione Italia ospiterà a maggio una grande iniziativa di presentazione delle innovazioni in materia di giustizia, sia sul fronte organizzativo che su quello normativo, al fine di rendere il processo più celere e abbattere l'arretrato, e di raggiungere a breve la piena informatizzazione. Sarà l'occasione anche di presentare sul palcoscenico dell'Esposizione Universale i risultati dell'informatizzazione del processo civile, una delle esperienze più avanzate a livello internazionale che sta dando risultati importanti sia per il servizio offerto sia per il risparmio di tempi e costi. È una sfida che il ministero vuole presentare al mondo utilizzando il palcoscenico più prestigioso del Paese e che mira a tornare ad attrarre investimenti stranieri grazie ad una riforma che ha l'obiettivo di dotare l'Italia di uno strumento decisivo ai fini di crescita, competitività ed efficienza. "La riforma del sistema della giustizia civile - ha detto recentemente durante la sua visita a Roma il vice presidente della Commissione europea Katainen - è l'esempio perfetto di una riforma che avrà certamente un impatto positivo nel creare un ambiente più favorevole all'impresa e che attirerà investimenti sostenibili". Giustizia: Ucpi; carriere magistrati separate, o tanto vale tornare al processo inquisitorio Il Garantista, 8 febbraio 2015 Palermo i penalisti si presentano con uno slogan: "Inauguriamo la Giustizia del futuro". Ma nel futuro non pare esserci la separazione delle carriere. Non nel futuro immediato. Le centinaia di avvocati e professori di Diritto penale accorsi nell'aula magna della Facoltà di Giurisprudenza per la prima giornata del convegno organizzato dall'Unione Camere penali registrano l'ennesimo no del governo sull'ipotesi di revisione dell'ordinamento. "Dubito che si possa procedere senza intervenire sulla Costituzione, e credo che le tensioni di queste ore dimostrino quanto sia difficile una riforma di questo tipo", dice senza molti giri di parole il guardasigilli Andrea Orlando. Non c'è spazio, dunque, eppure un'ampia parte del dibattito di questa "Inaugurazione dell'anno giudiziario dei penalisti" è dedicata proprio alla separazione del ruolo dei pm da quello della magistratura giudicante. Ed è interessante soprattutto lo scambio che avviene nel corso di una delle tavole rotonde organizzate nella giornata di ieri, a cui partecipano un decano delle Camere penali come Gaetano Pecorella e l'ordinario di Diritto penale dell'università Federico II di Napoli Vincenzo Maiello, che è nel direttivo del Centro studi Marongiu dell'Ucpi. A moderare una firma di primissimo piano del Corriere della Sera come Giovanni Bianconi. Al quale spetta il compito di raffreddare l'ardore degli altri due relatori, che in realtà insistono a invocare una riforma ordina mentale profonda anche quando, a metà pomeriggio, in prima fila si siede proprio il ministro della Giustizia. "Il giudice dovrebbe guardare il pm con lo steso occhio di sospetto che dovrebbe avere verso chi sostiene le tesi di una parte, non la giustizia in senso assoluto", ricorda Pecorella. "Se vogliamo un processo accusatorio, cioè un processo di parti, mettiamo un giudice che non abbia a che vedere né con il pm né con il difensore", continua il penalista ed ex parlamentare del centrodestra, "dico anzi di più: il pm che deve raccogliere le prove a favore dell'imputato è in realtà la negazione del processo accusatorio. Deve raccoglierle contro. Questo è l'accusatorio. Il pm deve essere un soggetto rispetto al quale il giudice è veramente terzo. E invece abbiamo a che fare con pm che dieci giorni prima sedevano a fare i giudici. O con pm famosi che poi ci ritroviamo in Cassazione". Il tenore della discussione è pacato, ma Pecorella lo infarcisce della sua sottile ironia milanese: "Nessuno di noi che facciamo i penalisti se la sentirebbe di fare il matrimonialista". Poi aggiunge: "Non separare le carriere comporta una perdita. Il pm che per motivi di carriera va a fare il giudice non ha la cultura del giudice, ha la cultura del pm. Ci sono tutti i motivi per arrivare alla separazione delle Carriere. La Costituzione chiede la parità delle parti e il processo ‘di partì. E allora perché mai non è stata fatto la separazione delle carriere, che sarebbe una riforma a costo zero?". Di fronte alla ritrosia su questo punto, sostiene l'ex difensore di Silvio Berlusconi, sarebbe più coerente "tornare al processo inquisitorio. Se vogliamo l'accusatorio, il pm deve diventare veramente parte e non essere invece intercambiabile nel tempo con il ruolo di giudice". Bianconi prova a portare la discussione al suo punto di caduta finale: a chi risponderebbe il pubblico ministero in un nuovo assetto ordina mentale che lo vedesse separato dai magistrati giudicanti? Ricorda, la firma di Giudiziaria del Corriere, come molti considerino rischioso uno sviluppo del genere: "È plausibile, accettabile che vada sotto l'esecutivo? Deve decidere da solo quali reati perseguire e quali no, o resta l'obbligatorietà dell'azione penale". Secondo Pecorella la questione non è in grado di scardinare l'idea che separare le carriere sia urgentissimo: "Potremmo ribaltare la domanda: a chi hanno risposto quei procuratori della Repubblica che hanno stilato graduatorie dei processi da fare prima o dopo? A nessuno. A chi risponde il pm che lascia sul tavolo per 3 o 4 anni un fascicolo e invece in poche settimane chiude un altro fascicolo: risponde a qualcuno? La separazione delle carriere non ha a che vedere con le scelte dei reati alla cui persecuzione dare priorità. Il tema di come regolare tali scelte è connesso con quello dell'obbligatorietà dell'azione penale. Oggi la Procura non risponde a nessuno, fa le stesse scelte che farebbe con le carriere separate". Prosegue Pecorella: "Il pm fa scelte sul piano della priorità, e sui mezzi da impiegare, e quindi sul clamore che ciascuna inchiesta deve arrivare a produrre: e questa è appunto politica giudiziaria". C'è il ministro Orlando in platea che ascolta silenzioso. Il decano dell'Unione Camere penali lo prende di petto: "Perché non si fa la separazione delle carriere? Non vorrei si rispondesse che è meglio avere un corpo della magistratura unico e forte e non due corpi separati. D'altronde non credo ci vorrebbe una riforma costituzionale. In proposito si dovrebbe anzi dare seguito all'articolo 111 della Carta, che prevede un giudice terzo, eppure il sistema ordinamentale prevede che giudice e pm siano intercambiabili". Bianconi chiede se in fondo non sia un vantaggio avere dei pubblici ministeri che condividano la stessa cultura del magistrato giudicante e che quindi ne possano immaginare la decisione. Gli risponde il professor Maiello: "Nessuno sostiene che svincolando l'organo inquirente dalla struttura ordinamentale dell'organo della decisione, si voglia creare dei soggetti incolti e non attrezzati. Figurarsi se immaginiamo un soggetto incaricato di sostenere l'accusa nel processo che non sia caratterizzato da standard elevati di cultura giuridica". Il vero nodo, sostiene il professore di Diritto penale dell'università di Napoli, è quello delle garanzie, e cioè dei "limiti all'esercizio del potere, pensati perché in loro assenza il detentore del potere potrebbe usarlo per obiettivi non funzionali agli scopi della giurisdizione. La prospettiva della separazione delle carriere non si accompagna al depotenziamento del pm, anzi. Dal punto di vista dell'accusa, un sistema diverso potrebbe consentire di individuare meglio quelle strategie processuali che consentirebbero di condurre l'azione penale fino al traguardo" a traguardo il processo". Maiello chiude il dibattito con un'analisi che individua l'aspetto più evidente dello squilibrio tra le parti del processo determinato dalla mancata separazione delle carriere: "Negli ultimi tempi, qualche pm impegnato in processi di risonanza, e personalmente schierato dal punto di vista politico, ha coltivato l'idea che un processo possa essere anche funzionale a ricostruire un fatto storico, più che ad arrivare a una condanna. Se il pm pensa di mettere in piedi un processo anche se sa che la prospettiva della condanna non c'è, e lo mette dunque in piedi per far capire come sono andate le cose in un certo settore della vita pubblica, siamo di fronte a uno sbandamento della giurisdizione". Evidentemente favorito dalla commistione tra ruoli inquirenti e giudicanti. Ma neppure questo basterà a spingere l'attuale Parlamento a rivoluzionare la giustizia. Giustizia: Cuffaro "sono contento per Mattarella al Quirinale, ma alla grazia dico no" Adnkronos, 8 febbraio 2015 "L'elezione del presidente Sergio Mattarella, persona semplice, proba e spontanea, ha suscitato molto apprezzamento tra i detenuti, anche in virtù del grande tributo che la sua famiglia ha pagato per la lotta alla mafia. Sono contento che un grande siciliano, un democratico cristiano, un cattolico, un fine giurista, una persona buona e per bene sia stata prescelta a rappresentare tutti gli italiani". Queste le parole dell'ex presidente della Regione Siciliana Salvatore Cuffaro, in carcere per scontare una pena a sette anni per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra, sull'elezione del nuovo Capo dello Stato. Le sue parole sono state affidate all'Adnkronos dal legale di Cuffaro, l'avvocato Maria Brucale. "Il mio è un giudizio assolutamente sincero e non può essere letto come una captatio benevolentiae perché, a scanso di equivoci, ribadisco che non accetterei mai il beneficio della grazia - dice ancora Cuffaro. Al presidente Mattarella, che so essere molto sensibile alle difficoltà e alle sofferenze delle persone, mi permetto sommessamente di chiedere di rivolgere la sua attenzione alle condizioni di vita in cui versano i detenuti nelle sovraffollate carceri italiane". Giustizia: Vallanzasca "fiore del male ormai appassito, mai ucciso per soldi, volevo bella vita" di Carlo Verdelli La Repubblica, 8 febbraio 2015 Una stanzetta per colloqui della Casa di Reclusione di Opera, freddo polare. Vallanzasca ha un giubbotto blu abbottonato fino al collo. Oggi ha 64 anni, di cui poco più di un terzo vissuti in libertà. Soltanto Raffaele Cutolo, il camorrista, ha passato più tempo di lui in prigione. Eppure in questi giorni l'ex bandito della Comasina avrebbe potuto essere lontano dalle sbarre, se lo scorso giugno un vigilante non lo avesse sorpreso all'uscita di un supermercato (un Esselunga, la stessa catena del primo colpo importante, nel 1972), con un paio di mutande e qualche attrezzo da giardinaggio che non aveva pagato. "Qualcuno mi ha incastrato, ma non ho capito perché", dice, "mentre io in passato mi sono preso anche colpe non mie". A Opera occupa una cella singola. I suoi compagni di prigione si chiamano Bernardo Provenzano, Mario Moretti e Fabrizio Corona. "Ho un'agenda fittissima", scherza, "qui mi reclamano. Del denaro non mene è mai importato niente. Una baita in montagna, champagne e bella compagnia, questo conta. Sembra poco?". "Dei soldi non me ne è mai fregato niente". Beh, pochissimo rispetto ai 41 anni di carcere che le sta costando il sogno. "Quarantacinque, prego. Io sono nato in matricola, come si dice tra gente di galera". Nella sua sterminata fedina penale ne risultano 41. "Ma va. A parte il minorile, che comunque sempre gabbio è, magari si sono dimenticati i due anni per una rapina a Lambrate nel 1969, o era il 1970, boh. Sì, sto un po' perdendo la memoria. Lei dov'era l'11 settembre? O quando abbiamo vinto il Mondiale del 1982? Ogni persona sa perfettamente cosa faceva in giorni così. Io no, forse ero in qualche braccetto speciale. I carceri non sono tutti uguali ma rendono tutto uguale". Una stanzetta per colloqui della casa di reclusione di Opera, freddo polare nonostante le finestre chiuse. Vallanzasca ha un giubbotto blu abbottonato fino al collo, mani lunghe e curate, capelli corti e radi, e uno Swatch nero con lancette arancioni. "Me l'ha portato la mia donna. Qui non si può tenere il Rolex, perché è di metallo. Sempre indossato Rolex, anche se il mio ciulava un minuto al giorno. Questo almeno non ruba". Lei invece pare non aver smesso: un furto in un supermercato, almeno così ha stabilito il giudice, le ha cambiato il pezzo di vita che le restava davanti. "Qualcuno mi ha incastrato. Sul processo, lasciamo perdere: tutto quello che ho chiesto, dalle impronte sulla merce al confronto con chi mi accusava, mi è stato negato. Nei mille tribunali dove sono stato, mi sono preso anche responsabilità non mie. Quali? Acqua passata. Ma stavolta, dai". Stavolta è obiettivamente diversa da tutte le altre. Oggi, o domani, sarebbe potuto essere il primo giorno di libertà di Vallanzasca Renato. La domanda di scarcerazione era pronta, il cancello della prigione semiaperto. Magari, per festeggiare, andava alla cooperativa dove lavorava a offrire uno sciampagnino. Possibile, no? Federica, la direttrice del centro per orti e giardini, non prova neanche a sorridere. "Basta che non scriva che stava qui. Quando i clienti scoprivano che da noi c'era il bandito Vallanzasca, si tiravano indietro". L'ex bandito Vallanzasca sta dentro da un secolo, sono passati vent'anni dall'ultima evasione, gli hanno pure rubato la bicicletta quando era in permesso. "Però un cognome così non si dimentica". La cooperativa di Federica riunisce persone con varie disabilità e detenuti in via di reinserimento. Tra loro, per un anno, c'è stato anche il signor Renato, regolare contratto tra gli 800 e i 1.100 euro al mese e pranzo gratis. "Aveva un bel modo, gentile coi ragazzi, tante operatrici ne erano affascinate. E lui ci giocava un po': gli piace troppo piacere. Il personaggio vince sulla persona, e questo lo fotterà sempre". L'Italia ha avuto tanti delinquenti. Ma pochi, o nessuno, come Renato Vallanzasca. E uno solo lo batte per durata della pena scontata: Raffaele Cutolo da Ottaviano. Un boss della criminalità organizzata contro un bandito da strada: 49 per l'imperatore di camorra contro i 41 (o 45) del ras della Comasina. Che però stava per sfilarsi dall'ingrato podio. Non fosse stato per due paia di mutande marca Sloggi, che lui assicura non metterebbe mai perché indossa solo boxer Versace, più altra minutaglia da giardinaggio, per un totale di 65,97 euro; non fosse stato per un giudice molto puntiglioso, che gli ha rifilato10 mesi per tentata rapina (2 in più di quelli richiesti dall'accusa); non fosse stato per le conseguenze (revoca della semilibertà e stop a ogni beneficio per almeno 3 anni), Renato Vallanzasca sperimenterebbe un'ebbrezza dimenticata: rivivere fuori. Non succederà, e moltissimi, non solo i parenti delle vittime che ha fatto, saranno sollevati. Quando Vallanzasca diventava Vallanzasca, Matteo Renzi aveva un anno, Berlusconi 40 e neanche una tv, il muro di Berlino sembrava infrangibile, la lira eterna e Nicola Di Bari vinceva Sanremo. La prima cosa incredibile è che, quarant'anni dopo, Vallanzasca è saldamente conficcato nella memoria di questo Paese e fa ancora notizia, basta che respiri o riporti la soffiata di un camorrista sulla morte di Pantani. La seconda è che il regno del balordo che prese Milano per la coda e con la sua banda la fece girare fu brevissimo: neanche sette mesi, il tempo di gestazione di un orso. Una settantina di rapine, 6 omicidi (tra cui 4 poliziotti, tutti in scontri a fuoco stile western), 4 sequestri di persona, più una guerra vinta col clan Turatello. Il tutto tra il 28 luglio 1976, prima fuga di Vallanzasca da un penitenziario, e il 15 febbraio 1977, arresto definitivo a Roma. Seguiranno tre evasioni in stile col personaggio, macabri regolamenti di conti dentro le mura, persino uno smargiasso matrimonio a Rebibbia come fosse Broccolino. Ma il più, a inizio 1977, è già alle spalle: all'epoca il "fiore del male", come l'ha colto nell'essenza Carlo Bonini nell'unico libro che il protagonista ha controfirmato, ha soltanto 26 anni e 10 mesi. Eppure le ferite che si lascia dietro non si rimarginano, come non sbiadisce la traccia delle sue spavalderie, lo sguardo beffardo e assassino, una specie di codice d'onore mai disonorato (nessun tradimento di compagni, una strafottenza per qualsiasi potere portata all'estremo). Solo una tardiva dichiarazione di resa, 1999, proprio nella prefazione del libro di Bonini: "La mia esistenza è un naufragio assoluto". Sessantaquattro, anzi 65 il prossimo 4 maggio, di cui solo una ventina vissuti fuori da una prigione, infanzia compresa. Il fiore del male è appassito, ma stava per uscire dalla serra in ferro che si era costruito con le proprie mani. Quattro ergastoli (più 295 anni), e lo lasciavano andare? Succede per diversi criminali lungodegenti: scontata una cospicua fetta di pena, si prova a ridargli un lembo di dignità. Qualcuno usa male la carta, come Izzo Angelo, il demonio del Circeo: 4 mesi dopo che era libero, omicidio di altre due donne. Il jolly toccava a Vallanzasca. Non c'è modo di verificare se l'avrebbe sprecato. "Lo Stato ha voluto infierire sul suo nemico, di fatto condannandolo a morte per due mutande", dice disperato, nel senso proprio di "senza speranza", Ermanno Gorpia, il suo ultimo e giovane avvocato. "Ma sì, ci appelleremo, se va bene fisseranno l'udienza tra due o tre anni, intanto non è che lui ringiovanisce". La vita, anche quella di Renato Vallanzasca, è fatta di coincidenze. Il primo arresto importante, nel 1972, fu per una rapina a una Esselunga, in viale Monte Rosa a Milano. Aveva 22 anni, e fu il vero inizio del suo romanzo criminale. L'ultima condanna, nel novembre scorso, è per lo stesso reato e sempre in una Esselunga di Milano, viale Umbria: neanche un anno di punizione supplementare, che però basta a catapultare l'ombra ingrigita di Vallanzasca alla casella di partenza. Primo effetto: il trasferimento da Bollate, dove ormai dimorava in una cella aperta e col Rolex al polso, a un istituto di tutt'altra pasta come Opera, 37° penitenziario sperimentato in carriera. Un altro record; come l'enormità dei 5 chili e 700 grammi alla nascita. Oppure le sigarette. "Sono arrivato a 110 al giorno, 5 pacchetti e mezzo. Risparmiavo sugli accendini: con una appicciavo quella dopo". Ingabbiato nel giubbotto blu, Vallanzasca ricorda e ricorda, come se girare la testa indietro fosse l'unica salvezza per affrontare quel che ha davanti. "Poi ho smesso. Di botto. Cazzo, 35 giorni senza cagare, il mio corpo non capiva. Appena sono arrivato a Opera ho comprato una stecca di Marlboro rosse. Saranno le ultime. Fino a qualche anno fa, a calcio, davo ancora la paga a tutti. Adesso mi viene il fiato grosso anche a scendere le scale. Devo avere qualcosa ai polmoni. E non è che l'arietta di Opera aiuta". Un diverso, Vallanzasca, nel "gene" e nel male. E impermeabile alla superstizione. È un venerdì 13, metà dello scorso giugno, 7 di sera. Il signor Renato stacca dal lavoro nella cooperativa dei fiori e va a fare spesa in un supermarket da 17 casse; mette nel cestello una fetta d'anguria, insalata, mortadella e una busta di salmone, paga gli acquisti, fa per uscire quando un vigilante che l'ha tenuto d'occhio dalla "travespia", un corridoio sopraelevato da cui si sorvegliano i vari comparti (numero 1, giardinaggio; numero 5, intimo), lo ferma e gli chiede di aprire il borsone nero che ha con sé. Dentro, una mesta refurtiva: le Sloggi, una forbice rasa erba, un flacone di fertilizzante. Il signor Renato dice che qualcuno gli ha infilato dentro quella roba per incastrarlo e che comunque è pronto a saldare, e poi è meglio per tutti chiuderla lì per evitare casini. Il vigilante, Emmanuele Mento, esclude di aver visto qualcuno infilare alcunché nel borsone. Documenti, prego: "Vallanzasca". Arrivano i carabinieri, al comando del maresciallo Milo Fidelibus, e finisce il resto. Al processo per direttissima, il giudice Ilaria Simi decide che l'imputato ha mentito e in più ha minacciato il vigilante, quindi lo punisce. Ma Vallanzasca le ha rubate o no le mutande e il resto della paccottiglia da giardiniere fai da te? Il bottino fa pensare a un omaggio ai colleghi della cooperativa, un "ghe pensi mi" da trapassata grandeur. O magari una malevola manina voleva davvero vendicarsi per qualcosa. Chissà. Tra le 225 carceri italiane, Opera è la più grande per numero di condannati in via definitiva (quasi mille). Un imponente cronicario di ex "qualcosa": Bernardo Provenzano, ex capo della mafia; Mario Moretti, ex comandante delle Br; gli Schiavone, ex signori di Gomorra; fino a Fabrizio Corona, ex ragazzo spericolato. Tra le navate di questi sciagurati, contano zero le eventuali motivazioni psicologiche di Vallanzasca: una bravata, magari inconscia, per scongiurare il terrore di saltare da un muro che in quarant'anni è diventato un Everest. Nemmeno il direttore del carcere, Giacinto Siciliano, ha una spiegazione: "Forse la condanna nella condanna di Vallanzasca è l'impossibilità di diventare uno come gli altri". Qualcuno bussa alla porta della cella frigorifera che ospita il colloquio. Vallanzasca dice sarcastico: "Mi reclamano. Sa, ho un'agenda fittissima". Lo aspetta una cella singola. "Se sogno di notte? Sempre cosette a sfondo sessuale. Saranno tutti i porno che girano in galera". Sorriso sotto i baffi. Mai visto in una foto senza baffi. "Solo una volta li ho tagliati, quando sono scappato dall'oblò di una nave a Genova. Di solito uno se li mette finti per non farsi riconoscere. Io, il contrario". Lazio: Fns-Cisl; aumentano i detenuti nelle carceri della regione, anche minori Adnkronos, 8 febbraio 2015 "Si è ancora lontani dall'assicurare condizioni tollerabili di vivibilità all'interno di gran parte degli istituti del Lazio, dove si verificano aggressioni al personale di polizia penitenziaria di Frosinone, e le difficili realtà degli istituti di Velletri e di Latina, sono spie di una tensione che resta ancora troppo alta". Lo sottolinea la Fns Cisl, ricordando come secondo il dato ufficiale del Dap aumentano, anche se di poco, i detenuti nelle carceri della regione. Al 31 gennaio 2015 - spiega il sindacato - i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione Lazio risultano essere 5.629, 486 in più rispetto ai 5.114 posti disponibili, e si registra un aumento di 29 detenuti rispetto al dato del dicembre 2014. Da segnalare, inoltre, la presenza di 408 detenute. Attualmente gli istituti che soffrono maggiormente il sovraffollamento sono Cassino, Civitavecchia, Frosinone, Latina, Rebibbia femminile, Rebibbia nuovo complesso, Regina Coeli, Velletri, Viterbo. Per quanto concerne, invece, i dati forniti dal Dipartimento Giustizia Minorile, osserva ancora la Fns Cisl, "si registra un aumento anche nel settore minorile dove, infatti, sono presenti all'Ipm Casal del Marmo 56 utenti, con una presenza media giornaliera 53.1, 9 in più rispetto a dicembre 2014. Per il sindacato "l'aumento è dovuto dall'entrata in vigore della Legge 11 agosto 2014, n. 117". Milano: per "Expo 2015" cento detenuti lavoreranno nell'organizzazione logistica Il Velino, 8 febbraio 2015 Il Guardasigilli Andrea Orlando ha presentato ieri a Milano le iniziative con le quali il ministero della Giustizia sarà presente all'Esposizione Universale che si aprirà il prossimo primo maggio. Il dicastero di via Arenula sarà presente con progetti che seguiranno due filoni tematici: su materie più legate al tema di Expo2015 saranno presentati progetti specifici nati in carcere sul settore alimentare, nell'ambito di una più generale prospettiva che vede l'Italia impegnata a sviluppare una nuova prospettiva della detenzione, anche e soprattutto valorizzando la funzione del lavoro. Nello stesso tempo il ministero vuole presentare le innovazioni normative e organizzative finalizzate a restituire alla nostra giustizia - in particolare quella civile - velocità e certezza, indispensabili per tornare ad attrarre investimenti e favorire la crescita economica. Inclusione sociale, diminuzione della recidiva, scambio di conoscenze, impegno partecipativo: sono queste le parole chiave della partecipazione del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria a Expo 2015. Curato dal provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria della Lombardia e finanziato da Expo 2015, il progetto "Inclusione socio lavorativa", approvato e co-finanziato da Cassa delle Ammende, punta sul lavoro penitenziario come strumento più efficace per ridurre la recidività offrendo ai detenuti un'esperienza lavorativa eccezionale che possa essere utile ad un nuovo progetto di vita sui binari della legalità. Saranno circa un centinaio le persone in esecuzione penale che saranno attivamente coinvolte nell'organizzazione logistica di Expo in servizi di facchinaggio, assistenza al personale ma anche accoglienza e supporto informativo. I cento detenuti saranno 35 provenienti dalla Casa di Reclusione di Opera; 35 dalla Casa di Reclusione di Milano Bollate; 10 dalla Casa Circondariale di Monza; 20 dagli Uffici di Esecuzione Penale Esterna di Milano tra persone sottoposte all'Affidamento in Prova ai Servizi Sociali. Al tema del lavoro sarà dedicato anche il convegno che si terrà entro l'estate presso la Casa di Reclusione di Milano Bollate, attigua a Expo 2015 e quindi immediatamente raggiungibile, al quale saranno invitati i Commissari dei 146 Paesi partecipanti. L'obiettivo è di illustrare la strategia del ministero della Giustizia in tema di lavoro nelle carceri come elemento fondamentale per il reinserimento sociale nell'ambito del community sanctions. L'amministrazione promuoverà percorsi di scambio di conoscenze e tecniche con i Paesi partecipanti sulle modalità di trattamento in tema di lavoro penitenziario e inclusione sociale. L'istituto di Bollate costituisce un progetto pilota sul trattamento avanzato dei detenuti, fondato essenzialmente sulla responsabilizzazione delle persone detenute, offrendo loro una gamma di opportunità scolastiche, formative, culturali ma soprattutto lavorative finalizzate a favorire processi di cambiamento per una pena autenticamente orientata al cambiamento, verso un modello di vita orientato alla legalità, nell'ottica del miglioramento delle condizioni detentive in linea con le raccomandazioni della Corte europea dei diritti dell'uomo. Il convegno sarà inoltre l'occasione per valorizzare le più significative produzioni agro-alimentari nei penitenziari italiani. In linea con il tema portante di Expo l'occasione consentirà inoltre anche un confronto sul tema dell'alimentazione in ambito penitenziario, regolamentata nel nostro paese da specifiche tabelle predisposte e approvate dal ministero della Salute, sulle abitudini alimentari dei detenuti, sulla cultura alimentare in un contesto che vede la presenza di numerose e diverse etnie. Numerose sono le iniziative messe in campo dai due istituti penitenziari del territorio milanese. La casa circondariale di Milano "San Vittore" propone "libera scuola di cucina" nella sezione progetti per le donne di Expo 2015 che considera il valore del cibo anche come elemento privilegiato per il dialogo e la conciliazione; eventi didattici, comprese visite in istituto, per comprendere meglio l'azione di inclusione sociale a partire dal penitenziario; eventi nell'ambito di "Expo in città" per la conoscenza e degustazione di cibi con forte impronta etnica da parte dei cuochi coinvolti nel progetto Libera scuola di Cucina. Ancora a Bollate ci sono invece in programma Visite guidate multilingue all'interno del carcere, sfruttando la particolare vicinanza a Expo; "Mercatini con aperitivo" per mostrare le potenzialità delle produzioni penitenziarie; un calendario "Eventi e concerti" per sensibilizzare la collettività e l'utenza di Expo ai temi dell'inclusione sociale attraverso discussioni; infine "percorsi artisti e mostre" per mostrare le capacità artistiche generate durante progetti trattamentali. L'Auditorium del Padiglione Italia ospiterà a maggio una grande iniziativa di presentazione delle innovazioni in materia di giustizia, sia sul fronte organizzativo che su quello normativo, al fine di rendere il processo più celere e abbattere l'arretrato, e di raggiungere a breve la piena informatizzazione. Sarà l'occasione anche di presentare sul palcoscenico dell'Esposizione Universale i risultati dell'informatizzazione del processo civile, una delle esperienze più avanzate a livello internazionale che sta dando risultati importanti sia per il servizio offerto sia per il risparmio di tempi e costi. È una sfida che il ministero vuole presentare al mondo utilizzando il palcoscenico più prestigioso del Paese e che mira a tornare ad attrarre investimenti stranieri grazie ad una riforma che ha l'obiettivo di dotare l'Italia di uno strumento decisivo ai fini di crescita, competitività ed efficienza. "La riforma del sistema della giustizia civile - ha detto recentemente durante la sua visita a Roma il vice presidente della Commissione europea Katainen - è l'esempio perfetto di una riforma che avrà certamente un impatto positivo nel creare un ambiente più favorevole all'impresa e che attirerà investimenti sostenibili". Cagliari: chiude anche il carcere di Iglesias, detenuti trasferiti a Uta e a Sassari Ansa, 8 febbraio 2015 Dopo Buoncammino chiude anche un altro carcere sardo, quello di Iglesias. Da questa mattina è in corso il trasferimento degli ultimi detenuti nei carcere di Uta e Sassari. In giornata dovrebbero essere portati nella nuova casa circondariale a Uta una cinquantina di detenuti, altri quindici, invece, saranno trasferiti a Sassari. Come già successo a novembre per il carcere cagliaritano di Buoncammino, gli agenti della polizia penitenziaria si stanno occupando di tutti i dettagli del trasferimento utilizzando uomini e mezzi. Polizia e carabinieri sono impegnati nel servizio di vigilanza e scorta. Il trasferimento dei detenuti, iniziato ieri, si sarebbe reso necessario a causa di alcuni problemi all'interno della struttura, riguardanti l'impianto di riscaldamento, che hanno di fatto anticipato i tempi della chiusura della struttura carceraria, decisa con decreto a maggio dello scorso anno, quando furono programmate le chiusure del carcere di Macomer e della scuola della polizia penitenziaria di Monastir. Palermo: ex detenuti disoccupati occupano cattedrale, chiedono di incontrare l'arcivescovo www.contattonews.it, 8 febbraio 2015 Una trentina di disoccupati ex Pip (Piano Inserimento Professionale), hanno occupato l'ingresso della cattedrale di Palermo. Chiedono di incontrare l'arcivescovo al quale potere esporre le proprie richieste rimaste inascoltate dal governo regionale. Si tratta di alcuni degli esclusi dal bacino "Emergenza Palermo" rimasti senza stipendio da undici mesi. I lavoratori hanno chiesto al presidente della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, di abolire la retroattività del provvedimento che li esclude dal sussidio, ma al momento da Palazzo d'Orleans non è arrivata alcuna risposta. Ad incidere, secondo gli ex pip, sarebbero i loro passati guai giudiziari. Accanto ai lavoratori stamani è sceso anche padre Carollo: "Avranno pure sbagliato nel passato ma per questo non devono restare esclusi per sempre dall'inserimento nel lavoro. Se da undici anni lavoravano hanno dato segno di correttezza. La nostra richiesta è di risolvere il problema". Macomer (Nu): la Giunta regionale sostiene la battaglia per il mantenimento del carcere La Nuova Sardegna, 8 febbraio 2015 La Giunta regionale sostiene la battaglia del Comune di Macomer per il mantenimento del carcere o, in alternativa, per la sua riconversione. Ieri a Cagliari si è tenuto l'incontro convocato dal presidente Pigliaru per discutere della vertenza che il Comune di Macomer ha aperto da tempo nei confronti del ministero della Giustizia. Ha coordinato i lavori il capo di gabinetto della presidenza, Filippo Spanu. C'erano tutto lo staff del presidente Pigliaru, l'assessore alla Sanità Luigi Arru, l'assessore ai Lavori Pubblici Paolo Maninchedda, il sindaco Antonio Succu, il vicesindaco Rossana Ledda e l'assessore Gian Franco Congiu. Lo staff del presidente Pigliaru ha ribadito la volontà di sostenere la vertenza del carcere di Macomer (mantenimento della sua funzione o riconversione). Su questa seconda ipotesi l'assessore alla Sanità ha sostenuto la proposta del sindaco Antonio Succu su una riconversione che preveda un ruolo per i detenuti-pazienti degli ex ospedali psichiatrici giudiziari su un ala e l'utilizzo dell'altra per i cosiddetti "detenuti difficili", ossia i tossicodipendenti talvolta con doppia diagnosi, cioè con disturbi comportamentali. "Questo - è spiegato in una nota - comporterebbe una forte collaborazione con i Serd (servizi sanitari territoriali per le tossicodipendenze) che a Macomer già operano. Peraltro il personale del servizio operante a Macomer ha acquisito negli anni una grande esperienza nel settore". Il tavolo si è chiuso con l'impegno di una richiesta al ministero di Grazia e giustizia per un incontro congiunto in tempi rapidi, con l'obiettivo di un accordo complessivo fra presidenza della Giunta, ministero di Grazia e Giustizia, Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, assessorato regionale alla Sanità e rappresentanti del territorio. "In questa vertenza non siamo più soli - è il commento del sindaco Succu - ma è con noi anche la Regione. Sono molto soddisfatto del sostegno che il presidente Pigliaru ha deciso di darci e lo ringrazio per l'attenzione che vorrà dedicare a questa battaglia, che non è solo del comune di Macomer ma di tutto il territorio". La decisione di chiudere il carcere di Macomer è apparsa incomprensibile dal primo momento. Si tratta di una struttura nuova che negli ultimi anni è stata attrezzata anche per accogliere il nucleo cinofili della polizia penitenziaria. Con la dismissione è destinata all'abbandono. Riconvertire un carcere in una scuola materna o in qualsiasi struttura destinata a un utilizzo diverso da quello di tipo penitenziario è praticamente impossibile. Già dopo la partenza degli ultimi detenuti alcuni ambienti sono stati lasciati in abbandono e al loro interno è iniziato degrado. Pisa: Sappe; detenuto dà in escandescenze e ferisce otto agenti di Polizia penitenziaria Il Tirreno, 8 febbraio 2015 L'uomo era già stato protagonista di episodi simili nelle carceri di Lucca e Pistoia. Aveva già aggredito diversi poliziotti nelle carceri di Lucca e Pistoia e per questo era stato trasferito alla Casa Circondariale di Pisa. Dove, l'altra notte, ha colpito a calci e pugni e ferendo diversi agenti di Polizia Penitenziaria. Dura la protesta del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che non più tardi di cinque giorni fa ha segnalato che, a livello nazionale, "è la Toscana la regione d'Italia con il numero più alto di episodi di autolesionismo in carcere (1.047 casi) e di tentati suicidio sventati (112)". "Questa aggressione è stata particolarmente violenta ed è ancor più inaccettabile perché vede protagonista un detenuto già resosi responsabile di analoghi gravi episodi in carcere: un detenuto tunisino che, seppur di soli 21 anni, ha commesso una sfilza di reati impressionati tra i quali lesioni, furto, rapina", spiega il segretario generale del Sappe Donato Capece. "L'altra notte il detenuto, dopo essersi autolesionato il corpo perché pretendeva più terapia farmacologica, negata ovviamente dal medico di guardia perché non ve n'era la necessità (spesso in carcere i detenuti dipendenti da sostanze stupefacenti ed alcool cercano di abusa di farmaci…), veniva accompagnato in infermeria per le cure del caso. Dopo le cure, veniva accompagnato presso il suo reparto, ma giunto davanti alla cella si rifiutava di entrare e minacciava i presenti con una lametta che aveva occultata in bocca. Dopo vari tentativi di convincere il detenuto a desistere da tale comportamento, visto che lo stesso persisteva nell'essere minaccioso ed aggressivo, si informa il Direttore che autorizzava i poliziotti all'uso della forza fisica, ma il detenuto stesso improvvisamente dava fuoco ad alcuni stracci e li lanciava contro il personale. I nostri poliziotti hanno spento il principio di incendio e hanno tentato di bloccare il detenuto, che però continuava a tirare calci e pugni. Risultato? Due colleghi sono stati refertati al Pronto Soccorso con prognosi di 10 giorni a testa e altri 6 sono stati refertati in istituto per piccoli traumi e graffi ricevuti nell' immobilizzare il detenuto. Ora il detenuto è stato trasferito nel carcere di Livorno ma capirete bene che tutto questo è gravissimo. Noi non siamo carne da macello e la nostra pazienza ha un limite! E questo grave episodio dovrebbe fare seriamente riflettere tutti quelli che si riempiono la bocca nel dire che l'emergenza penitenziaria è superata". Il Sappe, che in occasione di altre aggressioni a poliziotti penitenziari in varie carceri italiane aveva chiesto "di dotare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria di spray anti aggressione recentemente assegnato a Polizia di Stato e Carabinieri", sollecita il Governo Renzi ad azioni efficaci per espellere i detenuti stranieri presenti in Italia: "È sintomatico che negli ultimi dieci anni ci sia stata un'impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, che da una percentuale media del 15% negli anni ‘90 sono passati oggi ad essere quasi 20mila. Fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d'origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia". "Il dato oggettivo è però un altro - conclude il leader del Sappe: le espulsioni di detenuti stranieri dall'Italia sono state fino ad oggi assai contenute: 896 nel 2011, 920 nel 2012 e 955 nel 2013, soprattutto in Albania, Marocco, Tunisia e Nigeria. Si deve però superare il paradosso ipergarantista che oggi prevede il consenso dell'interessato a scontare la pena nelle carceri del Paese di provenienza. Oggi abbiamo in Italia 53.623 detenuti: ben 17.462 (quasi il 35 per cento del totale) sono stranieri, con una palese accentuazione delle criticità con cui quotidianamente devono confrontarsi le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria. Si pensi, ad esempio, agli atti di autolesionismo in carcere, che hanno spesso la forma di gesti plateali, distinguibili dai tentativi di suicidio in quanto le modalità di esecuzione permettono ragionevolmente di escludere la reale determinazione di porre fine alla propria vita". Torino: Osapp scrive al Dap "detenuti sbeffeggiano gli agenti". Interrogazione Lega Nord Adnkronos, 8 febbraio 2015 "Urgenti accertamenti" in merito alla gestione della disciplina dei detenuti nel carcere di Torino. A chiederli in una lettera ai vertici dell'amministrazione penitenziaria e al ministro del Giustizia è Leo Beneduci, segretario generale Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Il sindacato segnala che da mesi riceve lamentele dal personale penitenziari oggetto di "sbeffeggio" da parte dei detenuti nei confronti dei quali "verrebbero molto spesso archiviate o addirittura non contestate - si legge nella lettera - le infrazioni disciplinari scaturenti dai rapporti disciplinari redatti dal personale stesso a loro carico". Una situazione che Beneduci definisce "preoccupante" e che "determinerebbe anche una forte demotivazione negli addetti del Corpo e un conseguente svilimento delle funzioni". Senza tralasciare le "evidenti ragioni di ordine e sicurezza" sottolinea il sindacalista. Sulla questione ha presentato un'interrogazione alla Camera il deputato della Lega Nord, Stefano Allasia. Roma: a Rebibbia nasce il giornale del carcere, con due articoli firmati da Totto Cuffaro di Michele Marangon Corriere della Sera, 8 febbraio 2015 Su "Dietro il cancello" debutta l'ex presidente della Regione Sicilia condannato in via definitiva a sette anni per favoreggiamento di Cosa Nostra. È nato "Dietro il cancello", un giornale scritto dai detenuti di Rebibbia. Tra di loro anche un redattore d'eccezione che debutta con due articoli: è Salvatore Cuffaro, l'ex presidente della Regione Sicilia in carcere dal 2011 perché condannato in via definitiva a 7 anni per favoreggiamento aggravato di Cosa nostra e rivelazione di segreto istruttorio nell' ambito del processo "Talpe alla Dda". Aiutare i carcerati a voltare pagina, anzi a scriverne una nuova. È questo il senso di un giornale confezionato ‘dietro le sbarrè, nel luogo dove tutto acquisisce un significato diverso, anzi il vero significato. E allora una parola, un'esperienza nuova, il mettere in fila i periodi di un articolo che leggeranno in molti, si trasformano di colpo negli strumenti per costruire una libertà interiore che vale più di tutto se la vita ti ha portato ad avere come temporaneo indirizzo quello di un carcere. Che non è mai un bel posto. Non chiamatelo "giornalino", sarebbe riduttivo. Perché "Dietro il cancello", mensile curato dai detenuti dei reparti G8 e G12 del carcere romano di Rebibbia ( nuovo complesso), è molto di più: rappresenta la speranza dei reclusi di comunicare con l'esterno, di imparare - nel novero delle tantissime attività professionali che già si svolgono dentro la struttura - anche i rudimenti di un mestiere non propriamente manuale come quello del giornalista. Rappresenta la scommessa di rieducare attraverso la libertà di espressione, nel rispetto di quelle regole che la scrittura e la comunicazione impongono. Il numero zero di "Dietro il cancello", diretto dai giornalisti professionisti Federico Vespa e Giovanna Gueci, è in realtà il ritorno di una esperienza nata diversi anni fa, ed oggi tornata alle stampe grazie al rinnovato impegno dei volontari dell'associazione "Gruppo idee", presieduto da Zarina Chiarenza, che oltre al giornale sta portando avanti altre iniziative come il laboratorio sartoriale rivolto elle detenute con marchio "Nero luce - made in Rebibbia" o la squadra di rugby del carcere di Frosinone, oppure la rappresentativa di calcio composta da agenti di penitenziaria e reclusi di Rebibbia. Alla presentazione coordinata dal giornalista Rai Domenico Iannaccone, svoltasi il 6 febbraio presso la sala università della struttura penitenziaria ( sono sessanta i detenuti attualmente iscritti ad un percorso universitario) hanno partecipato il direttore del nuovo complesso di Rebibbia Mauro Mariani, il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, il giudice Ferdinando Imposimato, il consigliere regionale Giuseppe Cangemi, il giornalista Bruno Vespa. Il primo numero è stato stampato in tremila copie e punta ad una ampia diffusione in tutte le realtà vicine al mondo carcerario e giudiziario. Ma questo è solo l'inizio di un percorso che vuole essere duraturo e coinvolgente delle altre realtà carcerarie laziali. "Il progetto editoriale - dice Giovanna Gueci - affidato a soggetti ristretti, con pene relativamente lunghe da scontare, tenta di realizzare innanzitutto una riflessione sulla oggettiva "interruzione di comunicazione" con la collettività a causa del reato e sulla necessità che tale rapporto possa essere ripristinato solo attraverso l'impegno ed il confronto costante tra carcere e società civile. Persone limitate negli spazi fisici e mentali sono alle prese con un lavoro di gruppo, sistematico e da "esportare", che impone un ripensamento del tempo e del linguaggio". Si legge negli occhi dei redattori (vietato intervistarli in mancanza la dovuta sfilza di autorizzazioni ministeriali) tutto l'orgoglio di aver creato un prodotto dignitoso e profondo, ricco di contenuti che raramente trovano spazio nei media. Il giornale, infatti, apre con il titolo "Se un detenuto vale otto euro", relativo alla frettolosa ed inapplicata legge italiana sul risarcimento per le detenzioni condotte in regime di tortura (il riferimento è alla sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell'uomo), mentre sempre in prima balza all'occhio la firma di Salvatore Cuffaro. Proprio lui, Totò l'ex presidente della Regione Sicilia che sta scontando sette anni di reclusione dopo la condanna per favoreggiamento mafioso. Oggi detenuto modello, conta di tornare uomo libero tra dieci mesi. Nelle pagine interne un suo pezzo sulla privazione della libertà vissuta in maniera disumana nelle carceri italiane. "La stampa deve occuparsi ordinariamente del pianeta carcere e non solo nelle occasioni straordinarie - ha sottolineato nel suo messaggio di apertura il direttore Mauro Mariani - poiché la detenzione rappresenta un problema per tutta la società civile. È uno stato che deve necessariamente aprirsi all'esterno e rappresentare una speranza in più rispetto a ciò che è accaduto fino ad oggi. Questa iniziativa è un'ottima occasione per favorire questa apertura e questa conoscenza". Uno sforzo di apertura incoraggiato anche dal sottosegretario Ferri: "Ammetto che prima del mio attuale incarico, per essere stato giudice penale ma mai magistrato di sorveglianza, conoscevo poco il carcere. Da quando me ne occupo direttamente, ho scoperto un mondo nuovo che ha necessità di cure organiche. La società è divisa tra chiedere sicurezza, certezza della pena, oppure essere alle prese con un buonismo che non tiene conto della realtà. Ecco perché il giornale è benvenuto ed apprezzato per quanto riuscirà a trasmettere anche a chi non è ristretto". Imposimato: "Riformare il codice penale" Preoccupato dell'uso dei media il presidente Ferdinando Imposimato: "Il carcere non è ben compreso all'esterno e il processo televisivo è un danno enorme poiché si condanna una persona appena indagata, o appena all'atto della denuncia. E questa prassi non è propria di uno Stato civile. Vorrei che il governo metta mano al codice penale utilizzando il prezioso lavoro fatto dalle commissioni negli anni, come quella Pagliaro o quella presieduta dal giudice Nordio. Si tratta - spiega Imposimato - di riuscire a punire finalmente i reati realmente gravi e di allarme sociale come i disastri ambientali (spesso invece prescritti) e evitare carcerazioni in presenza di pene al di sotto dei tre anni, che rappresentano invece il 90 per cento delle condanne della popolazione detenuta". "Noi giornalisti abbiamo una grave responsabilità - non ha mancato di far notare Bruno Vespa - Il carcere si racconta sempre male. Sono sempre stato dell'idea che il 41 bis vada abolito, poiché una cosa è la sicurezza e un'altra è il rispetto dei diritti umani. Stessa posizione la mia sull'ergastolo, che deve essere immediatamente cancellato dal codice penale". Infine, il consigliere regionale Cangemi ha promesso sostegno all'iniziativa: "Presenterò un emendamento affinché all'interno della proposta di legge regionale sul pluralismo dell'informazione siano garantiti stessi diritti e opportunità anche ai detenuti del Lazio che intendano cimentarsi con gli strumenti di comunicazione. Un bell'esempio di come anche dal carcere si possa fare informazione". Libri: gli "Encerrados" di Valerio Bispuri, un capolavoro della fotografia diventato libro recensione di Luca Tortolini Redattore Sociale, 8 febbraio 2015 Diventa un libro (Contrasto Books), il viaggio durato dieci anni del fotoreporter italiano in 74 carceri del Sudamerica. Le condizioni spietate della detenzione, le speranze di chi è privato della libertà, le regole di un mondo chiuso dove nessuno entra mai se non costretto Di "Encerrados", il progetto di Valerio Bispuri, avevamo parlato qualche tempo fa, quando era in via di ultimazione. Ora il lungo lavoro di Bispuri, durato dieci anni, trova la sua forma ideale in un libro pubblicato da Contrasto Books, con la prefazione di Roberto Saviano e un commento dello scrittore e giornalista uruguaiano Eduardo Galeano. Il racconto fotografico di Bispuri ci fa entrare dove nessuno entrerebbe se non fosse costretto: nel mondo dei rinchiusi. Ci fa vedere attraverso le sbarre di metallo, dietro le recinzioni e nei cortili circondati dalle mura, dentro le celle, nei corridoi bui e stretti. Ci fa entrare nelle latrine. Ci mostra i volti dei detenuti, si muove tra quelli più pericolosi del Sudamerica, nei reparti dove nemmeno le guardie entrano più. Come nel padiglione numero 5 del carcere di Mendoza in Argentina, in cui per entrare Bispuri firma un documento con cui si assume tutta la responsabilità della propria decisione. Entra senza nessuno che lo accompagni e con le gambe che gli tremano, come racconta lui stesso. All'interno del Padiglione numero 5 ci sono novanta detenuti, i più violenti di tutti. Ma nessuno gli farà del male, anzi gli mostrano cosa fotografare e chiedono di raccontare cosa ha visto, le condizioni spietate in cui sono costretti a scontare la loro pena. Valerio Bispuri lo fa, organizza una mostra e svela agli occhi dell'Argentina la polvere nascosta sotto il tappeto. Mette a fuoco l'umanità dei prigionieri in cui chiunque può riconoscersi, costringendo a guardare con gli occhi spalancati un atto di disumanità perpetrato in nome dello Stato. Grazie a lui e Amnesty International il Padiglione numero 5 verrà chiuso. "Encerrados non è un libro sulle carceri; è un libro sulla libertà perduta, sulla libertà mai avuta", scrive Roberto Saviano nella prefazione e continua, "l'obiettivo di Bispuri era puntato sulla mancanza di libertà che spesso precede e segue la vita di chi finisce in prigione. La mancanza di libertà, e quindi di scelta, è ciò che ha condannato le migliaia di detenuti che Bispuri ha raccolto con il suo obiettivo". La mancanza di libertà in Ecuador, in Argentina, in Cile, in Uruguay, in Brasile, in Colombia in Venezuela che sono poi i paesi in cui Valerio Bispuri va a visitare le carceri, va a indagare. In 10 anni di lavoro, foto dopo foto Bispuri ha avuto la possibilità di capire molte cose sulle regole di questo ambiente chiuso, le leggi che lo abitano; ha avuto la possibilità di vivere sulla propria pelle l'esperienza del carcere attraverso il contatto con migliaia di detenuti e di guardie, spinto sempre dal desiderio di raccontare, e quindi di conoscere studiare analizzare, un continente attraverso il mondo dei detenuti. "Le carceri sono un riflesso della società, uno specchio di quello che succede in un paese, dai piccoli drammi alle grandi crisi economiche e sociali" scrive Bispuri all'interno del libro, nel racconto del suo lungo viaggio nelle carceri. Dice: "Ho capito che una scarpa legata fuori dalla cella significa che in quel posto si vende droga". E anche: "Che le donne detenute non hanno diritto alla "visita intima" (rapporti sessuali con i propri compagni) al contrario dei detenuti uomini". Ancora: "Ricordo le sacche di urina che mi hanno tirato i detenuti arrabbiati a Quito". Ancora: "Non posso scordare la minaccia di un coltello puntato sul collo". E ancora: "Non dimentico l'urlo di un ragazzo di Como, dentro per spaccio di cocaina, che mi ha salvato la vita avvisandomi di uscire immediatamente perché era pronta per me una siringa di sangue infetto". Chi ha avuto modo ci conoscere Bispuri, di stare ad ascoltarlo per un po', sa bene la carica, l'energia che riesce a trasmettere, l'amore per la fotografia, per il fotogiornalismo, e in generale per le cose della vita, per i rapporti umani. Tutto ciò, ascoltarlo, guardare le sue fotografie, non può che far nascere un forte rispetto per il suo lavoro e senz'altro per la sua persona. Di "Encerrados" si continuerà a parlare a lungo, un libro importante, prezioso, che non dimenticheremo facilmente. Quando il fotogiornalismo non è solo documentazione, testimonianza, sommo servizio di indagine e denuncia per una società; quando un reportage fotografico diventa racconto universale grazie all'arte fotografica, attraverso un nuovo profondo sguardo, nuove visioni sul mondo che ci costringono a guardare gli altri diversamente, nuovamente, come se stessimo guardando noi stessi per la prima volta. È il caso del lavoro di Bispuri e di "Encerrados". Un capolavoro. Valerio Bispuri presenterà "Encerrados" a Roma il 19 febbraio, ore 19.00, al Fandango Incontro, insieme a lui Omero Ciai. Stati Uniti: Cia torturò a morte tre detenuti a Guantánamo, "suicidi" in versione ufficiale Ansa, 8 febbraio 2015 Un ex sergente dei Marines di guardia a Guantánamo sostiene che tre detenuti della base prigione per sospetti terroristi furono torturati a morte dalla Cia. Joseph Hickman, un veterano che dopo l'11 settembre si era riarruolato nella Guardia Nazionale, fa l'esplosiva denuncia nel suo libro "Assassinio a Camp Delta: un sergente che insegue la verità su Guantánamo Bay". La versione di Hickman contraddice quella ufficiale del Pentagono secondo cui i tre prigionieri - lo yemenita Yasser Talal al-Zahranie i sauditi Salah Ahmed al-Salami e Mani Shaman al-Utaybi - si sarebbero impiccati il 9 giugno 2006 in un patto suicida. All'epoca l'ammiraglio Harry Harris, il comandante della base prigione, aveva definito la morte dei tre uomini "un atto di guerra asimmetrico commesso contro di noi". I tre prigionieri facevano parte del gruppo che faceva lo sciopero della fame per protestare contro la detenzione. "Ero di servizio il 9 giugno 2006 e so che sono stati uccisi", scrive l'ex Marine nel libro, e spiega al Times che il suo obiettivo è "ottenere una piena inchiesta da parte del Congresso", pur rendendosi conto delle difficoltà che ciò accada. Nel libro Hickman sostiene che i tre sono morti soffocati da stracci che erano stati infilati loro in gola sotto tortura e che gli infermieri della base non erano riusciti a estrarre. L'ex Marine descrive un sinistro "laboratorio di battaglia" per nuove, inventive tecniche sperimentali di tortura. Afghanistan: nelle celle "umanitarie" di Herat, donne picchiate e torturate di Damiano Aliprandi Il Garantista, 8 febbraio 2015 Donne detenute per aver "disonorato" la famiglia, altre per aver osato sfidare il marito padrone, denunce da parte dell'Onu per le torture sistematiche all'interno della sezione maschile. Tutto questo avviene in un carcere afghano, ritenuto il fiore all'occhiello dalle autorità militari italiane che lo hanno finanziato per scopi "umanitari". La struttura penitenziaria in questione si trova ad Herat, la seconda città più grande dell'Afghanistan. Il carcere è diviso in due: c'è la parte maschile composta da 3.310 detenuti, e quella femminile, da 160. La maggior parte delle donne detenute stanno scontando una pena che da noi non sarebbe considerata neppure un peccato veniale. L'aver amato un uomo diverso da quello scelto dalla famiglia, l'essere rimasta incinta fuori dal matrimonio o l'aver mancato di rispetto a un padre padrone sono considerati reati da punire e quindi c'è l'arresto e le donne possono scontare anni di galera. C'è la storia di Saaeqa che ha 27 anni e quattro bambini. La sua colpa? Essere scappata di casa perché il marito (sposato a 13 anni) era un violento. "Mi picchiava - aveva racconta Saaeqa - non poteva fare a meno dell'oppio". Lei si sente colpevole e si era detta disposta a ritornare dal marito, ma alla condizione di non essere picchiata. Ma sa che ciò non accadrà e che sarà "costretta" ad andare a vivere dalla madre, e questo verrà considerato un grande disonore. Si dovrà vergognare per tutta la vita. Poi c'è la storia di Naeeba, 25 anni. È stata accusata di aver ucciso il marito. Lei si dichiara innocente. A 12 anni era stata costretta a sposarsi con l'uomo di 51 perché era incinta di lui. Poi un giorno fu ritrovato bruciato e venne accusata di omicidio. Secondo lei sono stati i figli perché non sopportavano più che la picchiasse. Ma non finisce qua. Sempre nello stesso carcere finanziato dal governo italiano - specificamente nella sezione maschile dove finiscono i presunti talebani catturati dal nostro contingente - avvengono delle torture sistematiche. A denunciarlo è stata l'Onu attraverso un dossier del 2011 corredato da prove definite "schiaccianti". Un dossier che dovrebbe far riflettere sui compromessi - come quelli sulle donne detenute - accettati dal nostro governo nella missione che dovrebbe portare ‘la civiltà alle popolazioni afghane. L'inchiesta dell'Onu si concentra sulle persone custodite dai servizi di sicurezza di Kabul, chiamati National directorate of security o in sigla Nds. I quattro reclusi catturati dalla polizia nazionale non hanno nulla da denunciare, mentre dei dodici uomini affidati agli agenti speciali, ben nove parlano di maltrattamenti che arrivano fino alla tortura: tra loro c'è anche un ragazzo di sedici anni. La delegazione dell'Unama - l'organismo Onu che vigila sulla rinascita dell'Afghanistan - scrive che ci sono "prove schiaccianti che gli agenti del Nds sistematicamente torturano i detenuti per ottenere informazioni e, possibilmente, confessioni". Le testimonianze raccolte dall'Onu sono agghiaccianti e sembrano simili alla detenzione del carcere di Abu Ghraib, la prigione irachena dove gli americani torturavano i reclusi. E così il dossier racconta che ad Herat, durante la notte, un agente del Nds preleva il detenuto dalla cella, gli lega le mani dietro la schiena e benda gli occhi, poi lo porta in un'altra stanza nell'edificio dell'intelligence afghana. Lì comincia l'interrogatorio e, a un certo punto, arriva la minaccia: "Se non ci dai le informazioni ti picchiamo". Allora lo sbattono con la faccia sul pavimento e cominciano a colpirlo sulla pianta dei piedi, con un cavo elettrico. Poi con i piedi sanguinanti lo costringono a camminare sul pietrisco o sul cemento grezzo. Nel rapporto sono inclusi i resoconti dei detenuti picchiati. "Io avevo gli occhi bendati e i polsi legati, stavo seduto su un tappeto. Loro urlavano: "Parlaci del capo dell'attacco. Io continuavo a rispondergli che non c'entravo, a ripetere il mio alibi. Sembrava che loro sapessero che io non ero coinvolto nell'attacco ma volevano informazioni da me e non mi credevano. Mi dicevano: "Se non ci dici la verità, ti picchiamo". Allora mi hanno gettato con la faccia sul pavimento, legando le miei ginocchia e sollevandole in modo che i piedi fossero sospesi in aria. Quindi mi hanno colpito due volte sulla schiena con una specie di tubo, poi sono passati a colpire i miei piedi. Non so cosa usassero, ma era molto doloroso: penso fosse un cavo elettrico, perché sulla pelle mi sono rimasti tanti buchi lasciati dai fili che spuntavano dalle estremità. Mi facevano domande, poi picchiavano e ricominciavano a chiedere. Io urlavo per il dolore. Allora mi hanno fatto alzare e camminare fino al cortile e mi hanno lasciato in piedi sul cemento grezzo per cinque minuti". I militari italiani potrebbero risultano complici indiretti? Non si parla solo della ricostruzione del carcere, ma anche del fatto che formalmente, ogni nostro reparto consegna immediatamente i presunti talebani o i sospetti criminali nelle mani della polizia nazionale Anp . Ufficialmente quindi non abbiamo mai fatto prigionieri, nonostante esistano immagini di miliziani ammanettati dalla Folgore nel 2009 o rapporti ufficiali di operazioni concluse con la cattura di numerosi sospetti. Il penitenziario di Herat - la capitale del distretto a guida italiana - è stato sempre comunque affidato ad una sorta di supervisione delle nostre truppe. L'inaugurazione del carcere di Herat è avvenuta nel marzo del 2010 e sono due i progetti curati dal Provincial Reconstruction Team italiano del Regional Command West su base Brigata "Sassari". Il primo progetto, del valore di circa 54 mila euro, ha riguardato la costruzione del nuovo centro polifunzionale (dotato di cucina, servizi igienici ed impianto di climatizzazione) utilizzato sia come "training room" per lo sviluppo di corsi studio e di recupero professionali, sia come "visiting room" per favorire momenti d'incontro tra i detenuti ed i loro familiari. Il secondo, invece, è consistito nella realizzazione del nuovo sistema di videosorveglianza del carcere, progetto del valore di circa 37mila euro messi a disposizione dal Ministero della Difesa, che comprende una sala di controllo interna dotata di monitor ed un sistema di registrazione delle immagini che, attraverso diciannove telecamere esterne, ha consentito di migliorare le misure di sicurezza ed assicurare la sorveglianza dell'area perimetrale interna ed esterna della struttura. Non sono mancate le passerelle dei nostri politici per osannare in pompa magna il nostro "fiore all'occhiello". Aveva fatto visita alla struttura l'allora eurodeputato Pino Arlacchi , ricevendo congratulazioni dal governatore della città di Herat. Ma non è mancata nemmeno la visita di Michele Vietti, il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Dopo aver incontrato i militari italiani in servizio presso il Comando della International Security and Assistance Force di Kabul e presso il Regional Command - West di Herat, il Comando subordinato responsabile per la regione occidentale attualmente guidato dalla Brigata alpina "Taurinense", aveva fatto visita ovviamente ad Herat, dove ad accoglierlo all'aeroporto è stato il generale Dario Ranieri, comandante del Regional Command West, il quale lo ha aggiornato circa l'attuale situazione nella regione occidentale, con particolare riferimento al settore della giustizia e ai progressi registrati nel processo di transizione. Nella seconda giornata di visita, l'Onorevole Vietti aveva innanzitutto incontrato il Governatore della Provincia di Herat per poi visitare il carcere femminile. Il vice presidente del Csm aveva espresso soddisfazione per il nostro operato e ricevuto ringraziamenti dalle autorità afghane per il nostro sostegno alla loro giustizia. Un sostegno per assicurare la detenzione delle donne per reati non contemplati dalle democrazie che hanno ottenuto l'emancipazione femminile, arresti e deportazioni coatte, torture inenarrabili. Sono state queste le nostre missioni umanitarie? Portogallo: la Pastorale Penitenziaria "dare dignità ai detenuti, dalle parole all'azione" www.newscattoliche.it, 8 febbraio 2015 Si tiene oggi e domani a Fatima il X Incontro Nazionale di Pastorale Penitenziaria dedicato al tema "Dare dignità ai detenuti: dalle parole all'azione". Padre João Gonçalves, Coordinatore della Pastorale Penitenziaria portoghese, ribadisce che "è sempre bene parlare di carceri e di detenuti, poiché si tratta di un argomento poco conosciuto e del quale si discute poco all'interno delle nostre comunità, ecclesiali o no. In carcere - spiega il sacerdote - il nostro rispetto ed il nostro aiuto vanno a tutti, sia nel periodo di reclusione, sia successivamente, nella fase di reinserimento familiare, lavorativo e sociale". I lavori del Convegno si apriranno nel pomeriggio di domenica, con la prima sessione dedicata al settore religioso della Pastorale Carceraria. Il giorno seguente, dalle 9.30 alle 12.30, si discuterà dell'argomento dal punto di vista giuridico, mentre dalle 14.30 alle 17.30 si affronterà la questione sociale. L'incontro nazionale di quest'anno segue quello del maggio 2014 a carattere transnazionale, al quale hanno preso parte Rappresentanti di Spagna, Gibilterra, Andorra e Portogallo. Nel comunicato finale diffuso lo scorso anno, si ribadisce la necessità di tutelare i diritti dei detenuti e ci si appella alle Istituzioni affinché ricorrano alla pena della privazione della libertà solo come ultima scelta. Viene sottolineato inoltre l'impegno della Pastorale Penitenziaria ad offrire supporto educativo ai prigionieri, come pure la necessità di una giustizia "più umana", che implichi il perdono e la misericordia, e non sia solo "il prolungamento di una condizione di povertà" in cui si trovano molti detenuti ancor prima di commettere un reato. Il messaggio che si vuol far passare, dunque, è che "non è l'inasprimento delle pene a ridurre i casi di recidiva nel crimine, bensì processi penali equi e dalla giusta durata, che guardano alla persona nella sua integrità".