Giustizia: e le carceri? caro Presidente… sei stato una delusione di Astolfo Di Amato Il Garantista, 4 febbraio 2015 Il discorso del Presidente si segnala per una macroscopica omissione. Il tema della giustizia è, ormai, da anni al centro non solo del dibattito politico, ma anche delle attese dei cittadini. Argomenti quali quello delle carceri, dell'uso abnorme della carcerazione preventiva e delle intercettazioni telefoniche, della responsabilità civile dei Magistrati, della esposizione mediatica di alcuni Procuratori della Repubblica, non hanno avuto, nel messaggio presidenziale, alcun riscontro. Il discorso alle Camere del nuovo Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non ha brillato per originalità e neppure ha dato conto di un particolare rinnovato vigore nella volontà di affrontare in modo deciso i problemi del Paese. Esso non si è discostato in modo significativo dai messaggi dei Presidenti che lo hanno preceduto e, come sempre accade quando si è in presenza di ripetizioni, sorge immediata la preoccupazione che si sia solo rinnovato un rito. A questa prima impressione se ne deve aggiungere un'altra. Il discorso del Presidente si segnala per una macroscopica omissione. Il tema della giustizia, nelle sue varie articolazioni, è, ormai, da anni al centro non solo del dibattito politico, ma anche delle attese dei cittadini. Esiste, nel Paese, un problema giustizia che ha avuto una centralità, che non è mai venuta meno durante tutta la seconda Repubblica. Argomenti quali quello delle carceri, dell'uso abnorme della carcerazione preventiva e delle intercettazioni telefoniche, della responsabilità civile dei Magistrati, della esposizione mediatica di alcuni Procuratori della Repubblica, non hanno avuto, nel messaggio presidenziale, alcun riscontro. Anzi, se si considera il discorso del Presidente Mattarella con il metro dei discorsi tenuti da Napolitano e da Ciampi, l'unico vero elemento di discontinuità è costituito dalla mancata attenzione ai temi della giustizia. In particolare, suscita sorpresa l'assenza di qualsiasi attenzione al tema delle carceri, ove si consideri la preoccupazione che vi è stata, nel discorso presidenziale, sulla necessità di prestare attenzione agli ultimi e a coloro che non hanno voce. Nelle carceri italiane, così come in quelle di tutto il mondo, finiscono soprattutto gli ultimi. E se vi è una categoria di cittadini che non ha voce, è proprio quella dei detenuti. Si tratta di una evidenza tale da aver unito nel denunciare il problema carcerario soggetti diversi quali il Presidente Napolitano, i Radicali, Papa Giovanni Paolo II. Un Presidente che rivolge la sua attenzione agli ultimi, e che non si dà carico dei problemi delle carceri in Italia, finisce con il togliere autenticità e credibilità alla professione di attenzione per chi soffre e non ha nulla. Ma anche i pochi riferimenti alla giustizia, contenuti nel discorso presidenziale, destano preoccupazione. A parte un fugace accenno all'esigenza di una maggiore celerità nella conclusione delle procedure giudiziarie, il contenuto del messaggio presidenziale si è esaurito nella indicazione della esigenza di combattere la corruzione e la mafia. Si tratta di fenomeni che richiedono una forte mobilitazione morale e culturale, che deve investire il modo stesso di concepire la cosa pubblica. Corruzione sono anche lo sperpero di denaro pubblico attraverso gli enti inutili e le società a partecipazione pubblica, l'inefficienza come stato permanente della pubblica amministrazione. Combattere la corruzione significa anche rettificare l'attuale rapporto tra pubblico e cittadino, restituendo a quest'ultimo i diritti di cui dovrebbe essere titolare in uno Stato autenticamente democratico. Di tutto questo non c'è traccia significativa. Ed allora il riferimento alla lotta alla corruzione ed alla mafia rischia di essere un appiattimento su quelle posizioni giustizialiste, che vedono la soluzione di tutti i problemi nel distribuire più carcere a tutti. Certamente, il discorso di insediamento di un Presidente della Repubblica non è un atto sufficiente a giudicarne la figura e l'operato. Si vedrà quale sarà l'atteggiamento concreto quando sarà chiamato a dipanare i nodi che vengono dai problemi sopra indicati. Tuttavia, il tenore del discorso non può non suscitare preoccupazione in ordine alla sensibilità del nuovo Presidente rispetto ai problemi della giustizia. Giustizia: Camere Penali "è a rischio il giusto processo… cambiamo la riforma" di Errico Novi Il Garantista, 4 febbraio 2015 È davvero in ordine il quadro delle garanzie? O l'estensione delle misure antimafia ad altre tipologie di reato modifica in modo sottile e invisibile i diritti della difesa? Ecco le domande a cui governo e parlamento non riescono a rispondere, tanto da rimanere esposti alla controriforma della giustizia proposta da Gratteri. Le Camere Penali Italiane inaugurano il loro anno giudiziario. Venerdì e sabato l'Unione Camere penali italiane riunisce a Palermo rappresentanti dell'esecutivo, dell'avvocatura e della magistratura per cercale di guardare in controluce; l'effetto di una politica giudiziaria non riducibile allo schema dei 12 punti presentato a fino giugno dal governo. C'è di mezzo anche l'iniziativa parlamentare, che propone soluzioni più restrittive. Ci sono alcune norme definite dallo stesso governo che hanno assecondato la logica della reazione immediata all'allarme del momento. Ma c'è soprattutto un pacchetto di interventi ipotizzato dalla Commissione presieduta dal procuratore di Reggio Nicola Gratteri. Nelle inaugurazioni "ufficiali" dell'anno giudiziario, celebrate lo scorsa settimana, nessuno ha osato offrire un quadro pacificato e rassicurante del sistema giustizia, Neppure il guardasigilli Andrea Orlando: che ha presentato la riforma avviata dal governo come una sfida ancora da portare a compimento. Venerdì e sabato l'Unione Camere penali italiane riunisce a Palermo rappresentanti dell'esecutivo, dell'avvocatura e della magistratura per fare il punto sulla situazione. E per cercare di guardare in controluce l'effetto di una politica giudiziaria non riducibile allo schema dei 12 punti presentato a fine giugno dal premier Renzi e dal ministro Orlando. C'è di mezzo anche l'iniziativa parlamentare, che propone soluzioni in alcuni casi più restrittive di quelle previste da quella tabella. Ci sono alcune norme - definite dallo stesso governo che in alcuni casi hanno assecondato la logica della reazione immediata all'allarme del momento. Ma c'è soprattutto un pacchetto di interventi ipotizzato dalla Commissiono nazionale insediata a Palazzo Chigi e presieduta dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri. Lì si condensa un orizzonte di riforma del processo penale devastante, non ancora del tutto scongiurato. È un quadro ancora costellato di insidie e segnato da pericoli già attuali per il sistema delle garanzie. Ed è da questo che i penalisti partiranno. Qui di seguito proponiamo la "tesi congressuale" proposta dall'Ucpi, attorno a cui si svolgerà la due giorni palermitana. La controriforma resta in agguato Tramontato, da un lato, il fattore B ("B" come Berlusconi), che aveva bloccato il dialogo sulla giustizia all'intorno di una contesa a volto strumentalo ma in ogni caso asfittica, ed indebolito, dall'altro, o in crisi di consensi il fattore M ("M" come Magistratura), la politica sembra essersi alleggerita di due fatali condizionamenti e sembra cercare un suo nuovo spazio di manovra. Sebbene "alleggerita" dal giogo di questi due fattori, la politica resta tuttavia debole e lancia segnali contraddittori: il 21 dicembre 2014 il presidente del Consiglio, rimproverato da Anm per il ritardo o la debolezza del suo intervento legislativo sulla corruzione, ammonisco la magistratura ricordando che "i giudici devono fare lo sentenze, ma le leggi lo fa il Parlamento", dimenticando forse di aver messo pochi mesi prima, lui stesso, a Palazzo Chigi un procuratore antimafia a farle quelle leggi, e a dirigere una Commissione per le riforme del processo penale. E infatti, su questo scenario composito od inquieto, noi quale il ministro della Giustizia gioca il suo difficile ruolo di mediatore, il dottor Nicola Gratteri cala ad effetto i suoi 130 articoli della "riforma antimafia", proponendone la promulgazione per decreto legge. Il tema è il seguente: lo strumento antimafia si presta, duttile ed invasivo, anche alla repressione di altri reati corno gli odiosi reati di corruzione. Ciò che aveva già tentato con successo, in via giurisprudenzial-creativa, la Procura romana, trova ora una autorevole sponda normativa. Alla politica manca ancora autonomia La politica stenta dunque a trovare un suo passo, a riprendersi tutto il terreno di azione che le è stato sottratto (o al quale aveva da tempo rinunciato), resta debole anche perché ovunque aggredibile - come dimostrano molte clamorose indagini sulla corruzione, da Venezia a Milano a Roma - a causa della sua scarsa adesione alla moralità ed alla legalità. Ed è per questo che la Politica potrà impossessarsi con autorevolezza della scena istituzionale e sociale solo quando smetterà di chiedere alla magistratura di farsi garante, al suo posto, della propria legalità e della legalità delle sue amministrazioni territoriali (vedi Palermo e vedi Roma e i casi Contrafatto e Sabella). E quando avrà un progetto di riforma, anche ordinamentale, del processo penale che finalmente separi ciò che è ontologicamente e costituzionalmente da separare, nel nome della terzietà del giudice. E quando avrà un progetto di riforma del processo e del diritto penale complessivo ed organico, abbandonando le logiche estemporanee, e cessando di "inseguire" l'opinione pubblica sul piano dell'insicurezza inoculata dalla cronaca giudiziaria, finalmente costruendo il consenso su di una propria idea di processo, liberale, moderna, fondata su idee condiviso, la cui condivisione nasca dalla consapevolezza di quello che sono le possibili funzioni sociali del processo, costruita pertanto sulla corretta informazione e sulla conoscenza di dati che sono spesso svalutati, dimenticati, se non tenuti nascosti, dai quali emerge - ad esempio - che il recupero dei rei costa meno in termini economici od in termini sociali di una cieca repressione; che i rimedi restitutori costano nel loro complesso al Paese più di quanto sarebbe necessario per avere un processo più equo e più spedito; che i diritti o lo garanzie dogli imputati sono il fondamento dei diritti, dello garanzie, od in fin dei conti, della libertà di tutti i cittadini. È nel maturare di questi scenari e nel consolidarsi di queste prospettive contraddittorie che l'Unione, sotto l'auspicio di un titolo suggestivo od ambizioso, "Inauguriamo la Giustizia del Futuro", vara il progetto della sua inaugurazione dell'Anno Giudiziario (Palermo 6/7 febbraio 2015). Molto vi sarà da dire sul tipo di processo che le riforme propongono e sui rimedi contraddittori o sposso troppo antichi con i quali si intendono affrontare i problemi della crisi epocale del reato e della pena e al tempo stesso i nuovi e drammatici fenomeni che danno assalto alla contemporaneità (dai reati ambientali e dalla corruzione capillarmente diffusa sul territorio, ai foreign figthers e al terrorismo internazionale). Sul piano delle strategie normative qualcuno parla di "ingorgo", ma il problema non è quello del traffico eccessivo delle norme pensate per riformare o per "salvare" il processo penale, ma dulie visioni del mondo che sono in gioco. Il doppio volto del "nuovo" processo Tenere dritta la barra delle riforme sulla rotta del "giusto processo", impedendo che le garanzie difensive vengano erose, ed il processo penale venga stravolto e imbarbarito, è compito difficile in una situazione così complessa, la cui lettura sembra imporre strumenti di decifrazione inediti ed una visione strategica del tutto nuova. Cosa succede nel profondo? Quali spazi vanno ad occupare lo riforme e soprattutto quale idea, invisibile e opaca, le governa? In che modo i mezzi si stanno trasformando in fini? Como avviene che le strategie della giustizia del futuro vadano dislocando le politiche repressive al di fuori dei consueti orizzonti e degli spazi costituzionalmente presidiati del "giusto processo", su quel terreno ancora aperto delle misure di prevenzione, delle misure patrimoniali, delle confische allargate e per equivalente? È questa la giustizia del futuro? La giustizia dei mezzi trasformati in fini nella quale la cittadella del Giusto Processo viene abbandonata come fosse il luogo obsoleto e ridondante di inutili prospettive dove non si gioca più la partita delle nostre libertà? Dove si gioca il futuro del processo? In quei pochi processi di rilievo nazionale nobilmente governati dallo statuto del contraddittorio, presidiati dai media, dove la professionalità di giudici, pubblici accusatori e avvocati confronta alte visioni del mondo, e dove si vanno formando e sgrossando le deformanti e performanti giurisprudenze del futuro (su principio di precauzione, dolo e colpa eventuali)? O si forma invece nei mille Tribunali di provincia, nelle mille aule di tanti più oscuri circondari non illuminati dai media, dove non brillano né le garanzie (turlupinate dalla speditezza del rito e dalla insofferenza dei giudici), né le toghe, e la giurisprudenza che si forma è quella di un processo approssimativo e malsano che non induce a facili ottimismi? Si riorganizza intorno ad una sostanziale progressiva marginalizzazione della funzione difensiva e ad una continua erosione della sua intangibilità, intorno ad una sorta di visione "negazionista" della sua rilevanza storica e della sua funzione sociale? Si forma e si cristallizza in quei tanti processi nei quali non è più la custodia ad essere strumento eventuale e residuale del processo, ma nei quali è il tipo di processo a seguire e a servire la custodia, a dipenderne interamente, così che la misura cautelare finisce con l'essere prodotta dalla necessità del processo e del rito e non viceversa? O si va definendo intorno a quel variegato nucleo di riforme che sembrano assecondare una "fuga" dal processo stesso, una rinuncia al valore del contraddittorio, una preferenza per ciò che è pura applicazione della pena, affare sbrigativo, confessione, risarcimento ed emenda? Diritti negati e conti da pagare Se così fosse vedremo desertificati gli spazi del "giusto ed equo processo", e dove il contraddittorio resisterà sarà scoraggiato dai tempi processuali indebitamente allungati da prescrizioni interrotte o sospese, di fase in fase, di impugnazione in impugnazione. E vedremo poi strumenti "restitutori" prendere il posto dei veri processi. Vedremo enormi e dispendiose macchine processual-riparatorie, insufflate con risorse ingenti, umane ed economiche, messe su per rimediare ai danni (ingiuste detenzioni, durata irragionevole dei processi) che il processo stesso ha determinato. Non un processo nel quale il giusto è equamente distribuito fra i cittadini, ma un giusto concentrato in pochi processi, e per ciò stesso deformato dalle aspettative, produttivo di giurisprudenze estreme, maturate nelle tensioni del singolo e spesso irripetibile caso concreto. Un teatro giudiziario aperto a poche esibizioni di pregio, aristocratico e produttivo di leading case, e per il resto fatto di modeste messe in scena per una utenza massificata, di imputati e di avvocati, indistinta e mortificata. E su tutto questo si fa invece strada una gestione sapiente, tecnocratica, economicista ed efficiente della giustizia futura, che si colloca su scenari sovranazionali di lotta al crimine economico, che nel nostro Paese si colora inevitabilmente di un glamour anti-mafioso, e che nella luce di questo fenomeno indistintamente legge e reprime tutti i fenomeni criminosi di pregio. Misure patrimoniali, una giustizia parallela Questa progressiva espansione degli strumenti tipici del contrasto alla criminalità organizzata (fatta propria dall'articolo 4 del Ddl che estende l'ambito applicativo della disciplina del codice delle leggi antimafia e dell'articolo 12-sexies del decreto legge 306/1992), e la dislocazione degli strumenti propri delle misure di prevenzione in ambiti tanto inconsueti quanto estesi, sembra dimostrare come si persegua un disegno di evidente spostamento delle strategie di riforma del processo penale, dallo spazio coperto e presidiato dallo statuto della prova e delle relative garanzie, allo spazio non garantito, consegnato alla devastante, autoritaria, efficiente, insidiosa ed invasiva applicazione delle misure patrimoniali. Quelli che erano i mezzi e gli strumenti attraverso i quali si perseguivano in via accessoria finalità di lotta al crimine economico, alla sottrazione di capitali intrinsecamente produttivi di nuovi illeciti, si trasformano ora in fini dell'azione giudiziaria e del riordino sociale ed economico. In un'ottica interamente "governamentale" il processo così concepito non si limita ad estirpare il male, ma persegue la riorganizzazione del bene. L'investimento della repressione penale sembra spostarsi dunque, tanto intenzionalmente quanto silenziosamente, dal terreno più garantito della libertà personale a quello visibilmente disarmato del patrimonio, la cui incauta aggressione apparo produttiva di effetti sociali, culturali ed economici altrettanto gravi, il che impone un ripensamento ampio, approfondito e penetrante della tutela di diritti in parte dimenticati, o a volte marginalizzati, per ricomporre le garanzie di libertà, di tutte le libertà personali e patrimoniali, nell'ambito di una tutela costituzionale ancora più avanzata e rafforzata del "giusto processo". Giustizia: Modavi "riscrivere le norme che regolano il ricorso alle misure alternative" Redattore Sociale, 4 febbraio 2015 L'analisi del Modavi Onlus: "Sistema carcerario è in forte sofferenza: interrotte sperimentazioni positive, come quella relativa alla gestione delle mense, ed aumentano le aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria. In occasione della tavola rotonda "Diritti umani e dei detenuti. Quale futuro?", organizzata dal Forum Nazionale dei Giovani presso la sede del Parlamento Europeo in data odierna, il Modavi Onlus - in qualità di membro del gruppo di lavoro del Fng "Emergenza carceri e Diritti umani" - sottolinea che per fronteggiare il sovraffollamento delle carceri italiane occorre potenziare le politiche attive di esecuzione esterna della pena ed i progetti di inserimento socio-lavorativo. Per affrontare il problema del turn-over dei detenuti occorre focalizzare l'attenzione del decisore pubblico sulla necessità di riscrivere le norme che regolano il ricorso alle misure alternative, di potenziare gli organici degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna, nonché della presa in carico totale della persona dopo la fase di espiazione della condanna, al fine di ridurre drasticamente il fenomeno della recidiva". "Il sistema carcerario - spiega il Modavi - è in forte sofferenza: si interrompono sperimentazioni positive, come quella relativa alla gestione delle mense, ed aumentano le aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria. Poiché il carcere è un luogo di riabilitazione e non un confino per prigionieri, chiediamo al Governo di dare risposte fattive in tal senso, affinchè il carcere possa portare al pieno recupero psico-sociale della persona". Giustizia: Gonnella (Antigone) a Mattarella "rimetta in piedi l'istituto della grazia" di Giovanni Augello Redattore Sociale, 4 febbraio 2015 A lanciare l'appello al neoeletto presidente della Repubblica è Patrizio Gonnella. "Nei prossimi giorni la chiederemo per un detenuto pakistano, condannato a 9 anni e 4 mesi per droga dopo un processo di 19 anni durante i quali si è comportato in modo irreprensibile". "Il presidente Mattarella rimetta in piedi l'istituto della grazia, negli ultimi tempi un po' dimenticato. Nei prossimi giorni la chiederemo per un detenuto pakistano, condannato a 9 anni e 4 mesi per droga dopo un processo di 19 anni durante i quali si è comportato in modo irreprensibile". A lanciare l'appello e probabilmente la prima richiesta di grazia al neoeletto presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel giorno del suo insediamento al Quirinale è Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone che oggi ha presentato un libro dal titolo "Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti". Al nuovo presidente, Gonnella chiede "un'attenzione alla questione della giustizia e del carcere che non sia l'attenzione che alcuni interlocutori gli chiedono di fare il vigile contro Berlusconi - ha aggiunto. A noi di Berlusconi non ce ne frega nulla. Deve essere il guardiano della Costituzione e automaticamente metterà al centro gli articoli 13 e 27 che vietano le violenze e che indicano quale deve essere la funzione della pena. Speriamo che dia un messaggio alle Camere e orienti l'opinione pubblica e le forze politiche intorno ad un'idea che ci riporti a Beccaria, cioè che il diritto penale è stato pensato non per vessare, ma per limitare il potere di chi aveva il potere di punire". Al nuovo presidente della Repubblica, però, l'associazione Antigone chiede subito un intervento urgente. Una grazia per un detenuto pakistano di 57 anni, oggi nel carcere di Rebibbia a Roma. "Stiamo costruendo la domanda di grazia per Iqbal Muhammad - ha detto Gonnella -. È un detenuto pakistano arrestato nel 1994 per traffico di droga. Si è fatto 11 mesi di custodia cautelare, 4 mesi di arresti domiciliari, dopo di che nei successivi 19 anni è tornato libero, ha lavorato, ha cresciuto una famiglia, oggi ha una figlia di 26 anni, ha fatto il volontario nelle parrocchie. Si è comportato come si deve comportare un cittadino ordinario". Nel frattempo il processo è andato avanti e qualche mese fa è arrivata la sentenza di condanna: 9 anni e 4 mesi per droga. "Negli ultimi 19 anni si è comportato in modo irreprensibile - ha aggiunto Gonnella. Questa non è giustizia, ma vendetta e pena senza senso. Per questo chiederemo insieme a lui la grazia. Speriamo che questo capo dello Stato rimetta in piedi l'istituto della grazia, perché la grazia è stata un po' dimenticate negli ultimi anni. Sono state usate un po' come se fosse una grazia politica, invece noi vorremmo che ritornasse ad avere quel suo ruolo che è quello di mettere una toppa dove la giustizia non ha funzionato". Giustizia: Fp-Cgil; il Testo Unico in materia di salute e sicurezza entra nelle carceri www.rassegna.it, 4 febbraio 2015 In vigore il decreto 81/2008 nelle strutture penitenziarie. Quinti (responsabile Fp Cgil comparto sicurezza): "un regolamento atteso dagli operatori, che colma un incomprensibile vuoto normativo. Adesso, però, occorre costruire nuovi istituti". Finalmente il Testo Unico in materia di salute e sicurezza si applica anche nelle strutture giudiziarie e penitenziarie. Entra infatti in vigore mercoledì 4 febbraio il decreto 201 del ministero della Giustizia, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 20 gennaio scorso. Il "Regolamento recante norme per l'applicazione, nell'ambito dell'amministrazione della giustizia, delle disposizioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro" contiene complessivamente nove articoli, attuando il Testo Unico (secondo quanto prevedeva il secondo comma dell'art. 3) in questi particolari luoghi di lavoro, tenendo appunto in considerazione le specifiche esigenze connesse ai servizi istituzionali espletati e le peculiarità organizzative di queste strutture (come la vigilanza dei detenuti o la tutela dell'incolumità propria e degli utenti contro i pericoli di attentati, aggressioni e sabotaggi). "È un regolamento attuativo molto atteso dagli operatori penitenziari, in particolare dagli agenti di Polizia penitenziaria, che lavorano 24 ore su 24 direttamente a contatto con i detenuti, per altro in istituti per lo più vetusti" commenta Francesco Quinti, responsabile nazionale Fp Cgil per il comparto sicurezza, precisando che la Funzione pubblica di settore "da anni ne sollecitava l'adozione ai ministri che si sono fin qui succeduti alla guida del dicastero". Il decreto, conclude Quindi, colma "finalmente un incomprensibile vuoto normativo, di cui si dovrà tener conto anche in prospettiva, nell'ambito della costruzione di nuovi istituti e padiglioni penitenziari, la cui prossima attuazione ci consentirà di pretendere quel rispetto per la tutela della salute e della sicurezza del personale che fino a oggi l'amministrazione penitenziaria si è ostinata a negare". Il provvedimento tocca tutti gli aspetti importanti della materia. I primi due articoli definiscono il campo e le modalità di applicazione del decreto, mentre gli articoli 3 e 4 disciplinano il Servizio di prevenzione e protezione (Spp) e il ruolo dei Rappresentanti per la sicurezza del personale dell'amministrazione e della polizia penitenziaria. L'articolo 5 è dedicato al Documento unico di valutazione dei rischi da interferenze (Duvri): a dimostrazione della particolarità delle strutture in questione, si stabilisce, ad esempio, che "nella predisposizione delle gare di appalto di servizi, lavori, opere o forniture nell'ambito dell'amministrazione, i dati relativi alla prevenzione dei rischi da interferenze fra le attività della stessa e quelle delle imprese appaltatrici sono indicati omettendo le specifiche informazioni connesse all'attività istituzionale di cui è vietata o ritenuta inopportuna la divulgazione". Infine gli ultimi articoli: la sorveglianza sanitaria (art. 6), le funzioni di vigilanza preventiva, tecnico amministrativa e di vigilanza ispettiva sull'applicazione della normativa (art. 7), la clausola di invarianza finanziaria (art.8) e le abrogazioni (art. 9) che questo nuovo provvedimento comporta. Giustizia: "tenuità del fatto" con nuovi limiti, esclusi i reati di omicidio colposo e stalking di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2015 Via libera sì, ma con paletti che rendono un po' meno discrezionale la valutazione del giudice. La commissione Giustizia della camera ha approvato ieri il parere messo a punto dal relatore e responsabile giustizia del Partito democratico, David Ermini, sul decreto legislativo messo a punto dal Governo che introduce l'archiviazione per tenuità del fatto. L'assenso al provvedimento è subordinato ad alcune condizioni che, oltre al contenuto tecnico, hanno un'evidente intenzione tranquillizzante rispetto ai timori avanzati da forze politiche come Lega Nord di ampia depenalizzazione. Il decreto prevede la possibilità di archiviazione, nel caso di reati sanzionati con pena massima fino a 5 anni, quando sono presenti due condizioni: la tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento. Così, la presidente della Commissione, Donatella Ferranti (Pd) osserva che "su questo decreto si è fatta una propaganda allarmistica del tutto infondata e strumentale, in realtà non ha nulla a che fare con la depenalizzazione o l'impunità di delitti gravi. I reati di allarme sociale, dallo stalking alle truffe reiterate ai pensionati, dai maltrattamenti in famiglia al furto aggravato o ai maltrattamenti di animali, continueranno a essere perseguiti e puniti. Anzi, proprio perché l'archiviazione per particolare tenuità del fatto consentirà di non disperdere energie e risorse in processi su fatti minimi, gli uffici giudiziari - sottolinea Ferranti - potranno concentrarsi sui delitti che mettono davvero a repentaglio la sicurezza dei cittadini per arrivare in tempi ragionevoli alla pronuncia di sentenze di merito senza incorrere nella tagliola della prescrizione". Nel dettaglio, il parere nella determinazione di un pacchetto di condizioni, muove dalla considerazione che il parametro "della modalità della condotta consente valutazioni anche di natura soggettiva riguardo il grado della colpa e l'intensità del dolo". Per questa ragione, oltre ai tradizionali criteri sul potere discrezionale del giudice, articolo 133 primo comma del Codice penale, il parere chiarisce che l'offesa non può essere ritenuta di particolare leggerezza in una serie di casi: l'avere agito per motivi abietti o futili, l'avere utilizzato sevizie o avere agito con crudeltà o "in violazione del sentimento di pietà per gli animali o in condizioni di minorata difesa della persona offesa anche in riferimento all'età". Spostando poi l'attenzione dalla condotta al soggetto, allora il parere osserva, considerando determinante l'occasionalità della condotta ai fini della non punibilità, che il comportamento è abituale quando l'autore è stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza oppure ha commesso altri reati della stessa indole anche se ogni fatto, considerato isolatamente, è di particolare tenuità. Inoltre, fuori dal perimetro di applicazione dell'istituto, dovrebbero essere, secondo il parere, tutte le fattispecie di reato che hanno per oggetto condotte "plurime, abituali e reiterate". È il caso, per esempio, dello stalking e dei maltrattamenti in famiglia. Oppure, a maggior ragione, dell'omicidio colposo. Non tra le condizioni, ma "solo" tra le osservazioni, il parere prevede che tra i motivi di reclamo possa esserne inserito uno di merito con riferimento al diritto dell'indagato e della parte offesa a fare valere il proprio dissenso sulla decisione di archiviazione. E sulle proposte del parere arriva l'apertura del sottosegretario alla Giustizia Cosimo ferri che sottolinea come l'esclusione esplicita dei reati più gravi sia già allo studio. Giustizia: Antigone; oltre 17 mila stranieri in carcere, in pochi hanno misure alternative di Giovanni Augello Redattore Sociale, 4 febbraio 2015 Patrizio Gonnella (Antigone) presenta il volume "Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti". E rivela: "Da ottobre 2014 nuove campagne contro gli immigrati potrebbero riportare a un aumento generale della popolazione reclusa, soprattutto straniera". "Da ottobre 2014 hanno iniziato a nascere nuove campagne contro gli immigrati che potrebbero riportare a un aumento generale della popolazione reclusa, soprattutto straniera". A lanciare l'allarme è Antigone che oggi a Roma presenta il volume "Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti" a cura di Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione. Il testo fa un quadro generale della popolazione straniera in carcere, snocciolando i dati sulla composizione dei detenuti. L'ultimo dato sulla popolazione straniera in carcere in Italia parla di 17.462 unità (al 31 dicembre 2014), pari al 32,56 per cento del totale. Un dato che, nella sua percentuale, è in linea con quelli raccolti dall'entrata in vigore del Testo unico sull'immigrazione. "Fino al 1996 - spiega il testo - la quota di stranieri detenuti in Italia si mantiene piuttosto bassa, sia in termini assoluti che percentuali. Dopo quell'anno, e ancora più segnatamente dopo l'entrata in vigore del Testo unico sull'immigrazione, la componente straniera nelle carceri italiane comincia a crescere. Tra il 1998 e il 2000 toccherà la soglia del 30 per cento, dalla quale non scenderà più". Ad incidere maggiormente sul preoccupante incremento della popolazione carceraria sono i provvedimenti targati Monti, Letta e Renzi che secondo Antigone "hanno per lo più permesso la scarcerazione di quanti erano stati condannati a pene non elevate". E ad avvalersi di tale sconto di pena, anche gli immigrati "che come è noto - spiega Antigone - provengono da contesti sociali disagiati e marginali e sono puniti per reati meno gravi rispetto agli italiani". Per Antigone, però, ad oggi manca ancora una "strategia penale diretta a ridistribuire il peso delle iniquità sociali. Il fatto è che quando a decidere è il caso e non un piano ben determinato il rischio è che in breve tempo si torni al passato". La popolazione straniera in carcere. Il primo dato che balza agli occhi è che degli oltre 17 mila detenuti stranieri in Italia solo 867 siano donne (di cui 232 provenienti dalla Romania, 90 dalla Nigeria e 46 dalla Bosnia), cioè il 4,9 per cento sul totale degli stranieri detenuti, il 4,3 per cento sul totale delle detenute. Per quel che riguarda la provenienza, per numeri assoluti e per percentuale, al primo posto troviamo come provenienza il Marocco (2.955 detenuti, il 16,9 per cento sul totale degli stranieri detenuti). A poca distanza la Romania (2.835 e 16,2 per cento), poi l'Albania (2.437 e 14 per cento) e la Tunisia (1.950 e 11,2 per cento). Primi tre posti confermati anche per tasso di detenzione sulla comunità straniera presenta in Italia. Al primo posto il Marocco, con 704 detenuti ogni 100 mila persone presenti in Italia. Al secondo posto l'Albania con 518 detenuti su 100 mila persone. Poi la Romania (309 su 100 mila). Lontani dal podio i detenuti di nazionalità filippina: sono 35 ogni 100 mila persone presenti in Italia. Tuttavia, questi dati vanno analizzati con attenzione. "Se si guarda ai dati sulla popolazione straniera detenuta - spiega Antigone - può sembrare che ci siano alcune etnie più propense a delinquere rispetto ad altre. Una lettura sommaria di questi dati è però fuorviante, dato che non tiene conto di una serie di varianti fondamentali quali i percorsi individuali e collettivi, l'inclusione sociale e lavorativa, la presenza di donne e bambini. La comunità filippina si è integrata e ha saputo così conquistarsi la fiducia degli italiani, altre comunità restano ancora vittime di pregiudizi". Tra gli altri dati raccolti da Antigone anche quelli su età, legami familiari e religioni. Per quanto riguarda l'età, le percentuali più alte di detenuti stranieri rispetto agli italiani le si ritrovano soprattutto nella fascia d'età tra i 18 e i 29 anni, dove tale percentuale oscilla dal 58 per cento al 51. Tra i detenuti stranieri, inoltre, spiccano i celibi o nubili: sono più di 9 mila rispetto al circa 4 mila coniugati. Per quanto riguarda i titoli di studio, il dato più alto è sotto la voce "non rilevati", ma in generale il dato è sconfortante. "L'unico fatto certo - spiega lo studio - è che i livelli di alfabetizzazione sono molto bassi e questo vale sia per i detenuti italiani che per quelli stranieri". Infine le religioni: al primo posto c'è l'Islam tra gli stranieri con oltre 5.600 presenze in carcere. Al secondo posto la religione cattolica (oltre 2.600 tra gli stranieri), più di 2.200 gli ortodossi. Sotto la lente di ingrandimento anche la "fiducia" da parte dei magistrati di sorveglianza e dei servizi sociali, uno dei dati indagati dallo studio. Fiducia che spiega in parte lo scarto che c'è tra italiani e stranieri nel fruire di misure alternative. Gli stranieri che accedono a misure alternative alla detenzione sono il 17,34 per cento di quanti usufruiscono di questa possibilità. "Il tasso di fiducia - spiega Antigone - è il rapporto tra il totale delle persone in esecuzione penale e quelle che invece sono in misura alternativa. Quello che sorprende è che i tedeschi hanno un tasso di fiducia superiore persino agli italiani. In secondo luogo, che alcune nazionalità extracomunitarie, quali ad esempio i senegalesi e i peruviani, godono di una fiducia maggiore rispetto ai francesi". Tasso di fiducia, inoltre, legato anche al genere: "Rispetto agli uomini - spiega lo studio - il tasso di fiducia delle donne è circa il doppio". Gli stranieri detenuti in attesa di primo giudizio o non giudicati in via definitiva, inoltre, sono relativamente più numerosi degli italiani: il 34 per cento della popolazione detenuta, contro il 29 degli italiani. "Lo scarto di 5 punti - si legge nello studio - si spiega con la minore possibilità di accesso dei primi a una tutela legale qualificata". Per quanto riguarda i reati per i quali gli stranieri sono maggiormente imputati, infine, spiccano quelli a bassa offensività, spiega lo studio. Si va dalla droga alla prostituzione o legati all'immigrazione. "Su un totale di 34.957 reati, 9.277 sono le imputazioni per uno di questi tre motivi - spiega lo studio -, una percentuale del 26,5 per cento. I delitti contro la persona commessi da stranieri sono 6.963 (30,3 per cento del totale), mentre solo 111 stranieri sono imputati per reati di associazioni a delinquere, ossia l'1,6 per cento del totale". Inoltre, spiega lo studio, "all'allungarsi delle pene inflitte diminuisce la percentuale di stranieri e in base al residuo pena da scontare in carcere, gli stranieri rappresentano una percentuale più corposa rispetto agli italiani. Tutto ciò indica la forte connotazione selettiva su base etnica del sistema penale italiano a discapito degli stranieri". Con i nuovi imprenditori della paura si rischia boom di stranieri in carcere L'allarme del presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. "C'è chi sta costruendo le proprie fortune politiche intorno all'identificazione fra immigrato e terrorista. Comunità che vivono ai margini potrebbero risentirne a causa dei maggiori controlli di tipo repressivo. La popolazione straniera in carcere rischia di aumentare se si cade nuovamente nella trappola della "paura" dell'immigrato. A mettere in guardia da un possibile nuovo incremento della popolazione carceraria, soprattutto straniera, è il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, che oggi a Roma ha presentato uno studio dedicato alla presenza di stranieri negli istituti di pena italiani dal titolo "Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti". Secondo Gonnella, da ottobre 2014 "hanno iniziato a nascere nuove campagne contro gli immigrati". Per il presidente di Antigone, infatti, "c'è chi sta nuovamente svolgendo il proprio ruolo di imprenditore della paura negli ultimi mesi, puntando a costruire le proprie fortune politiche intorno alla paura dell'immigrato e oggi addirittura intorno all'identificazione fra immigrato e terrorista". Come possa tutto questo incrementare i detenuti stranieri, Gonnella lo spiega così: "Sappiamo che non è solo una questione di norme - ha aggiunto - ma anche una questione di pratiche di polizia e della magistratura. La norma sulla clandestinità non ha prodotto neanche un detenuto, perché era una norma che prevedeva una sanzione pecuniaria e poi i giudici avevano già interiorizzato che doveva essere disapplicata. Però se noi adesso, invece, costruiamo nuovamente lo stereotipo dell'immigrato che ci sta rubando i soldi e che forse ci mette anche una bomba sotto casa, ci sarà sicuramente un aumento dei controlli, un aumento del lavoro di polizia e dei fermi. Pensiamo a tutto il sistema e a quelle comunità che vivono ai margini e rischiano un maggiore controllo di tipo repressivo". L'aumento di controlli, quindi, potrebbe portare ad un'inversione di tendenza nella popolazione penitenziaria, che negli ultimi tempi ha visto un calo grazie agli ultimi interventi normativi. Tuttavia, per Gonnella, occorre essere vigili. "Se non si sta attenti, non è detto che tutto questo non comporti a sua volta anche l'ipotesi di cambiare le norme nuovamente. Ci basta un attimo: è con 50 arresti nel giro di sei mesi che si costruisce quella paura per cui ricambiano nuovamente le norme. Non abbiamo un sistema immune dai rischi". Il sistema di giustizia italiano ed europeo è palesemente discriminatorio Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone, si sofferma su un sistema penitenziario non pensato per gli stranieri: "Riesci ad evitare la custodia cautelare e riesci ad andare in misura alternativa se hai una casa, ma lo straniero irregolare pur volendola o avendola non la può certificare". Il sistema della giustizia italiano ed europeo è "palesemente discriminatorio" nei confronti degli stranieri. È quanto afferma Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone che oggi a Roma ha presentato un libro dal titolo "Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti" che fa il punto sui detenuti stranieri in Italia e in Europa. Oltre ai tanti dati presenti nello studio, la riflessione di Gonnella si sofferma soprattutto su di un sistema penitenziario non pensato per gli stranieri, che spesso vedono negate le possibilità concesse ai cittadini europei e, nel caso dell'Italia, italiani. Un primo dato che mostra questa differenza di trattamento è quello della custodia cautelare. Su oltre 1,7 milioni di detenuti europei e una percentuale di circa il 21 per cento di stranieri, la custodia cautelare per gli stranieri è di circa il 28 per cento rispetto al totale delle persone non condannate presenti in carcere contro il 21 per cento del totale comprendente anche i condannati. Un dato europeo che rispecchia quello dell'Italia, spiega Gonnella, e che risulta essere "segno di un sistema giudiziario fortemente discriminatorio". "Nonostante la forte retorica anti-immigrati presente in molti Paesi - scrive Gonnella nel testo, nonostante le difficili condizioni sociali in cui gli immigrati vivono un po' dappertutto a causa di processi di marginalizzazione e stigmatizzazione, nonostante una minore disponibilità di strumenti di difesa legale, i numeri non sono così elevati da giustificare allarmi per la sicurezza. La criminalità straniera non costituisce l'urgenza politica e giudiziaria dell'Europa. I numeri della devianza penale straniera non spiegano campagne xenofobe. Se mai sono indicativi di un sistema della giustizia palesemente discriminatorio". Per Gonnella, infatti, "il sistema è pensato per il detenuto che abbia una casa - ha aggiunto. Riesci ad evitare la custodia cautelare e riesci ad andare in misura alternativa se hai una casa, ma lo straniero irregolare pur volendola o avendola non la può certificare. Quindi bisogna necessariamente intervenire su quelle norme che creano discriminazione a priori". Per Gonnella, quindi, è necessario "superare quella discriminazione di tipo giudiziario che porta ad una sovra rappresentazione degli stranieri per quanto riguarda le misure cautelari e una sotto rappresentazione per quanto riguarda le misure alternative". Per il presidente di Antigone, però, quello delle misure cautelari e alternative è solo uno degli ostacoli da superare. Tra le cose da "rivedere" nel sistema italiano anche le "espulsioni automatiche per coloro che sono a fine pena", ma non solo. Secondo Gonnella occorre inserire una norma che vieti di trasferire un detenuto verso paesi dove vi sia il rischio di tortura o trattamenti inumani o degradanti; l'assunzione con concorso pubblico di interpreti e traduttori delle varie lingue in numero sufficiente per operare in ogni istituto penitenziario; l'inserimento della lingua inglese fra le materie d'esame per l'accesso ai vari ruoli della carriera penitenziaria e del servizio medico; l'organizzazione nelle case di reclusione di corsi di educazione interculturale e l'inserimento di norme nel regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario che tengano conto delle identità culturali e religiose. Tra le proposte anche quella di cumulare le ore di colloquio oltre i limiti mensili per consentire a parenti che arrivano da paesi lontani, la concessione di un visto utile per entrare in Italia e far visita ad un proprio parente detenuto e l'accesso a internet, Skype o alle mail per tutti i detenuti che non hanno censura nella corrispondenza epistolare in modo da facilitare la comunicazione soprattutto agli stranieri che hanno parenti lontani. Giustizia: detenuti stranieri; le carceri italiane sono inadeguate, ecco lo Statuto dei diritti www.stranieriinitalia.it, 4 febbraio 2015 Il rapporto dell'associazione Antigone sui 17 mila immigrati dietro le sbarre, il 33% della popolazione carceraria. "Oggi le norme sono tarate su un detenuto tipo italiano". Alla fine del 2014 i detenuti stranieri nelle carceri italiane erano 17.462, il 32,56% del totale. Un calo significativo, se si considera il 37% registrato nel 2009, ma la tendenza potrebbe invertirsi, perché "non è stata adottata una strategia penale diretta a redistribuire il peso delle iniquità sociali. Quando a decidere è il caso e non un piano ben determinato il rischio è che in breve tempo si torni al passato". Il dossier "Detenuti Stranieri in Italia", scritto dal presidente dell'associazione Antigone Patrizio Gonnella e presentato oggi a Roma, non fotografa solo dettagliatamente uno stato di fatto, ma denuncia l'inadeguatezza dei nostri sistemi penale e carcerario nei confronti degli immigrati, che spesso si traduce in una violazione di diritti. Tra la altre cose, Gonnella propone uno Statuto dei detenuti stranieri in Italia, che trovate qui di seguito. É un elenco, spiega il presidente di Antigone, che "contiene proposte di cambiamento legislativo e regolamentare, alcune delle quali hanno una valenza generale ma un impatto maggiore sulla detenzione straniera" ed "evidenzia l'incompletezza della legislazione interna ancora troppo centrata sull'idea di un detenuto tipo che è italiano". Lo statuto dei diritti dei detenuti stranieri in Italia 1. Eliminare tutte le forme di espulsione giudiziaria o amministrativa automatica a fine pena per il detenuto straniero. 2. Cancellare dall'ordinamento giuridico l'espulsione quale misura di sicurezza. 3. Inserire nel codice di procedura penale una norma che preveda il divieto di trasferimento della persona da noi detenuta verso paesi dove vi sia il rischio di sottoposizione a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. I giudici devono tenere conto delle sentenze degli organismi di giustizia sovranazionali, dei rapporti delle organizzazioni internazionali intergovernative e delle segnalazioni delle organizzazioni non governative. 4.Inserire nel sistema procedurale italiano il principio del favor rei, secondo il quale nessuno deve essere soggetto in Italia a una sanzione o una misura alternativa più afflittiva rispetto a quella del Paese di provenienza. 5.Inserire nell'ordinamento penitenziario una norma dedicata interamente ai detenuti stranieri recependo i contenuti della Raccomandazione del 2012 del Consiglio d'Europa. 6.Estendere con apposita legge alle camere di sicurezza le regole sulla disciplina di vita interna alle carceri quanto meno nella parte relativa alla salute, all'igiene, ai pasti, agli spazi, alle visite, ai rapporti con i difensori con una clausola finale che affermi come mai quella detenzione, seppur breve, debba avvenire comprimendo o calpestando la dignità umana. 7.Assumere con concorso pubblico interpreti e traduttori dalle varie lingue in numero sufficiente affinché possano operare in ogni istituto penitenziario. 8.Inserire la lingua inglese fra le materie d'esame per l'accesso ai vari ruoli della carriera penitenziaria e del servizio medico. 9.Prevedere che l'insegnamento della legislazione interna e internazionale sugli stranieri in vigore, compresa la raccomandazione europea del 2012, e delle lingue più parlate dai detenuti facciano parte dei programmi di aggiornamento professionale e formazione continua. 10.Redigere un piano annuale che tenga conto dei bisogni formativi di chi è impegnato professionalmente con la popolazione detenuta straniera. 11.Inserire nell'ordinamento una norma che riprenda quanto affermato all'articolo 4 delle Regole Penitenziarie Europee ovvero che la mancanza di risorse non può mai essere causa di giustificazione per la violazione dei diritti umani delle persone detenute, nazionali o straniere. 12.Codificare nuove pene e misure alternative di tipo non detentivo, quali ad esempio quelle consistenti in attività socialmente utili da svolgersi nel fine settimana in modo da non interrompere le normali attività di lavoro o studio. 13.Organizzare nelle case di reclusione corsi di educazione interculturale diretti alla conoscenza delle culture nazionali, religiose, etniche più rappresentate all'interno del carcere 14.Inserire nel regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario una norma che espliciti come in materia di vestiario ed igiene vanno rispettate le identità culturali e religiose. 15.Prevedere la possibilità di acquisto di cibi etnici al supermercato (sopravvitto) interno al carcere. 16.Prevedere che in ogni reparto vi sia a disposizione di detenuti e personale un vocabolario (cartaceo o informatico) per ciascuna delle lingue più parlate dalla popolazione reclusa. 17.Prevedere nei procedimenti disciplinari l'obbligo della difesa legale per tutti e dell'interprete per lo straniero che ne abbia bisogno. 18.Assicurare una o più telefonate immediatamente dopo l'avvenuta incarcerazione. 19.Liberalizzare la corrispondenza telefonica nel caso di persone non sottoposte a censura da parte della magistratura. 20.Prevedere il cumulo di ore di colloquio anche oltre i limiti mensili nel caso di parenti che arrivano da Paesi lontani. 21.Prevedere tempi rapidi per la concessione del visto utile a entrare in Italia e fare visita al proprio parente detenuto. 22.Consentire l'uso di internet, della comunicazione via skype e via mail per tutti coloro che non hanno censura nella corrispondenza epistolare. 23.Prevedere l'obbligo di realizzazione di corsi di preparazione al rilascio in prossimità della fine della pena con un'attenzione specifica ai bisogni sociali degli stranieri. 24.Nel caso di profughi, richiedenti asilo, apolidi deve essere sempre consentito l'ingresso in carcere di personale dell'Acnur. 25.Istituire un registro dove conservare traccia di ogni contatto (o rinuncia) del detenuto con le autorità consolari. 26.Prevedere la stipulazione di accordi tra Stati diretti al riconoscimento nello Stato di origine dei contributi previdenziali versati nel Paese dove il lavoratore detenuto straniero è stato recluso. 27.Organizzare attività ricreative, sportive e culturali che facciano parte di altre tradizioni e contesti. 28.Organizzare un servizio bibliotecario che disponga di materiali multimediali e libri in più lingue tenendo conto dei bisogni culturali e religiosi dei detenuti stranieri. 29.Prevedere l'assunzione di etno-psichiatri e medici esperti in malattie dell'immigrazione. 30.Introdurre norme cogenti che impongano la sicurezza dinamica ovvero una organizzazione del controllo interno al carcere fondata rigorosamente sulla conoscenza individuale del detenuto. 31.Istituire un ufficio nazionale che si occupi di donne detenute con uno sguardo speciale rivolto alle straniere. 32.Codificare il divieto di dare informazioni di tipo penitenziario e medico alle autorità del Paese dove il detenuto straniero è stato trasferito senza il suo consenso. 33.Istituire una cartella individuale biografica informatica che contenga tutte le informazioni sulla vita penitenziaria condotta dallo straniero e sui bisogni relazionali nonché socio-sanitari". Giustizia: troppi detenuti stranieri… al posto degli interpreti si ricorre a Google Redattore Sociale, 4 febbraio 2015 I mediatori culturali che dovrebbero fare da traduttori in carcere sono pochissimi: a Regina Coeli solo 4 per 450 carcerati. E per allentare le tensioni, svela la direttrice, si usa spesso il servizio gratuito del motore di ricerca. "Per poter allentare le tensioni negli istituti quando i detenuti entrano ed escono e non abbiamo l'aiuto prezioso dei mediatori usiamo il traduttore di Google". Succede nel carcere di Regina Coeli a Roma e a raccontare l'espediente è la stessa direttrice dell'istituto, Silvana Sergi, durante il suo intervento alla presentazione del libro di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, dal titolo "Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti", presentato oggi in una Roma blindata per l'insediamento del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Tra i tanti nodi da sciogliere all'interno del pianeta carcere, quello degli stranieri non è da sottovalutare, soprattutto in quegli istituti dove la loro presenza supera persino quella degli italiani. Come nel carcere di Regina Coeli, dove la presenza di stranieri reclusi si aggira intorno al 55 per cento e i mediatori culturali presenti (solo 4 per circa 450 detenuti) non bastano a rispondere alle esigenze della struttura. "Se non abbiamo l'interprete della procura - ha affermato Sergi -, e se non ci sono i mediatori in sede noi ci siamo inventati la traduzione di Google perché non abbiamo la possibilità di avere sempre questo tipo di aiuto. A Regina Coeli l'ingresso e l'uscita avviene nell'arco delle 24 ore, anzi la sera è il momento privilegiato". Una situazione, quella del carcere romano, che mette ben in evidenza il ruolo fondamentale svolto dai mediatori culturali che, ad oggi, lavorano solo con piccoli bandi e sono legati ad associazioni e cooperative e non direttamente agli istituti di pena. "I mediatori culturali sono assolutamente pochi - ha chiarito Patrizio Gonnella. Non possono reggere il peso della quantità di detenuti stranieri presenti in carcere. Sono 379 in tutt'Italia, meno di due mediatori ogni cento detenuti stranieri. Di fronte ad una utenza straniera così significativa, parliamo di un detenuto straniero su tre, dovrebbe esserci un grosso investimento e anche una definitiva internalizzazione nel sistema penitenziario e nel sistema delle figure professionali". E il ruolo dei mediatori lo si capisce bene quando sono loro stessi a raccontare le difficoltà su cui intervengono. "Spesso i detenuti italiani non capiscono la terminologia di un atto ad esempio di una custodia cautelare - ha spiegato Natalia Moraro, mediatrice culturale per l'associazione Medea -, figuriamoci una persona straniera. Per questo il mediatore dovrebbe essere presente per lo meno al servizio nuovi giunti. Nel momento in cui entra uno straniero in un istituto penitenziario è necessario che ci sia un mediatore per dare qualche spiegazione sul regolamento e sui comportamenti da tenere all'interno dell'istituto. La figura del mediatore dovrebbe essere presente sempre, non solo una volta alla settimana". A chiedere un investimento maggiore su queste figure anche l'Europa. "La raccomandazione del 2012 del Consiglio d'Europa ci dice che bisogna investire in mediatori culturali, interpreti e traduttori - ha aggiunto Gonnella -, perché è un problema di tutta l'Europa. Non possiamo pensare di avere un'organizzazione tutta pensata per un detenuto che non esiste più, il detenuto italiano, e non tradotta nella lingua delle persone che ci sono dentro. Questo aumenta la conflittualità". Per Sergi, però, è necessario che le buone pratiche possano trasformarsi in norme e non restare unicamente in balia della buona volontà. "Serve una riflessione puntuale che ci deve portare ad un discorso di livello giuridico - ha concluso Sergi. Il problema deve essere riconosciuto dalle norme. Per noi è necessario un input normativo che ci aiuti a istituzionalizzare queste situazioni e non lasciarle solo alle buone prassi e alla buona volontà". Giustizia: dare diritto di parola a un imputato è favoreggiamento? di Guido Scarpino Il Garantista, 4 febbraio 2015 Da 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perché vivo - o così credo - in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il diritto a difendersi, no? E invece un Pm, durante la requisitoria, se l'è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza "favoreggiano la mafia..." Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto "capoclan" a piede libero? È una domanda, a mio avviso superflua -soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista - che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche - mi chiedo cosa ci sia dietro - al "solito articolista", che avrebbe condotto una "attività di favoreggiamento" per aver offerto il diritto di replica. In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite ("spedizioni punitive" sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà. Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d'aver mandato alcuni parenti - che incutevano terrore facendo il suo nome - a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l'invio di una lettera a sua firma, concordata con l'avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco "cattivo", sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d'aver "favorito" nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l'invio di un corposo "dossier-confessione" a sua firma, da trattare - era questo l'intento - in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante "verità di parte" da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza. Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì - questo sì - sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta "reggente" della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note - ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l'auto - solo perché di scarso interesse pubblico. Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un "gancio" per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi "compari" al fine di raccogliere indizi nell'ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz'ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: "Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?". Io risposi: "Io sto con me stesso. Faccio il giornalista". Una risposta che mi portò, poco dopo, ad un'altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido -pare sempre su richiesta dello stesso pm - per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l'ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del "nemico") copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui - il collega - non venne convocato da nessuno. Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei "buoni"), dare spazio in replica, con tre articoli, ai "cattivi", può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione "interessata". Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla mala-politica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso "padroni" in cerca di "servi" e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato - verbalmente, e non certo sulla carta - di essere un "favoreggiatore" (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno. P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l'esecutore dell'incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola. Giustizia: trattativa Stato-mafia. Amato: "Scalfaro mi cacciò dalla direzione delle carceri" di Giorgio Petta La Sicilia, 4 febbraio 2015 Palermo. "Dopo la strage di Capaci concordammo con l'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli di reagire nel modo più duro possibile e volemmo dare alla mafia non solo una risposta politica, ma anche emotiva. Volemmo dimostrare al Paese che lo Stato reagiva con i mezzi più duri. Così decidemmo di riattrezzare le supercarceri di Pianosa e l'Asinara che erano state dismesse. Non ebbi l'impressione che nel Governo ci fossero opinioni discordanti". Comincia con queste parole, ricostruendo la reazione dello Stato all'assassinio del giudice Giovanni Falcone, la deposizione dell'ex capo del Dap Nicolò Amato al processo sulla trattativa Stato-mafia, davanti ai giudici della Corte di Assise di Palermo in trasferta nell'aula bunker del carcere romano di Rebibbia. Dopo Capaci, ci fu, il 19 luglio 1992, la seconda strage mafiosa di via D'Amelio, costata la vita al giudice Paolo Borsellino. "Martelli - ricorda Amato, rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo -mi disse: "Dammi il modo di fare un atto politico significativo". Io chiamai la direttrice del carcere Ucciardone di Palermo e individuammo i 55 detenuti più pericolosi da trasferire. Li portammo a Pianosa e gli applicammo il carcere duro previsto dall'articolo 41 bis". Alcuni giorni dopo, in due tranche, "si decise lo stesso provvedimento prima per 532 detenuti, poi per altri 567". Un'iniziativa senza precedenti, ma di grande efficacia che diede il via ad una serie di inattesi pentimenti tra i boss. Eppure Amato venne defenestrato dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, poco meno di un anno dopo, nel giugno del 1993. Una vicenda che gli cambiò la vita e su cui ha scritto un libro. C'era un disegno preciso dietro il suo allontanamento, perché, secondo la Procura di Palermo, l'alleggerimento del carcere duro per i boss sarebbe stato un passaggio necessario per il patto siglato tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra per fermare le stragi mafiose. Le scelte di Amato, sostenute politicamente da Martelli (che si dimise perché coinvolto nell'inchiesta milanese di "Mani Pulite") ebbero, secondo il teste, uno stop con l'arrivo del prof. Giovanni Conso al Ministero della Giustizia. "Nel febbraio 1993, dopo l'assassinio di un sovrintendente penitenziario da parte della camorra, a Napoli, venne firmato - riferisce l'ex capo del Dap - un decreto che prevedeva pesanti restrizioni carcerarie per i detenuti di Secondigliano e Poggioreale. Dopo 12 giorni Conso lo revocò, anche su sollecitazione del prefet-to di Napoli, preoccupato delle ripercussioni esterne della misura. Conso mi disse di avvertire l'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino (tra gli imputati del processo, ndr) della decisione presa. Cosa che feci, come dimostra un biglietto che ancora conservo. Quando si applicava 41 bis, Conso era sempre preoccupato che Mancino lo sapesse. Una volta per questo avemmo una discussione e io gli dissi: "Guarda che sono materie di nostra competenza, mica serve il suo consenso". Insomma, io sostenevo la tesi che la politica penitenziaria fosse di esclusiva competenza del Guardasigilli, ma Conso era molto preoccupato del parere di Mancino e dell'allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, contrario al carcere duro. Probabilmente - aggiunge - le preoccupazioni del Viminale erano relative a eventuali rischi per l'ordine pubblico derivanti da strette carcerarie. Ma io ritenevo che comunque il Ministero dell'Interno non dovesse ingerire su nostre scelte e che se rischi per l'ordine pubblico ci fossero stati, a loro sarebbe solo toccato farvi fronte". In realtà, le cose per l'ex capo del Dap erano cominciate già a cambiare nel marzo del 1993, quando i familiari di alcuni detenuti mafiosi al 41 bis scrissero all'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per denunciare gli eccessi "del dittatore Amato". "Di quella lettera che conteneva gravissime minacce a me - sottolinea il teste - non mi fu detto nulla. Ne seppi l'esistenza dopo tempo. Se me ne avessero parlato, avrebbero dovuto chiedermi se ero d'accordo a un alleggerimento del regime di 41 bis e io avrei risposto di no. E a quel punto come avrebbero potuto giustificare una mia rimozione?". Amato venne sostituito da Adalberto Capriotti, "un uomo che aveva esperienza di carceri, mentre il suo vice, Francesco Di Maggio, non ne aveva alcuna. Fu Scalfaro - spiega Amato - a non volermi più al Dap. Incontrai il segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni qualche giorno prima del mio allontanamento dal Dap e mi disse che il presidente della Repubblica aveva deciso così e che entro una settimana me ne dovevo andare". Amato, che ritiene la rimozione "una macchia per le istituzioni", non accettò il nuovo incarico alla Commissione Ue e si dimise dopo avere avuto un duro scontro sulla sua destituzione con Conso. "Non mi diede - ricorda - alcuna spiegazione. Mi disse che si trattava di un normale avvicendamento". Dopo Amato, ieri, doveva deporre il prof. Conso. Alla Corte ha fatto sapere di non potere testimoniare per motivi di salute. Lo farà in futuro, ma in ogni caso l'ex Guardasigilli potrebbe avvalersi della facoltà di non rispondere perché indagato per false informazioni al pubblico ministero in un procedimento connesso. Il processo è stato rinviato a stamattina per l'esame di Capriotti, anche lui indagato per false dichiarazioni al pm. Amato: dopo le stragi con Martelli decidemmo di punire i mafiosi detenuti (Ansa) Deposizione dell'ex presidente del Dap questa mattina a Roma. Il dirigente ricorda la dura reazione che il governo ebbe dopo le morti di Falcone e Borsellino. È iniziato con la deposizione dell'ex capo del Dap Nicolò Amato il processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, in corso in trasferta nell'aula bunker del carcere romano di Rebibbia. Amato ha ricordato quella che fu al reazione della istituzioni dopo l'uccisione del giudice Falcone e degli uomini della sua scorta. "Dopo la strage di Capaci concordammo con l'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli di reagire nel modo più duro possibile e volemmo dare alla mafia non solo una risposta politica, ma anche emotiva. Volemmo dimostrare al Paese che lo Stato reagiva con i mezzi più duri". Come primo segnale si decise di riattrezzare le supercarceri di Pianosa e l'Asinara che erano state dismesse. "Non ebbi l'impressione che nel governo ci fossero opinioni discordanti", ha detto. Dopo la strage di via D'Amelio, costata la vita al giudice Paolo Borsellino, lo Stato diede un'altra stretta. "Martelli mi disse - ha raccontato Amato: "dammi il modo di fare un atto politico significativo". Io chiamai la direttrice del carcere Ucciardone e individuammo i 55 detenuti più pericolosi da trasferire. Li portammo a Pianosa e gli applicammo il carcere duro". Dopo alcuni giorni in due tranche si decise lo stesso provvedimento prima per 532 detenuti, poi per altri 567. Amato: su 41 bis Conso teneva informato Mancino (Ansa) "Quando si applicava 41 bis il ministro Conso era sempre preoccupato che l'allora titolare dell'Interno, Nicola Mancino, lo sapesse. Una volta per questo avemmo una discussione e io gli dissi: "Guarda che sono materie di nostra competenza, mica serve il suo consenso". Insomma, io sostenevo la tesi che la politica penitenziaria fosse di esclusiva competenza del Guardasigilli". L'ha detto l'ex capo del Dap, Nicolò Amato, deponendo, nell'aula bunker di Rebibbia al processo sulla trattativa Stato-mafia. Amato ha raccontato di riserve sul 41 bis espresse dall'allora capo della polizia Vincenzo Parisi, e in generale degli ambienti del ministero dell'Interno. "Probabilmente - ha aggiunto - le preoccupazioni del Viminale erano relative a eventuali rischi per l'ordine pubblico derivanti da strette carcerarie; ma io ritenevo che comunque il ministero dell'Interno non dovesse ingerire su nostre scelte e che se rischi per l'ordine pubblico ci fossero stati, a loro sarebbe solo toccato farvi fronte". Amato cita un episodio particolare: nel febbraio 1993, dopo l'assassinio di un sovrintendente penitenziario da parte della camorra, a Napoli, venne firmato un decreto che prevedeva pesanti restrizioni carcerarie per i detenuti di Secondigliano e Poggioreale. "Dopo 12 giorni - ha raccontato - Conso lo revocò anche su sollecitazione del prefetto di Napoli, preoccupato delle ripercussioni esterne della misura". "Conso - ha aggiunto - mi disse di avvertire Mancino della decisione presa, cosa che feci, come dimostra un biglietto che ancora conservo". Per Amato, Parisi espresse le sue riserve sul carcere duro anche in sede di comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica, sempre nel 1993. Ma delle obiezioni dell'ex capo della polizia nel verbale della riunione non risulta nulla. Giustizia: caso Magherini; a giudizio 4 Carabinieri e i volontari della Croce Rossa di Sibilla Buttiglione Il Garantista, 4 febbraio 2015 Sono stati rinviati a giudizio dal Gup di Firenze i carabinieri e i volontari della Croce Rossa indagati per la morte di Riccardo Magherini, deceduto a Borgo San Frediano nel marzo 2014 mentre veniva arrestato. Un sospiro di sollievo per i familiari dell'ex calciatore della Fiorentina juniores, che hanno accolto la sentenza con un applauso. "Ora in galera" hanno gridato gli amici di Riccardo per i corridoi del Palazzo di Giustizia. E ancora "Via la divisa!" all'indirizzo dei quattro militari accusati di omicidio colposo. Nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 avrebbero provocato la morte per asfissia del 40enne, che soffriva di una dipendenza da cocaina e stava dando in escandescenze. "Il rinvio a giudizio è importante" ha detto l'avvocato dei Magherini, Fabio Anselmo. "La Procura considera gli imputati responsabili". "Siamo sereni", ecco la risposta dell'avvocato Francesco Maresca, legale dei quattro carabinieri, che ieri erano presenti in aula. Marasca si è detto soddisfatto per aver ottenuto la modifica del capo di accusa da omicidio preterintenzionale a omicidio colposo. "Non ci sono stati pestaggi né altri comportamenti dolosi" ha puntualizzato, al contrario di quanto emerso nelle prime fasi dell'indagine. Secondo la difesa non sussisterebbe nemmeno l'accusa di violazione del codice, che vieta l'arresto o il fermo di persone clinicamente incapaci di intendere e di volere. "In aula hanno detto che Magherini era malato ma, che io sappia, non aveva forme patologiche di malattia, aveva assunto cocaina". Indagati anche i tre soccorritori del 118: quella notte avrebbero sottovalutato le condizioni mediche di Magherini, causandone indirettamente la morte. Ma secondo la difesa dell'avvocato Massimiliano Manzo, l'errore non è stato dei paramedici bensì della centrale del 118, che sbagliò a inviare volontari e non personale medico specializzato. Quello di Magherini era infatti un codice giallo che richiedeva l'intervento di un'ambulanza con a bordo almeno un medico. In casi simili di "agitazione psico-motoria", in cui il paziente deve essere sedato, l'iniezione può essere eseguita solo da "personale sanitario e non da soccorritori volontari". Insomma, al posto dei tre soccorritori dovrebbe esserci il responsabile che li mandò a Borgo San Frediano. Intanto bisognerà aspettare l'11 giugno per l'inizio del processo. "Era quello che volevamo" assicura la famiglia di Riccardo, anche se si tratta pur sempre di un'amara consolazione. "Qui non c'è vittoria, abbiamo perso Riccardo" ha detto tra le lacrime il padre della vittima Guido Magherini. "Non sarà mai vittoria". "Sono emozionata e commossa come se questa vicenda riguardasse me" ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, che ha assistito all'udienza di ieri. "Ai Magherini dico di tenere duro e di andare avanti. In queste aule sentiranno dire tante cose non vere e ingiuste su Riccardo ma loro devono andare avanti. L'attenzione mediatica è importante per far capire come stanno davvero le cose". Giustizia: Cuffaro "i giudici hanno negato permesso di visitare mia madre perché sono io" di Alberto Samonà www.ilsitodipalermo.it, 4 febbraio 2015 Le durissime affermazioni dell'ex governatore siciliano in un'intervista resa al settimanale "Oggi": "La verità è che sono detenuto più uguale degli altri". "Al di là dell'incredibile motivo indicato nella decisione di diniego, credo che il ‘nò sia solo perché io mi chiamo Cuffaro". Queste le parole dell'ex presidente della Regione siciliana, Salvatore Cuffaro, rese in un'intervista al settimanale Oggi e riferite al diniego del giudice di Sorveglianza di Roma, Valeria Tomassini, che nel marzo scorso aveva detto no alla possibilità per l'ex Presidente della Regione siciliana di poter usufruire di un permesso per andare a trovare la madre ottantenne. Cuffaro è attualmente detenuto a Rebibbia a seguito della condanna definitiva a sette anni, inflittagli per favoreggiamento aggravato alla mafia. Condanna che finirà di scontare il 10 giugno 2016. Le motivazioni del diniego erano state rese note soltanto a metà dicembre: in pratica, il giudice aveva scritto che la madre dell'ex governatore siciliano è affetta da una grave forma di Alzheimer che le rende impossibile la facoltà di riconoscere il figlio. Infatti - a detta del giudice - "il deterioramento cognitivo evidenziato nella donna svuota senz'altro di significato il richiesto colloquio". Ma Cuffaro nell'intervista non usa mezzi termini e lancia il proprio j'accuse: "Anche se ho scelto di consegnarmi spontaneamente in carcere un'ora dopo la sentenza - sottolinea - e ho sempre manifestato il mio rispetto per il lavoro dei giudici, e ho fatto di tutto per essere un detenuto uguale agli altri, sono purtroppo considerato un detenuto più uguale degli altri". Nell'intervista a Oggi, l'ex governatore della Sicilia ha anche fatto riferimento alla frase secondo cui la sua morte civile sarebbe stata realizzata scientificamente da qualcuno: "Giovanni Falcone parlava di menti raffinatissime: aveva ragione, ci sono state e ci sono ancora. E sono presenti in svariati settori della vita pubblica e privata, legali e illegali". Nelle motivazioni con cui il tribunale di Sorveglianza aveva negato il permesso a Cuffaro, il giudice spiegava che questo può essere concesso per espressa disposizione normativa, solo eccezionalmente, per "eventi familiari di particolare gravità da intendersi come avvenimenti particolarmente significativi della vita della persona, sottolineandosi l'eccezionalità della concessione". Umbria: il Garante; 1.400 posti nelle carceri, tasso di affollamento è tornato nella norma Adnkronos, 4 febbraio 2015 "Rispetto alla media nazionale lo stato delle carceri umbre è sostanzialmente buono. Il tasso di affollamento è tornato nella norma poiché per 1.400 posti disponibili sono presenti 1.400 detenuti. Tuttavia, in alcune carceri sono presenti problemi di carattere strutturale (umidità e temperatura delle celle non sempre ottimali)". È questa la sintesi dell'intervento in consiglio regionale dell'Umbria, del Garante dei detenuti Carlo Fiorio, che ha tracciato la sua attività dopo la designazione da parte dell'Assemblea legislativa del 28 maggio 2014. Un incontro richiesto del capogruppo di Fratelli d'Italia, Franco Zaffini e definito importante dal presidente della Commissione, Massimo Buconi. "Da evidenziare - sottolinea - comunque la volontà dell'amministrazione penitenziaria locale, nonostante le insufficienti risorse provenienti dal ministero, di risolvere al meglio ogni problematica. In alcuni Istituti sono state rilevate meritorie iniziative, anche di carattere culturale. Rispetto alla media nazionale va evidenziato che in Umbria c'è sempre stata una buona rete. L'Umbria, di fatto, è sempre stata un laboratorio positivo. L'auspicio è che il trend discendente della carcerazione possa portare comunque un miglioramento delle condizioni generali". Carlo Fiorio ha spiegato che il suo ufficio ha ricevuto, ad oggi, 237 missive, effettuato 26 colloqui nei quattro istituti penitenziari umbri (12 a Perugia, 7 a Spoleto, 6 a Terni, 1 ad Orvieto), per un totale di 290 contatti. "Abbiamo incontrato 167 detenuti - ha detto - che hanno evidenziato problematiche inerenti il diritto e la tutela della salute, richieste di trasferimento, per l'ottenimento di benefici, condizioni di vita penitenziaria (salubrità ambienti, temperature dei locali), richiesta per ausilio documentazione, richieste di istruzione, di lavoro, posizioni giuridiche, lumi circa procedimenti disciplinari. Attualmente - ha detto ancora Fiorio - l'ufficio del Garante, insediato presso l'assessorato regionale al Welfare, oltre a poter chiedere supporto al personale della Giunta, è composto da quattro ragazzi volontari dell'Università che svolgono visite nelle carceri, spesso effettuate con difficoltà, a causa di una circolare del Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria), che ha uniformato questa figura a quella del parlamentare o Consigliere regionale, per cui diventa difficile effettuare i colloqui. Stiamo comunque lavorando con l'assessore Carla Casciari - ha assicurato - per creare una rete con il Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria, con la Magistratura di sorveglianza e con la Regione per trovare la soluzione a questo problema". Campania: "Criature", tournée nelle carceri per lo spettacolo diretto da Raffaele Bruno www.napolipost.com, 4 febbraio 2015 Prende il via una tournée teatrale speciale il cui spettacolo ha per palcoscenico cinque carceri campane ed altri luoghi. "Criature" spettacolo prodotto da Delirio Creativo, è scritto e diretto da Raffaele Bruno. In scena Federica Palo, Angela Dionisia Severino e Rita Paolella. Una storia tratta da un tragico episodio di cronaca realmente accaduto a Napoli che ha meritato l'attenzione di Stefano Benni, con cui il regista vanta una decennale collaborazione. A presentare il nuovo progetto l'Associazione Scuola di pace, da sempre impegnata in ambito sociale, con il sostegno dell'8 X 1.000 della Chiesa Valdese. Il tour a partire da venerdì 6 febbraio. Stefano Benni ha così commentato lo spettacolo: "una musica di dolore e speranza assieme, forse solo a Napoli la puoi suonare cosi forte". La tournèe è in realtà un pretesto per realizzare un "incontro" e riflettere assieme sul tema dell'innocenza. Il regista in questo spettacolo si interroga, infatti, su tali tematiche: tutti gli uomini nascono innocenti quando è che un uomo smarrisce l'innocenza? E soprattutto di chi è la responsabilità? C'è nella vita di ognuno un bivio o più di uno in cui si è chiamati a fare scelte determinanti ed è proprio in quel momento che un uomo dovrebbe incontrare una guida, un maestro, lo stato, invece spesso questo incontro avviene troppo tardi o non avviene mai. La nostra società cresce moltissimi figli inconsapevoli a cui nessuno ha insegnato che possono fare una scelta, che possono coltivare i loro sogni figli che incontrano lo stato spesso solo in carcere. Grazie a questa tournée dopo ogni replica si avrà la straordinaria opportunità di parlare di questo tema con carcerati, poliziotti, direttori, operatori sociali, insegnanti, volontari, donne, uomini, bambini senza filtri, guardandoci negli occhi. Le date della tournée di Criature: 6 - 8 febbraio al Casale delle arti (Sant'Agata dei Goti, Bn); ritiro, prove e prova aperta l'8 febbraio 11 febbraio al carcere di Carinola (Ce); 15 marzo al Gridas di Scampia (in questa data saranno presenti molte associazioni attive sul territorio); 19 marzo al Carcere di Eboli (Sa); 2 aprile al Carcere di Sant'Angelo dei Lombardi (Av); aprile (data da definire) all'Università Suor Orsola Benincasa maggio (data da definire) per la manifestazione Una canzone di pace (la festa dell'Associazione Scuola di pace, una vetrina che permette da 15 anni a molte realtà artistiche e sociali cittadine di incontrarsi e farsi conoscere). Inoltre in sede di conferenza stampa prevista per mercoledì 4 febbraio ore 11:00 presso il teatro "Palcoscenico" (via Gaetano Argento 54) verrà presentato in anteprima il sito web del Delirio Creativo e il nuovo logo della compagnia. Palermo: "Stai sereno" gli scrivono… e poi il ragazzo si suicida nella cella del Pagliarelli di Damiano Aliprandi Il Garantista, 4 febbraio 2015 È stato un suicidio, non risulta nessun segno di violenza. È questo il responso dell'autopsia effettuata sul corpo di Cino Carrello, il detenuto di 26 anni che mercoledì sera è stato ritrovato impiccato con un lenzuolo nel carcere palermitano del Pagliarelli. I magistrati, però, pur escludendo l'ipotesi di omicidio, continuano a indagare per minacce e istigazione al suicidio. Qualche tempo dopo essere finito in manette, qualcuno aveva recapitato nella sua cella un paio di bigliettini nei quali il giovane veniva invitato a "stare sereno" e pensare soltanto ai propri familiari. Un episodio, su cui sta indagando la procura di Palermo, che ha iscritto due persone nel registro degli indagati. Uno di loro sarebbe molto vicino al capomafia latitante Matteo Messina È Denaro. Non è escluso che le ipotesi di reato per i due possano estendersi all'istigazione al suicidio. Carrello era finito in carcere nell'ambito dell'operazione "Eden 2", che aveva fatto luce sui legami tra il boss latitante Matteo Messina Denaro e gli esponenti del mandamento mafioso palermitano di Brancaccio. Nelle ultime settimane aveva però iniziato a collaborare con i magistrati rivelando i nomi dei componenti di una sorta di gruppo di fuoco usato da Cosa nostra per mettere a segno le rapine. Il ragazzo ha anche lasciato un bigliettino, del quale però non è stato reso noto il contenuto. Rimane il fatto che il detenuto era in cella di isolamento. Come è possibile che abbia ricevuto biglietti di minaccia senza passare sotto la censura? Pescara: Giustizia Riparativa, detenuto lavorerà per il comune di Montesilvano Colle Ansa, 4 febbraio 2015 Nell'ambito del progetto di "Giustizia riparativa per l'inserimento lavorativo dei detenuti e il recupero del patrimonio ambientale locale", un detenuto del carcere di Pescara effettuerà lavori di manutenzione e di carattere igienico-sanitario ed ecologico nella zona di Montesilvano Colle. Il progetto, frutto di una convenzione tra il Comune di Montesilvano e la Casa Circondariale di Pescara, riattivata anche quest'anno dalla Giunta Maragno, ha come obiettivi quelli di reintegrare i detenuti e offrire loro un'occasione per ripagare il danno arrecato alla collettività attraverso lavori di pubblica utilità. Ad individuare il detenuto sarà il direttore del carcere. Tutte le mattine, per sette giorni a settimana, inclusi i festivi, con riposo di un giorno settimanale, dalle 8:30 alle 12:30, svolgerà le sue prestazioni tra piazza Galli, Piazza Giardino, corso Vittorio Emanuele fino alla scuola, lungo la passeggiata e le zone limitrofe, occupandosi della pulizia di aree verdi e di piccole manutenzioni ordinarie. Il Comune fornirà i materiali necessari. Il detenuto, che resterà sotto la diretta responsabilità del carcere di Pescara, verrà retribuito con una somma di 300 euro mensili, che verrà corrisposta alla Casa Circondariale. "Fui un grande sostenitore di questo progetto in Provincia a Pescara - ricorda l'assessore ai Lavori pubblici, Valter Cozzi - dal momento che ci permise di completare importanti interventi. Sono sicuro che anche a Montesilvano consentirà di ottenere buoni risultati. Questo accordo ha, infatti, un duplice vantaggio: da una parte preparare il reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti, dall'altra permettere l'applicazione di una forma di giustizia riparativa che fornisce un servizio alla comunità della nostra città". Firenze: Montelupo; via l’Opg da Villa Medicea dell'Ambrogiana, che torna ai cittadini Ansa, 4 febbraio 2015 La Villa Medicea dell'Ambrogiana che attualmente ospita l'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino tornerà ai cittadini. È questo l'impegno assunto dall'Amministrazione penitenziaria con il Soprintendente per i beni archeologici, paesaggistici, storici, artistici ed etnoantropologici per le province di Firenze, Pistoia e Prato, Alessandra Marino. Con la chiusura degli Opg la storica struttura diventerà patrimonio dell'intera collettività. La piena disponibilità dell'Amministrazione a cedere la storica Villa dell'Ambrogiana è stata manifestata nell'incontro che si è tenuto tra la soprintendente, il direttore generale dei detenuti e del trattamento e il direttore generale delle risorse materiali, dei beni e dei servizi del Dipartimento dell' Amministrazione penitenziaria. Palermo: scoppia polemica su balletto di burlesque all'Ucciardone, protesta degli agenti di Marco Vaccarella Giornale di Sicilia, 4 febbraio 2015 Protesta degli agenti per lo show di una ballerina messo in scena qualche giorno fa per i detenuti: "Scelta inopportuna". Balletto burlesque nel teatro del carcere Ucciardone. Curve femminili in bella mostra per la gioia dei detenuti. Lustrini, piume e paillettes all'insegna della sensualità e dell'ironia. E scoppia la protesta degli agenti penitenziari, che attraverso il sindacato di polizia Sippe e l'Associazione per i diritti e le tutele contestano l'esibizione di una "danzatrice in abiti succinti" per un pubblico di detenuti, alcuni dei quali della nona sezione, quella di massima sicurezza. "Uno spettacolo inopportuno" dice Alessandro De Pasquale, segretario generale del sindacato. Forma d'arte tutta al femminile, il burlesque è una danza antica nata nell'Inghilterra del Settecento. Negli ultimi anni è tornata di gran moda. Malizia e irriverenza al tempo stesso. Un gioco per adulti. Non è piaciuto a tutti. L'episodio riaccende le polemiche sulle condizioni "mortificanti" in cui sarebbe costretto a lavorare il personale di sicurezza del penitenziario borbonico di via Enrico Albanese. Gli agenti lamentano da mesi carenza di personale, turni massacranti, condizioni igienico-sanitarie precarie, aggressioni continue, spazi angusti, ambienti pericolosi per la salute del personale di polizia e per gli stessi detenuti. L'estate scorsa, a scatenare l'ira degli agenti era stata la distribuzione di gelati ai detenuti in occasione della rassegna cinematografica. "Degustazioni nell'intervallo dei film e gli agenti senza potere bere neanche un bicchiere d'acqua fresca a causa della chiusura del punto ristoro", era stato il coro di proteste. Adesso il burlesque. "Lascio immaginare le reazioni che hanno avuto i detenuti durante lo spettacolo" dice De Pasquale: "C'è stato anche chi, rivolgendosi ai poliziotti, ha urlato: stasera i bagni saranno tutti occupati, vi conviene bussare prima di entrare e fare la conta". Durante le festività di fine anno, un altro episodio ha creato malumore fra il personale. Lasagne e panettoni offerti ai detenuti da un noto bar della città. E a capodanno, cannoli per tutti dalla stessa pasticceria. "Un trattamento da hotel a cinque stelle che non possiamo accettare - dice De Pasquale - se dall'altro lato gli agenti sono costretti a lavorare al gelo per la mancanza di riscaldamento. Ci sono delle stufette, ma spesso sono guaste". Scarse risorse economiche, ma anche problemi di sicurezza fra le sezioni del carcere. L'ultimo episodio, denuncia il sindacato, è accaduto giovedì scorso. "Un agente si è sentito male in servizio - conclude De Pasquale - ma ha dovuto attendere la fine del turno per essere accompagnato in ospedale da un altro collega perché l'amministrazione non ha attivato tutte le procedure a tutela della salute del poliziotto". Per la direttrice del carcere, Rita Barbera, "i problemi legati alle condizioni di lavoro del personale di sicurezza non c'entrano nulla con il trattamento dei detenuti. Non stiamo parlando di rivendicazioni sindacali - continua la direttrice - ma di un'interferenza con le attività dell'amministrazione penitenziaria. È una censura che non accetto, una polemica ideologica - conclude Barbera - che contrasta con il progetto di rieducazione e svago dei detenuti". Siria: gruppo ribelle chiede scambio di un iraniano con donne nelle prigioni del regime Nova, 4 febbraio 2015 Un gruppo di ribelli in Siria ha fatto sapere che sta cercando di scambiare un miliziano iraniano catturato nella provincia meridionale di Daraa lo scorso mese, con donne detenute nelle carceri del regime. Il leader del gruppo "Fronte unito di al Sham", noto come Abu Ahmed, ha spiegato che i suoi combattenti hanno arrestato l'iraniano "mentre combatteva al fianco delle forze governative nella provincia di Daraa", aggiungendo che "l'iraniano, interrogato attraverso un interprete, ha fatto sapere di essere arrivato Siria lo scorso anno dalla città iraniana di Qom e di avere trent'anni". Fyrom: il Vescovo ortodosso Vraniskovski rilasciato dal carcere per "motivi di salute" Nova, 4 febbraio 2015 Il vescovo ortodosso dell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom) Jovan Vraniskovski è stato rilasciato ieri sera dal carcere di Skopje. Il rilascio era stato approvato dalla direzione del carcere, ma la Procura della Repubblica aveva presentato ricorso. Il Tribunale penale di Skopje, dopo il via libera della Procura di Stato per la criminalità organizzata, ha optato per il perdono di Vraniskovski. Descrivendolo come una persona di "immacolata condotta", il giudice ha osservato che era "diabetico e quindi con un bisogno di una dieta particolare, che il carcere non può fornire". Vraniskovski è stato condannato a cinque anni e mezzo di carcere nel 2012 per essersi appropriato di circa 250 mila euro dalla Chiesa ortodossa macedone. Il sacerdote ha già scontato tre anni di pena, cioè più della metà della sua condanna. Per quasi un decennio, il religioso "ribelle" è stato al centro di una controversia tra la Chiesa ortodossa macedone e quella serba, che non riconosce l'indipendenza ecclesiastica di Skopje. La più influente Chiesa ortodossa serba ha offerto ai macedoni l'autonomia, ma non la totale indipendenza. Per risolvere la controversia è intervenuto anche il vescovo ortodosso russo Ilarion Alfeev di Volokolamsk, che ha offerto una mediazione per arrivare a un compromesso. A dicembre, infatti, Alfeev ha invitato i leader macedoni a liberare Vraniskovski per l'apertura di colloqui, mediati dalla Russia, tra le comunità ortodosse di Fyrom e Serbia. La Chiesa serba non riconosce la sua controparte macedone, considerata come scisma, perchè si è staccata unilateralmente nel 1967. Il religioso russo ha detto che la Chiesa russa non poteva "riconoscere unilateralmente" la Chiesa macedone, decisione che dovrebbe essere presa su spinta di tutti gli ortodossi. "Siamo però disposti a fare da mediatori", ha detto il vescovo russo. Vraniskovski, in realtà, è da tempo al centro di una grave disputa tra la chiesa ortodossa macedone e quella serba, che non riconosce l'indipendenza dell'altra. Alcuni anni fa, infatti, egli ha abbandonato la chiesa macedone per tornare sotto l'ala di quella serba, causando forti polemiche nel suo paese. Le autorità macedoni avevano condannato il religioso a due anni e mezzo di prigione. Nel 2012, dopo la condanna del religioso macedone, il presidente serbo Tomislav Nikolic aveva proposto di risolvere i problemi esistenti con la chiesa ortodossa macedone, partendo da un'amnistia per il vescovo "dissidente" Zoran Vraniskovski, noto come vescovo Jovan, e in un decreto speciale sull'indipendenza della chiesa ortodossa macedone. Il prelato era stato arrestato nel novembre 2010 in Bulgaria in base ad un mandato di cattura dell'Interpol e le autorità della Fyrom avevano chiesto la sua estradizione perchè scontasse una pena detentiva inflittagli nel 2009 da una corte macedone per appropriazione indebita. "Suggerisco di sederci e di parlare su tutto. Mi riferiscono all'atteggiamento della Macedonia sulla chiesa ortodossa serba e all'atteggiamento della Serbia sulla chiesa ortodossa macedone. Posso risolvere tutto questo, se intendono parlarmi. In caso contrario, questo problema non sarà mai risolto", aveva dichiarato Nikolic. "La Macedonia non è riuscita a risolvere questo problema. Forse non aveva interlocutori. Oggi in Serbia c'è qualcuno con cui parlare e io sono uno di loro. Rispetto la chiesa ortodossa serba e la chiesa ortodossa serba rispetta me: siamo in grado di risolvere questo problema", aveva aggiunto il presidente serbo.