Giustizia: Pannella (Pr); Mattarella? lo valuteremo su carceri e legalizzazione delle droghe di Lorenzo Misuraca Il Garantista, 3 febbraio 2015 Il leader dei Radicali sulla manovra del premier per portare il siciliano al Quirinale: "è stato molto abile, ma ha una visione a lungo termine?". Non si lascia ipnotizzare come il resto del mondo politico italiano dalle evoluzioni tattiche del premier, dopo le elezioni del Presidente della Repubblica. Dal suo osservatorio in via della Torre Argentina, sede del Partito Radicale, così vicino così lontano al Parlamento, Marco Pannella preferisce affrontare la vittoria di Sergio Mattarella da tutt'altra prospettiva. Del resto l'84enne leader radicale, ha sempre preferito muovere le proprie guerriglie a partire da uno sguardo sulle dinamiche e sugli strumenti giuridici internazionali. Laico anche sulla figura del democristiano Mattarella, Marco Pannella conta soprattutto su un impegno concreto sui temi dei diritti dei carcerati e della giustizia. Pannella. alla fine tutti o quasi d'accordo sul nome di Sergio Mattarella. Lei che ne pensa del nuovo presidente della Repubblica? "C'è qualcuno che ritiene che è esattamente quello che ci voleva. Io dico che i nomi in campo più o meno si equivalevano". Non mi sembra molto entusiasta. "Più che altro, aspetto di vedere come si muoverà su alcuni temi importanti per noi radicali. Di Mattarella posso dire che quando era ministro della Difesa ha abolito la naja e ha avviato il paese verso la professionalizzazione delle forze dell'ordine, che era una nostra battaglia da decenni". Un punto a suo favore. E invece per quanto riguarda il leit motiv di questi giorni, "moriremo democristiani"? "Ma guarda, da questo punto di vista devo dire che i radicali hanno sempre avuto rapporti ottimi con il mondo cattolico, formali ma ottimi. Non solo con il papa attuale, che mi ha telefonato, ma anche, per restare alla Sicilia, la regione del presidente, con tanti esponenti del partito popolare, con lo stesso Sturzo. C'è anche un aneddoto che riguarda papa Wojtyla, quando il sindaco comunista Petroselli presentò la sua giunta al pontefice, erano i primi anni 80, e arrivato ad Angiolo Bandinelli, disse: "Questo è quello di Pannella" e lui rispose, tra la sorpresa di tutti: "Ah, lui ci vuole bene. Dio ce l'ha dato e nessuno ce lo tocchi". Mi sembra di capire che per il momento sospende il giudizio su Mattarella. A bocce ferme, invece, qual è il suo giudizio sull'operato di Napolitano al Colle? "Sicuramente con l'ultimo atto, il suo discorso sulle carceri, il mio giudizio non può che essere sostanzialmente positivo. Dirò di più, quelle sue dichiarazioni noi le abbiamo assunte come manifesto operativo". Addirittura. "Certo, un presidente della Repubblica, parla di obbligo di ripristinare una situazione di normalità per quanto riguarda la giustizia e le condizioni carcerarie per far rientrare l'Italia in una situazione di legalità a livello internazionale, è una bomba che prima o poi esploderà. E Se non si fosse dimesso, lo stesso Napolitano avrebbe dovuto fare qualcosa per dar seguito a queste parole, come ad esempio scrivere alla Corte internazionale di giustizia". Adesso c'è Mattarella al suo posto. "E noi lo giudicheremo su come interverrà sulla giustizia, sulle carceri e anche quale sarà la sua posizione rispetto alla legalizzazione delle droghe". Adesso chiede troppo a un democristiano! "Ma no, perché ormai il mondo va in quella direzione. Guarda anche gli Stati Uniti che stanno legalizzando. L'atmosfera è diversa da quando abbiamo iniziato la battaglia antiproibizionista in un clima totalmente sfavorevole". Resta il fatto che un presidente della Repubblica non è un capo del Governo. "Infatti, noi chiediamo che svolga fino in fondo la sua funzione di garante e non di arbitro". Qual è la differenza? "Che l'arbitro nella politica italiana si barcamena tra interessi diversi, invece il garante deve difendere l'applicazione delle leggi, soprattutto quelle internazionali. Ad esempio anche sul dissesto idrogeologico, abbiamo presentato diversi esposti a livello internazionale, e sono sicuro che ci verrà dato ragione. Ecco, il presidente della Repubblica deve essere garante, come ha fatto Giorgio Napolitano". I suoi detrattori dicono che ha fatto politica, altroché garante. "Questo succede perché negli ultimi trent'anni i presidenti della Repubblica hanno seguito un altro tipo di comportamento. Io glielo dissi a Giorgio appena eletto, "se proteggerai i principi costituzionali fino in fondo, avrai tutti i costituzionalisti contro". Tornando a queste ultime elezioni per il Colle. Pensa che se non avesse annunciato di doversi curare per un tumore, Emma Bonino sarebbe stata tra i papabili, questa volta? "Nonostante i radicali vengano scientificamente tagliati fuori dai media, Emma Bonino risulta sempre la più popolare nei sondaggi. Ma appunto, i partiti hanno paura di noi". L'esito finale del voto è stato un capolavoro politico di Renzi? "Certo, è stato abilissimo. Ma il punto è un altro. Quanto questa sua abilità reggerà nel tempo? Quanto le sue posizioni, le sue intuizioni, sono radicate nel tempo? Questo è quello che conta. Noi radicali abbiamo le stesse posizioni da quarant'anni, e ad esempio sulla legalizzazione delle droghe, ci sono voluti parecchi anni, ma adesso il vento è favorevole in tutto il mondo. Ma Renzi è quello che non ha voluto firmare i nostri referendum perché diceva che toccava al Parlamento occuparsene. Mentre Berlusconi è venuto a firmarli tutti davanti alle telecamere". Il patto del Nazareno reggerà dopo lo schiaffo di Renzi su Mattarella? "Ma che importa! Queste sono cose che cambiano di sei mesi in sei mesi. Quello che conta è se l'Italia risponderà all'appello di Napolitano, e alle richieste dell'Europa sulla giustizia. Per questo chiediamo a Mattarella di dare seguito alle parole di Giorgio". Qualcuno le risponderebbe che ci sono cose che vengono prima della giustizia, come ad esempio la crisi economica. "Ma le due cose sono assolutamente legate. Chi viene a investire in Italia, quando qui un creditore per riavere i suoi soldi deve aspettare un processo che non inizia prima di tre o quattro anni?". A proposito d'Europa, la soluzione si chiama Tsipras? "Noi radicali abbiamo lottato per anni contro l'aumento esponenziale del debito pubblico. La strada scelta è invece stata quella di tassare il mondo del commercio e le imprese. Con i risultati disastrosi che tutti vedono". Giustizia: Capece (Sappe); Mattarella prosegua impegno di Giorgio Napolitano sulle carceri Ansa, 3 febbraio 2015 "Sono convinto che il nuovo Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, anche in considerazione delle sue eccellenti conoscenze giuridiche, non farà venire meno la sua attenzione e, quindi, le sue sollecitazioni sul tema delicato della vivibilità delle carceri italiane, con particolare riferimento alle condizioni lavorative dei poliziotti penitenziari. Giorgio Napolitano, a cui vanno ancora una volta le nostre più sincere espressioni di gratitudine per l'impegno su questo argomento, lascia il "testimone" ad una persona seria, competente e illuminata che non si sottrarrà certo all'impegno di indicare nuovi percorsi detentivi nell'ottica di una non più rinviabile riforma dell'esecuzione penale". Lo sostiene Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "La situazione nelle carceri italiane resta ad alta tensione, nonostante talune rassicuranti dichiarazioni che non sono conformi alla realtà. Ogni giorno, nelle celle dei penitenziari italiani, contiamo infatti almeno 18 atti di autolesionismo da parte dei detenuti, 3 tentati suicidi sventati dalla Polizia Penitenziaria, 10 colluttazioni e 3 ferimenti", aggiunge il leader del Sappe, che segnala come "nel 2014 ci sono stati nelle carceri italiane 6.919 detenuti coinvolti in atti di autolesionismo, 933 hanno tentato il suicidio e sono stati salvati dai poliziotti penitenziari, 43 suicidi, 48 decessi per cause naturali, 966 ferimenti e 3.575 colluttazioni. Tutti episodi in aumento da quando c'è la vigilanza dinamica nelle carceri. Il dato oggettivo è che il carcere, così come è strutturato e concepito oggi, non funziona. Lo sanno bene i poliziotti che stanno nella prima linea delle sezioni detentive 24 ore al giorno". Il Sappe rende conto infine che "è la Toscana la regione d'Italia con il numero più alto di autolesionismo in carcere (1.047 episodi) e di tentati suicidio sventati (112), mentre per quanto riguarda le colluttazioni spicca la Campania (521 casi). L'Emilia Romagna la regione con più ferimenti in cella (150). Lombardia e Campania le realtà nelle quali ci sono stati più suicidi in carcere (6 casi)". Giustizia: Mannone (Fns-Cisl); Mattarella continui a sollecitare la politica sul problema carceri Adnkronos, 3 febbraio 2015 "Siamo certi che il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, proseguirà l'azione messa in campo da Napolitano circa il richiamo al Governo sull'annosa questione delle critiche condizioni delle carceri italiane". Lo dichiara in una nota Pompeo Mannone, Segretario Generale della Fns Cisl, la federazione che raggruppa Polizia Penitenziaria, Dirigenti penitenziari, Vigili del Fuoco e Forestali. "Il sovraffollamento delle carceri è diminuito senza ricorrere a misure straordinarie - sottolinea Mannone - ma le problematiche che investono gli istituti di pena sono rimaste estremamente critiche e pertanto è necessario che il nuovo Capo dello Stato continui nella sollecitazione sia al Governo che al Parlamento affinché si adoperino per migliorare il funzionamento della giustizia e per favorire una condizione accettabile delle carceri in cui vivono situazioni pesanti i detenuti ma soprattutto chi ci lavora, spesso, purtroppo, non considerato dalla politica e dai mass media: la condizione del personale ed il malessere presente in tutte le sedi di servizio, non può essere più trascurato dal Governo". "Il tema delle carceri - conclude Mannone - deve essere affrontato a tutto tondo, sia considerando le problematiche certamente reali e delicate dei detenuti ma anche tutelando i poliziotti penitenziari che operano con abnegazione e sacrificio, spesso a rischio della propria incolumità: su questo versante aspettiamo iniziative concrete da parte del Governo". Giustizia: Gonnella (Antigone); i diritti violati e le iniquità di quel 32% di detenuti stranieri di Carmine Saviano La Repubblica, 3 febbraio 2015 L'associazione Antigone illustra la situazione dei detenuti immigrati nel nostro Paese. Dati, cifre, analisi delle norme vigenti. E alcune proposte che potrebbero rendere l'Italia un paese all'altezza della tradizione della sua giurisprudenza. "Detenuti stranieri in Italia", il libro pubblicato dalle Edizioni Scientifiche italiane frutto di una ricerca che Antigone ha svolto insieme alla Open Society Foundations. Per la prima volta si può osservare con chiarezza uno di quei luoghi dove in Italia emerge la contraddizione tra giustizia e diritto. Dove l'assenza di capacità organizzativa da parte dello Stato rischia di creare dei vuoti di diritto che mettono a repentaglio prerogative inviolabili di migliaia di persone. L'associazione Antigone, grazie al lavoro di Patrizio Gonnella, il suo presidente, illumina la situazione dei detenuti immigrati nel nostro Paese. Dati, cifre, analisi delle norme vigenti. E alcune proposte che potrebbero rendere l'Italia un paese all'altezza della tradizione della sua giurisprudenza. Partiamo con i dati. Al 31 luglio del 2014 i detenuti immigrati sono passati a 17.423 unità, il 32% del totale della popolazione carceraria. E il rilevamento di un miglioramento statistico - in pochi anni la percentuale è diminuita di cinque punti - non può cancellare l'analisi. "Ciò è avvenuto più per caso che non per una strategia penale diretta a redistribuire il peso delle iniquità sociali. Di fronte al grave problema del sovraffollamento non si poteva che intervenire nei confronti di quelle categorie di persone detenute che nel tempo, loro malgrado, hanno contribuito a determinarlo", scrive Gonnella in "Detenuti stranieri in Italia", il libro pubblicato dalle Edizioni Scientifiche italiane frutto di una ricerca che Antigone ha svolto insieme alla Open Society Foundations. Testo che sarà presentato oggi a Roma e che Repubblica.it ha potuto leggere in anteprima. Un territorio instabile. E si tratta di un viaggio all'interno di un territorio giuridico paradossalmente instabile. Perché il "caso" non può essere contemplato quando si tratta di diritti. Gonnella è molto chiaro. "Quando ci si affida il caso e non a una strategia il rischio è che in breve tempo si torni al passato. Così da ottobre 2014 si sentono le sirene di nuove campagne contro gli immigrati che potrebbero portare a un aumento generale della popolazione reclusa". E a fronte di questo pericolo, l'unica soluzione è una "rivoluzione organizzativa che tenga conto di come sia cambiata l'utenza penitenziaria e ridisegni il tutto alla luce della presenza non minoritaria dello straniero in carcere". Il rischio della recidiva. Il punto è prevedere che lo staff penitenziario sia all'altezza delle sfide poste dall'accoglienza degli stranieri. Che va fatta anche in carcere. Ancora Gonnella: "L'enunciazione di principi anti- discriminatori, per essere effettiva, richiederebbe ulteriori modifiche legislative, organizzative e operative. Ogni carcere deve avere un numero sufficiente di mediatori culturali e interpreti pagati dallo Stato e inseriti a pieno titolo nella vita penitenziaria". Tutto per rendere il sistema non punitivo ma indirizzato sulla strada del reinserimento sociale anche dello straniero che delinque. Che se viene lasciato solo a se stesso in carcere, rischi di ritornare a commettere gli stessi reati per cui è stato già condannato. Dopo l'analisi, le proposte. Che Antigone articola in trentatré punti che potrebbero andare a comporre uno Statuto dei diritti dei detenuti stranieri in Italia. Quasi un suggerimento alla politica. Si parte dalla "cancellazione dell'espulsione come misura di sicurezza fino all'inserimento nel sistema procedurale italiano del principio del favor rei, secondo il quale "nessuno deve essere soggetto in Italia a una sanzione o una misura alternativa più afflittiva rispetto a quella del Paese di provenienza". Poi la recezione della Raccomandazione del 2012 del Consiglio d'Europa sui detenuti stranieri. Per farli sentire meno soli. Poi il lavoro "culturale" da organizzare negli istituti di pena. Dai corsi in cui si portano a reciproca conoscenza le diverse "culture nazionali" fino alle norme che esplicitino come "in materia di vestiario ed igiene vanno rispettate le identità culturali e religiose" e che facciano che all'interno del carcere sia possibile acquistare "cibi etnici". Poi la liberalizzazione della corrispondenza telefonica e l'uso di internet: dalla comunicazione via skype fino alla possibilità di inviare mail ai parenti lontani. Poi le biblioteche, lo sport, l'accelerazione nelle pratiche per la concessione del visto. Per uno Stato che faccia sentire meno soli i migranti che ospita anche nelle proprie strutture carcerarie. Giustizia: difesa d'ufficio vera; addio agli avvocati "di fortuna", vinta battaglia dell'Ucpi di Paola Rebecchi (Responsabile Osservatorio Ucpi sulla Difesa d'ufficio) Il Garantista, 3 febbraio 2015 Il lavoro che ha portato alla riforma della difesa d'ufficio è nato con l'ambizione di dare una risposta a una esigenza avvertita da anni: quella di restituire ai cittadini che si avvalgono dell'opera del difensore d'ufficio il loro diritto ad una difesa effettiva. Si tratta di una riforma coraggiosa, fortemente voluta dall'Unione delle Camere penali italiane e rappresenta il positivo esito di una battaglia storica, sempre combattuta sul terreno del diritto alla effettività della difesa e nell'esclusivo interesse dei cittadini. Il lavoro che ha portato alla riforma della difesa d'ufficio è nato con l'ambizione di dare una risposta a una esigenza avvertita da anni: quella di restituire ai cittadini che si avvalgono dell'opera del difensore d'ufficio il loro diritto ad una difesa effettiva. Si tratta di una riforma coraggiosa, fortemente voluta dall'Unione delle Camere penali italiane e rappresenta il positivo esito di una battaglia storica, sempre combattuta sul terreno del diritto alla effettività della difesa e nell'esclusivo interesse dei cittadini. Abbiamo da sempre sostenuto che la riforma del 2001 ha finito per "legittimare l'incompetenza", non prevedendo idonee garanzie di efficienza del difensore d'ufficio. Ai fini della iscrizione nell'elenco erano infatti previsti due criteri alternativi: la comprovata esperienza professionale (due anni di iscrizione all'albo) ovvero la frequenza di corsi, senza tuttavia alcun obbligo di verifica della competenza specifica. Ovvio che un simile sistema, omettendo qualsivoglia controllo sulla preparazione tecnica, ha di fatto reso la difesa d'ufficio aperta a tutti, anche a quei professionisti che mai hanno esercitato nel settore penale. La nuova disciplina introduce invece requisiti più stringenti: conseguimento del titolo di specialista in materia penale; superamento di un esame di idoneità all'esito della partecipazione a corsi biennali di formazione ed aggiornamento, organizzati dal Consiglio dell'Ordine circondariale o dalle Camere penali; la comprovata esperienza professionale, requisito ora valido solo per gli avvocati iscritti all'albo da almeno 5 anni. A ciò si aggiunge la novità delle verifiche annuali circa l'esercizio continuativo della professione in ambito penale, necessario per la permanenza nell'elenco dei difensori d'ufficio. È una riforma che ha l'obiettivo di garantire in concreto la effettività della difesa tecnica che, da alcuni decenni, l'Unione delle Camere penali cerca con forza di imporre. Detto ciò, voglio rispondere a coloro che, spostando strumentalmente il campo di battaglia sul terreno del caotico groviglio delle rivendicazioni corporative, definiscono la riforma come eccessivamente severa e punitiva per i giovani. Non mi sorprendono simili valutazioni in quanto la difesa d'ufficio ha da sempre creato, in una parte dell'Avvocatura, molte aspettative: il miraggio di un terreno fertile di compensi, cui accedere peraltro facilmente e senza troppi scrupoli. Si è totalmente perduto il senso del ruolo che si assume con la iscrizione alla lista dei difensori d'ufficio. Ebbene, la mia risposta è semplicemente un invito a ricordare l'unica funzione della difesa d'ufficio. L'Unione delle Camere penali ha puntualizzato, in più occasioni, che la difesa d'ufficio "è uno strumento di straordinaria importanza non certo per il professionista che la esercita, ma per i cittadini che ne usufruiscono". È questa l'unica chiave di lettura di una riforma che disegna un "nuovo difensore d'ufficio": preparato, indipendente e consapevole del proprio ruolo; in altri termini, è una riforma che ci restituisce l'idea che il difensore d'ufficio sia realmente "garante della lealtà dello Stato". Come già evidenziato in un recente documento dell'Osservatorio Ucpi sulla difesa d'ufficio, che ho l'onore di guidare, il recupero di questa concezione della funzione difensiva e del ruolo del difensore rappresenta la difficile battaglia culturale che le Camere penali dovranno affrontare e, non a caso, si parlava in questi termini anche nel dibattito parlamentare che condusse alla riforma del 200: "Il giusto processo, il processo accusatorio è una grande vittoria, però sia i giudici, sia gli avvocati devono cambiare la loro cultura e adeguarla alle nuove conquiste". Anche la magistratura deve essere protagonista di una "inversione di rotta" di tipo culturale, perché il diritto ad una difesa d'ufficio piena ed effettiva va garantito da tutti e sempre, tanto nella forma quanto nella sostanza. Si deve abbandonare la "logica dei manichini" che riconosce al difensore d'ufficio il secondario ruolo di convitato di pietra, la cui presenza serve solo alla "forma" e ad ottenere quella rapidità tanto cara a chi si preoccupa esclusivamente della tempistica processuale, lasciando spesso da parte il diritto di difesa ed i più elementari canoni di civiltà giuridica. Ci si riferisce, ad esempio, al ricorso sistematico alle sostituzioni "volanti" effettuate in udienza dal giudice che, anche in casi di abbandono di difesa, designa un sostituto immediatamente reperibile, sempre diverso, che non conosce gli atti. Su sollecitazione dell'Ucpi e del Consiglio nazionale forense, lo schema di decreto legislativo inizialmente conteneva delle correzioni sul punto, venute poi meno in quanto considerate fuori delega dalle commissioni parlamentari. Abbiamo oggi ottenuto uno straordinario risultato, ma il lavoro in materia di difesa d'ufficio non può dirsi concluso: si tratta di correggere ogni ulteriore criticità che comprime irrimediabilmente il diritto dei cittadini ad una difesa piena ed effettiva. È questa la più grande delle scommesse e vogliamo vincerla. Giustizia: Carlo Saturno, da 4 anni s'attende la verità per la sua morte nel carcere di Bari di Maria Brucale Il Garantista, 3 febbraio 2015 Si attende la verità per la terribile fine del giovane ventitreenne nel carcere di Bari: chiesta per due volte l'archiviazione. Era il 30 marzo del 2011, quattro anni fa. Dopo uno scontro fisico con un agente di polizia penitenziaria, alla presenza di altri agenti e di detenuti, Carlo Saturno, un ragazzo di soli 23 anni, veniva rinchiuso in una cella di contenimento del carcere di Bari e, dopo poco meno di un'ora, veniva ritrovato soffocato con un lenzuolo legato al collo e già in condizioni disperate. Il 7 aprile Carlo moriva. Nel 2010, era stato testimone in un processo penale a carico di agenti di polizia penitenziaria minorile imputati per lesioni, abuso dei mezzi di correzione, lesioni gravi ed altri reati. Carlo, come altri ragazzi, detenuti in quell'istituto minorile, veniva pestato, vilipeso, sbeffeggiato, costretto al silenzio, messo in celle di isolamento, legato nudo alle reti metalliche dei letti. Allora Carlo, come i suoi compagni di sventura, aveva appena 14,15 anni. Con enorme coraggio, si era fidato della Giustizia ed aveva denunciato quei fatti. Con altrettanto coraggio, poi, si era presentato in aula ed aveva testimoniato tutto ciò che aveva subito. Ma la denuncia, sofferta, rabbiosa e solitaria di Carlo non avrebbe prodotto alcun risultato. Si sa, a volte, la giustizia si fa ancora più lenta e il processo penale, scaturito dal dolore di Carlo, nel giugno del 2011 si è prescritto. Dal 7 aprile 2011 ad oggi la Procura di Bari ha richiesto ben due volte l'archiviazione e ben due volte è stata rigettata dal gip dietro opposizione dell'avv. Tania Rizzo, difensore dei due fratelli, Ottavio ed Anna. Necessarie nuove indagini. Imprescindibile ascoltare i testimoni, scrive il giudice nell'ordinanza con cui rigetta la seconda richiesta di archiviazione del pm Isabella Ginefra. "Le indagini non risultano complete" afferma il gip. Tra le anomalie del tutto senza spiegazione, rileva anche la circostanza che incredibilmente un soggetto che era considerato fragile e assumeva psicofarmaci, dopo uno scontro fisico con alcuni agenti di polizia penitenziaria, era stato lasciato solo, in una cella asfittica dove, forse da solo, aveva avuto la possibilità di stringersi una corda al collo. Agli atti del pm che chiedeva l'archiviazione, non c'erano i verbali delle sommarie informazioni rese dagli altri detenuti presenti quel giorno nel carcere di Bari, né le cartelle mediche e psichiatriche del ragazzo che ne attestavano la condizione psicologica determinata dalle violenze in passato subite, né erano state raccolte le dichiarazioni dei medici che lo avevano visitato dopo il pestaggio, né di quelli che lo avevano accompagnato in ospedale dopo il tentativo di suicidio, né della sua educatrice cui, a quanto pare, non era stato consentito di incontrarlo sebbene Carlo, dopo quanto accaduto, ne avesse chiesto la presenza perché era in stato di grande agitazione emotiva. Una inspiegabile voragine investigativa a fronte della notizia di reato elaborata: istigazione al suicidio. Un'ipotesi, in realtà, già oltremodo circoscritta che esclude l'accertamento sulla dinamica del suicidio ed allontana il sospetto sulla eventuale responsabilità di terzi nella drammatica morte del giovane sebbene una perizia disposta dalla Procura ed eseguita dal medico legale Francesco Introna, abbia stabilito che i segni intorno al collo sarebbero compatibili sia con un salto nel vuoto che con un eventuale strangolamento da parte di altri. Quattro anni di indagini, dunque, all'esito dei quali, tuttavia, non c'è ancora un'iscrizione nel registro degli indagati presso la Procura di Bari. Non si conoscono i nomi di coloro che picchiarono Carlo, che lo condussero a forza nella cella di isolamento, che lo lasciarono morire. È un procedimento a carico di ignoti ed ancora giace sulla scrivania del pubblico ministero. Carlo era in carcere per furto, sottoposto a pena preventiva, detenuto in custodia cautelare. Non colpevole, fino alla sentenza definitiva di condanna. Così è morto in carcere. Non colpevole, non ancora! Ristretto come "giovane adulto", aveva avviato le richieste per essere assegnato ad una casa famiglia al nord nella quale avrebbe potuto imparare ad occuparsi dei più bisognosi e avrebbe potuto studiare. Ma i giudici della Corte di Appello avevano rigettato la richiesta pur corredata della disponibilità piena della casa famiglia ad accoglierlo anche in carcerazione preventiva. Extrema ratio, il carcere, quando ogni altra misura cautelare risulti inadeguata. Oggi Carlo sarebbe vivo. Ma tant'è! Da quattro anni la vita di un giovane adulto è ferma su una scrivania. Inutili i solleciti del difensore dei due fratelli: ad oggi non è pervenuta nessuna novità dalla Procura di Bari. Sospese sono le lacrime dei familiari, la loro incredulità, la loro attesa di verità, la loro speranza di giustizia. Giustizia: Aldrovandi, Uva, Cucchi, Ferulli, Budroni… tutti morti nelle mani dello Stato di Maria Brucale Il Garantista, 3 febbraio 2015 La notte del 25 settembre 2005, Federico Aldrovandi sta tornando a casa dopo una serata con gli amici. In quegli stessi minuti, la pattuglia "Alfa 3", con a bordo Enzo Pontani e Luca Pollastri si imbatte nel giovane. Federico viene definito un "invasato violento in evidente stato di agitazione". Vengono chiamati i rinforzi. Dopo poco tempo arriva la volante "Alfa 2", con a bordo Paolo Forlani e Monica Segatto. Lo scontro tra i quattro poliziotti e il giovane è molto violento. Due manganelli vengono spezzati sul corpo di Federico. Muore: "asfissia da posizione", con il torace schiacciato sull'asfalto dalle ginocchia dei poliziotti, a lungo. All'arrivo sul posto il personale del 118 trovava il paziente "riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena [...] era incosciente e non rispondeva". L'intervento si conclude, dopo numerosi tentativi di rianimazione cardiopolmonare, con la constatazione sul posto della morte per "arresto cardiorespiratorio e trauma cranico-facciale". Il 6 luglio 2009 i quattro poliziotti vengono condannati in primo grado a 3 anni e 6 mesi di reclusione, per "eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi". La condanna viene confermata in cassazione. I poliziotti che hanno ucciso Federico indossano ancora una divisa. È il 14 giugno 2008, Giuseppe Uva, 43 anni, di Varese, insieme ad un amico, per gioco, per aver bevuto un po', sposta delle transenne che interrompono una strada. Arrivano i carabinieri, poco dopo anche due poliziotti e portano i due in caserma. Li separano. Passano tre interminabili ore. Giuseppe viene poi trasportato nel reparto di psichiatria dell'ospedale di Varese, con la richiesta di trattamento sanitario obbligatorio. Muore. Dagli esami tossicologici risultano somministrati farmaci controindicati in caso di assunzione di alcool. Il corpo di Giuseppe è martoriato da botte e lividi, fratture alla colonna vertebrale, forse una sigaretta spenta sul viso e tantissimo sangue. Si apre uno scenario di violenze e di orrore. Dopo anni di silenzi e di negligenze investigative, il processo è finalmente iniziato ma sono già passati quasi sette anni! Stefano Cucchi muore 31 anni in custodia cautelare. Il 15 ottobre 2009 viene fermato dalla polizia dopo essere stato visto cedere a un uomo delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota. Già durante il processo ha difficoltà a camminare e a parlare e mostra evidenti ematomi attorno agli occhi. Dalle celle del Tribunale, al carcere di Regina Coeli, al Fatebenefratelli, ancora al carcere e, infine, alla struttura detentiva dell'ospedale Sandro Pertini dove Stefano muore, il 22 ottobre 2009. Ha perso sei chili, è disidratato e denutrito. Il suo corpo porta i segni orribili di un martirio. La Corte di Assise di Appello di Roma ha assolto tutti gli imputati: sei medici, tre infermieri, tre agenti della polizia penitenziaria. Mancanza di prove. Disposte nuove indagini ma ancora contro ignoti. Michele Ferulli, di 51 anni, il 30 giugno 2011 subisce un fermo di polizia sotto la sua abitazione, in via Varsavia a Milano. Si trovava in compagnia di due amici. Ascoltavano musica, chiacchieravano e bevevano birra. Erano le 21.30 quando i poliziotti intervengono, chiamati da qualcuno infastidito dal suono dello stereo. Secondo quanto riferiscono alcuni testimoni, Ferulli risponde pacatamente alle domande degli agenti e fornisce loro i documenti. In pochi attimi, il clima si scalda, Michele Ferulli viene immobilizzato, ammanettato e buttato a terra. I video acquisiti dalla Procura mostrano come Ferulli, sia stato colpito più volte con calci e pugni. Il processo, con una imputazione di omicidio preterintenzionale, si è concluso in primo grado il 02 luglio 2014. I giudici della prima Corte d'Assise di Milano hanno deciso di non dare seguito alla richiesta del pm, di condanna degli imputati a sette anni di reclusione. "Il fatto non sussiste". Gli agenti che hanno immobilizzato a terra Michele non sono responsabili della sua morte. Dino Budroni muore la mattina di sabato 30 luglio del 2011, freddato da un colpo di calibro 9 sparato dall'agente scelto Michele Paone mentre lui era in macchina, sul Grande Raccordo Anulare, all'altezza dell'uscita Nomentana, dopo che polizia e carabinieri lo avevano inseguito per chilometri. Inutile la corsa al Pertini. La macchina, una Ford Focus, era ferma davanti al guard rail. La prima marcia era inserita, il freno a mano tirato. Tutto dimostrava che l'auto era ferma quando il colpo mortale attingeva il corpo di Dino, già arreso, già inerme. Due spari. Uno colpiva la ruota, l'atro, esploso qualche secondo dopo, raggiungeva Dino al petto uccidendolo. Tre anni dopo arriva la sentenza: Michele Paone viene assolto: "Il fatto non costituisce reato", legittimo l'uso delle armi. Morti, insieme a tanti altri senza nome, nelle mani dello Stato. Giustizia: il contribuente detenuto è punibile, il carcere non scusa i mancati adempimenti di Gianluca Boccalatte Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2015 Il personale impedimento derivante dallo stato di detenzione del contribuente non configura un caso di "forza maggiore" e non esclude, quindi, la punibilità per il mancato rispetto di obblighi dichiarativi e comunicativi. Questo il principio stabilito nella sentenza 708/01/2014 della Ctp Caltanissetta (presidente e relatore Lupo). Davanti alla Ctp è stato impugnato un atto di contestazione di sanzioni: al contribuente (ditta individuale) veniva imputata l'omessa presentazione delle dichiarazioni Irpef e Iva (senza imposta dovuta); l'omessa tenuta delle scritture contabili, dei registri e dei documenti previsti dalle norme fiscali; la tardiva dichiarazione di cessazione attività ai fini Iva. Nel ricorso il contribuente - dimostrando il proprio stato di detenzione nell'anno in questione (e in quelli precedenti) - ha invocato la causa di non punibilità prevista dall'articolo 6, comma 5, del Dlgs 472/1997, in base al quale "non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore". Nelle controdeduzioni, l'agenzia delle Entrate si oppone alla tesi del ricorrente, sostenendo che la fattispecie oggetto del contendere non rientri nell'ambito della "forza maggiore". Secondo l'ufficio per forza maggiore si deve intendere una forza naturale (esterna al soggetto) che lo induce a uno specifico atto. Si configura in presenza di un evento che si sottrae alla volontà umana. I giudici nisseni hanno respinto il ricorso, facendo proprie le considerazioni dell'ufficio, negando per il caso di specie l'applicabilità della causa di non punibilità invocata dal contribuente. Secondo la Ctp, si può parlare di forza maggiore (e quindi di non punibilità) solamente in presenza di un evento, causato dalla natura o dall'uomo, che non può essere impedito, anche se fosse possibile prevederlo. Lo stato di detenzione non può rientrare nella nozione "atteso che gli atti e i comportamenti censurati non devono e non dovevano di necessità avvenire personalmente, ma potevano essere realizzati con le modalità e per il tramite di soggetti terzi quali professionisti abilitati, parenti, conoscenti, etc.". Per i giudici di primo grado, quindi, il contribuente era sicuramente impossibilitato a esercitare l'attività imprenditoriale, ma avrebbe potuto adempiere ai propri obblighi dichiarativi e comunicativi, quanto meno avvalendosi di un delegato. Dalla materiale possibilità di rispettare gli adempimenti, dunque, discende la punibilità di chi non li ha rispettati. Giustizia: truffe, furti e violenze... ecco il catalogo dei reati che saranno archiviati di Francesco Grignetti La Stampa, 3 febbraio 2015 L'omicidio colposo, per cortesia, non consideratelo mai un reato "tenue". E neppure lo stalking, che è seriale e abietto. Oppure le sevizie contro gli animali. Il Parlamento si prepara a votare un Parere su un decreto legislativo che cambierà sostanzialmente la procedura penale in Italia, laddove il magistrato potrà decidere l'archiviazione di un reato se considerato "di lieve tenuità". Renzi si è mostrato attento, promettendo correzioni. E la Camera sta per proporre diverse modifiche. Viste le polemiche dei leghisti, la maggioranza chiede sostanzialmente di togliere dal novero della "lieve tenuità" i reati di allarme sociale. Ad esempio la truffa ai pensionati, che potrebbe astrattamente apparire "lieve" se si guarda al valore economico in gioco, ma è particolarmente odiosa in riferimento all'età della persona offesa. A discrezione del giudice "Non è una depenalizzazione", spiega il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri. Bisogna capire il meccanismo: da una parte c'è un lungo elenco di reati, quelli con pena massima fino a 5 anni; dall'altra ci sarà il vaglio discrezionale del magistrato, che tra tutti quelli ricompresi nell'elenco, dovrà stabilire se il processo riguarda un fatto lieve o grave che merita di andare avanti. Per fare un altro esempio: il furto astrattamente rientra nell'elenco, ma le cose cambiano molto se è stata rubata una mela oppure un gioiello milionario. "Il magistrato - dice ancora Ferri -potrà archiviare solo a condizione che il danno provocato sia esiguo e che il reo non abbia ripetuto altre volte quel comportamento illecito. È uno strumento giuridico nuovo, che permetterà alla macchina giudiziaria di non perdere tempo e risorse su fatti bagatellari di lievissima gravità, così potendosi concentrare sui reati più gravi e complessi". Reati da allarme sociale In linea astratta, considerando il tetto di pena, l'elenco prevede un'infinità di reati anche gravi: la violenza privata, la minaccia aggravata, il furto, il danneggiamento, la truffa, l'appropriazione indebita. Potrebbero rientrare nella "lieve tenuità", e quindi essere archiviati d'ufficio, anche lo stalking o i maltrattamenti in famiglia. Oppure i reati contro gli animali, dal maltrattamento all'uccisione, all'abbandono, al divieto di combattimenti, al commercio di animali esotici. Di qui le polemiche. Le associazioni animaliste come Lav e Enpa hanno protestato perché trovano inconcepibile che i reati nei confronti degli animali rischino di finire tutti nel cestino. "Per fortuna - racconta Annamaria Procacci, Enpa - la nostra denuncia, su Facebook, ha superato il milione di commenti in pochi giorni. Un autentico allarme sociale". Le correzioni chieste Il Parlamento, su proposta del relatore David Ermini, Pd, chiede di non fermarsi all'elenco dei reati, ma di fissare paletti all'interpretazione del magistrato. "Ci - dice Ermini - si rifaccia all'articolo 133 del codice, quello che fissa la gravità del reato per valutare la pena. I criteri sono lì. Così raggiungiamo il nostro obiettivo: archiviazione per i reati oggettivamente minori e non altro". Sullo stalking si fisserà il parametro che un reato "reiterato" non può mai essere tenue. Sull'omicidio colposo, "la morte è incompatibile con il concetto di tenuità dell'offesa". Sul maltrattamento degli animali, non potrà essere mai considerato tenue un fatto se è avvenuto con "crudeltà" o "in violazione del sentimento di pietà nei confronti degli animali". Giustizia: la vita impossibile dei "testimoni di giustizia" di Marco Omizzolo e Roberto Lessio Il Manifesto, 3 febbraio 2015 Antimafia. L'ultimo caso è quello dell'imprenditore Di Palo, che per protesta si è dato fuoco davanti alla prefettura di Monza. Ma non sono infrequenti le storie dei collaboratori, e dei loro familiari, quasi del tutto abbandonati dallo Stato dopo che è stato attivato un programma di protezione È una sorte amara quella dell'imprenditore di Altamura, Francesco Di Palo, che venerdì scorso ha tentato di darsi fuoco dinanzi al palazzo della Prefettura di Monza. Un gesto esasperato dalla latitanza e inefficienza di uno Stato che non ha saputo proteggere un cittadino coraggioso e la sua famiglia. Di Palo è, infatti, un testimone di giustizia, recentemente escluso, insieme ai suoi familiari, dal relativo programma di protezione, nonostante continui a denunciare gravi minacce e ritorsioni. Di Palo era titolare della Venere srl di Matera, società che produceva vasche idromassaggio, dichiarata fallita un anno prima che l'imprenditore decidesse di collaborare con la magistratura locale denunciando i soprusi subiti dalla mafia murgiana. L'imprenditore durante la sua attività è stato più volte avvicinato da mafiosi locali per estorcergli denaro in cambio di una presunta sicurezza sociale e imprenditoriale. Da lì la decisione di denunciare i suoi aguzzini. Le sue dichiarazioni rilasciate alla Dda di Bari portarono al rinvio a giudizio di numerosi mafiosi, tra i quali gli affiliati al clan Dambrosio di Altamura, imprenditori compiacenti, esponenti delle forze dell'ordine, professionisti, politici e amministratori pubblici accusati a vario titolo di associazione mafiosa, omicidi, occultamento di cadavere, detenzione illegale di armi da guerra e relative munizioni, estorsione, usura, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Sempre dalle sue denunce si svilupparono altri filoni di indagine che consentirono al Tribunale di Lecce di rinviare a giudizio circa venti persone accusati di aver agito ancora in favore del boss Bartolomeo Dambrosio e dei suoi affiliati. Dopo le denunce e i processi Di Palo non ha più avuto vita facile e le promesse fattegli sono evaporate come acqua al sole. Un uomo lasciato solo dallo Stato, costretto a minacciare e infine a compiere atti estremi con lo scopo di attirare l'attenzione sul suo caso. Purtroppo non si tratta di un caso isolato. Sono molti i testimoni di giustizia, come Ignazio Cutrò, Piera Aiello, Lea Garofalo, Pino Masciari e sua moglie Marisa Salerno, figure chiave in decine di processi, a ritrovarsi soli, abbandonati dallo Stato. I testimoni di giustizia in Italia sono 85, la maggior parte tra i 26 e i 60 anni. Nel programma di protezione del Viminale ci sono anche 253 loro familiari, di cui 103 hanno tra i 0 e 18 anni. Famiglie che vivono disagi continui e che denunciano, anche mediante la loro associazione, le molte promesse mancate da parte di tutti i governi, quello Renzi compreso. Già nel febbraio 2014 molti di loro protestarono davanti la sede del ministero dell'Interno. Anche in quel caso promesse e grandi illusioni. Poi il silenzio. In Italia la sorte di queste famiglie è davvero appesa a un filo. I vuoti normativi sono enormi e l'inefficienza della burocrazia li espone a continue frustrazioni e pericoli. La loro sorte è formalmente decisa dalla Commissione centrale, ma gestita dal Servizio centrale di protezione del ministero dell'Interno (che gestisce anche i collaboratori di giustizia), al quale sono stati tolti 25 milioni di euro, nonostante il suo bilancio fosse stato già risanato e razionalizzato. Un colpo durissimo per chi si occupa di lotta alle mafie. Il taglio è la conseguenza della variazione di bilancio collegata alla legge di stabilità del governo Renzi. Una possibile svolta che avrebbe aiutato i testimoni a ricostruirsi una vita era rappresentata dalla legge dell'ottobre del 2013 che prevedeva il diritto alla loro assunzione nella Pubblica amministrazione. Una norma anche in questo caso inefficace. Manca infatti il relativo decreto attuativo, firmato dai ministri Alfano e Madia prima dell'ultimo Natale, ma non ancora pubblicato. La situazione diventa, se possibile, ancora più grave per i testimoni di giustizia sottoposti al programma speciale in località segreta. I loro "documenti di copertura" adoperati per nasconderne a fini di tutela l'identità, non hanno alcun valore legale costringendo le persone a comportamenti spesso contraddittori. Ciò vale per qualunque loro attività, obbligati a vivere in un limbo fatto di assurde complicazioni. L'apoteosi è stata raggiunta nel maggio del 2014 con il vice ministro dell'Interno Bubbico, il quale in pompa magna annunciò la redazione di una "Carta dei Diritti" dei Testimoni di giustizia, di cui ad oggi, a quasi un anno di distanza dall'impegno pubblico, non c'è traccia. E in Sicilia? Le cose non vanno meglio. La relativa legge regionale, che prevede un percorso più efficace per l'assunzione dei testimoni di giustizia nella Pubblica amministrazione, avendo previsto risorse economiche ad esso dedicate, ad oggi non è operativa e nessuno dei testimoni (che sono la maggioranza del totale) ha potuto sinora firmare un solo contratto. La Commissione Antimafia, attraverso il V Comitato coordinato da Davide Mattiello, ha condotto un'accurata inchiesta e prodotto una relazione, approvata all'unanimità, preludio a una proposta di legge di riforma. Un possibile riscatto, a patto di un sostegno politico ampio e determinato. Chi rischia in prima persona, deve poter contare sullo Stato. Non si può chiedere ai cittadini di denunciare boss, affiliati e criminali, e poi lasciarli soli. Forse aveva ragione De Andrè, quando in Don Raffè cantava "prima pagina venti notizie, ventuno ingiustizie e lo Stato che fa. Si costerna, s'indigna, s'impegna poi getta la spugna con gran dignità". A Bubbico, Alfano e Renzi decidere se cambiare musica o continuare con la retorica dello Stato anti-mafia. Giustizia: il diritto di Berlusconi allo sconto di pena di Piero Sansonetti Il Garantista, 3 febbraio 2015 Silvio Berlusconi sta per tornare alla politica attiva. Proprio all'indomani dell'elezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica, che ha segnato quasi simbolicamente l'annus horribilis del Cavaliere. Prima l'ordine di esecuzione della pena per la sentenza Mediaset (evasione fiscale per la sua azienda, quattro anni di condanna di cui tre coperti dall'indulto), poi la sconfitta alle elezioni europee, poi la nascita dell'opposizione Fitto in Forza Italia, infine la rottura da parte di Renzi del patto del Nazareno e l'esclusione dalla scelta del candidato da mandare al Quirinale. Berlusconi sta per tornare in campo perché il tribunale di sorveglianza - respingendo la scontata opposizione della Procura di Milano - gli ha concesso lo sconto di pena di 45 giorni previsto dalla legge Gozzini (è una legge degli anni ottanta e dice che in caso di buona condotta ogni sei mesi di condanna si ha diritto a uno sconto di 45 giorni). La decisione del giudice di sorveglianza ha sollevato delle polemiche. Si è detto che non si capisce perché altri cittadini, di fronte all'opposizione della Procura, non abbiano ottenuto lo sconto, e Berlusconi sì. Penso che siano polemiche infondate. Per due ragioni. La prima ragione è che trovo che sarebbe ragionevole - se le cose stanno così - protestare per i diritti negati a questi cittadini e non - viceversa - per i diritti riconosciuti al cittadino Berlusconi. La seconda ragione è evidente: probabilmente anche la giudice di sorveglianza che ha deciso di concedere lo sconto di pena ha ben chiaro quello che più o meno tutti sanno: e cioè che la Procura di Milano è impegnata in una crociata ad personam contro Berlusconi che ha ormai assunto il carattere di una vera fissazione. La Procura di Milano ha già ottenuto di collocarsi, nella battaglia politica in Italia, in una posizione di primissimo piano. Vent'anni fa , come sapete, sciolse tre o quattro partiti; in questi mesi - dopo oltre due decenni di inchieste a raffica, la grandissima parte delle quali finite in una bolla di sapone - è riuscita a infliggere un colpo micidiale a Berlusconi - cioè a uno dei massimi protagonisti della battaglia politica in Italia e il capo indiscusso di uno dei due schieramenti - determinando le condizioni nelle quali - con grande abilità - Renzi ha trovato la maniera per imporsi come capo assoluto di questo paese. Francamente non si capisce perché, dopo aver portato a casa questo risultato politico ragguardevolissimo (che non era stato raggiunto, usando le armi tradizionali della lotta politica, né da Occhetto, né da D'Alema, né da Veltroni, né da Ber-sani) ora deve incattivirsi fino al punto di voler negare i 45 giorni di sconto. Con una motivazione singolare: Berlusconi ha in più occasioni attaccato la magistratura. Più che singolare, potremmo dire che è una motivazione "imperiale". E cioè si ritiene di poter imporre la propria sacralità, la sacralità dei pm, simile a quella degli imperatori romani. Si afferma il principio che in Italia è un atto di "cattiva condotta" esprimere opinioni non lusinghiere nei confronti della magistratura. È così: non c'è niente da fare. Come succedeva in una qualunque dittatura sudamericana o dell'est Europa negli anni ottanta. Del resto la stessa giudice che ha concesso lo sconto, ha dovuto precisare che lo ha fatto non perché non considerasse gravi gli attacchi di Berlusconi alla magistratura, ma perché questi avvennero prima dell'inizio dell'esecuzione della condanna, mentre la legge prevede che la buona condotta - come è ovvio - sia mantenuta durante la pena. In questo clima un po' medievale c'è da rallegrarsi almeno un po' per l'atto di cortesia del nuovo Presidente della Repubblica, il quale ha invitato Berlusconi alle cerimonie per il suo insediamento. È logico che l'abbia fatto, visto che Berlusconi è il capo del partito giunto secondo alle ultime elezioni (a poche migliaia di voti di distanza dal primo partito). Però in questo clima è chiaro che Mattarella ha dovuto superare delle resistenze. Speriamo che sia un segnale. O addirittura che sia l'inizio dell'opera di un Presidente che ha voglia di riportare la magistratura dentro l'alveo della democrazia repubblicana, dal quale è uscita ormai da un paio di decenni. Veneto: ricerca; un agente penitenziario su cinque è depresso, molti assumono alcol o droga di Michela Nicolussi Moro Corriere Veneto, 3 febbraio 2015 Ricerca dell'Università di Padova: corpo afflitto da nonnismo. Denuncia dei Sindacati. Gianpietro Pegoraro (Cgil): stress, superlavoro e sottorganico hanno aumentato gli invii alla commissione medica. Non è un episodio isolato la rivolta scoppiata al Due Palazzi di Padova la scorsa settimana (a proposito 7 dei 30 indagati sono già stati trasferiti e gli altri lo saranno a breve): le carceri venete sono vere polveriere. Sovraffollamento (3.180 detenuti contro una capienza regolamentare di 1947), polizia penitenziaria in perenne sottorganico (fino a -30%), strutture fatiscenti e poche risorse per le attività interne (lavoro, studio, sport, cultura) che riescono a coinvolgere solo la metà dei reclusi, alzano il livello di tensione e abbassano quello di sicurezza. Gli agenti lamentano una vita d'inferno, denunciando un malcontento che nel 15-20% dei casi degenera in depressione, uso di alcol o droga. "È un grave campanello d'allarme - dice Gianpietro Pegoraro, segretario regionale di Cgil Penitenziari - anche perché abbiamo un'arma. Negli ultimi due anni si sono uccisi due colleghi a Padova e uno a Venezia e sui 1.500 in servizio il 15-20% soffre di depressione o ricorre ad alcol e droga per reggere lo stress. Sono frequenti gli invii alla Commissione medica ospedaliera, che certifica lo stato di malattia e prescrive da 40 a 90 giorni di prognosi. Ma non è una soluzione, bisognava far partire i Centri d'ascolto con gli psicologi delle Usl, mai attivati perché da una parte era garantito l'anonimato e dall'altra le direzioni delle carceri volevano l'elenco dei poliziotti utenti". Emerge a late re della ricerca sulle condizioni lavorative della Polizia penitenziaria in Veneto, condotta dall'Università di Padova con Francesca Vianello, docente di Sociologia della devianza, e il dottorando Alessandro Maculan. I due hanno somministrato ai 1.500 agenti un questionario per capirne il grado di soddisfazione e dall'analisi (hanno risposto in 416, circa il 30%, con il 2% di Vicenza: appena 11 partecipanti) è saltato fuori un altro dato preoccupante. "Nel corpo sussiste una sorta di nonnismo - rivelano i ricercatori - vige una stretta gerarchia militare: più uno è giovane e basso di grado, peggiori sono le condizioni di lavoro. Non c'è una rotazione del personale, tocca sempre a loro stare a contatto con i detenuti, mansione che implica le maggiori criticità e più ore di straordinario". "Un agente penitenziario si sobbarca un carico di sofferenza smisurata - commenta il professor Giuseppe Mosconi, docente di Sociologia del diritto - il suo molo è legittimato dall'accezione positiva di rappresentare la legge, che però all'esterno non è riconosciuto. E ciò è fonte di frustrazione". L'altra fetta di personale che considera il proprio mestiere pesante e demotivante è quella del Nucleo Traduzioni e Piantonamenti. "L'aver a che fare con un alto e continuo numero di trasferimenti dei detenuti, il dover fare viaggi lunghi e passare la notte fuori casa, dormendo nelle caserme di altri istituti spesso prive di comfort, essere costretti a confrontarsi con una popolazione poco disciplinata e con persone arrestate da poco possono concorrere a rendere questo lavoro particolarmente duro e privo di soddisfazioni", si legge nella ricerca. Va detto che le situazioni più difficili si riscontrano nei circondariali, gravati da turn over frequente. Il dossier indica poi Verona come la realtà più dura, per struttura e organizzazione, mentre la Giudecca di Venezia (Femminile) è l'isola felice priva di sovraffollamento. In mezzo Belluno e Treviso, dove si evidenzia una maggior collaborazione tra agenti. Padova invece si distingue per la sezione dedicata ai tossicodipendenti con residuo di pena al massimo di due anni e che si stanno disintossicando sotto il controllo dell'Usl 16: godono di custodia attenuata, cioè possono stare sempre con le celle aperte. Tornando alle lamentele del personale, riguardano il degrado strutturale, la conflittualità interna, la mancanza di soddisfazioni, formazione e occasioni di crescita professionale. Meno critici i poliziotti più anziani, che hanno figli o che fanno sempre lo stesso orario: si sentono parte di una squadra. Sicilia: mense in carcere, le coop siciliane non si arrendono "siamo imprenditori veri" di Rosa Maria di Natale Redattore Sociale, 3 febbraio 2015 Belle imprese. I loro progetti erano stati finanziati grazie alla Cassa delle ammende e ora, con o senza il finanziamento, le due cooperative sociali, formate anche da detenuti, che hanno curato il servizio andranno avanti con le proprie gambe. Ma è forte il rischio di perdere lavoratori e, per i detenuti, di veder diminuire le ore di occupazione in cucina. Con o senza il finanziamento della Cassa delle ammende le cooperative sociali siciliane che hanno curato il servizio mensa delle carceri non chiuderanno e andranno avanti grazie alla loro capacità di fare impresa. Ma per le coop è forte il rischio di perdere lavoratori, e per i detenuti di vedersi diminuire le ambite ore di occupazione in cucina. Come da contratto nazionale, lavorare nella mensa per chi è in carcere rende infatti uno stipendio medio di circa 500 euro al mese per 14 ore settimanali, esclusi straordinari e festivi, senza contare i reali benefici di recupero sociale. "Negli anni ci siamo radicati e siamo diventati imprenditori veri, rischi e soddisfazioni incluse", dicono Giovanni Romano e Aurelio Guccione, rispettivamente presidenti della Coop "L'Arcolaio" di Siracusa e del consorzio "La Città solidale", a sua volta papà della coop sociale "Sprigioniamo sapori" di Ragusa. Il cambio di passo della Cassa il 16 gennaio ha rimesso in campo il Dap nella gestione delle mense, così come prima del 2004. Un passaggio che di certo non si rivelerà indolore per nessuno. I due presidenti però non sono affatto scoraggiati. Le uniche due realtà siciliane che rientrano nella lista di dieci coop formate anche da detenuti, che hanno gestito le mense in altrettanti carceri italiane e che ora si trovano orfane dell'importante commessa, continuano il lavoro quotidiano con le proprie gambe. I loro progetti erano stati finanziati negli anni scorsi dalla Cassa delle ammende, il fondo alimentato dalle multe comminate dai tribunali e che a seguito di quanto stabilito lo scorso 21 dicembre, non sosterrà più i servizi di mensa in gestione a cooperative di detenuti come invece accadeva sin dal 2004. Facendosi forte di un'esperienza cresciuta giorno dopo giorno, a fianco dei detenuti, L'Arcolaio conta come principale attività una produzione dolciaria di agricoltura biologica di raffinata nicchia, e con il marchio "Dolci evasioni" nato nel 2005 produce soprattutto paste di mandorla con la celebre "pizzuta" di Avola, mentre "Sprigioniamo sapori" è divenuto un marchio nel 2013 in grado di sviluppare buone pratiche di economia carceraria, con la produzione di torroni artigianali al miele degli iblei e pistacchi. Un tripudio per il gusto, ma soprattutto un fatturato di oltre 500 mila euro per i siracusani di "Dolci evasioni" , mentre per i ragusani il 2014 ha fatto registrare un fatturato circa 80 mila euro per l' attività catering, ed altre 80 mila per l'attività collaterale. Ma il cambio di marcia sacrificherà posti di lavoro? "La nostra realtà contava 16 lavoratori detenuti e arriviamo in tutto a 29 operatori che negli anni hanno contribuito alla crescita della cooperativa e del marchio. Una crescita lenta ma costante, come tutte le produzioni di nicchia - dice Giovanni Romano. Se perderemo lavoratori detenuti a causa di questo cambiamento? Quelli che abbiamo dovuto licenziare sono già stati assunti dall'amministrazione penitenziaria. Abbiamo purtroppo dovuto licenziare tre operatori civili". Per il presidente della coop siracusana l'esperienza della gestione mense "è stata di grande valore umano, sociale e operativo. Siamo cresciuti insieme ai detenuti e abbiamo migliorato costantemente la nostra produzione". Il servizio di mensa di Ragusa fino ad oggi ha dato lavoro a sei detenuti, due professionisti esterni, due cuochi e un tutor. "Con questa novità per il momento perderemo due cuoche, ma cercheremo di recuperarle nel momento in cui riattiveremo altri progetti - aggiunge Aurelio Guccione- e ai detenuti, che comunque sono regolati da contratti a termine, dovremo diminuire le ore di lavoro. Puntiamo molto sul dialogo con la Cassa anche in questo momento. Dialogo che comunque rimane ottimo". Le due cooperative hanno già incontrato a Roma il nuovo capo Dipartimento che in ogni caso valuterà il cofinanziamento di nuovi progetti che potranno eventualmente essere presentati dalle dieci cooperative ora del tutto autosufficienti. "L'Arcolaio" di Siracusa punta ad esempio ad un secondo laboratorio dolciario, mentre nel caso di Ragusa l'idea è quella del confezionamento pasti per privati con servizio gestito da detenuti con un progetto di circa 70 mila euro. L'esito dei progetti dovrebbe essere reso noto nel giro di poche settimane. Palermo: la moglie del detenuto trovato impiccato "non credo al suicidio, ditemi perché è morto" di Salvo Palazzolo La Repubblica, 3 febbraio 2015 L'appello di Simona: "Lo Stato aveva in consegna il mio Ciro, ora voglio sapere tutta la verità". L'inchiesta della procura prosegue. Il giovane rapinatore di Bagheria aveva iniziato a fare dichiarazioni ai pm della direzione distrettuale antimafia. "L'ho incontrato in carcere due giorni prima che morisse - racconta. Era sereno, parlava di progetti. Voleva pagare il suo debito con la giustizia e poi tornare a casa. Perché lui amava alla follia me e nostro figlio". Simona non crede che il suo Ciro si sia suicidato. "Era un ragazzo pieno di vita", ripete. E adesso vuole giustizia: "Non è possibile che in carcere accadano queste cose - dice - la magistratura deve fare fino in fondo la sua parte, lo Stato deve spiegarmi perché Ciro è morto. Se si è suicidato, voglio sapere il perché. Ma se quello, come credo, non è un suicidio, mi dicano chi ha ucciso Ciro". È determinata la giovane compagna di Ciro Carrello, il detenuto bagherese trovato impiccato nell'infermeria del carcere di Pagliarelli, la notte fra mercoledì e giovedì. Da una decina di giorni, Carrello aveva iniziato a fare dichiarazioni ai magistrati della procura di Palermo: stava svelando i retroscena di alcune rapine e soprattutto il ruolo svolto da Luca Bellomo, il nipote acquisito del superlatitante Matteo Messina Denaro, in un maxi colpo avvenuto nei mesi scorsi nel deposito Tnt di Campobello di Mazara. Ora, c'è un'inchiesta sulla morte del detenuto e nel registro degli indagati sono finiti due boss, che avrebbero inviato pizzini di minacce a Carrello. "Voglio sapere la verità - ripete Simona - non credo alla storia del suicidio. Non sapevo della sua scelta di collaborare con la giustizia e delle dichiarazioni che stava facendo ai magistrati, probabilmente mi aveva tenuto all'oscuro di tutto per proteggermi. Però, lo vedevo tranquillo. Ed ero serena, perché sapevo che era ormai deciso a pagare per gli sbagli che aveva fatto nella sua vita. Ciro voleva ricominciare d'accapo, assieme alla sua famiglia, questo avremmo fatto". La compagna ricorda i momenti di gioia: "L'ho conosciuto quattordici anni fa, eravamo amici. Ci siamo rivisti dopo tanto tempo, ed è stato un colpo di fulmine". Ricorda anche i momenti di dolore: "Tante volte, mi parlava della vita difficile in carcere. Negli ultimi tempi mi diceva che in cella c'era tanto freddo, soffriva". Ciro Carrello era stato arrestato nel febbraio scorso. "Aveva deciso di cambiare vita - racconta la compagna - voleva lasciarsi alle spalle gli errori fatti. Ecco perché non credo che possa essersi ucciso. Lo Stato lo aveva in custodia, adesso deve dirmi perché è morto il mio Ciro". Reggio Calabria: si sta lavorando per istruire il Garante dei diritti dei detenuti di Danilo Loria www.strettoweb.com, 3 febbraio 2015 Presso la sede del Parlamento Europeo, promosso dal Forum nazionale dei giovani e dall'on. Brando Benifei, è in programma un'importante tavola rotonda dal titolo "Diritti umani e dei detenuti. Quale futuro?". Ai lavori prenderanno parte, oltre a all'On. Brando Benifei Pse co-promotore dell'iniziativa, Luigi Iorio, coordinatore del gruppo di lavoro "Diritti umani" Fng, Matteo Guidoni, membro del direttivo nazionale Fng con delega alle carceri, Stefano Felician, membro Youth forum, Gianpiero Milani, Advisory council, Antonino Castorina autore del saggio "Viaggio nelle carceri", l'On. Lugi Morgano Pse, l'On.Lara Comi Ppe e il Vicepresidente del Parlamento europeo Antonio Tajani. Il problema del sovraffollamento carcerario nel nostro Paese è stato un fenomeno strettamente interconnesso alla tematica della legalità; diventa un paradosso, infatti, far vivere chi non ha recepito il senso di legalità in una situazione di non corrispondenza tra quanto normativamente definito e quanto attuato e vissuto, di norma, in condizione di palese violazione dei diritti umani. I dati forniscono un quadro in aumento della popolazione carceraria italiana nell'ultimo decennio, il che ha generato un forte sovraffollamento degli istituti di pena ed un consequenziale deterioramento delle qualità della vita dei detenuti. Grazie ad importanti interventi strutturali e ad un interessamento serio di Andrea Orlando sul tema, nell'ultimo anno, però, le cose sono in evidente miglioramento. Il sovraffollamento delle carceri risulta meno dilagante che in passato. In soccorso alla vicenda sono intervenute diverse leggi cosiddette "svuota-carcere"; da ultima la Legge 10-2014 con la quale il legislatore è intervenuto al fine di implementare le misure alternative, l'istituzione del garante dei detenuti e la ridefinizione del piano carceri. Da qui l'idea di portare anche in ambito europeo una discussione, spesso ritenuta di secondo piano, ma che riguarda il rispetto dei diritti umani e, quindi, la dignità della vita e la garanzia della costituzione e dei dettami comunitari. Antonino Castorina, capogruppo del Pd in Consiglio comunale di Reggio Calabria e responsabile legalità dei giovani democratici , ritiene "importanti i passi avanti fatti dal governo Renzi ed il lavoro meticoloso di controllo e monitoraggio che fanno alcuni parlamentari come Enza Bruno Bossio, Roberto Speranza o Danilo Leva, di concerto con il partito il cui settore carceri è ben guidato da Sandro Favi. A Reggio, come in altri importanti grandi comuni del Mezzogiorno si sta già lavorando per istruire il Garante dei diritti dei detenuti che dovrà in modo costante monitorare la situazione carceraria nel Comune di riferimento e supportare l'enorme mole di lavoro presente negli istituti detentivi a rispetto e garanzia dei diritti umani". Foggia: situazione carcere molto critica, in Puglia è la struttura con problemi maggiori www.immediato.net, 3 febbraio 2015 Il carcere di Foggia versa in condizioni molto complicate. Sovraffollamento, carenza di igiene e difficoltà nel reperire i farmaci sono solo alcune delle questioni più scottanti. Solo poche settimane fa, su l'Immediato, pubblicammo la denuncia di alcuni esponenti dell'associazione Radicali "Maria Teresa Di Lascia" a poche ore dalla loro visita nel carcere foggiano. Oggi è la consigliera regionale foggiana, Anna Nuzziello ad intervenire sulla situazione delle carceri pugliesi e, in particolar modo, su quella che riguarda la casa circondariale del capoluogo dauno, che resta, proporzionalmente, la più affollata del distretto. Il caos delle carceri, però, riguarda tutti gli 11 istituti penitenziari del territorio pugliese, dove, ugualmente, si verifica un esubero della capienza regolamentare. "Secondo il calcolo statistico degli organi competenti presente all'interno della relazione datata 31 dicembre 2013, la capienza regolamentare degli istituti penitenziari regionali dovrebbe essere complessivamente di 3.722 soggetti - spiega la consigliera Nuzziello. Il numero dei detenuti, però, è sempre maggiore rispetto alla disponibilità prevista, considerando i soggetti che scontano la pena in pianta stabile e quelli in semi-libertà, tra cui, va ricordato, donne e stranieri. Le difficoltà in cui versano gli istituti di pena pugliesi sono e restano, dunque, sintomatiche di una situazione che va migliorata, se non convintamente riformata". Tornando a Foggia, "nonostante il grande impegno profuso dalla direttrice della casa circondariale di Foggia, Mariella Affatato, grazie alla quale, di concerto con i tavoli tecnici e istituzionali, sono state attivate numerose iniziative trattamentali - sottolinea la consigliera regionale - che vanno nella direzione giusta, e cioè il fine rieducativo della pena, le criticità, però, restano. In particolare quelle più impellenti, a tutt'oggi, consistono nella carenza di personale delle varie aree rispetto alla pianta organica prevista; nell'obsolescenza degli impianti idrici e termici; nella scarsa efficienza dell'erogazione del servizio socio-assistenziale, comprensivo del servizio psicologico e dell'assistenza psichiatrica ai pazienti, che dovrebbe garantire un monitoraggio costante non solo sotto l'aspetto sanitario specialistico ma anche generico. Relativamente a quest'ultimo punto esistono modalità, procedure e criteri stabiliti dalla legge e vanno perseguiti con maggior vigore". Il riferimento della consigliera Nuzziello va al lungo e complesso iter che ha impiegato quasi un decennio per realizzare un cambiamento fondamentale in tema di carceri, e cioè la Riforma della Medicina penitenziaria prevista dal decreto legislativo n. 230/1999 e finalmente approvata nel 2008 dalla Conferenza Stato-Regioni con il "sì" allo schema del provvedimento emanato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. La riforma è finalizzata ad una più efficace assistenza sanitaria e alla qualità delle prestazioni di diagnosi, cura e riabilitazione negli istituti penitenziari, negli istituti di pena per minori, nei centri di prima accoglienza, nelle comunità e negli ospedali psichiatrici giudiziari. "Con il lavoro d'equipe, condotto dal garante regionale dei detenuti, il dottor Pietro Rossi, insieme ai tavoli tecnici degli organi competenti, si sono fatti, fino ad oggi, grandi passi in avanti, grazie anche al protocollo d'intesa tra la Regione Puglia e il Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria (Prap) - illustra Anna Nuzziello. Bene dunque un'attenta azione istituzionale sulla vertenza delle carceri pugliesi, e, in particolar modo, su quella della casa circondariale di Foggia, attraverso gli accordi di programma, i protocolli di intesa, i vari seminari. Ma c'è assoluta necessità - continua la consigliera regionale - di guardare anche al di fuori degli istituti penitenziari, per far sì che la gente perbene e le imprese oneste si sentano tutelate e protette, anche alla luce di provvedimenti legislativi come il decreto legge n. 78/2013, il cosiddetto ‘Svuota carceri'. In un tempo in cui la crisi economica continua a mordere, e in un contesto cittadino come quello del capoluogo dauno, in cui la sicurezza continua ad essere minata, senza un'adeguata vigilanza, tanto dal malcostume quanto dalla criminalità organizzata, senza contare una disoccupazione giovanile alle stelle e la dilagante indigenza di un sempre maggior numero di nuclei familiari, c'è bisogno di una risposta concreta delle istituzioni, anche per evitare derive delinquenziali che si ripercuoterebbero inevitabilmente sul sovraffollamento delle carceri". "Ben vengano, allora, le fiaccolate della legalità, le iniziative in tal senso delle associazioni e della comunità operosa, ma i tavoli tecnici della politica e delle istituzioni devono operare più concretamente - conclude Anna Nuzziello - per risolvere davvero i problemi di Foggia, per portare cambiamento e innovazione, per far riemergere un futuro luminoso in fondo al tunnel del degrado, attraverso sinergie ed energie, umane e professionali, senza colore politico. La gente continua a morire di fame. Foggia e i suoi cittadini sono stanchi, offesi, umiliati e chiedono aiuto, rispetto e dignità da parte della politica e delle istituzioni". Santa Maria Capua Vetere (Ce): Sgambato (Pd) incontra il nuovo Capo del Dap Consolo www.campanianotizie.com, 3 febbraio 2015 "L'istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere avrà l'attenzione che merita, e tutte le problematiche di cui ci siamo fatti carico nelle scorse settimane, dalla classificazione al potenziamento del personale, dal reparto riservato in ospedale all'attenzione per lo sport e per le visite dei parenti: sono certa che saranno affrontate prontamente, anche con il necessario coinvolgimento della direttrice del carcere". Lo ha detto Camilla Sgambato a margine di un incontro con il magistrato Santi Consolo, da dicembre a capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. La deputata del Partito Democratico, più volte in visita alla struttura di Santa Maria Capua Vetere e a colloquio sia con gli agenti di Polizia Penitenziaria che con la direttrice Concetta Giaquinto, ha esposto al nuovo capo del Dap le problematiche di Santa Maria: "All'aumento di detenuti con la costruzione di un nuovo padiglione - ha ricordato la parlamentare - non è corrisposto un adeguamento aumento di personale, come dimostrano purtroppo gli episodi di aggressione ad agenti che si sono registrati negli ultimi mesi. Va pensato uno spazio per le detenute comuni all'interno del reparto femminile, come più volte auspicato anche dai vertici del Tribunale. E poi l'istituto va qualificato come carcere di primo livello, impensabile che sia ancora classificato di secondo livello, al pari di realtà decisamente più semplici e con una popolazione carceraria assolutamente meno numerosa. Il dottor Consolo ha inoltre accolto le nostre sollecitazioni anche su altre questioni: seguirà anche lui la vicenda del reparto per detenuti inaugurato e mai messo in funzione all'ospedale di Caserta; coinvolgerà il carcere di Santa Maria in progetti che porteranno alla struttura nuove energie e soprattutto nuove risorse; si studieranno iniziative per potenziare le attività sportive, si pensava in particolare a coinvolgere magari il Coni e la locale famosa squadra di rugby. Riprenderemo a lavorare, inoltre, anche ad un progetto per l'accoglienza dei bambini figli di detenuti e detenute, magari anche pensando di utilizzare le detenute". "Il dottor Consolo - ha poi concluso Camilla Sgambato - sarà presto in Campania in visita al carcere di Poggioreale e ha accolto con molto favore la mia richiesta di visitare, in quella occasione, anche il carcere di Santa Maria Capua Vetere per verificare di persona potenzialità e criticità della struttura". Biella: detenuti al lavoro nelle scuole, progetto avviato da Provincia e carcere di Elena Giacchero www.newsbiella.it, 3 febbraio 2015 Passa dal concetto di "restituzione sociale", il nuovo progetto che vede Provincia e Casa circondariale unite per il futuro reinserimento dei detenuti. Questi ultimi, infatti, si occuperanno di manutenzione di aree verdi e piccoli lavori all'interno degli istituti scolatici superiori, imparando un mestiere. "Siamo i primi ad aver avviato il protocollo nel Biellese - ha spiegato il presidente della Provincia, Emanuele Ramella Pralungo, affiancato dall'assessore, e promotore dell'iniziativa, Giuseppe Faraci, perché crediamo nella rieducazione del reo. Punire non serve, ma occorre dare ai reclusi una possibilità. E in cambio, con questi lavori, loro daranno qualcosa ai biellesi". In tutto saranno una decina i detenuti coinvolti, tutti soggetti ormai a fine pena e con custodia attenuata. "Si tratta di una proposta di trattamento - ha continuato la direttrice del carcere, Antonella Giordano, dedicata a chi ha voglia di mettersi in gioco. L'obbiettivo finale è quello di creare un interscambio tra la società e il detenuto. A quest'ultimo, anche il compito di gestire i propri spazi e, soprattutto, di responsabilizzarsi". Entro un mese, quindi, i primi reclusi, assistiti da tutor, inizieranno a prendere servizio nelle scuole. Biella: sì al reinserimento dei detenuti, ma lontano dalla scuola, sono diseducativi www.newsbiella.it, 3 febbraio 2015 Buona l'idea di un progetto di reinserimento dei detenuti, meno buona l'idea di occuparli nella manutenzione delle aree verdi scolastiche. Ritengo molto diseducativo trasmettere il messaggio "punire non serve" ed ancor più diseducativo che questi soggetti vengano impiegati nelle comode e piacevoli aree verdi delle scuole. I ragazzi hanno bisogno di esempi sani non di "avanzi di galera" in fase di riabilitazione. Certo sono persone umane ma se hanno commesso dei reati è giusto che siano puniti e la reintegrazione non deve passare dalla scuola, la scuola deve essere un luogo dove gli alunni devono essere tutelati sotto tutti gli aspetti anche quello morale! Ci sono decine di aree verdi pubbliche bisognose di manutenzione, a cominciare dal parco Burcina ai vari fossati pieni di putride schifezze, agli argini dei torrenti e via di seguito, basta guardarsi attorno! forse per loro è troppo faticoso, forse è troppo impegnativo per i tutor? Fuori dalla scuola portateci le "nonne" bisognose che rubano per mangiare, perché possano prendere per mano i piccoli ed accompagnarli a casa, portatele anche dentro alla scuola perché raccontino delle belle favole in cambio magari di un pasto caldo alla mensa. Certamente sarebbe più utile rispettare la loro dignità, perché vecchie, perché (se non hanno mai rubato prima) quale miseria le spinge a 70 e fischia anni rubare per mangiare, quale situazione estrema stanno vivendo sotto gli occhi ciechi delle nostre istituzioni che si preoccupano di ben altro? Mi fermo perché potrei veramente diventare irriverente e con cognizione di causa. Lettera Firmata Firenze: alla stazione Leopolda nasce un "giardino verticale" fatto da minorenni detenuti Askanews, 3 febbraio 2015 Bisognerà attendere la primavera per ammirarlo in tutta la sua bellezza, ma il giardino verticale che si arrampica sul lato adiacente alla stazione di Porta al Prato, dà già un tocco completamente diverso all'esterno della Stazione Leopolda. Alta quattro metri e larga venti, l'opera è nata dalla collaborazione tra il Comune di Firenze, l'istituto di formazione Apab e il Centro di Giustizia minorile. "Al momento abbiamo ragazzi affidati al servizio sociale minorenni della giustizia, in altre occasioni abbiamo avuto addirittura anche detenuti dell'istituto penale di Firenze", ha spiegato Enrica Pini, funzionaria del Centro di giustizia minorile. Al ragazzo ritenuto più meritevole, è stato consegnato un assegno di mille euro. Il progetto "in Three" della stazione Leopolda è solo l'inizio. "E continueremo, proprio perché appunto crediamo in quest'opera di collaborazione, di recupero sociale e anche ambientale. Si sancirà anche un protocollo d'intesa", ha aggiunto Alessia Bettini, assessora all'Ambiente e al decoro urbano del Comune di Firenze. Taranto: a Martina Franca la manutenzione affidata ai detenuti, convenzione il carcere www.tarantobuonasera.it, 3 febbraio 2015 La Giunta comunale di Martina Franca ha deliberato lo schema di convenzione con la Casa circondariale di Taranto "Carmelo Magli". Per un anno fino ad otto soggetti in esecuzione di pena svolgeranno gratuitamente attività a favore della collettività e, nello specifico, saranno impegnati in piccole attività manutentive del verde pubblico e del patrimonio immobiliare comunale. "L'esperienza già realizzata in collaborazione con la Casa Circondariale ha dato esiti positivi e ha contribuito fattivamente al recupero e al reinserimento dei detenuti che hanno aderito al progetto come misura alternativa al carcere - dichiara l'assessore alle Politiche Sociali, Vito Pasculli. Questa azione, gli scorsi anni, ci ha consentito di recuperare spazi importanti del patrimonio comunale restituendoli alla nostra città. L'Istituto Comprensivo Marconi, la Casa del Volontariato e la sistemazione della Biblioteca comunale sono i primi esempi concreti del lavoro e dell'impegno profuso dai ragazzi coinvolti nel progetto". L'iniziativa si è rinnovata grazie alla collaborazione e alla disponibilità della dottoressa Stefania Baldassarri, Direttrice della Casa Circondariale. Augusta (Sr): realizzato un container per ospitare tre detenuti in permesso www.nuovosud.it, 3 febbraio 2015 Il progetto è sostenuto dalla Fondazione di Comunità Val di Noto. Ad Augusta è stato realizzato un container, grazie al progetto "Chiesa accogliente", in cui sono stati ospitati tre detenuti con permesso premio. Il progetto, sostenuto dalla Fondazione di Comunità Val di Noto, è promosso dalle parrocchie di Augusta Matrice, Soccorso, San Francesco, Sacro Cuore, Santa Lucia, San Nicola e San Giuseppe Innografo: un sistema che ha permesso anche l'inserimento lavorativo di un detenuto per avviare il recupero sociale della persona. Questo progetto è stato avviato con la Fondazione di comunità Val di Noto, nella modalità dello scouting sociale, con un contributo di 25 mila euro. Tutor del progetto è Angelo Cerruto. Padre Saraceno ha parlato del percorso avviato in questi anni: un primo container era già stato realizzato, ma un incendio lo ha distrutto; nei mesi scorsi l'inaugurazione della nuova struttura che ha consentito ai volontari di continuare l'attività. Don Angelo ha spiegato anche le difficoltà che ci sono sul territorio per la crescente richiesta di aiuto che arriva da chi vive ogni giorno in difficoltà economiche. Monsignor Aliotta ha sottolineato l'importanza delle rete che si è creata con la collaborazione tra diverse parrocchie del territorio "la Fondazione ha sostenuto questo progetto - osserva - perché non si tratta di forme di assistenzialismo ma di sistema essendoci un progetto di recupero sui soggetti coinvolti". Ancona: il Card. Menichelli in visita ai detenuti "il carcere deve essere un luogo di vita" www.consiglio.marche.it, 3 febbraio 2015 "Il carcere deve essere un luogo di vita" Il saluto del Cardinale Edoardo Menichelli ha aperto a Palazzo delle Marche il seminario "Ri-Visitare le carceri", l'incontro interregionale dei Garanti dei detenuti promosso dall'Ombudsman delle Marche, in preparazione degli Stati generali sul sistema carcerario che si svolgeranno a primavera. Sul tema della detenzione il Cardinale ha invitato tutti "ad abbandonare una visione ideologica e a fare un cambiamento culturale". "Molte delle persone che sono in carcere - ha detto Menichelli - sono il frutto di una società adescante e rifiutante. Occorre che tutti si inginocchino di fronte a questi problemi, nessuno è più bravo dell'altro. Serve una sinergia convergente e risolutiva, serve una soluzione culturale e politica". Un intervento, quello del neo Cardinale, che lui stesso ha definito "provocatorio", con domande precise rivolte agli addetti ai lavori, "Chi è il carcerato? È il prodotto di che cosa? Ha un denominatore comune con noi? Sì, perché sono persone come noi. Il carcere non può essere solo una prigione, deve essere un luogo di vita, perché i detenuti sono persone vive. Restituiamo dignità alla loro dimensione e al tempo che trascorrono in cella". La popolazione carceraria diminuisce del 18,9% I detenuti presenti negli istituti di pena marchigiani, dato aggiornato al 31 dicembre 2014, sono 869 (fonte Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato, sezione statistica). Il dato, per il terzo anno consecutivo, conferma la tendenza al calo della popolazione detenuta, passata dai 1225 reclusi del 2012, ai 1072 del 2013, con un' ulteriore diminuzione del 18,9% (- 203 detenuti) nel 2014. Questo trend è confermato anche a livello nazionale, con un - 14,3% dei reclusi in Italia. Gli stranieri sono passati da 483 a 388 (-19,7%). Nell'insieme il totale (869) è di 57 unità al di sopra della capienza regolamentare dei sette istituti di pena marchigiani, pari a 812 detenuti. Scontano una condanna definitiva 591 reclusi, mentre 278 sono in attesa di un giudizio finale. Il carcere di Pesaro è quello con il maggior numero di detenuti, 237, nonostante nell'ultimo anno la popolazione a Villa Fastiggi sia calata del 24%. Segue quello anconitano di Montacuto,191, Fossombrone, 148, e Ascoli Piceno 119. Dal punto di vista delle attività trattamentali, sono 58 i progetti finanziati dalla Regione Marche, con finanziamenti pari a 338.650 euro. Per quanto riguarda il quadro sanitario, nel 2014 sono stati registrati 253 casi di autolesionismo, di cui 102 solo a Montacuto. Il 30% dei reclusi è tossicodipendente (261), il 14% è affetto da Epatite C (119), il 24% manifesta patologie psichiatriche (211) e il 38% segue una terapia psicotropa (334). I fascicoli aperti nel 2014 dal Garante dei detenuti delle Marche sono 204. Rispetto al 2013, anno in cui le pratiche sono state 129, l'aumento è stato pari al 58%. Si sono svolti 428 colloqui tra gli operatori dell'Ufficio del Garante, tre funzionari e il Garante, e i ristretti. Nel 2013 sono stati 170, 125 nel 2012 e 110 nel 2011. "Riceviamo decine di richieste di padri che vogliono vedere i figli. Tuteliamo i rapporti familiari in carcere, è un fattore determinante per l'adattamento alla vita in cella." "Gli affetti in carcere sono una necessità o un privilegio?". A questo quesito ha cercato di dare risposta nel suo intervento il Garante delle Marche, l'Ombudsman Italo Tanoni, che dopo aver spiegato con quali modalità avvengono i rapporti tra i detenuti e i familiari (6 colloqui al mese, 1 contatto telefonico alla settimana di massimo 10 minuti), ha proposto "la concessione di visite interne, da svolgersi in appositi ambienti, privi di barriere divisorie e idonei a garantire la riservatezza dei presenti". "Il 25% delle pratiche aperte riguardano richieste di colloqui. I padri vogliono vedere i figli e i figli, con uno dei genitori in carcere, pagano le conseguenze di una colpa che non hanno commesso" - ha detto Tanoni. Gli effetti sono "disadattamento e devianza, disturbi comportamentali, aggressività". Negli istituti di pena delle Marche i colloqui con i familiari si svolgono soprattutto dal lunedì al sabato, nella fascia oraria tra le 8 e le 15. La domenica è esclusa e le strutture che prevedono locali appositi per la visita dei bambini sono 4 (Pesaro, Fossombrone, Ancona-Barcaglione e Ascoli Piceno). Il mantenimento dei rapporti familiari rappresenta "un fattore determinante per l'adattamento alla vita carceraria" secondo Tanoni che ha proposto di inserire nel testo di revisione dell'Ordinamento penitenziario, in agenda parlamentare nei prossimi mesi, gli articoli del protocollo d'intesa "Bambini senza sbarre", firmato lo scorso marzo dal Ministro della Giustizia Orlando e dal Garante nazionale dell'infanzia Spadafora. Il documento invita le Autorità giudiziarie a ritenere "preminenti" le esigenze dei figli e chiede un miglioramento delle condizioni per la visita dei minori, con spazi, accessibilità ed estensione dei colloqui all'intera settimana. L'obiettivo dell'incontro è stato quello di definire un quadro aggiornato sulla situazione dei penitenziari, con un'attenzione particolare alle relazioni affettive e familiari dei detenuti. In rappresentanza del Dipartimento amministrazione penitenziaria sono intervenuti il coordinatore della Direzione generale Eustachio Petralla e il Provveditore di Umbria e Marche Ilse Runsteni. Quest'ultima ha definito il carcere "una parte della società, un'opportunità, una palestra, un luogo dove il detenuto deve essere una risorsa" e ha concordato sull'importanza di "lavorare in rete e in sinergia", sostenendo che nelle Marche "un cambiamento culturale è già in atto". Al centro dell'attenzione anche il ruolo svolto dai Garanti dei detenuti e il loro rapporto con l'Amministrazione penitenziaria, tema affrontato dal Garante dell'Umbria Carlo Fiorio, docente di diritto penale all'Università di Perugia, e la questione "Politiche di welfare locale per l'accoglienza e il reinserimento di soggetti rimessi in libertà", proposta dal Garante della Puglia Pietro Rossi. Nel corso del seminario hanno preso la parola anche il Garante regionale dei detenuti del Veneto Aurea Dissegna e del comune di Lecco Alessandra Gaetani. All'iniziativa hanno partecipato i consiglieri regionali Letizia Bellabarba e Paolo Eusebi, l'assessore ai servizi sociali del Comune di Ancona Emma Capogrossi, i rappresentanti dell'Ufficio esecuzione penale esterna, dell'Ufficio servizi sociali minorili Giustizia Marche, del volontariato e degli ordini professionali. Presente anche la direttrice della Casa circondariale di Montacuto Santa Lebboroni. Libri: Sdr; con "Totu sa beridadi" Mario Trudu racconta se stesso e 35 anni di detenzione Ristretti Orizzonti, 3 febbraio 2015 "In questo libro racconto una parte della mia vita e ho voluto mettere in evidenza la parte più tragica, i soprusi che ho dovuto subire a causa di leggi ingiuste o meglio di chi le applica. Nel primo periodo di carcerazione ero furioso contro il mio accusatore, ma col passare del tempo ho saputo molte cose e in parte ho capito, anche se non giustificato ciò che ha fatto". Sono alcune delle "Riflessioni finali" redatte da Mario Trudu nel volume "Totu sa beridadi - Tutta la verità", pubblicato nella collana "Le strade bianche di Stampa Alternativa" in cui ricostruisce la propria vita da giovane pastore ogliastrino fino alle vicende giudiziarie che lo vedono in carcere da ormai 35 anni. Condannato la prima volta per il sequestro dell'ing. Giancarlo Bussi, del quale da sempre si dichiara innocente, si è riconosciuto responsabile del sequestro di Eugenio Gazzotti conclusosi tragicamente. "Un racconto - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", che negli ultimi anni ha sostenuto la richiesta dell'ergastolano di poter far ritorno in Sardegna per continuare a scontare la pena vicino ai suoi parenti - che offre numerosi spunti di riflessione. È un documento diretto sul clima culturale in Sardegna alla fine degli anni Settanta quando il sequestro di persona a scopo estorsivo era una drammatica realtà così come la pratica della carcerazione preventiva e del confino. Testimonia però anche le condizioni di vita dentro strutture penitenziarie come Buoncammino e l'Asinara nonché il regime del 41bis". "Trudu - osserva Caligaris - più che narrare rivive gli episodi più drammatici e porta il lettore a condividere stati emotivi, paesaggi, silenzi. Le parole, spesso in arzanese, aiutano a comprendere in modo diretto quali sentimenti animassero i giovani che vivevano nell'entroterra sardo. Documenta però con forza e determinazione le ingiustizie subite nelle diverse strutture penitenziarie in cui è stato ristretto". "Chi è colpevole - scrive Trudu - è giusto che paghi. Per quanto mi riguarda subisco un'ingiustizia in più. Dal 1986, grazie alla legge Gozzini chi aveva tenuto un comportamento regolare in carcere e scontato un quarto di pena (gli ergastolani dopo dieci anni) poteva uscire in permesso. Ma nel 1992 nacque l'emergenza mafia e tutti noi che eravamo nei termini di poter usufruire dei benefici fummo bloccati. Non solo. Nel mio caso ci fu anche un ritardo nel completamento della relazione del gruppo di osservazione con la conseguenza che per 20 anni non ho usufruito dei benefici di legge". "Mario Trudu - conclude la presidente di Sdr - si è macchiato di un reato odioso ma dopo 35 anni di carcere non solo è cambiato ma ha acquisito almeno il diritto a tornare in Sardegna. Lo stabiliscono le norme, lo suggerisce il buon senso. Lo Stato non può usare la vendetta con chi ha sbagliato". Droghe: domani a Firenze un convegno sul "trattamento" in Comunità Terapeutica Adnkronos, 3 febbraio 2015 Presa in carico e trattamento residenziale in comunità terapeutica per persone tossicodipendenti e/o alcoldipendenti con provvedimenti giuridici in corso ed individuazione di metodi e percorsi per una possibile sinergia tra i diversi soggetti attuatori. Sarà questo il tema al centro del convegno ‘Dal carcere alla comunità in programma mercoledì prossimo, 4 febbraio, a partire dalle ore 9.30 presso l'Auditorium di Sant'Apollonia a Firenze (via San Gallo 25 A). All'iniziativa, organizzata dal Ceart, il Coordinamento degli enti ausiliari della Regione Toscana, in collaborazione con la Cooperativa Gruppo Incontro, parteciperà, tra gli altri, la vicepresidente Stefania Saccardi. Nel corso della mattinata sarà presentato il documento che sintetizza il lavoro svolto dal Network di Esperti della Regione Toscana, formato da operatori e rappresentanti delle diverse istituzioni (Ser.T. penitenziario, Ser.T. territorialmente competente, Dsm, Uepe) che hanno collaborato alla definizione di percorsi e metodi per la presa in carico e il trattamento residenziale di persone tossicodipendenti e/o alcoldipendenti con provvedimenti giuridici in corso. Nel pomeriggio è prevista invece una speciale sessione dedicata alla presa in carico dei minori e giovani adulti e all'individuazione delle specificità nel trattamento di questa particolare utenza. Immigrazione: Rapporto Unhcr; in Grecia un inferno per i rifugiati di Gabriella Meroni Vita, 3 febbraio 2015 Secondo un nuovo rapporto Unhcr su migranti e richiedenti asilo nel paese, la situazione è allo sbando: +280% di arrivi nel 2014, centri di accoglienza inadeguati, procedure bloccate, respingimenti illegali e violenze xenofobe. Appello all'Europa: non inviate lì chi fugge dalla guerra. Quello dell'accoglienza di migranti e richiedenti asilo è uno dei primi problemi che il governo Tsipras dovrebbe affrontare, almeno stando a quanto ha messo in luce la scorsa settimana un drammatico rapporto dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) sulla situazione attuale dell'asilo in Grecia. Il rapporto, pur elogiando la Grecia per le riforme che ha intrapreso, indica anche diverse lacune e fonti di preoccupazione che inducono a raccomandare di non rimandare i richiedenti asilo verso quel paese. Il rapporto si basa su una valutazione condotta nel corso dell'ultimo trimestre del 2014. L'anno scorso, la Grecia è stata tra i paesi del Mediterraneo che ha visto un drammatico aumento di rifugiati e migranti arrivati via mare. Complessivamente sono arrivate via mare circa 43.500 persone, con un aumento del 280 per cento rispetto al 2013. Circa il 60 per cento proveniva dalla Siria, ma molte persone sono anche giunte dall'Afghanistan, dalla Somalia e dall'Eritrea. In molti hanno proseguito il loro viaggio verso altri Stati dell'Unione Europea. La raccomandazione presente nel rapporto rispetto al fatto di non rimandare i richiedenti asilo in Grecia estende quanto già raccomandato per la prima volta nel 2008, e le ragioni sono presto dette: i principali problemi del sistema di asilo greco riguardano le difficoltà di accesso alla procedura di asilo, un protratto arretrato di casi irrisolti con la vecchia procedura, il rischio di detenzione arbitraria, condizioni di accoglienza inadeguate, le carenze nei meccanismi di identificazione e di sostegno per le persone con esigenze specifiche, i respingimenti di persone alla frontiera, le preoccupazioni per le prospettive di integrazione e di sostegno per i rifugiati, e la xenofobia e la violenza razzista. L'accesso all'asilo continua a essere difficile, in parte a causa della mancanza di uffici regionali del Servizio per l'asilo che possano occuparsi del trattamento delle domande e di una carenza di personale nello stesso Servizio per l'asilo. Nonostante gli sforzi delle autorità per esaminare circa 37.000 ricorsi accumulatisi con la vecchia procedura, l'arretrato rimane. Le persone che intendono chiedere asilo possono essere detenute senza una valutazione individuale e senza che vengano prese in considerazione alternative alla detenzione. Altri che presentano la domanda mentre sono in stato di detenzione continuano a rimanervi fino a quando la loro domanda d'asilo viene registrata, il che può richiedere mesi. Le strutture di accoglienza per i richiedenti asilo sono scarse e i servizi insufficienti. Le Ong che gestiscono i centri di accoglienza esistenti per richiedenti asilo e minori non accompagnati sono sotto finanziati e c'è un rischio reale che tali servizi vengano interrotti. L'Unhcr esprime inoltre preoccupazione per le pratiche in atto ai confini che potrebbero esporre rifugiati e migranti a ulteriori rischi. L'Agenzia continua a raccogliere testimonianze di rinvii informali ("respingimenti") alle frontiere terrestri e marittime tra Grecia e Turchia. Dal 2010 sono in vigore strette misure di controllo che hanno portato a una diminuzione del numero di persone che cercano di entrare attraverso la frontiera terrestre greco-turca, mentre gli ingressi via mare sono aumentati. Le prospettive di integrazione e il relativo supporto ai rifugiati sono praticamente inesistenti. Trovare un alloggio è particolarmente difficile. Non ci sono servizi specifici per l'edilizia sociale o eventuali forme alternative di sostegno. Inoltre, non vi è alcuna strategia nazionale mirata a promuovere l'inserimento lavorativo dei rifugiati e, di conseguenza, molti vivono in condizioni di miseria. La tutela e l'integrazione sono ulteriormente ostacolate dalla xenofobia e dalla violenza razzista contro i migranti e i rifugiati. Ad esempio, il Racist Violence Recording Network (Rvrn), una rete di organizzazioni della società civile sostenute dall'Unhcr, ha registrato 65 incidenti nei primi nove mesi del 2014, con episodi di attacchi fisici in luoghi pubblici contro migranti e rifugiati a causa del colore della loro pelle e della loro etnia. Il numero effettivo di episodi potrebbe essere molto più elevato, poiché solo un numero limitato di casi viene segnalato. Anche se le autorità greche hanno adottato una serie di riforme e azioni per registrare, perseguire e prevenire più efficacemente tali crimini, le persone continuano a essere oggetto di abusi verbali e fisici che rimangono impuniti. Egitto: altre 183 condanne a morte per i Fratelli musulmani di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 3 febbraio 2015 La Corte penale di Giza ha condannato a morte altri 183 sostenitori dei Fratelli musulmani con l'accusa di aver attaccato la stazione di polizia di Kerdasa nell'agosto del 2013, in seguito alla dura repressione subita dai sostenitori dell'ex presidente Mohamed Morsi. Nell'attacco persero la vita 16 poliziotti, 34 dei condannati non erano presenti in aula al momento della lettura della sentenza. Lo scorso dicembre, la stessa corte aveva condannato a morte 188 sostenitori dell'ex presidente Morsi per lo stesso episodio. L'attacco alla stazione di polizia di Kerdasa è diventata per i media pubblici e i sostenitori del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi il simbolo dell'uso della violenza da parte degli islamisti contro la polizia. Quelle immagini brutali sono state per mesi rilanciate dalla tv di Stato per giustificare la repressione del regime contro tutti gli islamisti, come se non esistessero distinzioni tra moderati e terroristi. Il gran-mufti della massima istituzione sunnita, al Azhar potrebbe commutare le pene in ergastolo. Lo stesso era avvenuto con i 528 e 683 imputati, inclusi i principali leader della Fratellanza (lo stesso Morsi rischia la forca), condannati a morte dalla Corte di Minya per gli scontri che hanno avuto luogo nella città dell'Alto Egitto dopo lo sgombero di Rabaa. Di queste, 220 pene capitali sono state approvate in via definitiva dai giudici egiziani. Nell'ultima analisi periodica all'Onu sui diritti umani in Egitto, Germania, Ungheria, Francia, Svizzera e Uruguay hanno sottolineato le violazioni sistematiche commesse, chiedendo al governo di cancellare la pena di morte dal codice penale. La nuova condanna di massa arriva a poche ore dal rilascio e dall'estradizione del giornalista australiano di al-Jazeera. Peter Greste è uno dei tre giornalisti della televisione del Qatar condannato con le accuse di aver diffuso false informazioni in riferimento alla copertura del sit-in islamista di Rabaa. Il collega egiziano-canadese di Greste, Mohamed Fahmy, potrebbe essere rilasciato una volta cassata la sua cittadinanza egiziana, mentre il terzo, Bader Mohamed, condannato a dieci anni, resterà in carcere. Il presidente del sindacato dei giornalisti Diaa Rashwan ha chiesto poi a tutti reporter egiziani di deferire ogni collega critico nei confronti di esercito e polizia. Al-Sisi ha così risposto alle pressioni internazionali che chiedevano il rilascio dei giornalisti della televisione del Qatar. Anche il presidente degli Stati uniti Obama aveva chiesto ad al-Sisi spiegazioni sui processi contro i giornalisti di al Jazeera nel primo incontro dello scorso settembre a Washington. A dicembre la rete televisiva al Jazeera Mubasher Misr (Egitto in diretta), con sede a Doha in Qatar, ha chiuso i battenti. Il canale era rimasto il solo a difendere l'ex presidente islamista Morsi continuando a definire "golpista" l'ex generale al-Sisi. Non solo, la televisione del Qatar era rimasta la sola a coprire le diffuse manifestazioni anti-golpe degli ultimi mesi in tutto il mondo. Anche questa decisione ha facilitato il rilascio di Greste. Per mesi sono stati sotto accusa per "diffusione di notizie false" anche i reporter britannici di al Jazeera, Dominic Kane e Sue Turton, e la giornalista olandese Rena Netjes che hanno lasciato l'Egitto. A novembre, al-Sisi ha assunto per decreto il potere di grazia di cittadini stranieri nelle carceri egiziane, un escamotage architettato per consentire il rilascio di Greste. Ieri sono stati amnistiati 312 prigionieri politici, ma 516 sono gli arresti solo in seguito agli scontri per il quarto anniversario dalle rivolte del 2011. Indonesia: si avvicina l'esecuzione capitale per due australiani condannati per traffico di droga Agi, 3 febbraio 2015 Nonostante il pressing di Canberra sul governo indonesiano e sul presidente Joko Widodo, le pratiche per l'esecuzione di due cittadini australiani accusati di essere a capo di una banda di trafficanti di droga (i Nove di Bali, Bali Nine) proseguono spedite. Lo scrive l'agenzia Misna. Oggi il procuratore generale ha confermato che i due, Andrew Chan e Myuran Sukumaran, saranno nel prossimo gruppo di condannati in via definitiva a essere fucilati. Non è stata comunicata la data dell'esecuzione o la località dove si terrà, come pure il numero e l'identità dei compagni di esecuzione. L'irrigidimento del presidente, che contrasta con il suo impegno sociale e il programma liberista, una posizione confermata anche ieri in un'intervista a Christiane Amanpour trasmessa dalla Cnn, ha preso di sorpresa le diplomazie. Lo scorso mese sono stati sei i trafficanti fucilati in due diverse carceri del paese e tra questi cinque stranieri. Come conseguenza, Brasile e Olanda hanno richiamato gli ambasciatori a Jakarta e un provvedimento simile è prevedibile da parte dell'Australia e di altri paesi di cui sono cittadini i prossimi nella lista delle esecuzioni. Sia Chan che Sukumaran, in carcere dal 2005 per l'accusa di avere cercato di contrabbandare otto chili di eroina dall'isola di Bali, hanno visto negata la grazia presidenziale, rispettivamente a gennaio e lo scorso dicembre. L'appello a una revisione del processo avanzato venerdì è stato escluso perché non ci sarebbero gli estremi per procedere. Per i critici, Joko Widodo avrebbe deciso di esorcizzare la tensione popolare per la graduale fine dei sussidi a generi primari, premendo sulla carta della severità della legge e della lotta alla diffusione degli stupefacenti, uno tra i maggiori problemi sociali per l'arcipelago. Iran: detenuti politici privati dell'assistenza sanitaria e torturati a morte www.ncr-iran.org, 3 febbraio 2015 Appello per salvare i detenuti politici Asghar Qatan e Ahmad Daneshpour Moqadam in grave pericolo di vita. La Resistenza Iraniana chiede a tutti gli enti e agli organi in difesa dei diritti umani, all'Inviato Speciale dell'Onu sulla Tortura, al Gruppo di Lavoro sulla Detenzione Arbitraria e all'Inviato Speciale sulla Situazione dei Diritti Umani in Iran di intraprendere un'azione urgente per salvare le vite dei detenuti politici Asghar Qatan e Ahmad Daneshpour Moqadam che si trovano in gravi condizioni dato che vengono privati delle cure mediche necessarie. Ad Asghar Qatan, detenuto politico e sostenitore del Pmoi/Mek, in gravi condizioni a causa di un cancro allo stomaco che necessita di un'operazione immediata, vengono negate le più fondamentali cure mediche. Ha 63 anni ed è un dottore in fisica e sismologia, soffre anche di altri gravi problemi di salute, come l'ingrossamento del fegato e della milza e disturbi cardiaci. Per trasferirlo in ospedale gli aguzzini del regime lo hanno incatenato mani e piedi. Quando ha fatto resistenza a questo barbaro comportamento i suoi aguzzini gli hanno impedito il ricovero in ospedale. I tentativi dei suoi familiari di pagare una cauzione per ottenere il suo ricovero, sono risultati inutili. Asghar Qatan, imprigionato e torturato per sei anni negli anni 80 per il suo sostegno al Pmoi, è stato arrestato nuovamente nel Gennaio 2011. Il detenuto politico Ahmad Daneshpour Moqadam, 42 anni, insieme al padre settantenne, Mohsen Daneshpour Moqadam, è stato condannato a morte con l'accusa di Moharebeh (inimicizia verso Dio) per il suo sostegno al Pmoi. Ha perso 40 kg. a causa di un'emorragia intestinale e delle sue conseguenze. Anche a lui vengono negate le cure mediche e la sua vita è in pericolo. Tormentare i detenuti politici fino alla morte, privandoli deliberatamente delle cure mediche, è un metodo ben noto utilizzato dal fascismo religioso al potere in Iran. Mohsen Dogmechi, detenuto politico e famoso commerciante del bazar di Tehran, è stato tormentato a morte e privato delle cure mediche divenendo un martire per aver perso la vita nel Marzo 2011. Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana Siria: l'orrore delle torture nelle carceri rivelato dalle foto di Zaman al Wasl di Andrea Spinelli Barrile www.polisblog.it, 3 febbraio 2015 Il regime di Assad ha sempre negato le torture inflitte ai prigionieri nelle carceri di Damasco in Siria: Zaman al Wasl pubblica alcune foto che inchiodano il regime. Che le carceri siriane di Bashar al Assad fossero dei buchi neri che inghiottono ogni anno migliaia di esseri umani, i quali letteralmente scompaiono nel nulla senza che nessuno ne abbia più notizia, luoghi di tortura e disperazione, era già ben più di un sospetto per la comunità internazionale. Grazie alle denunce di Human Rights Watch, di molti ex detenuti fuggiti dall'inferno di Adra a Damasco, dei libri scritti sull'argomento (nell'opera di Mustafa Khalifa "La Conchiglia" si raccontano orrori indicibili), dell'Osservatorio Siriano sui Diritti Umani è ormai noto l'inferno in terra rappresentato dalle carceri del regime di Assad. Oggi il giornale online Zaman al Wasl, che dà voce all'opposizione laica al regime di Assad (la stessa che scese in piazza nel 2011 invocando più diritti e più democrazia e che fu violentemente repressa dallo stesso regime, che ha preferito consegnare la Siria alla guerra civile piuttosto che cedere di un millimetro alle richieste della popolazione siriana), ha pubblicato un articolo in perfetto stile WikiLeaks, nel quale si mostrano alcune fotografie di detenuti dal regime di Damasco, foto dove sono ben evidenti segni di percosse, strangolamento, brutali pestaggi e, più in genere, di trattamenti cruenti di tortura da parte dei carcerieri. Sarebbero oltre 55mila le fotografie che ritraggono circa 11mila corpi di oppositori al regime massacrati. La fonte del sito siriano è un certo "Cesare": fuggito dalla Siria (si tratta di un ex militare disertore), oggi vive sotto copertura in una località segreta assieme alla famiglia, secondo quanto spiega la Cnn. Dalla metà del 2013 le foto rivelate da Cesare furono oggetto di un lungo studio da parte di magistrati americani esperti di crimini di guerra e torture, che analizzarono a fondo le immagini digitali. Oggi quelle foto sono pubblicate dal giornale Zaman al Wasl per aiutare le famiglie disperate ad avere notizie di parenti scomparsi nell'inferno carcerario della Siria e per denunciare le continue torture ai detenuti: senza troppi giri di parole, sembrano foto a colori dell'Olocausto nazista. La vera notizia però è che Zaman al Wasl rivela al mondo che fine ha fatto il colonnello Hussein Harmoush. A molti di voi questo nome non dirà nulla, ma il colonnello ha avuto un ruolo mediaticamente importantissimo all'inizio della guerra civile. Il video qui sopra mostra Harmoush annunciare la sua diserzione: era il 9 giugno del 2001 e il colonnello fu uno dei primi ufficiali dell'esercito lealista ad Assad (Saa) ad unirsi ai ribelli del Free Syrian Army (Fsa). Harmoush affermò che nel 2011 l'Saa reprimette duramente la "Primavera Siriana" coadiuvato dalle Guardie della Rivoluzione (i Pasdaran iraniani) ben prima che lo ammettesse l'alto ufficiale iraniano Ismail Qàani, inviato da Teheran a dare manforte all'amico Assad: nel video Harmoush accusa l'esercito di Damasco di violenze e crimini indicibili contro la popolazione e annuncia di essersi unito ai ribelli dell'Fsa. "L'esercito ha avuto l'ordine di fare fuoco sulla popolazione civile" rivela nel video, invitando poi lo stesso esercito a sostenere il popolo e non il governo. Era l'inizio di quella che sarebbe diventata la guerra civile siriana, che perdura ancora oggi sotto forma di "moderna guerra per procura", come scritto da Loretta Napoleoni nel suo libro "Isis, lo stato del terrore". Solo primi cinque mesi di proteste di piazza in Siria morirono 2.200 civili (stime Onu). Per il regime di Assad quello fu uno choc intollerabile; Harmoush si rifugiò in Turchia ma i primi di settembre del 2011, pochi mesi dopo la diserzione, scomparve nel nulla da un campo profughi in cui si era rifugiato. Pochi giorni prima aveva rivisto le affermazioni contenute nel video in un'interessante intervista alla Tv siriana, accusando i ribelli islamisti (vicini ai Fratelli Musulmani) di aver fatto "promesse vuote", di violenze contro i civili nelle città di Homs, Latakia, Idlib ed Hama, di contrabbando di armi e munizioni dalla Turchia verso la stessa città siriana di Homs. In particolare rivelò di come il suo nome (divenuto una "leggenda" tra i ribelli) fosse usato nel mese del Ramadan come "parola chiave" per ottenere donazioni in denaro e fare promesse vuote. Di lui non si seppe più nulla, ma insistenti voci vicine ai ribelli raccontavano che fosse stato rapito dall'intelligence turca, che lo avrebbe consegnato nelle mani degli iraniani i quali, a loro volta, lo trasferirono all'intelligence siriana e da qui a un carcere di Damasco in Siria. Una versione sempre negata dal ministero degli esteri turco. Con il senno di poi, se il mondo avesse ascoltato attentamente il colonnello Hussein Harmoush e le sue dichiarazioni tra giugno e settembre 2011, forse oggi la Siria non sarebbe l'inferno in terra che è, dilaniata da decine di gruppi e gruppetti armati, dall'Saa e dallo Stato Islamico. Come racconta Francesca Borri la neve in Siria diventa rosa perché quando cade si mescola con il sangue dei civili massacrati. Oggi sappiamo che Hussein Harmoush fu veramente portato in un carcere del regime siriano. E sappiamo anche, grazie alle foto di "Cesare" pubblicate da Zaman al Wasl, che l'ex colonnello dell'Saa è stato probabilmente brutalmente torturato ed ucciso. Il giornale dell'opposizione siriana non conferma al 100% l'identità di Harmoush, non è effettivamente possibile averne certezza, ma nelle fotografie la somiglianza è notevole e il margine di errore davvero minimo. Abbiamo deciso di non pubblicare le foto del corpo di Hussein Harmosh per una questione di rispetto nei confronti dei nostri lettori. Gran Bretagna: nuovi schiavi? i carcerati inglesi costretti a cucire abiti per l'esercito di Marco Dotti Vita, 3 febbraio 2015 Il Governo inglese ha rivelato ieri un progetto per introdurre piani forzosi nelle carceri. Si tratta - così riportano le agenzie d'Oltremanica, che attribuiscono la frase a esponenti dello stesso governo - di "insegnare il valore del duro lavoro" (hard work), risparmiando. In sostanza, i prigionieri dovrebbero lavorare in laboratori di manifattura per realizzare tute, giacche, sacchi a pelo, tende e indumenti per l'esercito. Tempi di magra, per chi cerca lavoro. Per chi è in carcere, però, le cose sembrano andare diversamente. Il lavoro, qui, rischia di diventare forzato. Una sorta di luogo comune, diffuso tra decisori e opinion makers, si sta facendo largo. La logica, in sostanza, è questa: un detenuto è un costo per la società, di conseguenza è giusto che lavori, ripagando la società delle spese. Domenica, il Governo inglese ha rivelato un progetto per introdurre piani forzosi nelle carceri. Si tratta - così riportano le agenzie d'Oltremanica, che attribuiscono la frase a esponenti dello stesso governo - di "insegnare il valore del duro lavoro" (hard work), risparmiando. In sostanza, i prigionieri dovrebbero lavorare in laboratori di manifattura per realizzare tute, giacche, sacchi a pelo, tende e indumenti per l'esercito. Chris Grayling, Segretario alla Giustizia, ha smorzato i toni e le critiche, che già stanno montando, affermando che il programma mira alla valorizzazione delle competenze dei detenuti che, una volta fuori, potranno farle valere sul mercato del lavoro. "Per la prima volta daremo corpo a un vero programma di riabilitazione", ha proseguito Grayling, entusiasta dei progetti pilota che si sono susseguiti in questi mesi. Il modello adottato da Londra sembra molto simile a quello che, negli Stati Uniti, attraverso la Federal Prison Industry, ha sviluppato un giro d'affari di circa 20 milioni di dollari con la realizzazione di giubbotti antiproiettile per l'esercito. India: maxi evasione di detenuti minorenni, in 91 fuggono da carcere nell'Uttar Pradesh Askanews, 3 febbraio 2015 Hanno utilizzato il vecchio metodo delle lenzuola annodate per fuggire dal carcere. È accaduto in India dove 91 minorenni sono evasi nel cuore della notte da un penitenziario minorile calandosi da una finestra del terzo piano dell'edificio. Lo ha fatto sapere la polizia che è riuscita a riacciuffarne 35 e riportarli nel centro che si trova a Meerut, nello Stato dell'Uttar Pradesh (Nord). "Hanno staccato una inferriata da una finestra sul retro dell'edificio mentre gli agenti erano di guardia davanti alla facciata principale", ha spiegato il capo della polizia della città, Om Prakash. "Hanno agito da veri professionisti a tal punto che nessuno se ne è accorto", ha aggiunto. Fra i giovani ancora in fuga, numerosi sono detenuti con l'accusa di omicidio, stupro o furto. L'allarme è scattato solo quando dei poliziotti di pattuglia nelle vicinanze hanno notato alcuni dei fuggitivi salire su un autobus. Dei detenuti di questo stesso centro a dicembre avevano picchiato a morte un poliziotto che ad un processo li aveva accusati di comportamento indecente con una donna. Più di 31.000 giovani sono rinchiusi nei carceri minorili in India, secondo le statistiche ufficiali. Burundi: arrestato giornalista che indaga su uccisione suore italiane, accusato di complicità Il Velino, 3 febbraio 2015 Per Bob Rugurika, l'omicidio di Lucia Pulici, Olga Raschietti e Bernardetta Boggian, uccise barbaramente nel loro convento a Bujumbura il 7 settembre 2014, era diventato un chiodo fisso. Mai si era lasciato convincere dalla versione ufficiale della polizia burundese, secondo la quale le tre suore furono uccise da un uomo con disturbi mentali che aveva agito da solo per motivi personali. Rugurika è direttore della Radio Publique Africaine (Rpa), un'emittente radiofonica da sempre considerata dal regime burundese uno strumento dell'opposizione, e in particolar modo del suo fondatore, Alexis Sinduhije, che nel 2009 ha creato un nuovo partito politico chiamato Movimento per la solidarietà e la democrazia, per poi presentarsi alle elezioni presidenziali del 2010. L'inchiesta portata avanti negli ultimi mesi da Rugurika e mandata in onda a metà gennaio, include un'intervista realizzata a uomo che pretende di aver di aver partecipato all'omicidio delle suore italiane per conto dei servizi segreti burundesi. Un'accusa gravissima che è valsa al direttore di RPA una convocazione il 20 gennaio scorso negli uffici del procuratore generale che gli ha chiesto di rivelare la sua fonte. Dopo sette ore di interrogatorio e di fronte al rifiuto di rivelare la sua fonte, Rugurika è stato incarcerato nella prigione centrale di Mpimba con l'accusa di "violazione del segreto di istruttoria" e soprattutto di "complicità di omicidio". Questa settimana la procura di Bujumbura dovrebbe formulare le accuse. Se confermate, il giornalista burundese rischia fino a 20 anni di carcere. Secondo la ricostruzione fatta dal settimanale panafricano Jeune Afrique, all'indomani del suo arresto, l'associazione burundese per la protezione dei diritti umani e delle persone detenute (Aprodh) rivela che Rugurika è stato trasferito al centro di detenzione di Muramvya, a circa 30 chilometri dalla capitale, e noto per accogliere detenuti lontano dagli sguardi indiscreti della società civile e dei media burundesi. "I miei informatori alla prigione di Mpimba mi hanno telefonato per annunciarmi il trasferimento di Rugurika a Muramvya", ha dichiarato Pierre Claver Mbonimpa, presidente dell'Aprodh già incarcerato nel 2014 per attentato contro la sicurezza dello Stato. La notizia si sparge in tutta la capitale, convincendo parenti, giornalisti e una piccola delegazione delle Nazioni Unite a prendere la direzione di Muramvya con l'obiettivo di incontrare il direttore di RPA. Dopo ore di trattative, la moglie di Rugurika, contrariamente ai suoi avvocati, viene autorizzata ad incontrarlo. "Sta bene" rivelerà Nadia. Ma la paura è stata tanta. Durante il trasferimento al carcere di Muramvya, Rugurika avrebbe chiesto ai poliziotti "se lo avrebbero ucciso". Dopo 24 ore trascorse in una cella di isolamento di due metri su tre e senza finestra, oggi le condizioni di incarcerazione del giornalista burundese sono state alleggerite, con la possibilità di avere una radio e ricevere visite al contagocce. I giornalisti di Radio France Internationale (RFI) hanno incontrato un uomo "totalmente trasformato e molto combattivo". "Non ho il diritto di perdere il morale, sono pronto a battermi fino in fondo", ha dichiarato Rugurika, che spera ormai di essere rilasciato in libertà condizionata. Per il pubblico ministero burundese, il rilascio è condizionato all'identificazione della persona intervistata da Rugurika. "Questa persona deve essere a messa a disposizione della procura, e solo allora Bob potrà godere della libertà condizionata", ha assicurato la portavoce della giustizia burundese, Agnès Bangiricenge. La speranza di vedere il direttore di Rpa rilasciato è minima. Secondo alcuni osservatori, è molto probabile che Rugurika rimanga in carcere almeno fino al 26 maggio, data delle prossime elezioni legislative, alle quali seguiranno le presidenziali previste nel mese di giugno. Danimarca: "Date an Indsat"… con una foto su Facebook trovi l'amore anche in carcere di Annalisa Lista www.west-info.eu, 3 febbraio 2015 Più di 10.000 iscritti al gruppo Facebook per trovare l'amore in carcere. È il record raggiunto, in sole due settimane, da Date an Indsat (Date an inmate), comunità danese del social network fondata da due giovani detenuti scandinavi stanchi di rinunciare al partner. Oltre che alla libertà. Il gruppo viene aggiornato quotidianamente con le foto dei prigionieri - o ex tali - maggiorenni, single e disponibili a intraprendere una relazione. Per essere inseriti nel database e risultare visibili nel gruppo, basta contattare l'amministratore e inviare l'immagine con una breve descrizione di sé e del tipo di persona desiderata. "In questo modo, c'è uno scopo per cui vale la pena combattere" - ha commentato uno dei fondatori. L'idea richiama altre iniziative simili di successo. Sempre made in Scandinavia.