Stati Generali sulle carceri: un'occasione per il carcere e anche per la città di Padova Il Mattino di Padova, 2 febbraio 2015 La vita di un carcere oggi non è facile, neppure per la Casa di reclusione di Padova, sede di importanti esperienze innovative, ma anche luogo di tensioni perché oggi la realtà delle carceri italiane ha bisogno di essere riformata, non è solo una questione di sovraffollamento, è soprattutto una questione di dare un senso alle pene, che non sia quello di rispondere al male con altrettanto male, quanto piuttosto di accompagnare le persone in un percorso di assunzione di responsabilità, unica strada per garantire sicurezza. La redazione di Ristretti Orizzonti è una delle poche realtà che si occupa di questi temi coinvolgendo le persone detenute, e siccome forse è ora di fare una riforma delle pene ascoltando anche chi la pena la sta scontando, abbiamo "osato" proporre al Ministro di organizzare a Padova gli Stati Generali sulle pene e sul carcere. Un'occasione unica anche per la nostra città di entrare nel cuore di una riforma così importante. (Non dimentichiamo che ci sono stati politici come Mario Gozzini che, prima di varare la riforma penitenziaria, ne discutevano con i detenuti). Lettera aperta al ministro Orlando Gentile Ministro Orlando, siamo la redazione di Ristretti Orizzonti, la rivista realizzata da detenuti e volontari nella Casa di reclusione di Padova. Vorremmo avanzarle una proposta molto concreta: quella di organizzare gli Stati Generali sulle pene e sul carcere qui, in questa Casa di reclusione. Lei forse sa che ogni anno noi organizziamo un Convegno, a cui partecipano circa seicento persone dall'esterno, e 150 persone detenute. Non pensa che portare gli "addetti ai lavori" a confrontarsi con le persone detenute sul senso che dovrebbero avere le pene avrebbe un valore davvero educativo per tutti, per chi deve essere protagonista di un percorso di rientro nella società, e per chi deve aiutare a costruire quel percorso? Ci sono tante buone ragioni per cui riterremmo utile fare qui nella Casa di reclusione di Padova gli Stati Generali sulle pene e sul carcere, prima fra tutte che in tal modo si eviterebbe di trasformarli in un lungo elenco di interventi di "esperti" senza nessun confronto con chi le pene e il carcere li vive come parte della sua vita. Abbiamo cercato di immaginare per un attimo una cosa inimmaginabile: di essere noi il ministro della Giustizia in questo difficilissimo periodo per le carceri, con l'Europa che ci sta addosso perché il nostro Paese sta gestendo il sistema della Giustizia in modo ancora pesantemente illegale. La prima cosa che faremmo allora è di provare ad aprire un dialogo con i diretti interessati, quelli che hanno sì commesso reati, ma a loro volta ora subiscono ogni giorno l'illegalità del sistema. Ecco, se gli Stati Generali si organizzassero nella Casa di reclusione di Padova, ci sarebbe l'occasione per confrontarsi non con il singolo detenuto che porta la sua testimonianza sulla sua condizione personale, né esclusivamente con operatori ed esperti, perché - il confronto avverrebbe con una redazione di detenuti che da anni lavora per cambiare le condizioni di vita in carcere, ma anche per ridare un senso alle pene. Forse è paradossale che a fare questo siano i detenuti stessi, ma in fondo non è neppure così assurdo, perché proprio vivendo pene insensate tante volte le persone hanno accumulato altri anni di carcere e hanno ulteriormente rovinato la loro vita; - gli addetti ai lavori potrebbero sentir raccontare nei particolari più crudi anche quello che patiscono le famiglie da un sistema, che dimostra spesso scarsissima attenzione nei confronti dei famigliari dei detenuti. Ormai non c'è paese al mondo dove non si discuta di rendere più umane le condizioni delle visite dei famigliari. E noi, con tutta la nostra democrazia, continuiamo a permettere in tutto sei ore al mese di colloquio con controllo visivo, l'equivalente cioè di tre giorni all'anno, e una telefonata di dieci miserabili minuti a settimana; - gli addetti ai lavori potrebbero sentir parlare di come è possibile comunicare in modo efficace con la società e informare sulla realtà delle pene e del carcere, senza suscitare la rabbia dei cittadini: glielo diciamo con assoluta certezza, perché noi incontriamo ogni anno in carcere più di seimila studenti, e le assicuriamo che attraverso le testimonianze delle persone detenute, che parlano dei loro reati per assumersene la responsabilità e per fare prevenzione rispetto ai comportamenti a rischio delle giovani generazioni, le persone cominciano a farsi una idea diversa delle pene e del carcere. Forse, se in tanti comunicassero con l'onestà e la consapevolezza con cui lo facciamo noi, non si perderebbero neppure voti a parlare del carcere, perché i cittadini capirebbero che pene più umane sono garanzia di maggiore sicurezza; - le persone detenute, chiamate a partecipare da interlocutori alla pari a un confronto sulla propria condizione, vedrebbero riconosciuta alla propria voce dignità, e questo è un passo importante per imparare ad aprirsi all'ascolto dell'altro e al dialogo; - da ultimo, sarebbe significativo fare gli Stati Generali in un carcere come quello di Padova, descritto dai mass media ora come un carcere modello, ora come un luogo violento e fuori legge: in realtà, non è né l'uno né l'altro, è un carcere che sarebbe dignitoso, con esperienze anche innovative, se non contenesse ancora il doppio dei detenuti che dovrebbero esserci. A Padova convivono, per forza malamente, due realtà, quella di una detenzione che dà un senso alla pena attraverso lo studio, la cultura, il lavoro, l'apertura e il confronto con il mondo esterno, e quella di un carcere in cui le persone sono costrette ad "ammazzare il tempo" per mancanza di spazi e attività per tutti, e quindi accumulano solo rabbia e rancore. Nella speranza di essere stati convincenti, le porgiamo i nostri saluti e ci auguriamo di poter ospitare gli Stati Generali sulle pene e sul carcere nella Casa di reclusione di Padova. E, per prepararli seriamente, speriamo anche che lei possa al più presto essere ospite della nostra redazione. La redazione di Ristretti Orizzonti (Padova) A sostegno della proposta i Garanti delle persone private della libertà Interveniamo per sostenere la proposta della Redazione di "Ristretti Orizzonti" di ospitare l'iniziativa meritoria del Ministro Orlando di aprire un confronto sui temi della pena e del carcere. E spieghiamo le ragioni di sostanza. Con la riduzione del numero delle persone detenute si può aprire una fase nuova per affrontare i temi irrisolti del nostro universo carcerario, dall'affettività al lavoro, agli spazi, al senso della pena, alla sperimentazione di un diverso confronto tra le persone coinvolte a vario titolo dalla commissione di un reato. La redazione di "Ristretti Orizzonti " è il luogo, forse unico, dove si pratica davvero la volontà di un cambiamento delle persone, dove un'informazione rigorosa e rispettosa di tutte le posizioni è riuscita a creare momenti di approfondimento e di incontro (pensiamo quello tra vittime e autori di reati anche gravi) e soprattutto di ascolto degli altri, chiunque essi siano. Abbiamo sempre colto elementi di riflessione nuovi e profondi. La presenza costante dei detenuti, e la possibilità di ascoltare le loro storie e quelle dei loro familiari, rende le iniziative reali, e permette l'interazione tra la pratica e la riflessione teorica. Cambiare il carcere vuol dire anche creare nuove forme di comunicazione ed incontro. La redazione di "Ristretti Orizzonti" ha l'esperienza per organizzare gli "Stati Generali" nel carcere di Padova, garantendo la partecipazione anche dei diretti interessati. È un'occasione da non perdere. I Garanti dei detenuti Desi Bruno (Regione Emilia-Romagna), Sergio Steffenoni (Comune di Venezia), Armando Michelizza (Comune di Ivrea), Francesco Racchetti (Comune di Sondrio), Alberto Gromi (Comune di Piacenza), Margherita Forestan (Comune di Verona), Fabio Nieddu (Comune di Pescara), Ione Toccafondi (Comune di Prato), Carlo Mele (Provincia di Avellino), Angiolo Marroni (Regione Lazio), Roberto Cavalieri (Comune di Parma), Davide Grassi (Comune di Rimini), Piero Rossi (Regione Puglia), Aurea Dissegna (Regione Veneto), Marcello Marighelli (Provincia e Comune di Ferrara), Eros Cruccolini (Comune di Firenze), Antonio Sammartino (Comune di Pistoia), Matteo Civico (Consigliere Provinciale di Trento, promotore dell'istituzione del Garante provinciale), Maria Pia Brunato (Comune di Torino), Emilio Santoro per l’Associazione L’Altro Diritto (Comune di San Gimignano). Giustizia: colpevole o innocente? … un problema di filosofia del diritto di Mario De Caro Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2015 La scienza sembra corroborare l'idea che il libero arbitrio non esiste e che nessuno va punito, ma così ignora l'utilità sociale di condannare un criminale. Immaginiamo una piccola comunità che risiede in un'isola sperduta nell'oceano. Le condizioni di vita di questa comunità sono molto elevate: tutti gli abitanti sono rispettosi e solidali, e i potenziali conflitti vengono subito risolti grazie alla ragionevolezza e alla buona volontà di tutti. Gran parte del merito di tanta serenità va alla guida morale di quella comunità, un vecchio saggio che, con i suoi consigli e la sua specchiata moralità, ispira negli isolani rettitudine e senso civico. La vita sull'isola scorre dunque placidamente, al punto che l'unico poliziotto locale, non avendo nulla da fare, si annoia moltissimo. Così un giorno decide di riaprire il dossier dell'ultimo caso criminale avvenuto nell'isola, e rimasto irrisolto: un omicidio di sessanta anni prima di cui fu vittima un giovane. Scartabellando la pratica, il nostro poliziotto nota che sul luogo del delitto fu rinvenuto un capello che, ovviamente, a quei tempi non si sapeva come analizzare. Tutto contento di aver trovato qualcosa di interessante da fare, il poliziotto mette dunque mano al set di strumenti per l'analisi del Dna e analizza il capello. Quale è la sua sorpresa quando si accorge che appartiene al vecchio saggio! Sgomento, corre da lui e gli chiede: "Caro vecchio saggio, perché non hai mai detto che eri presente il giorno dell'omicidio di sessant'anni fa? Avresti potuto aiutare le indagini!". "Vedi - risponde il vecchio saggio scandendo bene le parole - io non solo ero presente quando quell'omicidio fu commesso. In realtà fui proprio io a compierlo!". Poi, guardando gli occhi sgomenti del poliziotto, continua: "Eravamo ubriachi, litigammo per un motivo molto stupido e io lo colpii con un pugno. Cadendo, lui sbatté la testa e morì immediatamente. Da allora ho vissuto nel rimorso e ho cercato di espiare la mia colpa comportandomi nel modo più probo possibile. Ma se ora la nostra comunità decidesse di punirmi, io sarei pronto a pagare il mio debito". Ora, in quell'isola vige la common law, il sistema legale basato sui precedenti giudiziari. Ma in questo caso precedenti non ve ne sono: dunque, il giudice deve emettere il giudizio basandosi soltanto sulla sua coscienza. Non c'è dubbio che il vecchio saggio sia colpevole; la questione però è: va punito oppure no? E voi cosa fareste, se foste al posto di quel giudice? Qualche giorno fa ho presentato questo caso durante un convegno organizzato presso la Camera dei deputati da Fabrizia Giuliani e dal gruppo del Pd, chiedendo agli spettatori quale decisione avrebbero preso se si fossero trovati al posto di quel giudice. Il risultato è stato una divisione a metà dei parenti da una parte, c'erano quelli che ritenevano doveroso punire il vecchio saggio (sia pur blandamente); dall'altra, quelli che pensavano che in un caso del genere qualunque punizione sarebbe ingiusta. Entrambe le risposte hanno un fondamento intuitivo. Da una parte, infatti, sembra ovvio che la pena serva a riabilitare il condannato, a scoraggiare altri potenziali criminali e a difendere la società dagli individui pericolosi: queste sono giustificazioni della pena di tipo utilitaristico, perché guardano all'utilità della pena rispetto alla società nel suo complesso. In questa prospettiva, è evidente che punire il vecchio saggio non avrebbe molto senso (è perfettamente riabilitato, non è pericoloso e non c'è alcuna ragione di pensare che nell'isola siano in agguato altri potenziali criminali che occorre scoraggiare). Dall'altra parte, però, è anche naturale pensare che la pena serva a ristabilire l'equilibrio della giustizia, che è stato infranto da chi è responsabile di un crimine; e che dunque costui meriti di essere punito, quali che siano le conseguenze della pena. Questa concezione ha carattere retributivistico, nel senso che presuppone che il fondamento della pena sia il fatto che il condannato lamenti. In questo senso, le concezioni utilitaristiche guardano al futuro (ovvero alle conseguenze della pena), le concezioni retributivistiche guardano al passato (alla colpa che va espiata). L'ideale retributivistico, può essere a sua volta diviso in due componenti molto diverse tra loro: una componente positiva ("tutti i colpevoli vanno puniti") e in una negativa ("nessun innocente va mai punito"). Molti filosofi e giuristi hanno argomentato in modo convincente che la componente positiva della retribuzione va abbandonata perché non è altro che il retaggio dell'arcaica idea della giustizia come vendetta. A fondamento della teoria della pena, dunque, non può che esserci l'ideale utilitaristico. Però è stato anche mostrato che nemmeno l'utilitarismo puro va bene perché può portare a ingiustizie intollerabili: per esempio, alla punizione di capri espiatori nel caso in cui ciò sia utile socialmente. Per questo occorre conciliare l'utilitarismo con la concezione negativa della retribuzione, secondo cui non si può mai punire chi non lo merita. La conclusione più ragionevole, dunque, è quella indicata dal grande giurista britannico H.L.A. Hart: vanno puniti solo gli individui che è utile punire e, all'interno di questo insieme, solamente quelli che lo meritano. Il punto interessante è che oggi la scienza corrobora l'idea dell'importanza della retribuzione negativa. Oggi sappiamo, infatti, che in parecchi casi i crimini, anche efferati, vengono compiuti da individui che, al di là delle apparenze, non erano in grado di controllare le loro azioni perché incapacitati da patologie neurologiche, psicologiche o genetiche. Questi individui non meritano la pena, ma vanno piuttosto curati, sino a quando non saranno più pericolosi (sempre che ciò sia possibile, naturalmente). Parecchi autori, come Michael Gazzaniga e Sam Harris, estremizzano questo punto, arrivando a sostenere che la scienza avrebbe già dimostrato che libero arbitrio e responsabilità morale sono pure illusioni e che dunque nessuno mai meriti di essere punito: e a loro sostegno portano esperimenti neuro-scientifici come quelli, celebri, escogitati da Benjamin Libet. In realtà, però, non solo le argomentazioni di questi autori sono errate, ma dal punto di vista filosofico sono anche ingenue ai limiti dell'imbarazzante. E in proposito basterà leggere il dirimente, informatissimo volume di Alfred Mele Free "Why Science Hasn't Disproved Free Will", pubblicato da poco da Oxford University Press e in corso di traduzione da Carocci. La realtà è che oggi, affrontando problemi come la questione del libero arbitrio e della responsabilità morale, è inammissibile ignorare ciò che ci dice la scienza, ma è anche inammissibile ignorare ciò che ci dice la (buona) filosofia. Giustizia: dal lavoro in carcere un aiuto a detenuti e anche ai conti dello Stato di Giuseppe Sabella (Direttore di Think-in) Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2015 Ogni recluso costa in media 45mila euro: nel 98% dei casi chi esce inserito nel lavoro non torna più in prigione. Se Cesare Beccaria aveva ragione, tanto che il suo capolavoro "Dei delitti e delle pene" (1764) ha ispirato persino i nostri padri costituenti e l'articolo 27 della nostra Carta costituzionale, se ne deve concludere che il lavoro penitenziario non è soltanto un tema attuale ma, anche, cosa buona. L'illuminato filosofo e giurista milanese, nella sua opera più celebre, ha introdotto nella filosofia del diritto penale la concezione rieducativa della pena: non una punizione, quindi, volta a espiare la colpa o a compensare il danno fatto, ma una misura finalizzata al recupero dell'uomo, il reo. In una prospettiva rieducativa, è naturale che il lavoro abbia un ruolo molto importante: il lavoro dà dignità all'uomo, lo responsabilizza e lo mette in relazione con gli altri. Da questo punto di vista, in Italia si fanno attività rieducative nelle carceri da diversi decenni. Venendo ai giorni nostri, nel dicembre 20u il Parlamento europeo approva la Risoluzione sulle condizioni detentive nell'Unione europea, in cui si sottolinea la necessità che siano rispettate le attività di rieducazione, istruzione, riabilitazione e reinserimento sociale e professionale, anche con riferimento al lavoro in generale. La risoluzione, inoltre, prevede una particolare attenzione alle attività di tipo informativo rivolte ai detenuti, al fine di esplicitare i mezzi esistenti per preparare il loro reinserimento. La necessità di regolamentare la questione sorge in seguito al monitoraggio compiuto (giugno 2011) dalla medesima Commissione: in 15 Stati le carceri sono particolarmente sovraffollate; i tassi di crescita nella popola-zione carceraria sono elevati e in n Stati il tasso di detenuti per 100mila abitanti è superiore a 100; in 11 Stati gli stranieri sono più di un quarto dei detenuti totali; la percentuale dei detenuti senza condanna definitiva è estremamente alta; i tassi dì morti e suicidi sono estremamente preoccupanti. In particolare, l'Italia (con Bulgaria, Cipro, Spagna e Grecia) è fra i Paesi con il maggior sovraffollamento carcerario: erano infatti circa 68mila i detenuti a fronte di una capienza regolamentare di circa49mila posti. Oggi l'Italia, minacciata da sanzioni da parte della Ue, attraverso misure di controllo dei flussi della popolazione carceraria ha portato il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane a 53.623, a fronte di una capienza regolamentare di 49.635 (dati ministero della Giustizia riferiti al 31 dicembre 2014). I detenuti "lavoranti" sono circa 14mila: 11.735 lavorano alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria (pulizia, cucina, manutenzione ordinaria), 2.364 lavorano alle dipendenze di cooperative sociali e imprese, incentivate nell'assunzione di soggetti a stato detentivo dalla legge "Smuraglia", alla quale spesso però non viene data attuazione per mancanza di fondi volti allo sgravio delle imprese. In Lombardia, grazie all'agenzia Articolo Ventisette che fa capo all'amministrazione penitenziaria locale, sono 607 (26% circa del totale nazionale) i detenuti a lavorare presso cooperative sociali e imprese. Oltre agli effetti rieducativi, il lavoro penitenziario si rivela anche una buona soluzione per le casse dello Stato: in Italia, infatti, la spesa pubblica per ogni detenuto (spese mediche escluse) è di circa45mila euro l'anno. Francia e Germania, che invece prendono in considerazione anche le spese mediche, spendono rispettivamente 35mila e 40mila euro. Considerando che, nel 98% dei casi, chi esce dal carcere inserito nel lavoro in carcere non torna più (dato Italia Lavoro), è facile comprendere come un detenuto che non torni più a delinquere sia un successo anche per i costi dell'amministrazione penitenziaria. È pari a circa il 70%, tuttavia, la quota dì detenuti che non lavorano e, in un'alta percentuale (70%), senza un lavoro quando escono dal carcere finiscono con il tornarci. L'amministrazione penitenziaria non può farli lavorare tutti alle sue dipendenze e lo sviluppo di lavoro verso il mercato, in questo tempo di crisi, non è cosa semplice. C'è da dire che, a oggi, il 95% delle imprese che hanno accolto i detenuti al lavoro sono del Terzo settore: un vero e sistematico intervento di politica del lavoro verso le imprese sociali del settore profit non è mai stato fatto. La legge del 9 agosto 2013 di modifica della legge "Smuraglia" promuoveva questo obiettivo, ma i risultati non sono stati eccelsi. Ultimo dato interessante delle rilevazioni europee: dopo Ucraina e Turchia, il nostro Paese è al terzo posto anche per quel che riguarda il numero di detenuti in attesa di giudizio. Sono infatti 9.549 i detenuti in attesa di un primo giudizio, mentre sono 8.926 quelli che, seppur condannati in primo grado, attendono una sentenza definitiva (appellanti o ricorrenti). Sempre tale Cesare Beccaria ci ricorda che "un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice". Giustizia: detenuti liberi nelle prigioni, boom di attacchi agli agenti di Chiara Giannini Libero, 2 febbraio 2015 I detenuti non stanno più chiusi nelle celle ma girano per i blocchi 8 ore al giorno. Gli agenti: "Tutti assieme sono ingestibili, si picchiano fra loro e aggrediscono noi". La chiamano "vigilanza dinamica", ma l'apertura delle celle nelle carceri italiane sta portando solo grossi problemi. Almeno secondo quanto spiega il segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria) Donato Capece: "Da circa un anno - racconta - ovvero dopo la sentenza Torreggiani, è stata data a tutti i carcerati, eccetto i 41 bis ovviamente, la possibilità di circolare liberamente per la sezione carceraria per otto ore al giorno. Non si è tenuto però conto dei profili dei detenuti, così ci troviamo di fronte a situazioni estreme in cui coloro che sono più forti si trovano a commettere soprusi nei confronti dei più deboli e si è arrivati, col tempo, a una condizione del tutto ingestibile". Capece chiarisce che "è come se ogni sezione fosse stata consegnata in mano ai reclusi. Gli agenti, infatti, restano fuori dal cancello della sezione e li controllano a vista o dovrebbero farlo, secondo quanto stabilito, attraverso le telecamere interne che, però, nella maggior parte dei casi non funzionano. Questo -continua - impedisce alle guardie carcerarie di avere la situazione sotto controllo. Peraltro il personale è scarso e si è arrivati a un punto in cui davvero non ce la possiamo fare più. Per ogni piano c'è un agente che ha il compito di controllare tra i 60 e i 100 carcerati". Prima, invece, a ogni detenuto venivano concesse due ore la mattina per andare nei cortili da passeggio, due ore il pomeriggio e un'ora di socialità alla sera. "Con questa nuova sperimentazione - tiene a dire il segretario del Sappe - prima di tutto si assiste a un aumento dei problemi. I carcerati più forti rubano sigarette, vestiario e altri oggetti ai più deboli, che spesso vengono anche aggrediti. Inoltre, in carcere adesso entra di tutto. A Torino, Genova e in altri istituti penitenziari abbiamo addirittura sequestrato dei cellulari". E non è tutto: "Da quando è stata introdotta questa novità le aggressioni nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria sono drasticamente aumentate? A Padova, ad esempio, una guardia di recente è stata ferita nello scontro in carcere tra romeni e nordafricani. Lo stesso agente è stato mantenuto in quella sezione col rischio di essere nuovamente aggredito". Insomma, secondo le segnalazioni del personale carcerario, quando si chiudono i cancelli ogni area degli istituti detentivi diventa terra di nessuno. "E poi - racconta Capece -anche i casi di suicidio tra i carcerati sono aumentati di due terzi perché senza un controllo interno è più facile nascondersi e non essere notati. A fronte di un raddoppio degli eventi critici e della diminuzione della sicurezza, che a questo punto non riusciamo più a garantire, occorre intervenire in modo incisivo". Il presidente dell'associazione Antigone, che si occupa dei diritti dei carcerati, Patrizio Gonnella, nei giorni scorsi aveva chiarito alla stampa: "Sono assolutamente contrario a che si torni indietro alla marcatura ad uomo del detenuto: è deresponsabilizzante. Ci stiamo solo adeguando alle regole europee perché il nostro modello è retrogrado". Ma Capece controbatte: "Le sezioni carcerarie sono diventate come una kasbah. Gli extracomunitari, che non hanno niente da perdere, sono quelli che creano i problemi maggiori. Che fare? Semplicemente uno screening dei detenuti per individuare i profili che siano meritevoli di una socialità di questo tipo. Chi sgarra, invece, sta in cella. Perché l'impunità dà legittimità a proseguire nel comportamento sbagliato. Abbiamo anche parlato con il viceministro e dato un aut aut. O si provvede col prendere misure immediate - conclude -o saremo costretti a intraprendere la strada delle lotte eclatanti finché non otterremo ciò che chiediamo". Giustizia: dimezzata durata della formazione per allievi agenti della Polizia penitenziaria Bollettino Giustizia, 2 febbraio 2015 I corsi di formazione per allievi agenti del Corpo di Polizia Penitenziaria in via di svolgimento o che avranno inizio durante il biennio 2015-2016, hanno durata pari a sei mesi. Lo stabilisce il D.M. 10-12-2014 pubblicato oggi nel Bollettino Ufficiale del Ministero della Giustizia. Sono dimessi dai corsi di cui al comma 1, gli allievi e gli allievi agenti in prova del Corpo di Polizia Penitenziaria che per qualsiasi motivo, salvo che l'assenza sia determinata dall'adempimento di un dovere, siano stati assenti dal corso per più di trenta giorni, anche non consecutivi, o di quarantacinque giorni se l'assenza è stata determinata da infermità contratta durante il corso. Nel caso di assenza determinata da infermità contratta durante il corso, è fatta salva la possibilità per gli allievi e gli allievi agenti in prova di essere ammessi a partecipare al primo corso successivo alla loro riacquistata idoneità fisico-psichica. Giustizia: il governo, i magistrati e il (vero) pericolo nel pasticcio delle ferie di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 2 febbraio 2015 Al di là dei giudizi sulla sua bontà, l'obiettivo di tagliare il periodo di inattività delle toghe è stato tradotto dall'esecutivo in un decreto legge scritto in modo da avere risultati contraddittori. E che va riformulato. Il testo o la testa: l'ordine impartito da una legge è descritto da ciò che sta nel testo della legge o da ciò che sta nella testa del legislatore? Il muro contro muro tra governo e magistrati sulla riduzione delle ferie dei togati, che dopodomani approderà al Csm per una indicazione definitiva agli uffici giudiziari, rischia di compromettere qualcosa di più generale e ben più importante delle impuntature decisioniste del governo o dei riflessi corporativi delle toghe: minaccia il senso stesso delle leggi, insidia la certezza che il loro contenuto precettivo sia ricavabile dal loro testo secondo i canoni interpretativi fissati dalle Preleggi, anziché dall'oracolare ricerca di una presumibile volontà del legislatore dedotta da indicatori estranei al testo di legge come interviste tv, conferenze stampa, dichiarazioni postume. Appropriato o demagogico che lo si ritenga, infatti, dall'estate scorsa il governo intende ridurre le ferie dei magistrati da 45 a 30 giorni, che è cosa diversa dal periodo di sospensione feriale dei termini dei vari provvedimenti (anch'esso ridotto di 15 giorni), che a sua volta è cosa diversa dal periodo di sospensione delle udienze ordinarie, che a sua volta è cosa diversa dalla chiusura degli uffici giudiziari che in realtà d'estate non avviene mai per le attività urgenti, i turni, gli arresti, i processi con detenuti o a rischio prescrizione, le "direttissime". Si può discutere all'infinito di quanto ridurre di 15 giorni le ferie dei magistrati sia utile o ininfluente, solo simbolico o persino controproducente rispetto all'obiettivo dichiarato di incrementare la produttività di tribunali e procure, tanto più se la riduzione non viene coordinata con una rivisitazione dell'architettura dei depositi dei provvedimenti in scadenza. Ma una volta che questa è la volontà del governo, l'impasse nasce dal fatto che uno sbrigativo decreto legge l'ha tradotta in un testo che fallisce l'obiettivo perché, invece di modificare direttamente la norma sulle ferie, in un altro tessuto normativo ha aggiunto un articolo 8 bis "dopo l'articolo 8". Il risultato è che, se ci si attiene al testo nel quale dunque gli articoli 8 e 8 bis coesistono, le ferie dei magistrati ordinari resterebbero di 45 giorni, e solo quelle dei magistrati fuori ruolo scenderebbero a 30. L'esito sarebbe paradossale, visto che invece l'intenzione del legislatore di ridurle per tutti i magistrati a 30 giorni era ed è chiara nella relazione che accompagna il decreto, nei comunicati, nelle conferenze stampa, nelle slide e nei tweet, ai microfoni tv. Per venire incontro a questa volontà per così dire materiale, non basterebbe però soltanto forzare il testo formale così tanto da far finta di considerare normale una simile svista legislativa: si dovrebbe anche sposare una interpretazione larghissimamente teleologica ispirata da ardite "istanze di razionalità ed economicità dei mezzi giuridici", e cioè si dovrebbe dare valore alla circostanza che l'articolo 8 bis, voluto dal governo, peggiorerebbe l'efficacia dell'ordinamento giudiziario qualora non comportasse anche l'implicita abrogazione dell'articolo 8. Solo che questa controversa ipotesi di abrogazione implicita (promossa a sorpresa dal parere dell'Ufficio studi del Csm, bocciata dalla proposta della VII commissione Csm, e rimessa dopodomani al giudizio finale appunto del plenum Csm) contrasta con l'articolo 15 delle Preleggi, che contempla che le norme siano abrogate solo "da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti"; e contrasta con l'articolo 12 che prevede che, se la norma è completa, "non si può attribuire alla legge altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse". Ma soprattutto, persino a prescindere dal caos determinato dall'accoglimento della prevedibile pioggia di ricorsi delle toghe al Tar e al Consiglio di Stato, per il sistema sarebbe devastante l'idea che l'abrogazione implicita di una norma si possa far discendere non dall'esistenza di un'altra regola incompatibile con essa, ma da una generica presuntiva sensazione postuma del legislatore, espressa altrove rispetto al testo di legge, e relativa a un indefinito rischio che la disciplina di una certa materia sia indebolita dalla coesistenza di due norme vergate dal legislatore stesso. Se dunque il governo ritiene irrinunciabile il taglio delle ferie dei magistrati, per non sfasciare il sistema ha una strada maestra: riscrivere senza svarioni le due righe della legge. Un rimedio che avrebbe già potuto attuare mesi fa, se durante l'iter di conversione del decreto legge non avesse ignorato l'allerta proveniente dall'Ufficio studi della Camera e contenuta anche in un emendamento correttivo mai messo ai voti. Giustizia: sit-in a Palazzo Chigi dei "testimoni di giustizia", chiedono un lavoro nella Pa Ansa, 2 febbraio 2015 Un gruppo di testimoni di giustizia - cittadini che hanno scelto di denunciare intimidazioni, racket, estorsioni e che spesso hanno dovuto abbandonare la propria casa e il proprio lavoro per essere nascosti in località protette - mercoledì 4 febbraio sarà davanti a palazzo Chigi per un sit-in pacifico. Chiedono al Governo Renzi il decreto attuativo del provvedimento che prevede che loro, al pari delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, possano accedere ad un programma di assunzione in tutte le pubbliche amministrazioni, dello Stato e degli enti locali. "Viviamo anni di sofferenze e umiliazioni - raccontano alcuni di loro - e solo per aver denunciato, molti di noi vivono in condizioni al limite della dignità. La lotta alle mafie deve essere un atto concreto, non si possono abbandonare uomini e donne che hanno puntato il dito facendo condannare mafiosi e corrotti. Questa legge deve essere una priorità del Governo Renzi". Il sit-in, è stato annunciato, sarà ad oltranza. "Noi protesteremo con la compostezza e la dignità che ci ha sempre contraddistinto", concludono gli organizzatori. Non tutti i testimoni di giustizia (in Italia sono in questo momento 85) aderiscono però a questa iniziativa: l'associazione testimoni di giustizia, di cui è presidente Ignazio Cutrò, imprenditore edile siciliano e testimone di giustizia costretto nei giorni scorsi alla chiusura della propria azienda, per esempio, non vi prenderà parte. "Il decreto attuativo sappiamo che è pronto - spiega Cutrò - manca solo la pubblicazione, dunque non ha senso protestare. È certamente un provvedimento che attendiamo da tempo e con speranza, ma siamo fiduciosi". Giustizia: arretrato civile; Torino docet, un piano coordinato dal giudice Mario Barbuto di Marzia Paolucci Italia Oggi, 2 febbraio 2015 Parte Strasburgo 2, il piano straordinario varato dal ministero della Giustizia per azzerare l'arretrato civile ultra-triennale e affiancare sul piano organizzativo le riforme legislative promosse dal governo. L'obiettivo è quello di ridurre a un anno la durata massima delle cause civili commerciali e a meno di tre anni le altre di primo grado. Alla guida del progetto che individua delle priorità di smaltimento, Mario Barbuto, chiamato in testa al Dipartimento dell'organizzazione giudiziaria del ministero per attivare nel paese quel riuscito programma in atto dal 2001, prima presso gli uffici giudiziari di cui è stato in successione presidente, tribunale e Corte d'appello di Torino, e allargato poi a tutto il distretto torinese. Oggi, sotto il suo nome, il ministero fa il passo successivo: dal capoluogo piemontese a tutti gli uffici giudiziari italiani a cui il programma sarà proposto come best practice nella convinzione che non sia vero che i magistrati italiani sono poco produttivi ma che invece abbiano bisogno di aiuto per organizzarsi il lavoro. "Il metodo prevede per prima la scomparsa delle cause ultra-triennali a rischio legge Pinto, l'arretrato in senso stretto e poi la presenza negli archivi delle cause infra-triennali giacenti in senso tecnico suddivise in cause triennali da tenere sotto controllo, biennali considerate di routine e annuali, l'obiettivo virtuoso per eccellenza", ha spiegato Barbuto che affiancava il guardasigilli Andrea Orlando alla presentazione del 14 gennaio scorso di quello che in via Arenula è stato ribattezzato il Piano eccezionale contro l'arretrato. Un metodo cronologico, quello del suo programma varato ben 14 anni fa che è stato inserito tra le best practice italiane censite dalla Sto, la Struttura tecnica organizzativa nata in seno al Csm nel 2010. "Non c'è alcuna imposizione di regole né direttiva alcuna", ha assicurato Barbuto, "ma solo l'invito a dotarsi di un metodo di lavoro per la conoscenza e la riduzione del debito giudiziario italiano nei confronti degli utenti cittadini. Per il civile l'invito è a dotarsi di una delle best practice registrate dalla Sto del Csm mentre per il penale siamo ancora in una fase di radiografi a delle giacenze e dell'arretrato. Voglio vincere questa sfida". Tre le fasi previste per il civile: la prima, già esaurita a novembre con un censimento realizzato tramite la Direzione statistica del ministero che ha permesso l'identificazione per rispettivi tribunali e corti d'appello della reale entità delle cause giacenti distinguendole dal più grave arretrato ultra-triennale. La seconda fase prevede invece l'azzeramento in tempi brevi di parte dell'arretrato secondo il principio Fifo - First in, first out: la prima causa che entra, è anche la prima a uscire. Così, in uno stringente timing, si prevede entro sei mesi l'azzeramento degli oltre 82 mila contenziosi iscritti a ruolo fi no al 2000 ed entro i successivi nove mesi, dei 127 mila e oltre affari iscritti fi no al 2005. La terza fase prevede in ultimo la gestione dell'arretrato residuo: gli otre 835 mila affari civili del periodo 2006-2010 e le giacenze infra-triennali degli iscritti 2011-2013 pari al risultato di 2.692.504 affari civili. La legge di stabilità ha previsto l'istituzione di un fondo presso il ministero della Giustizia per l'efficienza del sistema giudiziario che prevede lo stanziamento di 50 milioni per il 2015, 90 per il 2016 e 120 dal 2017. Alle risorse economiche, si aggiungono le risorse umane per gli uffici dove c'è una scopertura di 9 mila amministrativi: a riguardo, ne arriveranno 1031 da altre amministrazioni (dovrebbero essere le province) in base all'attuale bando di mobilità volontaria esterna e 144 unità sono in corso di assunzione da graduatorie parzialmente inutilizzate da parte di altre amministrazioni. Rimini: detenuto nordafricano non può chiamare la madre, tenta il suicidio in carcere www.romagnanoi.it, 2 febbraio 2015 Ha cercato di suicidarsi ieri pomeriggio nella sua cella. Un tentativo scongiurato grazie all'intervento della polizia penitenziaria. Un 30enne nordafricano, fra gli arrestati nell'operazione Kebab Connection, ha cercato di impiccarsi con una sorta di sottile fune. Il motivo sarebbe stata una mancata telefonata alla famiglia. Il magrebino è venuto a conoscenza della malattia della madre. La chiamata all'estero necessita però di un'autorizzazione particolare e nell'immediato non era possibile ottenere il nulla osta. Inoltre, le forze dell'ordine devono prima verificare che il numero telefonico corrisponda a un familiare e non sia invece un contatto legato alla malavita. Il 30enne è stato portato all'Infermi, ma le condizioni non sono mai state gravi. Sanremo (Im): detenuto chiede la pensione, gli rispondono che… è morto da due anni di Giulio Gavino La Stampa, 2 febbraio 2015 Un detenuto settantenne chiede la pensione sociale ma scopre che per tutti, famiglia compresa, era morto circa due anni fa. È una vicenda ai confini della realtà quella che riguarda un recluso per reati contro il patrimonio ospite da tempo nel carcere di Valle Armea. A sciogliere la matassa degli errori e a fare chiarezza ci ha pensato la Polizia penitenziaria di Sanremo. Quando la scorsa estate Saverio P. classe 1945, milanese, aveva chiesto che gli venisse corrisposta la pensione, dal Comune di Milano (chiamando in causa quello di Sanremo) avevano subito segnalato la cosa alla Polizia giudiziaria. Il motivo "Tentata truffa e sostituzione di persona" perchè quel Saverio ai terminali degli uffici demografici risultava morto da addirittura due anni. "Ma se ce l'abbiamo noi qui vivo e vegeto" - ha sospirato un ispettore della Polizia penitenziaria che non ha mollato e ha proseguito gli accertamenti. Scava scava ha scoperto che in effetti a quel tempo in un parco cittadino del capoluogo lombardo era stato trovato il cadavere di un clochard che aveva in tasca il documento, la carta d'identità, di Saverio. Le forze dell'ordine avevano chiamato la famiglia e un fratello l'aveva in qualche modo riconosciuto. Tradito evidentemente dalle condizioni tutt'altro che buone del cadavere del barbone, dai capelli e dalla barba lunga e dall'aspetto trasandato. Poi la famiglia gli aveva fatto il funerale, pagato il loculo (di fatto ad uno sconosciuto) e gli eredi legittimi si erano anche suddivisi l'eredità. Intanto, senza che nessuno lo sapesse, Saverio era in carcere, a scontare la condanna, magari un po' triste perchè nessuno lo andava a trovare. Ma era naturale, chi voleva andare a trovarlo andava al cimitero. A questo punto la polizia giudiziaria ha convocato d'urgenza il fratello che un po' intimorito si è trovato a dover riconoscere Saverio, che credeva morto. E il riscontro è stato positivo, con seguito di commozione e scongiuri ma soprattutto con una serie di incredibili ripercussioni per il "resuscitato" e per la sua famiglia. Per Saverio P. la buona notizia è che potrà incassare la pensione e anche gli arretrati. Restano invece da definire tutta una serie di altre questioni, a partire dal fatto di chi sia l'uomo seppellito con il nome di Saverio sulla lapide, quello morto nel parco di Milano con in tasca la carta d'identità di Saverio. Poi ci sono le questioni amministrative. I beni ereditati dai congiunti di Saverio tornano a lui? E se sono stati venduti a terzi gli atti sono da considerarsi nulli? Insomma, una situazione amministrativa e giuridica tutta da chiarire e da definire. E non sarà un compito facile. Una storia incredibile, insomma, e un colpo del destino imparabile? No, questo no, se Saverio avesse denunciato il furto o la scomparsa del documento probabilmente tutto questo non sarebbe accaduto. Ma al di là di questo chissà adesso quante risate si farà andando a trovare la propria tomba al cimitero. Caserta: dal carcere di Pozzuoli il caffè delle Lazzarelle al "Global forum" del TEDx 2015 www.casertanews.it, 2 febbraio 2015 Nella notte del sei febbraio a Marcianise (Caserta), presso il Centro Commerciale Campania, andrà in scena il TEDx Caserta 2015. Sul palco di questo atteso "Global forum" si alterneranno 10 speaker dall'Italia e dall'estero per condividere la loro prospettiva su vari temi, dalla tecnologia, all'arte, dalla glaciologia al design. Il TEDx si svolgerà di notte, dalle 22.00 alle 2.30, e a tenere svegli tutti partecipanti ed il pubblico di questo inedito evento ci penserà un caffè molto speciale, quello targato Lazzarelle. Tra i partner del TEDx Caserta 2015infattic'è anche la cooperativa Lazzarelle, che produce un caffè realizzato dalle detenute della casa circondariale femminile di Pozzuoli. Un progetto finanziato dalla Regione, partito nel 2007, con un successo ed un riscontro sempre più crescente. La miscela è ottenuta dalla tostatura rigorosamente artigianale di chicchi provenienti da Brasile, Costa Rica, Colombia, India e Uganda. La cooperativa promuove la creazione di nuova imprenditorialità e lavoro autonomo femminile" con un'energia che ha permesso lo svilupparsi del primo progetto di produzione carceraria in Campania. "Siamo molto felici di poter collaborare con un marchio simbolo di una produzione di qualità che si coniuga alla responsabilità sociale verso il territorio" dichiara il team del TEDx Caserta. "Potremmo dire che la storia della cooperativa Lazzarelle è un'ulteriore idea da condividere, come nello spirito delle conferenze TEDx che ascolteremo la notte del 6 febbraio". Roma: detenuti stranieri in Italia, domani l'Associazione Antigone presenta i dati Ristretti Orizzonti, 2 febbraio 2015 Domani, 3 febbraio, a Roma verrà presentato il volume di Patrizio Gonnella, "Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti". Durante l'incontro verranno presentati e illustrati i dati relativi alla presenza dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, suddivisi per nazionalità e per credo religioso, oltre che per età, legame famigliare e titolo di studio. Verrà inoltre riportato il dato relativo a quanti di questi detenuti siano in custodia cautelare, quanti appellanti e ricorrenti, quanti in esecuzione penale e in esecuzione penale esterna. Altro dato che sarà presentato è quello del tipo di reato per il quale vengono reclusi gli stranieri nel nostro paese. Sarà presentato inoltre il quadro normativo che, nel corso degli anni, ha fatto sì che il numero di stranieri nelle nostre carceri sia progressivamente aumentato. Il volume, realizzato grazie all'attività di ricerca dell'Associazione Antigone con il sostengo di "Open Society Foundation" ed edito dall'Editoriale Scientifica, è il primo lavoro di questo genere realizzato in Italia. La presentazione si terrà alla Libreria del Viaggiatore, via del Pellegrino 78, a partire dalle ore 11.00. Insieme all'autore interverranno Silvana Sergi (Direttrice del carcere di Regina Coeli), Marco Ruotolo (Ordinario di Diritto Costituzione, Università Roma Tre) e Abudl Matahar (Mediatore culturale Associazione Medea). La Libreria del Viaggiatore, è la redazione della Round Robin, casa editrice che da anni promuove iniziative letterarie nelle carceri. Con il progetto "un libro ti fa evadere" la Round Robin ha raccolto - grazie ai suoi lettori - decine di volumi poi inviati nelle carceri che ne hanno fatto richiesta. Contestualmente la giovane casa editrice ha promosso presentazioni di alcuni titoli in catalogo, proprio all'interno delle carceri incontrando i detenuti. L'auspicio è che questo genere di iniziative - non a scopo di lucro e finanziate dall'editore stesso - possano continuare con la collaborazione dei lettori. Un libro è come un viaggio. E la Round Robin si augura di regalare un momento di "evasione" proprio attraverso le sue pagine. Bari: siglato Protocollo per la prevenzione del disagio minorile tra Ce.Se.Vo.Ca. e Ussm Ristretti Orizzonti, 2 febbraio 2015 Lo scorso 27 gennaio, il Ce.Se.Vo.Ca. (Centro Servizi al Volontariato di Capitanata) e il Ministero della Giustizia - Dipartimento della Giustizia Minorile - USSM Bari (Ufficio di Servizio Sociale per Minorenni) hanno sottoscritto un Protocollo d'Intesa. Attraverso il documento, i firmatari si impegnano ad attivare ogni forma di collaborazione per lo sviluppo di efficaci interventi di prevenzione del disagio minorile e per il sostegno di una politica di reinserimento e di recupero dei minori attraverso la "presa in carico della comunità territoriale". L'USSM sezione staccata di Foggia e il Ce.Se.Vo.Ca. ritengono che il volontariato possa efficacemente esprimere il suo impegno in alcuni ambiti di intervento, quali i servizi d'informazione, la collaborazione nella realizzazione di percorsi di educazione alla legalità e l'organizzazione di campagne di sensibilizzazione dell'opinione pubblica su temi specifici e problematiche emergenti che possano interessare categorie "deboli" come nomadi, minori stranieri, anche non accompagnati e tossicodipendenti, sia ristretti che sottoposti a misure alternative o sostitutive o a misure cautelari non detentive. Attraverso il protocollo, l'USSM di Foggia - Sede distaccata, in collaborazione con il Ce.Se.Vo.Ca., si è impegnato a sensibilizzare i volontari sulle attività dei Servizi Minorili di Foggia e sulle cautele necessarie allo svolgimento di attività di volontariato con l'utenza penale minorile, favorendo idonee modalità di relazione ed integrazione organizzativa; informerà, inoltre, i volontari circa le possibili attività trattamentali per favorire - quando possibile - la loro partecipazione nelle fasi di programmazione e realizzazione di tali attività, con le modalità e i tempi necessari. "Il Ce.Se.Vo.Ca. - spiega il Presidente, Pasquale Marchese - sensibilizzerà le proprie associazioni, operanti nei settori di intervento coerenti con quelli richiamati nel protocollo, al fine di promuovere la loro attiva partecipazione in un lavoro integrato con il sistema dei Servizi minorili di Capitanata e promuoverà, in concerto con la sede USSM di Foggia, corsi di preparazione ed aggiornamento per i volontari che intendano partecipare alle attività previste dal protocollo". Il Ce.Se.Vo.Ca. si impegna, dunque, a promuovere interventi per lo sviluppo di una sensibilità civica verso l'esecuzione penale e per un coinvolgimento attivo della società nell'azione di risocializzazione, già avviato negli anni scorsi con l'UEPE Foggia (Ufficio Esecuzione Penale Esterna), per quanto concerne i soggetti maggiorenni. Il protocollo sottoscritto lo scorso 27 gennaio è l'ultimo atto, in ordine di tempo, di una collaborazione iniziata già da alcuni anni con l'USSM, attraverso l'organizzazione di "Percorsi di educazione alla legalità" da parte del Coordinatore della sede USSM di Foggia, dott. Tucci e, di altri interventi congiunti nell'ambito minorile. Torino: Osapp; ritrovato cellulare nascosto in una cella del carcere, si cerca la scheda sim La Presse, 2 febbraio 2015 La polizia penitenziaria del carcere di Torino Lorusso e Cutugno ieri pomeriggio, alle 14.30 circa, durante un giro di controllo nel secondo piano del Padiglione A, dove sono ristretti detenuti a regime ordinario e detenuti sottoposti al regime di alta sicurezza, è stato rinvenuto un telefonino cellulare con il caricabatteria, nascosto all'interno dell'intercapedine della sezione detentiva, celato in due calzini. La scheda sim non è stata rinvenuta. A denunciare l'episodio è il segretario generale dell'Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria) Leo Beneduci. Beneduci spiega: "Per l'ennesima volta gli agenti della polizia penitenziaria hanno dimostrato eccellenti capacità professionali nonostante siano costretti a lavorare in condizioni disumane, in completa assenza di mezzi; le donne e gli uomini della polizia penitenziaria non hanno neanche la disponibilità di uniformi adeguate al servizio svolto. Non ci resta che attendere - conclude Beneduci - che la polizia penitenziaria si liberi una volta per tutte dall'inerzia e dalle incompetenze dell'amministrazione penitenziaria". Libri: "Totu sa Beridadi. Tutta la verità, storia di un sequestro", di Mario Trudu www.unacitta.it, 2 febbraio 2015 "Totu sa beridadi. Tutta la verità, storia di un sequestro", è l'autobiografia di Mario Trudu, ergastolano ostativo, condannato per due sequestri di persona, in carcere da 35 anni, attualmente nella casa di reclusione di San Gimignano. L'autore, di Arzana, ripercorre la sua vita dal tempo in cui era pastore, sui monti dell'Ogliastra, poi le vicende dei sequestri e i lunghi anni di carcere spesso "duro". Trudu fu condannato la prima volta per il sequestro Bussi, del quale da sempre si dichiara innocente, durante una breve latitanza fu responsabile del sequestro Gazzotti. Il suo è anche il racconto di decenni passati nelle prigioni fra la Sardegna e "il continente", in quel regime "eccezionale" e parallelo che fa di 1.200 persone nella sua condizione quelli "della morte viva", perché non collaboratori di giustizia. Trudu ripercorre il film della sua vita con una scrittura puntigliosa e forte, come la natura e i monti sui quali è cresciuto, piena di echi della sua lingua. Della sua vicenda non risparmia niente, né a sé né agli altri, in un narrare a tinte forti che tanti aspetti svela della sua terra, e ha sullo sfondo, costante, l'immagine e il pensiero forte del fascino selvaggio dell'entroterra sardo. Tessuti nella narrazione, i disegni che illustrano alcune tappe della vicenda, autore lo stesso Trudu che in carcere si è diplomato in Istituto d'Arte. "Totu sa beridadi" apre uno squarcio sulla storia, ancora piena di ombre, della Sardegna dei sequestri: la vita sui monti, l'eco dei sequestri, il processo all'Anonima che tanto hanno occupato le cronache a cavallo degli anni 70 e 80, e la figura del "giudice sceriffo", il giudice Lombardini, suicidatosi dopo l'inchiesta aperta dalla magistratura su sue presunte poco chiare iniziative. È anche un atto d'accusa che tutti ci coinvolge: "Ritengo che le vittime di questa faccenda non siano soltanto i sequestrati. Pure io e i miei familiari siamo vittime di un stato che dovrebbe fare giustizia e non vendetta. Da trentacinque anni anche io sequestrato e senza alcuna prospettiva di uscirne vivo, vi racconto la mia tremenda storia". Libri: intervista a Mario Trudu, autore di "Totu sa Beridadi, storia di un sequestro" a cura di Francesca de Carolis www.unacitta.it, 2 febbraio 2015 Pastore, nel 1979 viene arrestato con l'accusa di sequestro di persona a scopo di estorsione. Condannato per un delitto del quale da sempre si dichiara innocente, durante una breve latitanza è responsabile del sequestro dell'ingegner Gazzotti. Condannato all'ergastolo, ostativo ( fine pena mai effettivo). In carcere, a Spoleto, si diploma all'Istituto d'Arte. Attualmente è nel carcere di San Gimignano. La sua vicenda nell'autobiografia "Totu sa beridadi", tutta la verità, in libreria ora con Stampa Alternativa. Lei è in carcere da 35 anni, come raccontarli? Questa carcerazione infinita... è impossibile raccontarla, anche se alle volte ci proviamo, e per quel poco che riusciamo a esprimere non è sempre facile trovare le parole giuste, adatte, a far capire ala gente cosa si pensa, cosa si è provato, cosa sono stati per me questi 35 anni di carcere; le parole alle volte sono limitanti, ci vorrebbero parole nuove e tanto forti che non esistono. E meglio così altrimenti le persone che leggessero la mia storia con tutte le sue ingiustizie, ne uscirebbero con il corpo ustionato. Lei è stato condannato per un sequestro di cui si è sempre dichiarato innocente e per un secondo di cui si assume piena responsabilità... "Fossi solo io a protestare la mia innocenza! La mia parola non ha mai contato niente ed è molto probabile che non conterà mai nulla, ma sono le carte a gridare, a urlare la mia innocenza insieme ai miei coimputati. Il secondo sequestro, invece, è stata conseguenza della prima ingiustizia compiuta, ma la responsabilità di quel sequestro è solo mia, e nella mia autobiografia spiego come sono andate realmente le cose". A volte la vita prende direzioni impreviste... "La direzione è sempre il destino a deciderla, frutto di combinazioni, di fatti successi senza che uno li provochi, e per me è successo lo stesso. È il frutto avvelenato di cinque maledetti minuti. Un incontro nel lontanissimo giorno del 1978, l'inizio dei miei guai, con una persona che poi è stato il mio accusatore. Ero pastore, ma posso dire che non svolgevo nessun lavoro, perché io ero una persona innamorata di ciò che facevo, e uno l'amore non lo vive mai come lavoro. È solo gioia che si vive minuto dopo minuto. Sì, amavo fare quel lavoro, pensavo che non esisteva altro da poterlo sostituire, mi permetteva di sognare, di fare progetti, come crearmi una famiglia, che poi era la cosa che desideravo di più. Pensavo che solo la morte avrebbe potuto averla vinta su quel mio stare bene. Poi ho scoperto che c'è qualcosa di più forte della morte, ed è l'ingiustizia, quella sì, che è potente e invincibile, e io ho dovuto sperimentarla sulla mia pelle. Io ho avuto a che fare con la morte, ma da quello scontro ne sono uscito vincitore. Con l'ingiustizia combatto da 35 anni, e da allora sono sempre stato un perdente. L'ingiustizia non si ammala mai, quindi non puoi sperare che abbia almeno un momento di debolezza da poterla sopraffare". Come ha cominciato a scrivere la sua storia? "L'idea iniziale era solo di prendere degli appunti affinché rimanesse qualcosa scritto su di me, sulla mia disastrata esistenza. Prendevo questi appunti su dei quaderni. Nell'inverno del 2000 mi fu concesso per un paio d'ore al giorno di poter accedere ad un vecchio computer, residuato bellico di un corso d'informatica fatto dieci anni prima. Presi la decisone di scrivere la mia autobiografia spinto anche dalla mia carissima nipote Rosa, che mi ha dato una grossa mano nella trascrizione degli appunti. Man mano che scrivevo della mia attività di allevatore e della natura che mi circondava, della quale ero innamorato fin da bambino, mi veniva voglia di abbandonare il resto della storia, con tutti i suoi fatti scabrosi e pieni di paura di cui non riuscivo a liberarmi. Mi veniva voglia di descrivere solo la bellezza, la grandezza della natura, degli animali. Ero tormentato: vedevo più giusto e importante parlare del creato che affrontare le sconcezze che produce l'essere umano. Ma vinsero altre spinte al mio interno, e decisi di descrivere anche la rabbia, l'odio. Decisi di ritornare al punto di partenza e mischiare tutto. Volevo che si sapesse anche quanto mi era stato imposto dallo stato, quanto lo "stato" ha agito da fuorilegge su di me e non solo. E oggi da una montagna di cose forti dette a denti stretti (a tratti in mondo forse non sempre comprensibile) ne è uscito un quadro che ogni tanto lascia intravedere il sole. Ma subito tornano le nuvole tempestose e ti impongono nuovamente il malumore. Forse è un'autobiografia un po' particolare; credo di essere riuscito a non rimanere incastrato, rapito dalla parte più orribile della mia esistenza, ho scritto di tantissimo altro. Momenti che mi hanno riempito di gioia e quei ricordi ancora oggi mi danno motivo a tratti di sorridere". È un'autobiografia piena di dettagli… "È vero, avrei voluto scrivere tutto puntigliosamente perché non sfuggisse niente al lettore, che non mi conosce, e solo con quanti più dettagli sarei riuscito a descrivere il tutto, sarebbe potuto saltare fuori un "giudizio" più vicino alla realtà. E non perché volessi che non sfuggisse niente a me stesso, perché quanto ho fatto di buono e allo stesso modo le cose non buone sono dentro di me e non potranno mai sfuggirmi". C'è molto racconto della Sardegna e dei suoi monti… "Avrei voluto parlare di più della mia Sardegna e dei suoi monti ma questa è un'autobiografia e nella mia vita ci sono invece tante cose che avrei preferito che non fossero mai successe e che però devo raccontare, non posso farne a meno, fanno parte di quest'uomo. Nella vita dobbiamo, ci piaccia o no, fare i conti con il destino, a volte più che crudele. Se fosse possibile, racconterei me stesso solo parlando della Sardegna, raccontando i miei monti, potrei vivere in eterno dei loro ricordi. In un racconto sui vecchi del mio paese, della mia infanzia, riferendomi alla mia "asineria", addebito la colpa di questo al fatto che fin da piccolissimo ero rapito dalla natura, dalla campagna, dai monti, fiumi e animali, distraendomi da quella cultura che la scuola mi avrebbe consegnato. Ricordo ancora, e in modo lucido come se quei momenti li stessi vivendo in questo istante... capitava spesso che da bambino andassi con mio padre alla vigna che avevamo a Sella Eleci, e dormivamo all'aperto. C'era solo una capanna di frasche (unu barraccu), al mattino presto verso le quattro mio padre accendeva un fuoco e io anche se molto piccolo non stavo certo a dormire, non mi sarei perso niente, volevo vivere tutte quelle sensazioni gradevoli che l'occasione mi offriva. A quell'ora quasi sempre mio padre prendeva una canna lavorata in un certo modo detta sa prannuga, un utensile fatto per raccogliere i fichi d'india. A quell'ora erano bagnati dalla rugiada, me ne sbucciava uno o due e me li mangiavo. Erano così freschi e gustosi! In questo momento ricordando il loro sapore mi viene naturale inghiottire la saliva... In quel modo di vivere, di fare, c'era tutta la mia vita". E l'incontro con gli uomini? "Mi è capitato di avere a che fare con magistrati e sbirri più umani, ma pochi davvero. Io credo che i miei concittadini meritino di essere trattati diversamente da come è stato trattato Mario Trudu, e parlo anche di miei coimputati. Mi riferisco in particolare a un giudice che per anni era ritenuto un baluardo di forza contro i sequestri in Sardegna, e dopo a quanto pare è saltato fuori un poco "chiaro" suo intervento nei sequestri. Il giudice che ha voluto la mia condanna per un sequestro che non ho fatto, e da anni lo urlo... Lombardini, che si è sparato un colpo di pistola quando è stata aperta un'inchiesta sul suo "operato". Io sono l'unico ancora in carcere dopo 35 anni". Lei sostiene di aver subito una doppia ingiustizia… "Oltre al primo processo, la seconda ingiustizia la addebito al mondo politico che, tradendo in tutti i modi la Costituzione, non modifica l'articolo 4 bis, rendendo ostativa la condanna per alcuni tipi di reati, fra i quali l'art.630, sequestro di persona a scopo di estorsione, per il quale io ho subito la condanna. Hanno pensato anche di rendere quell'articolo retroattivo: quando fu varato il d.l. nel 1992, le mie condanne erano definitive da tempo, eppure retroattivamente mi viene applicato l'art.4 bis, rendendo il mio ergastolo ostativo, cioè trasformandolo in pena di morte, visto che non posso usufruire di alcun beneficio penitenziario, né potrò mai essere scarcerato. Eppure la Costituzione all'art.25 dice: "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso", e non 13 anni dopo come è stato fatto nel mio caso. Le leggi varate dopo che è stato commesso il reato possono essere applicate retroattivamente solo nel caso in cui il reo ne abbia dei benefici. Questo non si può dire certo dell'art. 4bis, cosa più peggiorativa non potrebbe esistere: l'ergastolano che ne viene colpito potrà uscire dal carcere solo dentro una bara, sperando che la morte non si dimentichi di lui. Non rispettano nemmeno le leggi internazionali. La grande Camera della Corte Europea di Strasburgo il 21 ottobre 2013 (sentenza Del Rio Prada c. Spagna) ha stabilito l'irretroattività delle modifiche peggiorative di norme sostanzialmente penali riguardanti l'esecuzione della pena, i metodi per l'applicazione di benefici penitenziari e d'indirizzo giurisprudenziali, per violazione delle leggi domestiche da parte dei giudici nazionali. È proprio di oggi il rigetto di una mia richiesta di permesso premio, motivata con la sentenza di Strasburgo Del Rio Prada. Le nostre Corti maggiori disattendono i regolamenti che formano le leggi, allo stesso modo le Corti e la magistratura di sorveglianza non si adeguano alle leggi internazionali. Mi viene da pormi una domanda: ma perché lo stato italiano sottoscrive le leggi internazionali se poi non le applica?". La sua condizione di ostativo è anche conseguenza della sua scelta di non "collaborare"… "La mia condizione di ostativo è quella di un morto vivente, e tuttavia credo che le persone che hanno dignità non collaborano... o meglio, non lo fanno per ottenere qualcosa in cambio. Se una persona arriva ad uccidere un uomo, e per un po' di libertà arriva a vendersi anche il suo cadavere, è una cosa inconcepibile per me, non sopravvivrei a un'azione così vile. Pentirsi non significa far arrestare delle persone, il pentimento è cosa interiore, te lo devi sentire dentro e non pretendere nulla in cambio. E poi, quanti "falsi" pentiti! Non basta la storia dei "pentiti" del caso Borsellino? Mi sembra che è subentrata la cultura di impossessarsi della dignità delle persone, e in molti trovano terreno fertile, ma ci sono terreni che non potranno mai essere coltivati con una semenza così velenosa, nemmeno usando la dinamite. Di questo sono stato sempre convinto e credo morirò con questa convinzione. E non pensate che non amo la libertà, eh no! Ma se devo scegliere fra la libertà e la dignità scelgo la dignità". Lei ha scritto che una delle sue "pene" è non poter parlare la lingua sarda... "Il non poter parlare in lingua sarda è una delle mie pene, anche se non è l'unica; non aver potuto crearmi una famiglia e di conseguenza non avere figli è un'altra delle mie pene... Da ragazzo credo di aver odiato la scuola anche per questo, ci costringevano ad imparare l'italiano, cosa importantissima, ma per me arrivava e arriva dopo la mia madre lingua.. non riuscivo a capire perché non mi insegnavano a scrivere in sardo. Non solo non mi insegnavano a scrivere in sardo, mi proibivano anche di parlarlo in classe, la lingua della mia terra, quella che i miei genitori mi hanno insegnato con tanto amore fin da piccolo. E oggi, a causa di questo stato che mi tiene lontano dalla mia nazione sarda, forse sto perdendo la mia lingua, anche se faccio di tutto per non darla vinta almeno su questo. Scrivo molto in sardo, ho tradotto la mia autobiografia e anche un libro di racconti dei vecchi del mio paese, scritto dai ragazzi delle scuole medie di Arzana, e scrivo tante poesie nella mia lingua. Sempre scritta in sardo mandai una lettera a Papa Francesco, quando abolì l'ergastolo nel suolo vaticano, gli chiesi in modo scherzoso e provocatorio che venissi estradato in territorio Vaticano, dandogli la mia parola che se ciò fosse avvenuto non gli avrei mai chiesto di essere fatto santo, ero convinto che san Mario non suona bene. Me la sono sempre presa con i "politici sardi" perché non hanno mai fatto niente per introdurla come materia scolastica; ho sempre desiderato che anche le madri sarde insegnassero ai loro figli fin da piccoli la lingua dei loro genitori, che è la nostra, la loro identità. Quando penso alle cose della mia terra con i nomi nella nostra lingua, con le sue forme, riesco ad immaginarle e vederle, le sento mie. Se di qualcosa non ricordo il nome in sardo e provo a immaginarlo e vederlo con il nome in lingua italiana devo proprio fare una grande fatica per sentirlo mio". Da quanto chiede un avvicinamento alla sua terra? "Se parliamo di trasferimento definitivo, è dal 2004. A quella prima richiesta mi risposero che per motivi di sicurezza non avrebbero potuto trasferirmi, e ancora oggi le cose non sono cambiate. Oggi in Sardegna trasferiscono tutti... ma non Mario Trudu. Riguardo all'avvicinamento colloquio che chiedo da sempre avendo una cara sorella, Raffaela, che per motivi di salute non è mai potuta venire a trovarmi, nei 14 anni di fila che mi trovo deportato nel continente, nel 2004 mi è stato concesso un mese nel carcere di Nuoro, poi per otto anni più nulla, raramente hanno risposto alle mie richieste. Una volta, a una mia richiesta di permesso con la scorta per vedere mia sorella, mi hanno risposto che mandarmi era pericoloso anche per la scorta. Per un po' mi scervellai cercando di ricordare come avessi scritto quella richiesta. Mi domandavo: non è che ho chiesto di andare in Iraq invece che ad Arzana? Il rigetto di una di queste richieste lo impugnai al tribunale di sorveglianza di Perugia e menomale che trovai come presidente un vero signore che con una ordinanza impose al Dap di darmi un altro mese di avvicinamento colloquio nel carcere di Nuoro, nel 2012. Così potei abbracciare la mia stimata sorella. La finisco qui, se dovessi continuare sono certo che mi mangerei il tavolino che ho davanti". Il pensiero con il quale si addormenta, quello con il quale si sveglia... "Alla sera tardi mi sdraio sul letto, e quasi sempre prima di addormentarmi il mio pensiero corre verso qualcuno dei miei familiari o amici. Spesso mi soffermo a pensare a mia sorella Raffaela; altre volte mi si parano davanti le mie pronipoti, che fino al loro diciottesimo anno di età ho potuto incontrare a colloquio, ma compiuta quell'età lo stato ha deciso che "non mi sono più parenti"... questi sono i pensieri con cui mi addormento. Quasi sempre mi risveglio con altri pensieri, ma non do loro molto tempo per evitare che si bisticcino. Verso le quattro, quattro e mezzo accendo la televisione, così evito di concentrarmi su queste cose". Si continua a dire che l'ergastolo non esiste… "Delle persone che parlano in questo modo sono certo che l'80 per cento è perché sono male informate. La stampa non fa una buona informazione... e lo stato nebuloso lascia il popolo a sostare in questa valle senza visuale. Si è sparsa la notizia che anche se l'ergastolo ha come fine pena mai, al massimo uno può scontare 26 anni di pena, e che dopo si può accedere alla condizionale... E allora perché io, dopo 35 anni di carcere, mi trovo ancora nel carcere di massima sicurezza di San Gimignano? In pochi sono a conoscenza dell'ergastolo ostativo. È qualcosa che va oltre la più nefasta immaginazione. In Italia si è riusciti ad andare oltre l'immaginazione, creando la pena più infernale, disumana. Se la gente fosse informata in modo giusto, non dico che avrebbe potuto fare molto per noi cadaveri viventi, ma almeno parlerebbe conoscendo la verità". Pensa mai alle sue vittime? "Penso che se riuscissi ad evitare, a non pensare a quei momenti, a quelle scene, a quelle persone, non sarei un uomo. Io credo di possedere un cuore, una coscienza... sono un uomo, con i difetti di tutti gli uomini, e questo mi porta a pensare a quelle persone gravemente offese. Certo, tutto questo non può essere di grande sollievo ai familiari offesi. Ma devono sapere che per Mario Trudu è un enorme peso ciò che è successo, non certo per la galera che sta scontando, quella è solo conseguenza di quanto è accaduto". India "in carcere in mancavano pure i letti, siamo sopravvissuti solo perché innocenti" di Ava Zunino La Repubblica, 2 febbraio 2015 Il ritorno a casa di Tomaso ed Elisabetta, i due italiani detenuti per cinque anni a Varanasi per omicidio e poi scarcerati dalla Corte Suprema "Eravamo in pace con noi stessi, così abbiamo resistito". "Non lo so come abbiamo fatto a resistere, io ed Elisabetta, ma penso sia stato perché eravamo in pace con noi stessi e quando è così puoi affrontare qualsiasi vicissitudine". E lui, Tomaso Bruno, 32 anni, ha resistito quattro anni e undici mesi in carcere a Varanasi, India, dentro ad un capannone con altri 130 detenuti, senza corrente elettrica, neppure il letto. "Dormivo su qualche coperta buttata per terra", racconta Tomaso, rientrato in Italia sabato notte con Elisabetta Boncompagni, torinese partita con lui nel 2010 per quella che doveva essere solo una vacanza in India. Ed è diventata un incubo. Entrambi sono stati prima arrestati e poi condannati all'ergastolo (sentenza confermata in appello) per la morte di Francesco Montis, un amico che viaggiava con loro. In carcere ci sono rimasti quasi cinque anni. Fino a quando, il 20 gennaio scorso, la Corte suprema indiana il 20 gennaio scorso li ha completamente assolti: non hanno ucciso Francesco Montis. Era morto, dice l'alta corte, per una crisi respiratoria. Le perizie che avevano portato alla condanna e su cui si è svolta tutta la battaglia legale, attribuivano quell'asfissia a strangolamento. Omicidio in una storia di amore e tradimenti. Ma la porta con l'India Tomaso non l'ha chiusa, magari un giorno tornerà: "Si sono creati rapporti umani forti con un paio di detenuti e con due ragazzi della casa che ospitava mia mamma quando veniva a Varanasi". Tomaso adesso è a casa, nella villetta di via Trieste, nel cuore di Albenga, mobili bianchi e quadri alle pareti, tappeti e su tutto il profumo di un dolce appena sfornato. Berretto in testa, Tomaso entra ed esce dalla porta finestra del salotto. Tutti lo chiamano dalla strada per mandare un bacio e dirgli bentornato. "È bellissimo" dice lui. Sul balcone di casa è appeso uno striscione con la scritta "bentornato a casa Tomaso" e in piazza alle cinque del pomeriggio si è ritrovato tutto il paese per una festa con musica, bibite e spuntini in suo onore. È una domenica speciale. La mamma Marina e il papà Euro lo mangiano con gli occhi, tra lo stordito e l'euforico. Né loro né la sorella Camilla si sono mai arresi in questi anni. Lunghi e duri. Ma a guardare adesso Tomaso negli occhi, seduto sul divano di casa sua, in mezzo agli amici, non c'è traccia dell'inferno che ha condiviso con Elisabetta Boncompagni, la ragazza di Torino come lui condannata e assolta. Erano insieme la mattina del 4 febbraio del 2010 quando Francesco Montis, l'amico con cui dividevano la stanza d'albergo, è stato male. "Ci siamo svegliati la mattina e lo abbiamo trovato agonizzante. Lo abbiamo portato in ospedale. Lo hanno dichiarato morto e da quel momento non abbiamo neppure più avuto il tempo di realizzare cosa era successo, che il nostro amico era morto. Ci siamo trovati la polizia addosso, con i loro metodi, le loro urla". Hanno detto che lo avevate ammazzato, vi hanno condannato ed è cominciato l'incubo, quasi cinque anni. "Cinque Natali, cinque estati, cinque inverni, però lo abbiamo sempre detto, io ed Elisabetta, che saremmo tornati da persone libere. Siamo tornati, ed è una vittoria mia, di Elisabetta, delle nostre famiglie e di tutti quelli che ci hanno supportato lungo tutto il periodo delle due condanne all'ergastolo. Ora spero che possa risolversi anche la complessa vicenda dei due marò: quando ci hanno arrestati, io ed Elisabetta, loro ci hanno scritto e noi avevamo risposto. Poi non ci siamo più sentiti". Quando è che avete cominciato a capire che ce l'avreste fatta? "Sentori non ne abbiamo mai avuto: dopo due ergastoli stai con i piedi per terra. C'era la speranza, quella c'è sempre stata, che finalmente guardassero le carte. Sapevamo che da un momento all'altro poteva arrivare una notizia buona ma anche una cattiva perché in un paese come l'India non ci sono mai certezze", racconta mentre negli occhi si riaccende una luce di gioia. È entrato un amico con una bottiglia di vino. Come era il carcere? "Baracconi con 130, 140 persone. Si vive in comunità, di carceri in Italia non ne ho mai viste ma da quello che so, con le celle singole o con poche persone, mi sembrano più lugubri. Quello era un grande spazio comune dentro cui si formano come dei nuclei familiari, delle compagnie come diremmo qua, di quattro o cinque persone con cui giochi, ti dividi il cibo. Attorno al capannone c'era un giardino, avevamo messo su una specie di campo da cricket. La sera alle sette ci chiudevano dentro e riaprivano al mattino. C'era tanta gente, casino, musica. Così hai meno tempo di pensare, c'è sempre qualcuno che ti parla". Chi erano i compagni di carcere? "Rapinatori, assassini, ladri, truffatori: mi hanno rispettato e io rispettavo loro". Come vi capivate? "Con qualcuno parlavo in inglese, poi a gesti ci si fa capire. Alla fine un po' di hindi l'ho imparato". E il cibo? I libri, i giornali, il computer? Come passavano le giornate? "Tutte le cose tecnologiche sono vietate. Mia mamma una volta al mese mi mandava un pacco con i giornali, La Repubblica e La Gazzetta, e dei libri. Cibo solo vegetariano e non di prima qualità: riso, pane, lenticchie, tanto fritto. Questa era la cucina del carcere poi c'era una cambusa che illegalmente dava il cibo a chi aveva i soldi per poter pagare". E anche questo è un capitolo chiuso. "Stanotte ho dormito nel mio letto, sul materasso finalmente. Domani pranzerò dalla nonna, ravioli col sugo di carne alla ligure. Di masala e curry non ne voglio più sapere". Filippine: detenuti seviziati con la "ruota della tortura" di Fabio Franchini Il Giornale, 2 febbraio 2015 Orrore nelle Filippine, dove le guardie di un carcere si divertivano a utilizzare il gioco per maltrattare i prigionieri. Water-boarding, elettroshock, bruciature e pestaggi. È quanto hanno dovuto subire, inermi, i detenuti di un carcere nelle Filippine. Quel che rende le sevizie ancor più insensate e assurde è la loro organizzazione in un vero e proprio gioco messo in piedi dalle guardie carcerarie: la "ruota della tortura". Lo denuncia Amnesty International grazie alla scoperta della Commissione filippina per la tutela dei diritti umani. Non è cosa nuova che nel Paese del sud-est asiatico la tortura sia una pratica ancora troppo diffusa e soprattutto impunita, con le forze dell'ordine che non si curano della legge. Nonostante il governo di Manila abbia sottoscritto la convenzione dell'Onu contro le torture e legiferato una legge preventiva ad hoc, gli abusi non si sono mai fermati. E, anzi, in luoghi quali le carceri le brutalità sono all'ordine del giorno. La prigione incriminata si trova nella provincia di Laguna e al suo interno, oltre alle comuni celle, ospita una stanza degli orrori. Alla pari del celebre gioco a premi, gli agenti hanno suddiviso il cerchio in più spicchi, ciascuno dedicato a una crudeltà. E loro si divertivano, facendo affidamento al fato, a girare la ruota per scoprire in che modo maltrattare, uno dopo l'altro, i carcerati. Qualche esempio? "30 secondi in posizione pipistrello" e "20 secondi di Manny Pacquiao". Nel primo caso il detenuto sarebbe stato appeso per i piedi e a testa in giù per mezzo minuto, nel secondo avrebbe subito una scarica di pugni per il tempo prestabilito. Rowelito Almeda ricorda l'incubo vissuto nei suoi 4 giorni di detenzione, dal quale è riuscito a salvarsi per miracolo: "Quando la polizia voleva far baldoria trascinava i detenuti fuori dalle celle e li portava nella stanza della ruota. Quando tornavano erano a pezzi. Mi ricordo di due ragazzi, di 17 e 18 anni, arrestati per possesso di marijuana. Gli hanno dato scosse elettriche, li hanno picchiati e usati come bersagli per pistole ad aria compressa. Dopo di loro sarebbe toccato a me". Il giorno dell'arresto, condotto dentro la stazione di polizia, il 45enne, ha subito elettroshock e la rottura di quattro denti anteriori per essere stato colpito al volto con un casco. Fortuna per lui una visita a sorpresa della Commissione ha scoperto il folle gioco, evitandogli ulteriori tormenti. È stata aperta un'indagine che si è però chiusa solamente con l'allontanamento degli agenti, che sono sollevati dall'incarico ma non condannati a dovere da un tribunale. La "ruota della tortura" non gira più, mentre quella della giustizia farà - prima o poi - il suo corso. Egitto: espulso giornalista australiano di al Jazeera già condannato a sette anni di carcere Askanews, 2 febbraio 2015 L'Egitto ha deciso di espellere Peter Greste, il reporter australiano del network televisivo pan-arabo Al Jazeera, che era in arresto. L'ha annunciato un alto funzionario del ministero dell'Interno del Cairo. "C'è una decisione presidenziale di espellere Peter Greste verso l'Australia", ha detto il funzionario. Greste era stato condannato a sette anni di prigione assieme a un altro giornalista, il canadese-egiziano Mohamed Fahmy, per aver aiutato la Fratellanza islamica, fuorilegge. Un altro giornalista di Al Jazeera, Baher Mohamed, è stato condannato a 10 anni. Proprio oggi Al Jazeera ha pubblicato sul proprio sito, prima della homepage, la foto dei tre giornalisti arrestati con la scritta: "Questi tre giornalisti sono in carcere in Egitto da 400 giorni senza alcun motivo. #FreeAjStaff". Peter Greste fu arrestato insieme ai colleghi Baher Mohamed e Mohamed Fahmy. I tre furono condannati a pene dai 7 ai 10 anni di carcere. "Nel nostro caso, la libertà è una battaglia continua. Il primo gennaio la corte ha annullato le nostre condanne e ordinato un nuovo processo. Non abbiamo ancora idea di quando potrà cominciare e quanto tempo durerà", ha detto Greste in una lettera pubblicata da Al Jazeera prima del suo rilascio. Greste e Fahmy, egiziano-canadese, avevano chiesto di essere estradati in base a un recente decreto del presidente Abdel Fattah al Sisi sui detenuti stranieri. La vicenda dei reporter di Al Jazeera è stata uno dei nodi della rottura diplomatica tra l'Egitto e il Qatar. Lo scorso dicembre il canale tv aveva cambiato i toni abitualmente molto critici riguardo al governo Sisi, dopo un riavvicinamento tra il Cairo e Doha con la mediazione del re saudita Abdullah. La morte del sovrano potrebbe ora aver rallentato il disgelo. Al Jazeera chiede a Egitto liberazione altri due giornalisti La rete televisiva pan-araba Al Jazeera ha espresso oggi soddisfazione per la liberazione del suo giornalista Peter Greste dalle carceri egiziane, ma ha chiesto che anche agli altri suo cronisti sia restituita la libertà. "Siamo felici che Peter e la sua famiglia possano essere riuniti", ha dichiarato Mostefa Souag, direttore generale ad interim di Al Jazeera Media Network. Greste, di cittadinanza australiana, è stato espulso ed è già ripartito per il suo paese d'origine. "Noi - ha continuato Souag - non ritroveremo la pace finché Baher (Mohamed) e Mohamed (Fahmy) non ritroveranno anche loro la libertà". Entrambi gli altri due giornalisti sono prigionieri in Egitto, condannati a lunghe pene detentive con l'accusa di aver favorito la Fratellanza islamica, organizzazione fuorilegge per il Cairo. Arabia Saudita: dopo tre mesi di carcere rilasciata attivista liberale al-Shammari Nova, 2 febbraio 2015 L'attivista saudita Souad al Shammari, fondatrice del gruppo di discussione internet Arabia Liberal Network la blogger Raif Badawi, è stata rilasciata dopo tre mesi di carcere. Al Shammari ha trascorso circa 90 giorni in un carcere femminile nella città di Jeddah. La figlia, Sarah al Rimaly, ha detto "è uscita ora, grazie a Dio" aggiungendo che sua madre è stata rilasciata tre giorni fa dopo aver firmato un impegno "a ridurre le sue attività". Al Shammari è stata arrestata alla fine di ottobre con l'accusa di aver insultato l'Islam, dopo aver postato commenti su Twitter che riguardano i leader religiosi islamici.